ISOLA DI PALMARIA
(Palmaria), e isolette adiacenti di TINO (Tyrus major) e TINOTTO (Tyrus minor).
– Tre isolette, una più piccola dell’altra, la maggiore delle quali è la Palmaria davanti a Porto Venere. Sono tutte tre situate davanti all’imboccatura del Golfo della Spezia (antico Golfo lunense) dalla parte occidentale, ed assai vicine al promontorio di Porto Venere, nella cui parrocchia e comunità sono comprese, Mandamento della Spezia, Provincia di Levante, Diocesi di Genova, già di Luni-Sarzana, Regno Sardo.
L’isola della Palmaria è di figura triangolare quasi equilatera, che ha la punta di un angolo voltata a maestro, e da questo lato si avvicina a 200 braccia dalle rupi di Porto Venere, formando con esse la Bocca piccola del suo porto. L’angolo dell’Isola che guarda levante-grecale, costituisce la Bocca grande dello stesso Porto Venere dirimpetto al seno di Maralonga e a quello di Lerici.
Davanti al prolungamento di quest’angolo della Palmaria sorge dal mare a guisa di appendice uno scoglio, sul quale i Genovesi costruirono una torre che gl’Inglesi fecero saltare in aria nel 1800, nota sotto il vocabolo d’Isolotto e Forte di Scuola. Finalmente il terzo angolo guarda l’aperto pelago a ostro; e da esso è distante 400 braccia, o poco più, dall’isolotto di Tino, già detto Tiro maggiore, il quale ha quasi un miglio di circonferenza. A questo si avvicina per una bocca di mare di 150 braccia il minore isolotto di Tinotto, che ha il perimetro d’un quarto di miglio toscano con tre piccoli satelliti, o formiche a scirocco dell’isola principale.
La Palmaria nel suo lato volto a libeccio è sparsa di scogli e di rupi difficimente accessibili, mentre dalla parte interna che guarda il seno di Porto Venere i suoi colli archeggiando pianeggiano con pittoresca gradazione.
Dalla giacitura, e uniformità delle rocce non è difficile di accorgersi, che la Palmaria insieme con le isolette di Tino e di Tinotto, situate una dietro l’altra, formano un solo sistema ed una continuazione dello stesso promontorio di Porto Venere, il quale e disgiunto dalle tre isole mediante altrettanti avvallamenti inferiori al livello del mare; in guisa che da Porto Venere sino al tinotto, secondo il computo fatto dal celebre astronomo barone di Zach, non vi è più lunga distanza di 3000 metri.
La situazione topografica della Palmaria, presa dal suo centro, è nel grado 27° 30’ 3’’ di longitudine e 44° 2’ 5’’ di latitudine; quasi 4 miglia toscane a levante-grecale di Lerici; circa 5 miglia toscane a ostro della Spezia; e 8 miglia toscane a levante della Bocca di Magra. – L’isola intiera ha una circonferenza di tre miglia toscane con una superficie di circa un miglio quadrato.
La struttura e indole delle rocce calearee e dei marmi neri venati di bianco e di giallo, che s’incontrano tanto nel promontorio di Porto Venere, quanto nelle isole in discorso, chiamarono costà distinti naturalisti, come Spallanzani, Spadoni , Ferber, Dornenico Viviani, Cordier e qualche altro. Ma le principali nozioni geognostiche della Palmaria le dobbiamo al naturalista Girolarno Guidoni, il quale fu il primo a scuoprire dei fossili nel calcareo bigio di Porto Venere e delle sue isolette, come risulta dalle sue Osservazioni geognostiche e mineralogiche sopra i monti che circondano il Golfo della Spezia , pubblicate nel Giornale Ligustico per l’anno 1827.
In compagnia del Guidoni visitò nel 1829 le stesse località il geologo inglese De la Bèche, il quale ne rese conto in una sua memoria, che fa parte degli Annali delle scienze naturali che si pubblicano a Parigi.
Osservazioni ulteriori furono rese di pubblica ragione dallo stesso Guidoni (anno 1830) nel giornale dei Letterati di Pisa, e due anni dopo nuove indagini sulla formazione dei monti del Golfo e delle Alpi Apuane fornirono al naturalista stesso ed a Lorenzo Pareto dei fatti importanti che vennero inseriti nella Biblioteca italiana (T. 67). Donde ne conseguiva non solo la conferma sull’esistenza dei fossili racchiusi fra il calcare compatto delle Isole, e del promontorio di Porto Venere ec., ma ancora fu osservato, che quelle rocce bene spesso perdono la tessitura compatta acquistandone una semigranosa sino al punto da modificarsi in una specie di bardiglio (marmo nero venato di Porto Venere). Un esempio di questa modificazione di calcare fu incontrato nell’Isola del Tinotto da Guidoni e Pareto, che segnalarono un banco di calcare scuro contenente dei molluschi bivalvi, dei quali se ne perdeva ogni vestigio di mano a mano che la roccia calcarea compatta appariva più granosa e marmorina. A contatto del calcare trovavasi un banco della stessa formazione che racchiudeva numerosi ammoniti, ed altre conchiglie concamerate.
È infatti nell’Isola della Palmaria, dove esistono le antiche e moderne lapidicine del bel marmo di Porto Venere, chiamato dai Francesi marbre Portor, perocchè ha un fondo nero sparso di vene e di macchie giallo-dorate. Tali macchie per altro talvolta mancano, oppure vengono supplite da altre vene di un più moderno calcare bianco cristallino spatico.
A cotesto marmo deve la Palmaria la sua celebrità, sebbene sia ancor dubbio, se le prime escavazioni rimontino più in dietro del secolo XVI (TARGIONI Viaggi, ediz. 2 T. XI); mentre altri, e fra questi Chabrol nella sua memoria sul Golfo della Spezia, e il Cav. di S.
Quintino nelle sue tre lezioni sui Marmi lunensi, sono di parere, che i marmi delle lapidicine di Luni, adoprati dai Romani sino dai tempi di Giulio Cesare, si cavassero dai due promontorj del golfo di Luni, cioè dal Capo Corvo, dove esiste una qualità di marmo brecciato giallo-rosso, prossimo ad un calcare bianco saccaroide, e dal promontorio di Porto Venere, non che dalla Palmaria ec.
(Vedere i miei cenni sull’Alpe Apauna ed i marmi di Carrara pag. 84 a 86).
Allorchè l’abile Vincenzo Barelli, capo di sezione nell’amministrazione dell’Interno, pubblicò in Torino (1835) i suoi Cenni di Statistica minera logica degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, anche i marmi della Palmaria ebbero al loro posto la respettiva descrizione geognostica e mineralogica con i nomi delle località donde si estraggono.
Ivi pertanto fu avvertito (pag. 357) “che il marmo detto Portoro (Caleareo di Porto Venere) è di tinta nera con rilegalure e venule gialle color d’oro, rosee-bianchiccie e bigio-violacee, e che la sua frattura è tra la granulare e la minutamente scagliosa; che esso presentasi nella punta meridionale dell’Isola Palmaria disposto a strati, la cui grossezza varia da metri 0,50 a metri 3,00; e che la loro direzione è di gradi 65 a scirocco con l’inclinazione di gradi 20 a grecale.
Dalle analisi fatte risulta, che la pasta scura o nera dei marmi sopra descritti è colorata dall’ossido di manganese; la gialla poi e una marna ferruginosa indurita.” “Una cava di marmo Portoro di color bigio-scuro, quasi nero, e variegato da rilegature e venule biancastro-giallicce, esiste all’estremità occidentale dell’Isola medesima. Consis te in un banco della grossezza di circa 4 metri, diretto a gradi 50 a scirocco, ed inclinato di gradi 15 a levante.” “Poco distante dalla medesima cava, denominata della Fornace, havvene una detta del Canale, dove gli strati di varia spessezza sono diretti a tramontana, ed inclinati di gradi 33 a levante.” “La loro escavazione e lavorazione viene effettuata da lavoranti Carraresi, tanto alla Palmaria, quanto nel seno delle Grazie, due località che somministrano alle arti i marmi più ricercati di quel Golfo.” Anche il Prof. Savi, nel visitare all’Isola di Palmaria, al Tino e Tinotto la struttura geognostica, e l’indole mineralogica di quelle rocce calcaree conchiglifere, riconobbe che li strati situati all’estremità orientale delle tre isolette erano pieni zeppi di fossili, cioè molluschi bivalvi, univalvi e zoofiti, mentre nella estremità occidentale delle isole preaccennate trovò la stessa roccia calcare cangiata in una specie di Dolomite bianca e granulare. (SAVI, Studii geologici sulla Toscana nel giornale dei Letter. di Pisa N. 71 anno 1833).
Sotto un altro rapporto scientifico la Palmaria è nota agli astronomi, dopo che costà fissò un punto della sua triangolazione il matematico Antonio Rossi da Porto Venere; ed il semaforo, che ivi si vede, rammenta tuttora le operazioni geodetiche intraprese, e gli scandagli fatti nel 1812 da quello scienziato e da lui notificati nel 1820 al baron di Zach, che li pubblicò nel Vol. IV delle Corrispondences Atronomiques (pag. 479 e 547). Il Rossi volle anche aggiungere ai suoi lavori geografici e idrografici un cenno storico-statistico della sua patria e dei luoghi principali del Golfo della Spezia. I quali cenni possono dirsi una conferma di quanto fu già pubblicato dal benemerito Giovanni Targioni Tozzetti nella seconda edizione dei suoi Viaggi; a differenza però, che, se nel 1777 la Palmaria aveva molti frutti, molti uliveti e deliziosi vignali con alcune villette vicine alla marina, attualmente essa trovasi quasi affatto abbandonata ed inselvita, per mancanza di braccia. Il Rossi sulla vaga asserzione di alcuni storici, era nella fiducia che alla Palmaria vi sia stato un paesetto appellato Borgo S.
Giovanni, per quanto non esitano di esso alcune benchè minime vestigie, e che tutte le fabbriche della Palmaria ora siano ridotte ad una casetta abitate da un culto straniero.
Sulle tracce di meno dubbie e assai più antiche memorie lo stesso Autore affermava, che l’isoletta di Tino, ossia di Tiro maggiore, era stata un tempo nella massima parte abboschita di pini.
Altri ripeterono scrivendo, che costà vi fù un tempio dedicato a Venere, mentre alcuni storiografi, non saprei con qual fondamento, sono giunti a dire, che non si riscontra in queste isolette alcun antico vestigio di opera umana. Eppure non sono totalmente distrutti, e veggonsi anche al giorno d’oggi gli avanzi di un monastero che all’Isoletta del Tino esisteva fino dal cadere del secolo VI.
Costà visse un santo eremita per nome Venerio, e costà fu venerato il suo corpo fino a che, nell’anno 820 ai 13 novembre, venne dall’Isoletta del Tino trasportato nella badia di S. Prospero a Reggio in Lombardia.
Ma le continue incursioni de’Saraceni, costrinsero alla fin fine i monaci dell’eremo di S. Venerio ad abbandonare l’Isola di Tiro maggiore, ed a ritirarsi in più difesa stanza, nel fondo di un seno del Golfo della Spezia. Abitavano già essi da qualche tempo il convento di S. Maria delle Grazie fabbricato nel nuovo locale presso l’attuale Lazzeretto di Varignano, quando dal Pontefice Eugenio IV vennero riformati sotto la regola di Monte Oliveto, ed autorizzati a fruire degli antichi possessi, fra i quali erano comprese le isolette di Tiro maggiore, minore, e Palmaria; sulle quali conservarono fino al 1796 il diretto dominio, mediante un piccolo censo che ritraevano dall’affittuario.
Nella sommità dell’isolotto del Tino i Genovesi fabbricarono una torre per impedire gli sbarchi che ad ogni istante vi facevano i Barbareschi.
Che cotesta isoletta, e non già la Palmaria, si appellasse Tiro maggiore ce ne fornirono ripetuta prova le carte dei monaci di S. Venerio raccolta dal Muratori e pubblicate nella Parte I delle Antichità Estensi, come quelle, nelle quali si tratta di donazioni fatta nei secoli XI e XII dai marchesi progenitori della casa d’Este, dei Malaspina, dei Pallavicini ec. di beni posti in Panigalia , a Varignano, in Fezzano, a Porto Venere, in Tiro maggiore ec., a favore del Mon. di S. Venerio posto nell’Isola di Tiro maggiore.
Fra le suddette è un istrumento rogato in Monte Rosso (di là da Porto Venere) li 30 marzo 1056, mercè del quale il march. Guido figlio del fu march. Alberto, dopo varii atti di generosa pietà fatti a favore dello stesso luogo negli anni 1051 e 1052, quando abitava nel suo castel di Arcola, nel 1056 dissi, donò ai monaci di S. Venerio nel l’Isola di Tiro maggiore la porzione di beni che gli si appartenevano nelle tre Isole di Porto Venere.
Sul quale proposito, sentendo io qui nominare le tre isole col nome d’Isole di Porto Venere, mi fa rammentare di una lettera di S. Gregorio Magno responsiva ad altra di (ERRATA: S. Venerio) Venanzio vescovo di Luni, per suggerirgli il contegno che doveva tenere nel castigare ecclesiasticamente un diacono abbate di Porto Venere, ch’era caduto in non so qual peccato.
Finalmente all’isolotto del Tino nel 1833 con lieta brigata approdò uno spiritoso erudito genovese, Davide Bertolotti, quando nel suo Viaggio per la Liguria marittima (T. III. p. 153) graziosamente di questo luogo scriveva così: “L’isolotto del Tino, a cui poscia approdammo, è pure tutto del marmo stesso (Portoro). Ivi trovammo In un luoghetto solitario e bello posato un pranzo fattoci cortesemente imbandire da una grazia venuta anch’ella a rallegrarlo col beante suo aspetto. L’erbe ed i fiori ci porgevano il desco ed il seggio. Un pino ed un elce facevano ombrello alla mensa.
In altri tempi io avrei con ben altri colori dipinto questo desinare nel più capriccioso degli eremi.” “Due soli abitatori ha l’isoletta del Tino, ed e loro ufficio ever cura del Faro che accendesi per servigio dei naviganti sopra una vecchia torre eretta dai Genovesi in una punta dell’Isola” “Il Tinotto, terza ed ultima isola a mezzogiorno del Golfo, non e che un breve scoglio coronato da rovine di un antico edifizio. Reca la tradizione (a detta del Lamorati) che vi albergassero alcuni pii solitarii, ma niun documento storico lo contesta e la disciplina ecclesiastica forse non lo avrebbe permesso.” Conviene usar cautela, ne fia prudente che i naviganti si azzardino d’accostarvisi, giacchè l’angustia del luogo, e qualche secca sott’acqua ne rendono periglioso il passaggio.
L’isola della Palmaria è di figura triangolare quasi equilatera, che ha la punta di un angolo voltata a maestro, e da questo lato si avvicina a 200 braccia dalle rupi di Porto Venere, formando con esse la Bocca piccola del suo porto. L’angolo dell’Isola che guarda levante-grecale, costituisce la Bocca grande dello stesso Porto Venere dirimpetto al seno di Maralonga e a quello di Lerici.
Davanti al prolungamento di quest’angolo della Palmaria sorge dal mare a guisa di appendice uno scoglio, sul quale i Genovesi costruirono una torre che gl’Inglesi fecero saltare in aria nel 1800, nota sotto il vocabolo d’Isolotto e Forte di Scuola. Finalmente il terzo angolo guarda l’aperto pelago a ostro; e da esso è distante 400 braccia, o poco più, dall’isolotto di Tino, già detto Tiro maggiore, il quale ha quasi un miglio di circonferenza. A questo si avvicina per una bocca di mare di 150 braccia il minore isolotto di Tinotto, che ha il perimetro d’un quarto di miglio toscano con tre piccoli satelliti, o formiche a scirocco dell’isola principale.
La Palmaria nel suo lato volto a libeccio è sparsa di scogli e di rupi difficimente accessibili, mentre dalla parte interna che guarda il seno di Porto Venere i suoi colli archeggiando pianeggiano con pittoresca gradazione.
Dalla giacitura, e uniformità delle rocce non è difficile di accorgersi, che la Palmaria insieme con le isolette di Tino e di Tinotto, situate una dietro l’altra, formano un solo sistema ed una continuazione dello stesso promontorio di Porto Venere, il quale e disgiunto dalle tre isole mediante altrettanti avvallamenti inferiori al livello del mare; in guisa che da Porto Venere sino al tinotto, secondo il computo fatto dal celebre astronomo barone di Zach, non vi è più lunga distanza di 3000 metri.
La situazione topografica della Palmaria, presa dal suo centro, è nel grado 27° 30’ 3’’ di longitudine e 44° 2’ 5’’ di latitudine; quasi 4 miglia toscane a levante-grecale di Lerici; circa 5 miglia toscane a ostro della Spezia; e 8 miglia toscane a levante della Bocca di Magra. – L’isola intiera ha una circonferenza di tre miglia toscane con una superficie di circa un miglio quadrato.
La struttura e indole delle rocce calearee e dei marmi neri venati di bianco e di giallo, che s’incontrano tanto nel promontorio di Porto Venere, quanto nelle isole in discorso, chiamarono costà distinti naturalisti, come Spallanzani, Spadoni , Ferber, Dornenico Viviani, Cordier e qualche altro. Ma le principali nozioni geognostiche della Palmaria le dobbiamo al naturalista Girolarno Guidoni, il quale fu il primo a scuoprire dei fossili nel calcareo bigio di Porto Venere e delle sue isolette, come risulta dalle sue Osservazioni geognostiche e mineralogiche sopra i monti che circondano il Golfo della Spezia , pubblicate nel Giornale Ligustico per l’anno 1827.
In compagnia del Guidoni visitò nel 1829 le stesse località il geologo inglese De la Bèche, il quale ne rese conto in una sua memoria, che fa parte degli Annali delle scienze naturali che si pubblicano a Parigi.
Osservazioni ulteriori furono rese di pubblica ragione dallo stesso Guidoni (anno 1830) nel giornale dei Letterati di Pisa, e due anni dopo nuove indagini sulla formazione dei monti del Golfo e delle Alpi Apuane fornirono al naturalista stesso ed a Lorenzo Pareto dei fatti importanti che vennero inseriti nella Biblioteca italiana (T. 67). Donde ne conseguiva non solo la conferma sull’esistenza dei fossili racchiusi fra il calcare compatto delle Isole, e del promontorio di Porto Venere ec., ma ancora fu osservato, che quelle rocce bene spesso perdono la tessitura compatta acquistandone una semigranosa sino al punto da modificarsi in una specie di bardiglio (marmo nero venato di Porto Venere). Un esempio di questa modificazione di calcare fu incontrato nell’Isola del Tinotto da Guidoni e Pareto, che segnalarono un banco di calcare scuro contenente dei molluschi bivalvi, dei quali se ne perdeva ogni vestigio di mano a mano che la roccia calcarea compatta appariva più granosa e marmorina. A contatto del calcare trovavasi un banco della stessa formazione che racchiudeva numerosi ammoniti, ed altre conchiglie concamerate.
È infatti nell’Isola della Palmaria, dove esistono le antiche e moderne lapidicine del bel marmo di Porto Venere, chiamato dai Francesi marbre Portor, perocchè ha un fondo nero sparso di vene e di macchie giallo-dorate. Tali macchie per altro talvolta mancano, oppure vengono supplite da altre vene di un più moderno calcare bianco cristallino spatico.
A cotesto marmo deve la Palmaria la sua celebrità, sebbene sia ancor dubbio, se le prime escavazioni rimontino più in dietro del secolo XVI (TARGIONI Viaggi, ediz. 2 T. XI); mentre altri, e fra questi Chabrol nella sua memoria sul Golfo della Spezia, e il Cav. di S.
Quintino nelle sue tre lezioni sui Marmi lunensi, sono di parere, che i marmi delle lapidicine di Luni, adoprati dai Romani sino dai tempi di Giulio Cesare, si cavassero dai due promontorj del golfo di Luni, cioè dal Capo Corvo, dove esiste una qualità di marmo brecciato giallo-rosso, prossimo ad un calcare bianco saccaroide, e dal promontorio di Porto Venere, non che dalla Palmaria ec.
(Vedere i miei cenni sull’Alpe Apauna ed i marmi di Carrara pag. 84 a 86).
Allorchè l’abile Vincenzo Barelli, capo di sezione nell’amministrazione dell’Interno, pubblicò in Torino (1835) i suoi Cenni di Statistica minera logica degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, anche i marmi della Palmaria ebbero al loro posto la respettiva descrizione geognostica e mineralogica con i nomi delle località donde si estraggono.
Ivi pertanto fu avvertito (pag. 357) “che il marmo detto Portoro (Caleareo di Porto Venere) è di tinta nera con rilegalure e venule gialle color d’oro, rosee-bianchiccie e bigio-violacee, e che la sua frattura è tra la granulare e la minutamente scagliosa; che esso presentasi nella punta meridionale dell’Isola Palmaria disposto a strati, la cui grossezza varia da metri 0,50 a metri 3,00; e che la loro direzione è di gradi 65 a scirocco con l’inclinazione di gradi 20 a grecale.
Dalle analisi fatte risulta, che la pasta scura o nera dei marmi sopra descritti è colorata dall’ossido di manganese; la gialla poi e una marna ferruginosa indurita.” “Una cava di marmo Portoro di color bigio-scuro, quasi nero, e variegato da rilegature e venule biancastro-giallicce, esiste all’estremità occidentale dell’Isola medesima. Consis te in un banco della grossezza di circa 4 metri, diretto a gradi 50 a scirocco, ed inclinato di gradi 15 a levante.” “Poco distante dalla medesima cava, denominata della Fornace, havvene una detta del Canale, dove gli strati di varia spessezza sono diretti a tramontana, ed inclinati di gradi 33 a levante.” “La loro escavazione e lavorazione viene effettuata da lavoranti Carraresi, tanto alla Palmaria, quanto nel seno delle Grazie, due località che somministrano alle arti i marmi più ricercati di quel Golfo.” Anche il Prof. Savi, nel visitare all’Isola di Palmaria, al Tino e Tinotto la struttura geognostica, e l’indole mineralogica di quelle rocce calcaree conchiglifere, riconobbe che li strati situati all’estremità orientale delle tre isolette erano pieni zeppi di fossili, cioè molluschi bivalvi, univalvi e zoofiti, mentre nella estremità occidentale delle isole preaccennate trovò la stessa roccia calcare cangiata in una specie di Dolomite bianca e granulare. (SAVI, Studii geologici sulla Toscana nel giornale dei Letter. di Pisa N. 71 anno 1833).
Sotto un altro rapporto scientifico la Palmaria è nota agli astronomi, dopo che costà fissò un punto della sua triangolazione il matematico Antonio Rossi da Porto Venere; ed il semaforo, che ivi si vede, rammenta tuttora le operazioni geodetiche intraprese, e gli scandagli fatti nel 1812 da quello scienziato e da lui notificati nel 1820 al baron di Zach, che li pubblicò nel Vol. IV delle Corrispondences Atronomiques (pag. 479 e 547). Il Rossi volle anche aggiungere ai suoi lavori geografici e idrografici un cenno storico-statistico della sua patria e dei luoghi principali del Golfo della Spezia. I quali cenni possono dirsi una conferma di quanto fu già pubblicato dal benemerito Giovanni Targioni Tozzetti nella seconda edizione dei suoi Viaggi; a differenza però, che, se nel 1777 la Palmaria aveva molti frutti, molti uliveti e deliziosi vignali con alcune villette vicine alla marina, attualmente essa trovasi quasi affatto abbandonata ed inselvita, per mancanza di braccia. Il Rossi sulla vaga asserzione di alcuni storici, era nella fiducia che alla Palmaria vi sia stato un paesetto appellato Borgo S.
Giovanni, per quanto non esitano di esso alcune benchè minime vestigie, e che tutte le fabbriche della Palmaria ora siano ridotte ad una casetta abitate da un culto straniero.
Sulle tracce di meno dubbie e assai più antiche memorie lo stesso Autore affermava, che l’isoletta di Tino, ossia di Tiro maggiore, era stata un tempo nella massima parte abboschita di pini.
Altri ripeterono scrivendo, che costà vi fù un tempio dedicato a Venere, mentre alcuni storiografi, non saprei con qual fondamento, sono giunti a dire, che non si riscontra in queste isolette alcun antico vestigio di opera umana. Eppure non sono totalmente distrutti, e veggonsi anche al giorno d’oggi gli avanzi di un monastero che all’Isoletta del Tino esisteva fino dal cadere del secolo VI.
Costà visse un santo eremita per nome Venerio, e costà fu venerato il suo corpo fino a che, nell’anno 820 ai 13 novembre, venne dall’Isoletta del Tino trasportato nella badia di S. Prospero a Reggio in Lombardia.
Ma le continue incursioni de’Saraceni, costrinsero alla fin fine i monaci dell’eremo di S. Venerio ad abbandonare l’Isola di Tiro maggiore, ed a ritirarsi in più difesa stanza, nel fondo di un seno del Golfo della Spezia. Abitavano già essi da qualche tempo il convento di S. Maria delle Grazie fabbricato nel nuovo locale presso l’attuale Lazzeretto di Varignano, quando dal Pontefice Eugenio IV vennero riformati sotto la regola di Monte Oliveto, ed autorizzati a fruire degli antichi possessi, fra i quali erano comprese le isolette di Tiro maggiore, minore, e Palmaria; sulle quali conservarono fino al 1796 il diretto dominio, mediante un piccolo censo che ritraevano dall’affittuario.
Nella sommità dell’isolotto del Tino i Genovesi fabbricarono una torre per impedire gli sbarchi che ad ogni istante vi facevano i Barbareschi.
Che cotesta isoletta, e non già la Palmaria, si appellasse Tiro maggiore ce ne fornirono ripetuta prova le carte dei monaci di S. Venerio raccolta dal Muratori e pubblicate nella Parte I delle Antichità Estensi, come quelle, nelle quali si tratta di donazioni fatta nei secoli XI e XII dai marchesi progenitori della casa d’Este, dei Malaspina, dei Pallavicini ec. di beni posti in Panigalia , a Varignano, in Fezzano, a Porto Venere, in Tiro maggiore ec., a favore del Mon. di S. Venerio posto nell’Isola di Tiro maggiore.
Fra le suddette è un istrumento rogato in Monte Rosso (di là da Porto Venere) li 30 marzo 1056, mercè del quale il march. Guido figlio del fu march. Alberto, dopo varii atti di generosa pietà fatti a favore dello stesso luogo negli anni 1051 e 1052, quando abitava nel suo castel di Arcola, nel 1056 dissi, donò ai monaci di S. Venerio nel l’Isola di Tiro maggiore la porzione di beni che gli si appartenevano nelle tre Isole di Porto Venere.
Sul quale proposito, sentendo io qui nominare le tre isole col nome d’Isole di Porto Venere, mi fa rammentare di una lettera di S. Gregorio Magno responsiva ad altra di (ERRATA: S. Venerio) Venanzio vescovo di Luni, per suggerirgli il contegno che doveva tenere nel castigare ecclesiasticamente un diacono abbate di Porto Venere, ch’era caduto in non so qual peccato.
Finalmente all’isolotto del Tino nel 1833 con lieta brigata approdò uno spiritoso erudito genovese, Davide Bertolotti, quando nel suo Viaggio per la Liguria marittima (T. III. p. 153) graziosamente di questo luogo scriveva così: “L’isolotto del Tino, a cui poscia approdammo, è pure tutto del marmo stesso (Portoro). Ivi trovammo In un luoghetto solitario e bello posato un pranzo fattoci cortesemente imbandire da una grazia venuta anch’ella a rallegrarlo col beante suo aspetto. L’erbe ed i fiori ci porgevano il desco ed il seggio. Un pino ed un elce facevano ombrello alla mensa.
In altri tempi io avrei con ben altri colori dipinto questo desinare nel più capriccioso degli eremi.” “Due soli abitatori ha l’isoletta del Tino, ed e loro ufficio ever cura del Faro che accendesi per servigio dei naviganti sopra una vecchia torre eretta dai Genovesi in una punta dell’Isola” “Il Tinotto, terza ed ultima isola a mezzogiorno del Golfo, non e che un breve scoglio coronato da rovine di un antico edifizio. Reca la tradizione (a detta del Lamorati) che vi albergassero alcuni pii solitarii, ma niun documento storico lo contesta e la disciplina ecclesiastica forse non lo avrebbe permesso.” Conviene usar cautela, ne fia prudente che i naviganti si azzardino d’accostarvisi, giacchè l’angustia del luogo, e qualche secca sott’acqua ne rendono periglioso il passaggio.
Riferimento bibliografico:
E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, 1835, Volume II, p. 604.
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