VAL DI CASTELLO

nel Pietrasantino.

– Contrada che ha dato il titolo ad un’antica chiesa plebana (S. Felicita in Val di Castello) già a Massa di Versilia, ora oratorio pubblico nella parrocchia di S. Maria Maddalena di Val di Castello, Comunità Giurisdizione e quasi due miglia toscane a grecale di Pietrasanta, sotto la Diocesi di Pisa, una volta di Lucca, Compartimento pisano.
La vallecola di Val di Castello, che appellavasi di Valbuona, è attraversata dal torrente Baccatojo , che scende dal monte così detto della Maddalena innanzi d’influirvi il fosso che viene dal monte di S. Anna, il quale vi entra presso la chiesa parrocchiale di S. Maria Maddalena, e che dopo 4 in 5 miglia toscane di discesa attraversa sotto il ponte di Baccatojo la strada postale di Genova per avviarsi nel littorale di Motrone, e di là in mare circa 8 miglia toscane a libeccio dalle sue sorgenti.
All’Articolo CASTELLO (VAL DI) stato omesso, doveva io dire, qualmente Massa di Versilia dava il distintivo alla pieve antica di S. Giovanni e S. Felicita in Val di Castello , di cui hanno fatto menzione molte membrane dell’Archivio Arcivescovile Lucchese, una delle quali scritta nel 25 settembre 983, fu citata all’Articolo MONTE ROTAJO, O ROTARJ.
Perché poi cotesta vallecola, qualificata un dì col titolo di Valbuona, prendesse il nome di Val di Castello, non saprei dedurlo senza dire, che costà sopra un risalto di poggio nei primi secoli dopo il mille fu edificata una rocca, che prese, e che per lungo tempo portò il vocabolo generico di Castello, ed ora di Castiglione.
Della pieve antica di S. Felicita e S. Giovanni Battista in Val di Castello fu reso conto all’Articolo PIETRASANTA, dove resta da rettificare la parola, ivi trascorsa, dicendola attualmente profanata, mentre essa conservasi come oratorio pubblico.
Della struttura fisica di cotesta vallecola diede il primo importanti notizie Giovanni Targioni Tozzetti sino dal 1752 nel Volume IV de’ suoi Viaggi, edizione prima, allorché discorrendo del Viaggio da Pietrasania a Filecchio , ne avvisava: che innanzi di entrare nella Val di Castello , dalla parte sinistra la pendice del monte, che è una continuazione di quello di Pietrasanta, era di pietra brecciata con terra rossa (Raukalk ) vestita di boschi d’olivi, mentre a mano destra è posta la pianura che termina nel mare, la quale è ricoperta da un terreno rosso, ed è coltivata ad uso di campi da sementa.
Entrando egli in Val di Castello ne descriveva la sua corografia così “Giunsi ad una chiesa detta la Pieve di Val di Castello (S. FELICITA) situata all’imboccatura di un’angusta e tortuosa valle formata per una parte dalla continuazione del monte di Pietrasanta, il quale porta diversi nomignoli, di Vallecchia, Gallena, S. Anna, Argentiera e Farnocchia, finché, ricurvandosi, per Monte Preti, per Monte Regoli e Monte Rotajo , ritorna nella pianura alla sinistra del canale che percorre cotesta valle ecc….” Quindi lo stesso autore soggiunge: “Principiai a rimontare la Valle di Castello per la strada che conduce a S. Anna; giunsi a Castello villaggio sciolto, che resta in basso alla destra del canale, dove osservai molti massi di pietre ferrigne. Di là salii per un monte formato di pietra brecciata e coperto di selve di cas tagni per arrivare a Filecchio ; donde seguitai a salire verso Verzaglia o Verzalla, così detto da un canale intorno al quale esistono molte loppe di ferro , residuo della fornace ove anticamente si fondeva la vena del ferro che scavavasi dai filoni di quel monte, come pure dal monte Arsiccio sopra Verzaglia, trovando in più luoghi copiosi massi di vena di ferro allo scoperto.” Ma il minerale più ricercato, quello che in varj tempi ed a riprese destò nei Granduchi e nei particolari il desiderio di costituire costà un’impresa metallurgica furono le copiose vene di galena argentifera , ossia di piombo solfurato argentifero che nei monti pietrosi di Valbuona, o di Val di Castello si nascondono.
Io non starò a ripetere quanto dissi nell’Opera attuale all’Articolo ARGENTIERA del Pietrasantino (Volume I pagina 129 e segg.) dopo avere riportato le parole di un istrumento del 9 ottobre 1219, col quale si determinavano fra le consorterie dei nobili di Corvaja e quelli di Vallecchia i confini delle miniere argentifere di Val di Castello e di Val di Ruosina quando fu stabilito, che le Argentiere di Valbona e del Galleno appartenessero ai signori di Vallecchia, e le Argenterie di Stazzema (cioè del Bottino e di altri luoghi della Val di Ruosina) spettassero ai signori di Corvaja.
Dissi: che nel 1348 anche la Repubblica pisana, nel trattato che fece con i valvassori della Versilia, si riservò le raglie di quelle miniere, e che il Granduca Cosimo I ed i suoi due figli (Francesco I e Ferdinando I) dal 1538 al settembre del 1592 le stesse miniere riattivarono.
Aggiunsi ancora, che le vene più copiose di piombo argentifero estraevansi allora dalle miniere del Bottino sopra Ruosina e da quelle dell’Argentiera in Val di Castello .
Finalmente dal breve prospetto che ivi diedi (pagina 131) sull’Entrata e Uscita di coteste miniere, preso negli anni della maggior lavorazione, non trovandosi il frutto di esse corrispondente alle spese, lasciò in dubbio, se ciò accadesse piuttosto che per povertà di miniera, per malizia o per ignoranza de’mo ntanisti che vi presiedevano.
Finalmente chiusi quell’Articolo con le parole seguenti: “Gli arnesi ritrovati nelle gallerie dell’Argentiera dai nuovi impresarj di questa abbandonata risorsa mineristica, e l’ubertoso prodotto de’ filoni metalliferi costà riscontrati, starebbero a giustificare il sospetto, che il decreto del Granduca Ferdinando I (18 settembre 1592) venisse fulminato piuttosto contro l’avidità degli uomini, che contro la sterilità della natura”.
Che se un lungo corso di anni, diceva il Prof. Antonio Targioni Tozzetti, nipote del ch. Giovanni, in una relazione scientifica di coteste miniere pubblicata in Livorno nel 1834: “Che se in luogo corso di anni interrottamente passò senza che si cercasse di riattivare queste miniere, ciò fu colpa di tristi circostanze politiche anzi che povertà delle preindicate miniere, come da alcuni fu dubitato”.
“Tutta la massa de’ poggi propagati dall’Alpe di Farnocchia fra la fiumana Versilia ed il torrente Baccatojo è costituita (soggiunge questo scienziato) da uno schisto quarzo-talcoso, il quale nelle parti superiori termina in un calcare cavernoso, e di alto, superiormente alle miniere dell’Argentiera , in un calcare giurassico alquanto granoso, ma meno cristallino di quello dei monti più interni dell’Alpe Apuana sopra Seravezza e Carrara”.
“Il minerale del piombo solfurato argentifero trovasi qualche volta promiscuato con del ferro solfurato disposto in ramificanti vene e filoncini in mezzo alla pietra steaschistosa, ma in ragione che si rimonta verso settentrione la giogana dell’Argentiera , la miscela de’ solfuri di antimonio e dello zinco si fa un poco maggiore”.
Le spese fatte in cotesti monti dalla prima società metallurgica , riattivata verso il 1830, furono grandiose, sia per incanalare le acque, sia per aprire nuove gallerie di ricerca e di scolo, sia per la edificazione di ruote idrauliche, di magazzini, di forni e specialmente per la costruzione di un lungo edifizio di materiale per rompere con molti pistoni mossi dalle acque e per lavare il minerale riducendolo in slich. Edifizio aumentato dalla società attuale sotto la direzione di un eccellente montanista che ha introdotto per la riduzione dello slich in piombo argentifero, mediante la coppellazione metodi economici significantissimi. Tale è una tromba a grande cilindro a doppie valvole di ferro fuso mossa dalle acque correnti per soffiare nel tempo stesso e alimentare sei grandi forni a coppella nella sottostante fornace. Tale è il metodo ivi messo in pratica d’impiegare per tali fusioni del carbon fossile, e quindi servirsi del coohe che ne risulta per la riduzione del cinabro in mercurio che la società medesima (Hahner e CC.) estrae dalle sue miniere di Ripa nel Pietrasantino. – Vedere SERAVEZZA, Comunità.
Riferimento bibliografico:

E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, 1843, Volume V, p. 626.