PIOMBINO

(Plombinum).

– Piccola città marittima munita di mura e di due fortezze con rada e canale di mare, stata capoluogo di un principato, siccome è costantemente di Comunità e di un Vicariato regio, con chiesa arcipretura (S. Antimo in S. Michele) nella Diocesi di Massa Marittima, Compartimento di Grosseto, testè nel Compartimento di Pisa.
È situata sull’estrema punta meridionale del promontorio di Populonia, che ha al suo levante il Porto vecchio di Piombino, già appellato di Falesia, poi Faliegi, e dirimpetto a ponente lo stretto di mare che per il tragitto di 8 miglia separa il suo promontorio dall’Isola dell’Elba.
A di fendere questa città oltre la naturale sua giacitura concorse l’arte mediante un ben’inteso cerchio di mura e di fossi guardati da tre fortilizj, a settentrione dalla Porta di Terra , a grecale dalla Rocchetta piantata sopra uno scoglio sporgente in mare sulla punta estrema del promontorio, e (ERRATA : a maestrale) a grecale dal Castello che risiede sopra il palazzo della Cittadella a cavaliere di Piombino di fronte allo stretto.
La parte più elevata di essa città, calcolata dai parapetti del Castello, è braccia 57 e 1/2 superiore al livello del mare, fra il grado 42° 55’ 4” latitudine e 28° 11’ longitudine; 5 miglia toscane a scirocco di Populonia, 11 a ostro di Campiglia, 20 a libeccio di Massa Marittima; 24 a ponente di Grosseto; 10 miglia toscane a settentrione- grecale di Rio, (ERRATA: e 13 a grecale) e 18 a grecale di Porto Ferrajo nell’Isola dell’Elba; 45 miglia a ostro di Livorno, e circa altrettante a maestrale del Porto S.
Stefano nel promontorio Argentaro.
Chi ambisse andar in cerca dell’origine di Piombino innanzi il mille farebbe opera frustranea, quando non volesse innestarla al paese che fu in quei dintorni sotto il vocabolo di Falesia.
Infatti costà presso al porto vecchio di Piombino, già detto di Falesia, passava la strada Aurelia, dove nei primi secoli dell’E. V. esisteva una stazione militare che aveva a ostro quella del porto di Scabri (Portiglione sotto Scarlino) e a settentrione il porto di Populonia (Porto Baratti).
Infatti Rutilio Numaziano nel principio del secolo quinto approdò con la sua feluca al porto vecchio di Falesia, siccome egli asseriva nel suo Itinerario marittimo, dove è fatta menzione non solo del porto di Falesia, ma del villaggio omonimo e dello stagno pescoso separato dal porto mediante un tombolo di arena. – Vedere LITTORALE TOSCANO.
Se la prima memoria del territorio piombinese non fosse per avventura quella indicata in un diploma di Ottone I dato nel suburbio di Cosenza in Calabria il 18 aprile 969 a favore di un fedele di quell’Imperatore, cui donò diversi beni situati nei contadi dell’alta Italia e in quelli e in quelli a me ignoti, cioè, Bulgariense e Plumbiense (AFFO’ Istor. di Parma Vol. I. append.) se non fosse quella la prima memoria di Piombino, io non ne conosco altra più antica di un documento del 26 settembre 1114 pubblicato dal Muratori.
Cotesto del 1114 (anno comune) è un istrumento, col quale Uberto abate di S. Giustiniano di Falesia col consenso de’suoi monaci rinunzia a favore dell’Opera della Primaziale di Pisa tre porzioni del castello, rocca, poggio, torri, case e terre poste tanto dentro quanto fuori di Piombino nei confini ivi designati, in cambio delle quali cose l’abate Uberto riceve dal rettore dell’Opera della Primaziale un pezzo di terra posto presso la città di Pisa accosto alla chiesa di S. Niccola, e più lire 150 di buoni denari lucchesi per restaurare la sua chiesa e claustro di S. Giustiniano di Falesia.
Qualche anno dopo lo stesso abate Uberto per contratto del 22 gennajo 1335rogato presso la chiesa maggiore di Pisa cedè a Uberto Lanfranchi arcivescovo cha riceveva in nome anche de’suoi successori altre due parti del Casello e rocca di Piombino, meno sei scale di terra, ad oggetto di potervi edificare sopra una cappella con l’abitazione del prete cappellano; per la qual cessione all’abate di Falesia fu dato in permuta dall’arcivescovo suddetto un pezzo di terra presso la chiesa di S. Niccola di Pisa con lire 170, ossiano soldi 3400. – (MURAT. Ant. M.
Aevi. T. III).
Frattanto dai due istrumenti qui sopra citati apparisce, che Piombino all’anno 1114 aveva già una rocca con mura castellane, per modo che si può facilmente credere che l’origine di questo paese debba risalire ad una età anteriore al secolo XII.
Ma in qual modo e da chi i Benedettini del monastero di Falesia avevano ottenuto il padronato del castel di Piombino, di cui nel 1114 alienarono tre porzioni, e poi nel 1135 ne cederono due altre parti? In qual modo nel 1216 essi alienarono come sarò qui appresso per aggiugere la sesta parte di Piombino? Come spiegare cotesta giurisdizione monacale contemporaneamente alla giurisdizione politica e civile esercitata in Piombino a nome del governo di Pisa? Ecco un nodo per la storia municipale di cotesto paese alquanto difficile a sciorsi da chi non desidera ricorrere al facile compenso di reciderlo.
Dissi che nel mentre i monaci di Falesia avevano giuspadronato in Piombino la rocca e il castello erano guardati e governati dai Pisani. Del qual vero abbiamo una testimonianza irreprensibile nel console genovese Caffaro, primo autore degli annali di sua patria e testimone di un’azione bellica fatta nel 1124 da una flottiglia genovese contro Piombino, sulla quale egli stesso si trovava. I quali navigli essendo comparsi davanti a Piombino guardato dai Pisani, lo battagliarono, ponendo il fuoco tanto al castello como al borgo e ad una loro nave stata varata in terra. Quindi caricati sopra le galere de’Genovesi uomini, donne, fanciulli e il denaro che poterono prendere, quella fottiglia veleggiò verso Genova.
Un’altro assalto ostile fu dato l’anno dopo da altre galere di Genovesi, colle quali corsero sopra i Pisani, da primo a Bocca d’Arno, dipoi lungo il littorale di Vada sino a Piombino, del cui castello nuovamente s’impadronirono dopo essere stato dai Pisani restaurato. – (CAFFARI, Annales Genuenses in R. Ital. Script. T. VI. Lib. I.) Troppo esatto era il Caffaro, sia sul conto delle date croniche, come nella sostanza dei fatti da esso o dai suoi continuatori negli Annali genovesi raccontati, per non mettere in dubbio la loro fede. Infatti non vi è alcuno che abbia mai contradetto a quanto scriveva cotesto annalista rispetto al conflitto accaduto davanti il castel di Piombino, distrutto nel 1224 e un anno dopo riedificato. Che se ciò prova essere stato in quel tempo Piombino un luogo di poca conseguenza, appena munito di qualche torre, non esclude per questo il fatto, che i Pisani, mentre erano in guerra coi Genovesi, tenessero guarnigione in Piombino; e che cotesto possesso non debba risalire ad un’epoca più antica della permuta fatta nel 1114 e nel 1135 fra l’abate del monastero di S. Giustiniano a Falesia con l’Opera della Primaziale e con l’arcivescovo di Pisa.
Ma che in questi due ultimi casi si tratti unicamente di giuspadronati, di tributi personali e di possessioni spettanti al monastero di Falesia piuttosto che di giurisdizione politica e civile, lo dà a conoscere un terzo documento esistente nell’archivio Arciv. di Pisa, pubblicato esso pure dal Muratori.
È un contratto rogato in Pisa da Ugo notaro nel dì 25 febbrajo del 1150, col quale donna Calcisciana figlia del nobile Lamberto, mentre stava nella torre o palazzo di Uguccione suo fratello, dopo essere rimasta vedova di Vernaccia, e passata a seconde nozze con Alberto Marchese di Corsica, fece transazione per se e per le figlie del primo letto, come pure in nome del marchese suo marito con Villano arcivescovo di Pisa, con Guidone abate di S. Giustiniano di Falesia nonchè con gli abitanti di Piombino e suo territorio di tutto ciò che a dette persone poteva appartenere a titolo di enfiteusi o livello sive jure alodii, sive feodi, aut tenimenti, rispetto al castello e rocca di Piombino, come anche per le torri, case, edifici, terreni, persone, beni immobili e semoventi esistenti nel suo distretto tanto in terra come in mare ed in qualche isola vicina, rinunziando nel tempo stesso a qualunque rimborso di spese fatte da detta Calcisciana, da Vernaccia suo primo marito o da altri, come infatti rinunziava in favore della mensa arcivescovile pisana a qualsiasi diritto che essa e le sue figlie potessero pretendere fino al giorno del contratto sopra il suddetto castello di Piombino, e sue cose, obbligandosi in caso d’inosservanza ad una penale. Dondechè essa abdicando ne’nomi che sopra alla parte che potesse pervenirgli, ricevè dai sindaci dell’abate di Falesia e degli abitanti di Piombino una coppa di argento del valore di 3000 soldi di denari lucchesi.
Nè tampoco può dare alcuna specie di appiglio per mettere in campo il dominio temporale degli abati e monaci di S. Giustiniano di Falesia sopra Piombino, e per essi della S. Sede, cui quella badia coi suoi beni fu immediatamente soggetta, una bolla concistoriale del Pontefice Innocenzo III recentemente trovata dall’antiquario regio fiorentino nell’archivio comunitativo di Piombino, dalla quale taluni potrebbero trarre qualcosa di più che tributi parrocchiali da pagarsi all’abate Nullius di Falesia per la chiesa curata di S. Lorenzo in Piombino.
Io mi asterrò qui dallo sbaglio incorso nella data cronica di quella bolla che indica il 1216 invece del 1215 (l’anno XVIII del pontificato ivi segnato) poichè nel XII Kalendas januarii del 1216 (corrispondente al 21 dicembre dello stesso anno) il Pontefice Innocenzo III ora morto da 5 mesi e mezzo.
Checchè ne sia, dirò che quella bolla e diretta dal Laterano a Rustico abate dei Monasteri di S. Giustiniano di Falesia ed ai suoi monaci, cui il Pontefice diceva, che se per ufficio del suo apostolato era in obbligo di giovare a tutte le chiese e persone ecclesiastiche, molto più doveva farlo in favore di quelle che specialmente spettano al gius e proprietà della S. Sede romana.
Per la qual cosa, dopo aver confermato col privilegio preaccennato l’immediata giurisdizione sopra il Monastero di S. Giustiniano della S. Sede, in essa si ordinava, che qualunque possessione, oblazioni di fedeli o altri diritti che il detto cenobio possiedeva o fosse per acquistare legittimamente, dovessero tenersi sotto il patrocinio della S. Sede apostolica. – Ora fra i diversi beni e giuspadronati di chiese di pertinenza del Monastero di S. Giustiniano ivi specialmente trovasi rammentata la chiesa di S. Lorenzo, di Piombino con tutti i diritti delle decime sul castello, rocca e fortificazione del medesimo, compresavi anche una sesta parte della corte di quel castello . Inoltre ad esempio del Pontefice Alessandro suo predecessore Innocenzo III accordava all’abate di Falesia la facoltà di prendere da un qualsiasi vescovo egli volesse il crisma e l’olio santo, di ordinare chierici e di consacrare le chiese purchè comprese nel distretto territoriale di Piombino, ch’era di giurisdizione del suo monastero .
Con la stessa bolla si confermava all’abate di S.
Giustiniano il padronato di varie chiese della Maremma Massetana e Volterrana, fra le quali una intitolata a S.
Giusto in Castagneto, e la chiesa di S. Biagio del castel di Campiglia con la metà del castello medesimo e della sua corte.
Finalmente concedeva libera sepoltura dentro il territorio di Piombino, ordinando che niuno presumesse fondare alcuna chiesa dentro la giurisdizione del piombinese, salvi i privilegi della S. Sede. – In ossequio di tuttociò il S.
Padre impose all’abate e monaci di S. Giustiniano l’onere di pagare in perpetuo alla camera apostolica l’annuo censo di un bisanzio, ossia di un marabottino, moneta cui quel monastero restò tassato nel registro del Cardinal Cencio, poi PP. Onorio III.
Rispetto alla provenienza del diritto acquistato dai Papi sopra il Monastero di S. Giustiniano a Falesia e sopra le sue chiese e beni, esso risale al 1022 corrispondente all’anno IX dell’impero di Arrigo I, quando nel dì 1 di novembre sei fratelli figli del fu conte Teuderigo per rimedio delle anime loro edificarono il monastero suddetto nel populoniese contado in luogo di Falesia, presso il mare, col sottoporre il Monastero medesimo alla immediata potestà della S. Sede apostolica. Nella qual circostanza, per liberare da qualsisia evento ed ovviare qualunque lite che potessero muovere i successori ed eredi dei suddetti sei fratelli contro quei monaci, i fondatori in quell’atto istesso dichiararono di avere ottenuto dal Pontefice il corporale possesso del monastero di Falesia, cui fra le altre cose assegnarono nove poderi ed il padronato parte per metà e parte per intiero di alcune chiese, fra le quali però non è ivi rammentata alcuna di Piombino.
Dopo tali riflessi non è difficile a credere che la prima chiesa parrocchiale di Piombino (S. Lorenzo) nominata nella bolla del Pontefice Innocenzo III e in quella del suo predecessore Alessandro III, fosse edificata dopo l’atto di permuta del 1135 fra l’abate di Falesia e l’arcivescovo di Pisa, tostochè in quell’istrumento fu eccettuato tanto spazio di terreno nel Castello di Piombino che fosse stato sufficiente a edificarvi sopra una cappella e una casa da abitarsi dal prete per destinarsi rettore della medesima.
In conclusione dalla bolla pontificia di sopra indicata risulterebbe al più, che la prima parrocchia di Piombino (S. Lorenzo) dipendeva dall’abate di S. Giustiniano di Falesia, dote a similitudine delle antiche chiese sottomatrici esisteva il cimitero di tutto il pievanato; e che i monaci Benedettini di Falesia nei primi secoli dopo il mille avessero la giurisdizione spirituale sopra Piombino a guisa dei pievani di chiese dichiarate posteriormente Nullius Dioecesis. – Tutto ciò pertanto non distrugge il fatto che per la giurisdizione civile e politica il Castello di Piombino col suo distretto e abitanti appartenesse al governo di Pisa. Oltre i due documenti storici del 1224 e 1225 di sopra raccontati, starebbero in appoggio all’opinione nostra gli statuti pisani fatti e pubblicati nel 1 gennajo dell’anno 1233, dove alla rubrica 18 del Lib. I si rammenta il Capitano di Piombino, il quale a nome del Comune di Pisa amministrava la giustizia in questo castello, in Populonia, Porto Baratti e nell’Isola dell’Elba.
Ciò è anche confermato dagli altri statuti posteriori e specialmente da quello denominato Breve Pisano del conte Ugolino , come pure da un’iscrizione posta alla copiosa fonte di marina esistente in Piombino fatta nel 1248, al tempo di Ugolino Arsopachi capitan di Piombino, dell’Elba e di Porto Baratti. Sino poi dal secolo XIII, se non prima, cotesti capitani di Piombino, avevano un giudice assessore, come fu quel Guidone di Ugolino de’nobili di Corvaja, autore di alcuni frammenti della storia pisana, dove egli lascio scritto che nel 10 gennajo del 1269 partì da Pisa per andare a Piombino in qualità di assessore pel Comune di Pisa ufficio che cuoprì fino al giugno del 1274 (stile comune).
In questo frattempo i monaci di S. Giustiniano abbandonarono il loro convento di Falesia, sicchè il Pontefice Alessandro IV nel 1257 lo aggregò coi suoi beni alle monache Clarisse di S. Maria di Piombino, le quali avendo preteso di sottentrare nella giurisdizione ecclesiastica e quasi episcopale che i Benedettini di Falesia avevano nella terra e distretto di Piombino, furono cagione di lunghe dispute fra esse ed i vescovi di Massa, siccome apparisce da un lodo del 10 maggio 1382 quando dagli arbitri venne deciso che l’elezione del parroco della pieve di S. Lorenzo di Piombino con i diritti ecclesiastici alla chiesa medesima inerenti d’allora in poi appartenesse ai vescovi di Massa e non all’abbadessa del Monastero di S. Maria in Piombino; ma che il pievano fosse tenuto in perpetuo dare al Monastero medesimo la quarta parte della cera de’funerali e di quella che fosse offerta alle altre chiese di Piombino o del suo distretto.
Ma per tornare alla storia civile e politica, dirò che questa terra nel 1283 fu investita da una numerosa flottiglia genovese comandata dall’ammiraglio Corrado Doria, allorchè affrontò quella pisana composta di 40 galere nel porto vecchio di Piombino, già porto di Falesia. Poco stante la città di Pisa essendo agitata dai partiti, dei quali restò vittima il conte Ugolino coi figli e nipoti, molti cittadini esuli furono accolti in Piombino dove si fortificarono.
Dondechè nel 1289 il conte Guido da Montefeltro podestà e capitan generale di Pisa inviò a Piombino gente armata a discacciarne i fuorusciti coll’atterrare le loro torri e abitazioni. – (GUIDON. CORVAR. Fragment. Hist. pis.
in R. Ital. Script. T. XXIV).
Nel 1312 esercitava in Pisa la stessa carica di potestà e capitano del popolo il conte Federigo da Montefeltro, quando sotto di lui fu pronunziata sentenza contro un padrone di naviglio per avere scaricato del grano nel porto di Portiglione sotto Scarlino invece di scaricarlo nel porto di Piombino come per atto del Comune di Massa si era obbligato. – (ARCH. DIPL. FIOR. e SAN. Carte della Comunità di Massa .) Nuove agitazioni di partito furono riaccese nella città di Pisa verso la metà del secolo XIV da due fazioni, le quali contrastavansi l'amministrazione della repubblica, una appellata de'Bergolini , e l'altra de'Raspanti. Alla testa della prima figurava Pietro Gambacorti che nel 1347 fu eletto capitano generale di Pisa, mentre della seconda erano capi i Conti della Gherardesca e loro consorti, ai quali nel 1355 riescì di opprimere la parte avversa coll'esilio del loro capitano generale.
Questi per altro assistito dai Fiorentini e dai fautori che teneva dentro Pisa, potè finalmente rientrarti nel 1368: sicchè Pietro Gambacorti da fuoruscito tornò ad essere capo di quella repubblica sotto il titolo di difensore e capitano del popolo. In tale circostanza molti della fazione contraria per salvare la vita dovettero abbandonare la città.
Erano appena scaduti quattr'anni quando quel difensore del popolo fece edificare in Piombino la chiesa di S.
Michele, dedicata poi a S. Agostino, ed ora riunita alla pieve di S. Antimo, affidando la sua costruzione a Pietro del Grillo operajo della curia pisana, nel modo che apparisce dall'iscrizione ivi posta nell'aprile del 1374 (stile pisano) can l'arme del Gambacorti.
Non corse molto tempo però che i fuorusciti pisani sollevarono Piombino, del cui castello si resero padroni; sino a chè affidata a Benedetto figlio di Pietro Gambacorti una mano di gente armata a piedi e a cavallo, questa giungeva sotto Piombino mentre una galera investiva il castello dalla parte di mare.
Allora i ribelli vedendosi a mal partilo andarono supplichevoli incontro al comandante dell'esercito pisano, che fu introdotto nel castello, nella qual circostanza ai capi della fazione mozza la testa, e molti altri collati; e per si fatto modo si racconciò la terra. – (MURAT. in Ret.
Ital. Script. Cronic. Pis. T. XV).
Dall'anno 1399 in poi la storia municipale di Piombino incominciava a divenire importante, stante che questo castello fu scelto a residenza e quindi diede il titolo ad una signoria nuova.
Non è qui il luogo di riandare sulla catastrofe che costò il dominio e la vita a Pietro Gambacorti, e che guadagnò un principato al di lui ambizioso segretario. Voglio dire di ser Jacopo figlio di ser Vanni d'Appiano, il quale dopo di aver dominato quasi sei anni da assoluto signore in Pisa, vecchio ottuagenario, morì tranquillamente nel suo letto (5 settembre 1398), tramandando illeso il dominio al suo figlio Gherardo, cui i magistrati di quel Comune tre mesi innanzi la morte del padre, sotto dì 11 giugno dell'anno 1398 avevano giurato fedeltà e obbedienza.
Gherardo succeduto al padre nel governo di Pisa, ma non d'ingegno e d'animo risoluto quanto il suo genitore, sopraffatto dalle ingiunzioni politiche fattegli dai ministri del duca di Milano che tendeva a insignorirsi di Pisa, presto aderì alla proposta fattagli di tendere quella città ed il suo contado mediante l'offerta di 200,000 fiorini d'oro e della signoria di Piombino, di Populonia, Scarlino, Suvereto, Buriano e delle Isole dell'Elba di Pianosa e di Monte Cristo, paesi tutti che facevano parte del territorio della estinta repubblica pisana.
Stabilite in questa forma le cose, li 19 febbrajo del 1399, fu consegnata la città di Pisa al vicario del duca di Milano in nome del quale vennero presidiate le fortezze della città e del suo territorio, e dopo pagati centomila fiorini a Gherardo di Appiano, e data sicurtà per altrettanta somma, egli montato sopra una galera armata si fece trasportare a Piombino, che destinò a residenza della signoria che si era riservata.
PIOMBINO SOTTO LA CASA DI APPIANO Gherardo II d'AppIano primo signore di Piombino. – Assicuratosi Gherardo d'Appiano in questa forma uno stato per sè e per la sua discendenza, si giovò de'tesori acquistati colla vendita di Pisa per fortificare Piombino e per innalzarvi un confacente palazzo di residenza (ERRATA: ora ufizio doganale) (ora carceri del Comune), nel tempo che cercava di rendersi benevoli quei popoli con la concessione di alcuni privilegi e la conferma dei loro statuti. A meglio convalidarsi nel potere dopo la morte di Giovanni Galeazzo duca di Milano, il signore di Piombino si rivolse a cercare quella della Rep. Fior., dalla quale l’ottenne mediante convenzione conclusa, sotto dì 16 giugno 1404, fra lui e Filippo Magalotti, uno dei dieci di balia, l'Appiano fu accolto in accomandigia con tutto il suo stato per il tempo di sei anni a patti favorevoli, come fu quello di una provvisione di 300 fiorini d'oro il mese con l'obbligo di far guerra a volontà de'Fiorentini contro Filippo Maria duca di Milano. Nella quale circostanza si dovevano dare all'Appiano 50 lance e 150 fanti spesati, rilasciando a di lui prò tutti i luoghi che avesse militarmente occupato della giurisdizione di Pisa, dovendo egli mandare a Firenze ogn'anno un palio nel giorno di S. Gio. Battista.
Cotesto fatto, di cui esiste il documento autentico nelle Riformagioni di Firenze, serve ad infirmare, se non a distruggere, quanto fu scritto dopo la metà del secolo XV sopra tale proposito da Agostino Dati segretario della Rep. di Siena nella sua storia piombinese che abbraccia il governo dei primi quattro dinasti di Appiano, quando diceva, che cotesti signori accomunarono la loro sorte a quella della Rep. sanese.
Poco sopravvisse Gherardo alle sopraddette convenzioni imperocchè nell'ultima sua malattia con testamento del 25 aprile 1405 destinò donna Paola Colonna sua moglie signora dello stato finchè viveva, quindi istituì erede e successore il figliuolo pupillo Jacopo, lasciando scudi 3000 per dote a Caterina sua figliuola nubile, mentre un'altra figlia per nome Violante erasi maritata al signor di Camerino.
Nel caso poi che mancassero i suoi discendenti volle che succedessero per egual porzione il di lui fratello Emmanuelle nato ad Jacopo d'Appiano da altra moglie di casa d'Elci, ed Antonio suo nipote figliuolo di Vanni d'Appiano. Finalmente al prenominato suo figlio infante assegnò in tutore il Comune di Firenze, cui lo raccomandò caldamente confidando nella Signoria diceva il testamento, tamquam in Deum, a condizione che la medesima deputasse a governatore del pupillo un cittadino di buon consiglio e valore con tale provvisione, quale sembrasse conveniente stabilire ai priori del Comune. Inoltre nominò contutori dello stesso figlio donna Paola di lui madre, Antonio Vanni d'Appiano, ed altri quattro personaggi, due dei quali di Piombino da cambiarsi ogni anno.
Jacopo II signor di Piombino. – Cotesta tutela del principino di Piombino essendo stata dalla Signoria di Firenze con provvisione de'30 maggio 1405 accettata, avvi ragione di credere che a Gherardo d'Appiano mancasse la vita dopo la metà del mese di maggio dello stesso anno. Fu allora che la Rep. Fior. destinò a tutore del principe pupillo quel Filippo Magalotti che l'anno innanzi (16 giugno 1404) come uno dei dieci di balia in nome della Repubblica Fior. aveva accettato in accomandigia il signore di Piombino.
A dì 4 febbrajo del 1406 (stile comune) la Signoria di Firenze rinnovò l'atto di raccomandigia per altri quattr'anni a favore d'Jacopo II d'Appiano compiti cha fossero i sei anni di già accordati con la differenza che la provvisione stata assegnata al padre fu ridotta a 150 fiorini il mese. Quindi sotto dì 6 novembre del 1406 fu ordinato d'insignire in nome della Rep. Fior. Jacopo d'Appiano della dignità della milizia; al quale effetto venne spedito un sindaco a Piombino per cingerlo cavaliere col cinto militare. Di poi con provvisione del 28 febbrajo successivo, ad istanza dello stesso Signore, tanto egli quanto anche la sua dipendenza furono ascritti alla cittadinanza fiorentina. Inoltre nelle Riformagioni di Firenze si conservano le deliberazioni seguenti relative a Jacopo II signor di Piombino. Nella prima, del maggio 1413, si tratta della ratifica fatta da Jacopo II col consenso di donna Paola Colonna sua madre al trattato di pace concluso tra il Comune di Firenze e quello di Genova; la seconda, sotto il 12 maggio dell'anno medesimo, contiene una deliberazione di rinnovare l'accomandigia per sei anni a favore d'Jacopo II d'Appiano, premesso il consenso di donna Paola sua madre e quello di Neri Vettori commissario in Piombino per il Comune di Firenze non che degli altri tutori del principe, colla quale la Signoria decretò d'inviare annualmente per commissario a Piombino un cittadino fiorentino ad oggetto di sorvegliare il governo o la buona amministrazione di quello stato.
La quale accomandigia, sotto dì 31 ottobre 1419 fu ridotta perpetua con diverse capitolazioni, nel tempo, cioè in cui Jacopo d'Appiano, sua madre e due sorelle erano venuti in Firenze ad ossequiare Papa Martino V di casa Colonna. I quali principi non solo dal Pontefice ma dalla città tutta furono bene accolti, onorati e di ricchi donativi presentati.
Dopo coteste luminose prove, dopo tante dimostrazioni di amicizia, dopo avere i Fiorentini religiosamente custodito il pupillo Jacopo d'Appiano, e mantenuto religiosamente al signore di Piombino il possesso del suo stato, per atto insigne d'ingratitudine egli ricambiava tali servigi col distaccarsi dall'amicizia del Comune di Firenze, collegandosi, com'egli fece, nel 1431 col duca di Milano nemico della repubblica Fiorentina mentre questa era in guerra con l'altra di Siena. In conseguenza di ciò molti paesi della Maremma soggetti ai Fiorentini si ribellarono, e mentre Castiglion della Pescaja si dava ai Sanesi, mentre i Campigliesi levavano voce di voler vivere a comune senza riconoscere superiore alcuno, Jacopo d'Appiano a viva forza toglieva Monteverdi ai Fiorentini, e molte robe dei cittadini che si trovarono in Piombino, fece prendere e si ritenne.
Ma dopo la vittoria d'Anghiari nel 29 giugno 1440 dall'esercito fiorentino riportata sopra quello milanese comandato dal Piccinino, il signor di Piombino, come anche donna Paola di lui madre, pensando meglio ai casi loro cercarono di riannodare l'abbandonata amicizia con il Comune di Firenze: Essi infatti vi riescirono in modo chè verso la fine del novembre dello stesso anno fu concluso accordo, mercé cui Jacopo II d'Appiano insieme con i suoi parenti e fedeli dal Comune di Firenze fu ribandito.
In conseguenza vennero tolte via le rappresaglie, e di più Jacopo II d'Appiano fu preso di nuovo in accomandato dalla Signoria con l'obbligo del solito palio per la festa di S. Giovanni Battista, e di accordare ai Fiorentini le antiche franchigie nel suo dominio.
Stando all'asserto di uno storico contemporaneo, quale fu Agostino Dati di sopra nominato, verso la fine di luglio dell'anno 1440 accadde che Baldaccio d'Anghiari capitano di ventura con una mano di armati si avviò improvvisamente dal lago Trasimeno lungo i confini del contado di Siena nel territorio piombinese dove appena giunto assalì, prese e depredò il castel di Suvereto, nel quale si mantenne per sette mesi.
Era sempre Baldaccio in Suvereto quando mancò ai viventi senza figli donna Lucia de'conti Fieschi di Lavagna moglie d'Jacopo II d'Appiano, alla quale non molto, dopo tenne dietro il marito, morto secondo alcuni di afflizione, secondo altri di veleno.
Finalmente Baldaccio mediante lo sborso di grossa moneta, pagata da donna Paola, si ritirò con le sue masnade da Suvereto prendendo la via di Romagna.
In appoggio alla verità di cotesto fatto aggiungesi una deliberazione della magistratura comunitativa di Piombino riportata dal Pad. Cesaretti nell'Istoria di quel Principato (T. I. pag. 164 e seg.) con la quale il consiglio degli anziani offrì alla signora di Piombino mille fiorini d'oro per la redenzione di Suvereto occupato da Baldaccio contro ogni ragione.
Allontanato da Piombino con Baldaccio un pericoloso nemico, un'altro più debole di mezzi, ma più forte de'suoi diritti ne restava in Emmanuelle d'Appiano nato da Jacopo I e dalla contessa d'Elci. Il quale chiamato con testamento dal fratello in mancanza de'suoi figli e discendenti maschi al principato, per quanto egli vivesse lontano e da privato nella città di Troja in Capitanata, era un gran pruno sugli occhi di donna Paola arbitra assoluta di Piombino. La quale signora per assicurarsi meglio nello stato associò al regime del medesimo il valoroso conte Rinaldo Orsini che aveva maritato a donna Caterina sua figlia, mentre l'Orsini era al servizio militare de'Sanesi.
Frattanto Emmanuelle d'Appiano, intesa la morte del nipote suo Jacopo II senza aver lasciato prole, abbandonò il regno, e venuto a Firenze e a Siena senza trovare protezione, finalmente si rivolse a Baldaccio, perchè volesse tornare con sua compagnia alla testa di lui a impossessarsi di Piombino. Raccolte perciò dal Baldaccio molte genti di ventura, di repente eglino corsero sul piombinese nella lusinga che quella popolazione avrebbe aperto le porte a Emmanuelle e alle genti che conduceva.
Ma l'esempio recente di quanto Baldaccio aveva operato, rese vane le speranze del pretendente, per cui Emmanuelle tornò ai suoi privati lari in Troja, mentre Baldaccio coi suoi fanti e cavalli prese la via di Sanminiato nel Val d’Arno e di là si rivolse a Pistoja, città nuovamente agitata da crudeli fazioni, nella speranza di trarne una qualche favorevole ventura.
Era nel principio di settembre del 1441 quando, soggiunge lo storico Agostino Dati, entrato gonfaloniere della Signoria di Firenze Bartolommeo Orlandini, per di lui consiglio fu invitato Baldaccio a recarsi da Pistoja a Firenze ad oggetto di trattare di cose di alta importanza.
Comparve egli sollecito nel dì 16 settembre accompagnato da pochi de'suoi, e appena Baldaccio salì nel palazzo de'Signori, per comando del gonfaloniere fu preso, e carico di ferite gettato il suo corpo dalle finestre in piazza. – (AUGUST. DATHI, Hist. Plumbin.) Altri ad altra causa la morte del Baldaccio attribuirono, sebbene non dissimile dalle ragioni dello storico sanese siano quelle del Cambi storico fiorentino, il quale rispetto al tragico fine di lui egli dicesse, essere successo ciò per avere Baldaccio messo a sacco Suvereto, del cui fatto se ne dava il carico alla Signoria di Firenze; la quale per dimostrare che tale avvenimento non era di sua volontà accaduto, volle che si dasse al peccatore quel castigo che il suo fallo aveva meritato.
Intanto la Rep. di Siena, mediante procura di Angiolo Orsini, non solo accettò per anni cinque in sua raccomandata donna Paola Colonna vedova di Gherardo I come signora di Piombino, ma ancora Rinaldo Orsini e donna Caterina d'Appiano sua moglie con i loro castelli di Piombino, Scarlino, Suvereto, Buriano, l'Abbadia di Fango, le Isole dell'Elba, di Pianosa e di Monte Cris to.
Ciò avvenne poco innanzi l'arrivo del Pontefice Eugenio IV in Siena, dove entrò con regio apparato li 7 marzo del 1442 e dove nella domenica quarta di Quaresima, denominata della Rosa , donò solennemente la rosa d'oro a Rinaldo Orsini generale d'armi di quella repubblica.
Nel novembre del 1445, come scrisse il Cesaretti, che cita i libri dei Consigli del Comune di Piombino, morì donna Paola Colonna, la quale destinò al governo di Piombino donna Caterina d'Appiano sua figlia, sicchè d'allora in poi libera mente ella resse lo stato con Rinaldo Orsini di lei marito.
Tutto annunziava a Piombino quieta tranquillità, sicurezza e prosperità. Infatti nell'anno 1444 Rinaldo Orsini si applicò ad accrescere le fortificazioni esteriori della Rocchetta e della Porta di Terra di Piombino, siccome leggesi in un cartello di quest'ultima. Fece anche costruire il palazzo della giustizia, o degli anziani del Comune di Piombino.
Fu restaurata la chiesa parrocchiale di S. Lorenzo, ora distrutta nella piazzetta di Piombino, e vennero fabbricati nuovi mulini a benefizio della comunità.
Sapeva Rinaldo, che Alfonso d’Aragona nuovo re di Napoli per rappresaglie fatte dai suoi corsari sopra bastimenti piombinesi aveva in animo di torgliergli lo stato.
Nè Rinaldo s'ingannò, poichè venuto l'anno 1447 lo stesso re alla testa di numerosa oste napoletana marciava in Toscana. La qual oste verso la fine di giugno dell’anno seguente erasi avvicinata alla Terra di Piombino, mostrando di voler fare ogni sforzo per averlo, nè curando che cotesto stato fosse accomandato da'Sanesi, dai quali l’Orsini era stato favorito di ajuto di un 300 fanti per guardia delle sue terre. Ma Rinaldo da valente uomo ch’egli era, quando vide l’esercito dell’Aragonese avvicinarsi da Campiglia alle mura di Piombino, gli chiuse le porte in sul viso, nè fuori che ad alcuni soldati disarmati permetteva di entrare nella terra, e le vettovaglie che al re venivano per mare, quando all'Orsini cadeva il destro, impediva che andassero al nemico. Quindi vedendo egli che i Sanesi non erano bastanti a difenderlo quanto il bisogno esigeva, ricorse alla Signoria di Firenze in tempo che ne era gonfaloniere Luca Pitti, uomo animoso, il quale col consiglio di Cosimo de'Medici il vecchio, uno dei dieci di balìa di guerra indusse i priori a deliberare che si porgesse a Rinaldo Orsini quell’ajuto che si presterebbe alle cose proprie; e che per terra e per mare Piombino gagliardamente si soccorresse. Andato l'ordine al campo de'Fiorentini postato a Campiglia, si pensò di prima giunta mandare alcun soccorso dentro Piombino, ma non potendo per la via di terra, poichè il re aveva fatto una bastia al luogo di Capazzuolo, fu gioco forza pigliar il cammino di mare; e siccome erano tornate di corto dalle Fiandre due grosse gaere della Rep., fu dato ordine che due altre tostamente con alcune fuste s'armassero e che queste 500 fanti provvisti d’ogni munizioni mettessero dentro a Piombino. La quale spedizione con felicissimo successo nel dì 8 luglio dell’anno 1448 restò compita, non ostante che gli Aragonesi per terra e per mare facessero ogni sforzo in contrario. Poco appresso il Comune di Firenze avendo mandato a quella volta quattro galere cariche di vettovaglie per fornire il campo postato sotto Campiglia, arrivate esse nelle vicinanze della Torre S.
Vincenzo vennero investite da sette galere catalane, e da altri legni nemici, sicchè dopo una zuffa che durò più di cinque ore, restarono rotti i Fiorentini con la perdita di due galere, di molti morti e feriti, sebbene una delle altre due restate fuori di combattimento fosse poi ripresa dai nostri. – (BUONINSEGNI, Ist. Fior.).
Lo stesso storico Buoninsegni ne informa, come verso la fine d’ottobre di quell'anno essendo gli Aragonesi spesso assaltati dalle genti d'arme del campo fiorentino postato alle Caldane di Campiglia, e conoscendo il re che invano egli stava attorniando Piombino, dove i suoi pativano infiniti disagi e mancamenti, innanzi di abbandonare quell’assedio, volle tentare l’ultimo sforzo per vedere se con l'impeto d'un estremo valore gli venisse fatto di soddisfare il suo desiderio. Per la qual cosa, al dire dell’Ammirato (Istor.fior. Lib. XXII), il re Alfonso con grave ragionamento avendo infiammato i suoi a portarsi valorosamente, compartì gl’incarichi tra i più grandi dell’esercito in quest’ordine: a Pietro di Cardona commise che con l'artiglierie grosse attendesse a batter la fortezza della cittadella, e volle che Inno di Ghevara con una scelta mano di armati assalisse Piombino verso occidente.
A’soldati forestieri diede la parte ov’è la Porta di terra, mentre l’armata navale alla virtù di Berlinghieri Barile era affidata, affinchè con ogni artificio i Piombinesi infestasse. Usata cotale diligenza, nella mattina dopo Alfonso comandò che si desse con le trombe il segno della battaglia. Ma Rinaldo Orsini, che dai preparativi del giorno innanzi aveva compreso qual fosse l’intendimento del re, a ricevere l’assalto si era maravigliosamente apparecchiato in guisachè di sassi, di artiglierie, di saettame d’uomini aveva intorno cinto le mura: e dove conosceva esser maggiore il pericolo, ivi i più animosi e valenti giovani aveva impostati.
Gli Aragonesi udito il cenno dello assalto con gran vigore così da terra come da mare cominciarono a battere Piombino ed in un istesso tempo altri lanciarsi nel fosso, altri appoggiar le scale alle mura ed altri salir sù per quelle si vedevano; mentre dai tuoni delle bombarde dai colpi delle catapulte dalle grida degli assaliti e degli assalitori tutto il paese di rumore e di confusione era ripieno. Facevasi ogn’opera sugli occhi del re che a tutti inspirava coraggio, promettendo premj tanto maggiori quanto meglio avessero operato. Par la qual cosa né l’essere una o due volte a dietro respinti, o a terra dalle mura e dai merli gittati, purchè le forze servissero a reggere il corpo, giovava a tener discosto gli assalitori. Nè mancava punto a tanta prontezza de’suoi soldati il re, il quale trascorrendo in ogni luogo accendeva i valorosi, confortava gli stanchi, faceva ritrar dalla battaglia i feriti, e i freschi e gagliardi in luogo di quelli mandando, tutti in una parola rincorava e lodava. L’Orsini per lo contrario mostrando il pericolo comune se i nemici salir si lasciavano, e ricordando spesso che ora non da Italiani a Italiani si combatteva, ma con Catalani gente rapace e crudele, è cosa incredibile a dire quanto ciascuno alla difesa commovesse; perchè non solo l’artiglierie, il mestiere delle quali non era ancora a quella perfezione che oggi vediamo ridotto, ma le saette e le pietre si adoperavano. Quello però ch’era di non piccolo danno agli assalitori fu l’acqua bollentissima con calcina viva, la quale passando per l’arme e colando per tutti i membri della persona, fuor di modo l’ardimento e le forze de’nemici spegneva o ritardava. Soprattutto erano malmenati gli Aragonesi in quella parte ch’era toccata al Cadona, dove l’Orsini molti balestrieri, e alcuni piccoli pezzi di artiglieria aveva rizzato, i quali cogliendo di mira qualunque di salir sulle mura s’arrischiava, pochi fallavano che non uccidessero. I terrazzini per lo contrario erano molto stretti da quella parte dove combatteva il Ghevara, sendo in luogo lungi dalla fortezza; pur nondimeno dagli assaliti non solo il capitano nemico, Francesco David, valorosamente combattendo fu fatto prigioniero, ma anco due altri, Bernardo Sterlich, e Martino Nuccio, che montati sulle mura furono uccisi.
Degna d’ammirazione sopra tutti in questo assalto mostrossi la virtù di Galeazzo Baldassini, il quale non ostante l’esser stato tre volte ributtato dalle mura sopra cui erasi arrampicato, tornò sempre più fiero e più animoso a montarvi da capo, e sarebbegli riuscito di occupare quella parte se l’ultima volta ch’egli, attaccatosi a un merlo, percosso da un sasso grandissimo e in un medesimo tempo mancandogli quella parte del muro ove avea posto le mani non se ne fosse insieme con esso rovinosamente in giù caduto. Mentre in cotesto modo si combatteva, videsi da lungi comparire la cavalleria dell’esercito fiorentino; il che fu cagione che il re facesse suonare a raccolta; e considerando la difficoltà d’insignorirsi di Piombino esser maggiore di quello che supponeva ed il gran mancamento delle sue genti morte in un campo (dove erano restati vittima più di 25000 soldati) deliberò di partirsi di là facendo la via fra la marina e il padule, dopo aver minacciato i Fiorentini di portargli a tempo nuovo una più aspra guerra. – (AMMIR. loc. cit. – AUGUSTINI DATHI. Histor. Plumbin.) Appena Rinaldo Orsini dalle molestie del re Alfonso si vide liberato, lasciato Piombino guardato da un forte presidio si volle recare a Firenze per ringraziare la Signoria, la quale con tanto dispendio dello stato proprio quello di Caterina d’Appiano sua moglie aveva mantenuto.
Fu l’Orsini in Firenze non solo dai reggitori della Repubblica per lo valore in quella difesa dimostrato sommamente accarezzato, ma con deliberazione della Signoria ebbe la condotta di capitano della Repubblica per un anno con la pensione di 1500 fiorini il mese, sí perché quella guerra gli aveva tolto l’entrate, sì perché stando egli a Piombino tenesse con le sue genti in freno i soldati napoletani lasciati dal re di presidio a Castiglion della Pescaja.
Infatti Rinaldo appena tornato a Piombino provvisto dai Fiorentini di soldatesche e di galere, di notte tempo diede la scalata a Castiglion della Pescaja che prese a viva forza meno la rocca superiore. Ma sopraggiunta sollecita una flottiglia napoletana innanzi che all’Orsini arrivassero i rinforzi, il castel di Castiglione fu ricuperato dalle genti dell’Aragonese, essendo state fugate quelle dell’Orsini, fra le quali un legato de’Fiorentini, messer Giuliano Ridolfi, che più tardi ebbe a naufragare nell’Oceano.
La partenza del re Alfonso e del sua esercito dalla Toscana avrebbe quietato il signor di Piombino e ristorati i suoi abitanti se questa piccola città quasi tosto non veniva orribilmente assalita e decimata dalla peste; nè il valoroso Rinaldo Orsini potè sfuggire a quel flagello, che in brevi giorni lo spense (anno 1450).
Appena intesa tale notizia dalla Signoria di Siena, alla quale Rinaldo negli ultimi tempi era stato raccomandato, desiderando anche di aderire alle premure del cardinal Prospero Colonna che voleva provvedere alla sicurezza della vedova Caterina, e a quella del suo principato, furono eletti da quel governo quindici cittadini sanesi affinchè con opportuni ajuti difendessono alla vedova lo stato.
Era rimasta donna Caterina di pochi giorni orbata del marito quando i Fiorentini sotto dì 18 luglio del 1450 conclusero con il re Alfonso un trattato di pace, in cui vollero che fosse comp resa la signora di Piombino, a patto che essa dovesse pagare ogn’anno al re di Napoli il tributo di una coppa d’oro del valore di 500 fiorini d’oro. Quindi la Signoria di Firenze nel 15 settembre successivo rinnovò a favore di essa signora l’atto di accomandigia per tutto lo stato di Piombino.
Poco dopo peraltro donna Caterina avendo nominato un consiglio di reggenza, si ritirò in Scarlino, dove nel suesseguente mese di gennajo del 1451 s’infermò gravemente, e nel 19 febbrajo ivi morì.
Emmanuelle d’Appiano signor di Piombino. – Viveva privatamente Emmanuelle figlio d’Jacopo I nella città di Troja del regno di Napoli unito in matrimonio a donna Celia figliuola naturale del re Alfonso d’Aragona, donde portò il casato nella famiglia d’Appiano, e dalla quale Emmanuelle ebbe due figli. Essendo egli protetto dal re, benaffetto de’Sanesi e de’Fiorentini, è verisimile che la sua elezione alla signoria dello stato di Piombino fosse concordemente convenuta, tanto più che per le deliberazioni prese dagli anziani di quel Comune Emmanuelle d’Appiano fu acclamato in loro signore.
Questi infatti ben presto entrò al pacifico possesso dello stato paterno, ricevendo giuramento di fedeltà dai sudditi ad onta che gli Orsini ritenessero in mano le fortezze; parte delle quali vennero redente col denaro, e parte a forza d’armi riconquistate. Per tal modo tutto il dominio piombinese fu ridotto all’obbedienza di Emmanuelle d’Appiano, il quale dopo aver concesso e giurato ai Piombinesi una vantaggiosissima capitolazione, (20 febbrajo 1451), ottenne e rinnovò per molti anni l’accomandigia col Comune di Siena, siccome aveva fatto lo stesso con l’altro di Firenze.
A render maggiore il giubilo de’Piombinesi concorse la festevole accoglienza da essi fatta all’arrivo della consorte e dei figli di Emmannulle loro signore.
Ma il dominio di questo principe benamato non fu di lunga durata, poichè grave di anni egli mori nel febbrajo del 1457 lasciando al governo di Piombino il suo figlio Jacopo III.
Jacopo III d’Appiano d’Aragona signor di Piombino . – Più prosperi di quelli del padre furono i primordi d’Jacopo III asserto figlio legittimo di Emmanuelle contro l’opinione del Pontefice Paolo III, ma non egualmente a lui prosperi riescirono gli anni successivi. Per verità alle prime insidie diede moto il giovine principe con una condotta immorale ed arbitraria, giacchè non contento di governare i sudditi da padrone assoluto, voleva estendere le sue ragioni anche sul bel sesso, motivo per cui appena allontanossi da Piombino per recarsi a Siena, gli cospirarono contro varie famiglie nella sua capitale. Ma appena egli fu di ritorno in Piombino che seppe vendicarsi con la morte degli autori e coll’esilio dei fautori meno rei, tutti gli altri castigando con più o meno atroci pene.
Profittando del mal umore di molti sudditi contro Jacopo III, parve questa a Galeazzo Maria Sforza signor di Milano occasione opportuna di aderire a’fuorusciti piombinesi per inviare clandestinamente una mano di armati ad assalire di notte tempo Piombino. Già appoggiate le scale alle mura del castello alcuni erano arrivati sulla cima della rocca, dove uccisero le prime sentinelle, quando i soldati di guarnigione, alzato il grido al nemico , si rivolsero animosi contro gl’invasori trucidandone molti, e gli altri tutti respingendo o sbalzando fuori delle mura; sicchè i soldati del duca di Milano coi fuorusciti di Piombino furono costretti a fuggire e mettersi in salvo nel contado pisano. In questo frattempo Jacopo III dubitando di macchinazioni più serie contro la sua residenza di Piombino fece fabbricare la cittadella per sua abitazione abbandonando il palazzo vecchio di piazza, antica sede de’suoi maggiori. Fu sotto la cittadella dove alcuni anni dopo fu edificato il tempio di S. Antimo, nel quale vennero anco traslocate le attribuzioni della prima chiesa plebana di S. Lorenzo in Piombino. A lui si debbono pure le fabbriche della Torretta nel porto vecchio di Falegia o Faliegi, e del fortilizio del Giovo, i di cui avanzi restano sulla cima del monte omonimo nell’Isola dell’Elba.
Pochi anni dopo donna Batistina de’Fregosi, moglie d’Jacopo III nel recarsi ai Bagni passò da Siena, dove fu da quel Comune quasi regalmente festeggiata. – Appena tornata alla sua reggia, la signora di Piombino trovò il consorte occupato in nuovi impegni contro il re Ferdinando di Napoli figlio di Alfonso d’Aragona per causa di Castiglione della Pescaja, che le armi di quel re fino dal 1448 avevano conquistato, e che Jacopo III aveva di corto con le sue genti occapato. – Il Pontefice Pio II Piccolomini minacciò Jacopo III con animo di farsi cedere, siccome infatti gli cedè, Castiglione per investirne un nipote pontificio. Allora fu che Jacopo III rappacificossi col re Ferdinando, dal quale per istrumento del 25 agosto 1463 fu ricevuto in raccomandato esso ed il suo stato, e poco dopo (12 febbrajo 1465) allo stesso Jacopo III il re concesse facoltà d’innestare l’arme dei reali di Napoli e il casato d’Aragona a quello degli Appiani.
Finalmente a rendere più valida la regia protezione verso l’Appiano, questi accolse in Piombino una guarnigione napoletana, e in tal guisa gli Appiani si sottomisero per la prima volta ad un giogo straniero. In questo mezzo tempo, fino dal 23 giugno del 1463, fu conclusa una convenzione relativa ai confini del territorio di Campiglia con quello di Suvereto rispetto alla possessione e pertinenze del Castello di Casalappi, nella quale fu deciso che cotesta tenuta con i suoi edifizj restasse stabilmente sotto la giurisdizione di Campiglia nel dominio del Comune di Firenze, e che i termini di confini dovessero rimanere in perpetuo nei luoghi medesimi dov’erano stati apposti negl’anni 1285 e 1413 a seconda dei giudizj emanati allora dagli arbitri, i quali confinarono il territorio di Campiglia con quello di Suvereto, specialmente dalla parte Casalappi, di Montione, del Castel S. Lorenzo e di Vignale.
Jacopo III d’Appiano d’Aragona al pari dei principi suoi antecessori aveva il titolo di Conte di Piombino. Di ciò fornisce conferma una carta inedita del 21 aprile 1469 esistente nell’Arch. Dipl. Fior. tra quelle dell’ospedale di Bonifazio. È un mandato di procura fatto in Piombino da Jacopo III d’Aragona d’Appiano Conte di Piombino per riscuotere un credito da Pietro del fu Giuliano Vespucci cittadino fiorentino a cagione di un mutuo, e dell’utile che gli si perveniva per una quarta parte sopra una galeazza mercantile.
Ma Jacopo III intorno all’anno 16° del suo principato essendo stato colpito da un grave malore, nè la valentia di un celebre medico, Bartolo Tura, inviato dal Comune di Siena, bastando a risanarlo, nel dì 8 marzo del 1474 cedè all’umano destino col lasciare al suo figlio primogenito Jacopo IV la sovranità dello stato di Piombino, e agli altri figli congrui assegnamenti.
Jacopo IV d’Appiano d’Aragona signor di Piombino . – Questo principe benchè in tenera età, di eccellente indole e di ottime massime fornito, coll’assistenza e favore della Signoria di Siena e di Ferdinando re di Napoli prese le redini dello stato. Tosto egli ripristinò gli antichi statuti restituendo ai Piombinesi i privilegj concessi dal di lui avo e tolti dal di lui padre. I quali statuti di Piombino furono più tardi pubblicati in doppia lingua nel maggio del 1706 in detta città sotto i coniugi donna Isabella e don Gregorio Boncompagni Ludovisi. Infatti al capitolo I del Lib. IV, dove si ordina che i consoli de’marinari e della curia di mare del distretto di Piombino abbiano delle cose appartenenti alla marina solamente nelle cause civili, ogni giurisdizione come sin qui sono stati soliti avere secondo la forma degli statuti, e il breve delle dette curie approvati, e da approvarsi dal magnifico Signore Jacopo d’Appiano milite, e Conte, Signore di Piombino, ecc. ecc.
Nell’anno 1478 Jacopo IV si maritò a donna Vittoria figliuola di Antonio Piccolomini duca di Amalfi e di donna Maria d’Aragona figlia naturale dello stesso re Ferdinando.
Appena concluso cotesto illustre parentado, Jacopo IV ottenne un posto di ufiziale superiore nell’esercito che il re di Napoli e il Pontefice Sisto IV dopo la famosa congiura de’Pazzi inviarono contro i Fiorentini, e sebbene Jacopo IV si portasse valorosamente nella battaglia battagliata fra Colle e Poggibonsi egli vi restò prigione de’Fiorentini. Riscattato e tornato alla sua residenza Jacopo ebbe a soffrire non poche inquietudini per cagione delle allumiere di Montione, le quali insieme con la vicina tenuta di Valli dai vescovi di Massa se gli contrastava.
Uno di essi il vescovo Giovanni Ghianderoni, per istrumento del 30 agosto 1478, aveva ceduto alla Camera apostolica nelle mani del Pontefice Sisto IV mediante l’annuo censo di 400 ducati d’oro qualunque ragione e diritto sopra le tenute di Montione e Valli situate nel territorio di Piombino. Ma cotesto canone senza riscatto sembrando gravoso ad Innocenzio VIII, successore immediato di Sisto IV, egli con breve del 22 febbrajo 1484 volle liberare la Camera apostolica dal peso di pagare l’enunciata somma col rivolgerne l’aggravio sulla mensa vescovile di Massa che rindennizzò mediante l’ammensazione de’beni della badia de’Vallombrosani di S. Donato di Siena dopo la morte del suo abate commendatario.
Il Cesaretti, il quale nella sua Storia di Piombino riporta copia de’documenti sopra citati, soggiunge: che intanto i papi none cessavano di mandare delle scomuniche e di citare più volte Jacopo IV a comparire in Roma, ma tutto invano. Il signor di Piombino, continuando nel possesso delle due tenute, affittò le sue allumiere di Montione fino a tanto che nel 1490 mentre agitavasi la causa in ruota romana sul diritto di quelle miniere, fu convenuto fra le parti che per 12 anni il signor di Piombino mediante il pagamento di mille ducati da farsegli dalla Camera apostolica, si dovesse astenere dall’escavazione di quelle vene di allume, e di ogni altro minerale dentro il distretto di Valli e Montione.
Nel 1496 Jacopo IV prese servizio militare colla Rep. di Siena, e due anni dopo passò nell’esercito de’Fiorentini, allora in guerra coi Veneziani fautori di Piero de’Medici bandito dalla repubblica; nella qual circostanza l’Appiano venne con la sua compagnia di milizie a Firenze per quindi andare incontro ai nemici penetrati in Val di Lamone.
Crescevano sempre più sul finire del secolo XV i disordini e i pericoli per le guerre di Romagna, caduta quasi tutta in potere del duca Valentino figlio del Pontefice Alessandro VI, quando il duca stesso rivolgendo le sue armi verso la Toscana, chiese ai Fiorentini passo a vettovaglie per i luoghi del Comune senza esprimere qual cammino avesse a tenere. A tale inchiesta aderirono i magistrati intimoriti dalle fortunate imprese e dalla numerosa oste che conduceva il duca, comecchè eglino non lasciassero di ordinare quelle provvisioni che in mezzo a tanti disordini si potevano far maggiori. Dondechè nel maggio dell’anno 1501 vennero stabilite alcune convenzioni, fra le quali, che nessuna delle parti dovesse ajutare i nemici dell’altra, e che la Rep. fiorentina non si dovesse impacciare della guerra che il duca Valentino intendeva fare al signore di Piombino per quanto fosse della Rep. raccomandato. Il duca intanto marciava col suo esercito attraverso del Val d’Arno fiorentino passando da Prato, da Campi e da Signa, e di la per Empoli e Poggibonsi inoltrandosi in Val di Cecina, nel giorno 4 del mese di giugno susseguente entrò con il suo esercito nel territorio di Piombino, dove in pochi giorni prese Suvereto Scarlino, l’Isole dell’Elba e della Pianosa. In tal emergente Jacopo IV non veggendo riparo che bastasse a tanta piena e la sua residenza stessa in pericolo di cadere in mano del duca, dopo aver raccomandato il piccolo primogenito alla custodia di Antonio da Filicaja, nel 17 agosto s’imbarcò in Piombino per Livorno, e di là corse a gettarsi nelle braccia del re di Francia, affinchè col di lui favore nell’avito suo dominio egli fosse restituito.
Infatti per quanto dai Piombinesi stretti per ogni parte da una numerosa oste si usasse ogni possibile precauzione di difesa, pure trovandosi privi del loro signore e di un buon capitano, dovettero capitolare col duca Valentino ricevendo esso e le sue genti dentro le mura e consegnando loro le fortezze.
Frattanto il signor di Piombino dopo aver tentato inutilmente protezione e soccorso dal re di Francia, ebbe la notizia che il pontefice Alessandro VI navigando si era trasferito a Piombino per trionfare col figliuolo della sua vittoria, e che al duca aveva data l’investitura di quello stato sotto pretesto di alcune ragioni che fino dal secolo XI vi aveva la S. Sede apostolica, forse per causa del monastero di Falesia, piuttosto che per concessioni imperiali. Dopo tuttociò, l’Appiano si rivolse, ed ottenne nel 1502 dall’Imperatore Massimiliano I l’investitura per se e per i suoi eredi del principato di Piombino, dove fortunatamente nel settembre del 1503 egli ritornò.
Avvegnachè i Piombinesi, sentita la morte del Pontefice Alessandro VI (18 agosto 1503), ribellatisi al presidio, dei ministri del duca Valentino, nel 28 agosto di quello stesso anno con l’ajuto de’Fiorentini cacciarono dalla rocca e dalla loro città i soldati di quel tiranno ed i sui uffiziali.
Quantunque Jacopo IV avesse interpretato la protezione dell’Imperatore Massimiliano I, invocò ed ottenne anche quella del re Cattolico Filippo I per essere questo monarca succeduto nelle ragioni del re di Napoli. Pochi anni dopo (anno 1507) lo stesso re di Spagna con la regina sua consorte sbarcò in Piombino invitatovi dal suo signore, nella quale occasione Jacopo IV fu dichiarato generale delle armi di quel re, coll’affidargli il comando sopra 400 fanti Spagnuoli che gli erano stati inviati due anni innanzi per mettersi meglio in guardia dai Genovesi.
Finalmente con diploma degli 8 novembre 1509 dall’Imperatore Massimiliano I la signoria di Piombino fu dichiarata feudo imperiale con facoltà ad Jacopo IV e a tutti i suoi successori di poter coniare moneta d’oro e d’argento.
In questo stesso anno il gonfaloniere perpetuo di Firenze, Pier Soderini, inviò a Piombino il segretario fiorentino Niccolò Macchiavelli designato in mediatore dai Pisani per trattare la resa a Firenze della loro città. Il Macchiavelli infatti vi si recò nel marzo del 1509, ma fu facile a quel sommo politico l’accorgersi esser cotesto un artificioso pretesto dei Pisani per acquistar tempo e per giovarsi di tale dilazione a loro benefizio.
Ma nell’anno 1511 Jacopo IV di Appiano d’Aragona, grave d’anni essendo stato assalito dall’ultima sua malattia, ottenne dagli anziani e dal popolo di Piombino che innanzi di morire fosse riconosciuto formalmente Jacopo V suo figlio in successore al principato.
Jacopo V d’Appiano d’Aragona signor di Piombino. – Jacopo V maritatosi nel 1511 con donna Maria d’Aragona figlia del duca di Villa Formosa e nipote di Ferdinando il Cattolico, restò vedovo di lei nel 1514, e un solo anno gli visse la seconda moglie donna Emilia di Pietro Ridolfi, nipote del Pontefice Leone X. Che però sulla fine del 1515 egli contrasse matrimonio con Clarice Ridolfi sorella di donna Emilia; della quale egli rimase orbato nel luglio del 1524, per cui nel 1525 si sposò con la quarta moglie, che fu donna Elena figlia d’Jacopo Salviati nobile fiorentino, da cui ebbe successione. In questo frattempo Jacopo V (nel 1520) ottenne dall’Imperatore Carlo V l’investitura dello stato di Piombino con i medesimi privilegi che erano stati concessi a Jacopo IV di lui padre più quello di potere egli aggiungere l’aquila imperiale al suo stemma gentil izio.
Fino al 1539 le tenute di Valli e Montione restarono ammensate alla Camera apostolica, quando il Cardinale Alessandro Farnese, ottenuta l’amministrazione perpetua della chiesa vescovile di Massa, domandò al Pontefice Paolo III suo zio la restituzione delle tenute suddette spettanti alla mensa di S. Carbone, inchiesta che venne graziata con motuproprio pontificio; per altro a cotesto breve si oppose il signor di Piombino, in guisa che il Cardinale Farnese ebbe a implorare il braccio secolare, sebbene inutilmente, per entrarne al possesso, mentre Jacopo V non solo reclamò l’alato dominio dell’Imperatore, ma impegnò in quest’affare Cosimo de’Medici duca di Firenze, col quale aveva di fresco contrattato il fitto delle allumiere di Montione.
Contuttociò l’esortazioni dei ministri imperiali, e l’appoggio che davano i Sanesi ai diritti della città di Massa, determinarono il duca Cosimo a sospendere le escavazioni di già incominciate. – Siccome poi i maneggi politici fra la Francia e la Porta facevano temere un imminente disastro all’Italia, Carlo V ordinò a un suo generale che egli insieme col duca di Firenze ponesse il littorale toscano in stato di più sicura difesa, nella quale occasione al duca Cosimo fu affidato l’incarico di guardare Piombino e tutta quella costa.
Precorreva già la voce dell’imminente partenza dal Levante verso la Toscana di una flotta turca comandata dal feroce ed abile pascià Barbarossa, quando il duca di Firenze ordinò che si riunissero in Campiglia le bande di quel circondario, oltre un distaccamento di truppe di linea ch’aveva spedito colà sotto il comando del capitano Otto da Montauto. Allora Jacopo V dubitando che col pretesto di soccorrere il suo Piombino, Cosimo de’Medici tentasse di farsene padrone, si rifiutò di accogliere alcun presidio ducale, finchè l’imminente pericolo della comparsa de’Turchi non gli fece cambiar consiglio. Furono allora introdotte in Piombino le truppe medicee, le quali tosto occuparonsi nell’accrescere e migliorare le fortificazioni; sennonchè l’opera venne interrotta dallo spavento che risvegliò l’imminente comparsa della flotta turca.
Fortunatamente il vento contrario avendo a quella impedito l’ingresso nel canale di Piombino, il pascià Barbarossa spedì a domandare all’Appiano il figlio di Sinam bassà, denominato il Giudeo, fanciullo assai favorito d’Jacopo V che lo aveva fatto istruire nella religione cattolica e battezzato, e che una galeotta piombinese nel 1539 aveva preso sopra un legno tunisino.
Al Barbarossa fu replicato, che non essendo in Piombino il giovinetto da lui ricercato, non si potevano appagare i suoi desiderj, ma che in ogni altra cosa si sarebbero usate tutte le cortesie. Udito ciò, il Barbarossa diresse la sua numerosa flotta sulla vicina Isola dell’Elba per rilasciare all’arbitrio di un brutale equipaggio e di un’indomita soldatesca turca ogni libertà di fare sopra quegl’isolani severa vendetta. – Vedere ISOLA DELL’ELBA.
Avendo poi il Barbarossa indirizzato il suo corso marittimo verso la Corsica e di là in Provenza, si potè dal duca di Firenze più tranquillamente progredire nelle fortificazioni di Piombino, dove lasciò il capitano Otto da Montauto con un presidio di circa 300 soldati.
Quindi il pascià turco dopo un anno, all’occasione di ritornare in Turchia, veleggiò verso l’Isola dell’Elba e giunto al Ferrajo spedì un naviglio a Piombino per chiedere a quel signore il fanciullo del Giudeo corsaro, in cambio del quale il Barbarossa esibiva la liberazione di tutti i Cristiani dello stato di Piombino che egli teneva schiavi. Convenuti di tale riscatto, s’inviarono dal pascià 12 galere turche a Piombino per ricevere il giovinetto prediletto, il quale appena messo il piè sopra la galera del comandante fu abbracciato da tutto l’equipaggio e salutato da una salva generale di artiglieria, da urli e da acclamazioni smodate che dal mare sino in terra intronavano. Dopo tale tripudio l’Armata turca salpando alla volta di Levante, lasciò in pace i Piombinesi e le Maremme toscane.
Liberato in tal guisa lo stato degli Appiani dal Barbarossa, il duca di Firenze fece chiedere all’Imperatore Carlo V la consegna libera di Piombino, sia per i servigj resi, sia perchè non vi era sito più opportuno di quello alle flotte delle potenze nemiche, le quali nutrissero brama di conquistare il regno di Napoli o la Toscana. Mosso dalle reiterate istanze di Cosimo de’Medici, l’Imperatore nel 1545 incaricò il suo generale Giovanni di Luna di trattare con l’Appiano della cessione e ricompensa del suo stato.
In questo frattempo però Jacopo V essendo caduto gravemente ammalato, il generale spagnuolo volle assicurarsi dello stato degli Appiani, che appena morto Jacopo V egli occupò in nome dell’Imperatore per conservarlo al principe pupillo nato ad Jacopo suddetto da donna Elena Salviati sua quarta ed ultima moglie.
Jacopo VI d’Appiano signor di Piombino. – Col suo testamento Jacopo V aveva destinato per tutori del principe pupillo l’Imperatore, il marchese del Vasto Giovanni de Vega, il cardinal Salviati, donna Elena di lui madre, Bustamante domestico del Vega e il medico Calefati, dichiarando in quello essere sua ultima volontà, che si debba tener per valido tutto ciò che la vedova d’Jacopo V fosse per deliberare con il consenso di due tutori fra i sopranominati.
Il duca Cosimo però,che vedeva troppa indifferenza nel generale spagnuolo rispetto alla promessa cessione di Piombino, non omise di rappresentare a Carlo V quali pericoli cotesta sorta di politica poteva far insorgere contro la quiete dell’Italia e la sicurezza della Toscana, tanto più che Bustamante e Calefati, i due tutori arbitri della vedova d’Jacopo V, erano incapaci a dirigere quella signora nel governo e nella difesa di uno stato. Nè minore ostacolo facevano alla tranquillità del paese Girolamo e Ferrante d’Appiano, il primo fratello naturale, e l’altro cugino d’Jacopo VI, stati esclusi entrambi dalla tutela come due banditi dallo stato di Piombino per aver congiurato contro la vita d’Jacopo V.
Sembra che simili riflessi determinassero l’Imperatore a ordinare al suo generale Giovanni de Luna di prendere possesso formale dello stato di Piombino, potendo in ogni caso giovarsi delle soldatesche del duca di Firenze. In conseguenza di ciò il de Luna si concertò con Cosimo per far avanzare verso Campiglia le bande del suo dominio ad oggetto di fiancheggiare la guarnigione spagnuola che doveva introdursi nelle fortezze di Piombino e di tutto lo stato.
Trovata la madre d’Jacopo VI, Elena Salviati, renitente a ciò fu interposto per l’opera di Cosimo il cardinal Salviati, affinchè quella signora accettasse, siccome accettò, in Piombino le truppe spagnuole, per cui l’Imperatore mostrò di essere grato a cotest’atto di obbedienza.
Frattanto Cosimo de’Medici vedeva con dolore che, dopo le speranze fattegli concepire sopra il possesso di Piombino, si andava procrastinando nell’effetto, nel tempo che continuamente si esigevano da lui sacrifizi pecuniarj per il mantenimento del presidio spagnuolo e delle fortificazioni di quello stato. Ma Carlo V essendosi impegnato in una lunga guerra contro i Protestanti, sfornito, com’era, di denari per mantenere numerosi eserciti, spedì nel settembre del 1546 a Firenze un suo legato con obbligazione autografa, per la quale S. M. I.
prometteva al duca Cosimo, dietro l’imprestito di 200,000 scudi, di dargli l’investitura e il possesso di Piombino dentro il termine di nove mesi. Il duca corrispose esattamente all’imprestito richiesto, sicchè nel mese di giugno del 1547 cadeva l’epoca prescritta alla promessa della investitura e possesso di Piombino: ma scorsero tre altri mesi senza che Carlo V avesse ordinato alcuna cosa atta a dimostrare qual fosse la sua volontà verso il duca di Firenze, contuttochè questi non mancasse di esporre le sue lagnanze all’Imperatore.
Fu allora dalla corte di Spagna a Diego di Mendozza ordinato di trattare a nome di S. M. I. con la vedova signora di Piombino, affinchè si contentasse della permuta di quello stato, e dichiarasse il suo desiderio rispetto alla ricompensa da stabilirsi. Trovò il Mendozza nella vedova d’Jacopo V ogni renitenza possibile per aderire ad un simil partito; ma l’inesistenza del duca alla corte di Madrid prevalendo alla repugnanza della signora di Piombino, dovè il Mendozza far l’ultimo tentativo sull’animo fermo di donna Elena, quando le assegnò un termine di 20 giorni a depositare mediante sicurità la somma di 150,000 ducati da impiegarsi nelle fortificazioni di Piombino, dell’Isola dell’Elba, ecc. oltre a dover essa pagare i debiti lasciati da Jacopo V: dichiarandole nel tempo stesso che, non soddisfacendo essa agli ordini prescritti, doveva manifestare esplicitamente la sua intenzione circa la qualità della ricompensa da stabilirsi in cambio dello stato piombinese.
Nel tempo stesso fu dato un ordine a Diego de Luna castellano e comandante di Piombino, affinchè egli, scaduto il termine dei venti giorni, facesse sloggiare la signora Elena dalla sua residenza di Cittadella ed accrescesse la guarnigione di Piombino con altri soldati che Cosimo avrebbe inviati dalla vicina Campiglia.
Frattanto la vedova d’Jacopo V avendo trovato a Genova e a Siena tante cauzioni sufficienti al deposito prescritto, protestò davanti ai ministri spagnuoli che essa non avrebbe abbandonato il suo stato se pur non ne fosse strascinata via per forza. Cotesta pertinace resistenza sconcertava le vedute del duca di Firenze, che non cessava di mostrare alla corte di Madrid, qualmente le cauzioni offerte non rendevano la signora di Piombino più potente alla difesa del suo stato, e che l’Imperatore non poteva più stabilire sul feudo medesimo nuove ipoteche. – Nel tempo che i Francesi accrescevano i loro armamenti nella Provenza, si scuoprirono le corrispondenze della signora Elena con il loro governo, sicchè i ministri proposero a Carlo V che, essendovi pericolo nell’aspettare il resultato dell’affare, si poteva intanto incaricare il duca Cosimo della difesa dell’Elba, siccome egli nel passaggio del Barbarossa ne aveva dato prove rispetto a Piombino; dondechè a lui fosse commessa l’impresa delle fortificazioni del Ferrajo, sito ragguardevole ed il più opportuno per difendere non solo quell’Isola ma ancora Piombino.
Approvata alla corte di Spagna tale proposta, Cosimo nell’aprile del 1548 inviò a Porto Ferrajo un migliajo di soldati di fanteria con 300 guastatori, i quali sotto la direzione dell’architetto Gio. Battista Bellucci da Sanmarino incominciarono a eseguire i lavori di fortificazioni in quel porto dove si recò il duca stesso per incoraggiare con la sua presenza e sollocitare l’impresa.
Finalmente con diploma imperiale del 4 maggio 1548 Cosimo I ricevè in feudo lo stato di Piombino, quindi in nome di Carlo V il duca di Firenze fu investito da Diego di Mendozza, non ostante le proteste fatte dalla vedova d’Jacopo V; sicchè nel 22 giugno susseguente fu consegnata agl’incaricati di Cosimo I la Terra di Piombino con le fortezze e l’intiero dis tretto, previa la promessa di restituire il tutto ad ogni richiesta di S. M. I.
qualora degl’imprestiti fatti, come pure delle spese per fortificare e custodire quello stato, il duca Cosimo venisse soddisfatto. In conseguenza di tale atto fu spedito con truppe da Firenze il capitano Luc’Antonio Cappano a presidiare Piombino e sue appartenenze, designando Girolamo degli Albizzi in governatore politico e civile. – La vedova d’Jacopo V appena arrivata a Genova, dove si ritirò, spedì alla corte di Spagna il fig lio Jacopo VI già prossimo alla maggior età, affinchè assistito dall’opera dei Genovesi e da quella del confessore di Carlo V con la sua presenza potesse inspirare nell’animo dell’Imperatore il pentimento di aver ordinato un atto contrario alla giustizia. Infatti vi riuscì, e Carlo V non tardò a comandare al suo ministro Mendozza di farsi restituire immediatamente dal duca Cosimo lo stato e fortezze del Piombinese, esprimendo al medesimo, che nel mettere il duca Cosimo in possesso di quella signoria egli aveva ecceduto nei poteri. Una così repentina mutazione colpì fortemente l’animo di Cosimo I, cui riescì inutile il rammentare i servigj, la fedeltà, la devozione sua a Cesare, non che il vistoso di lui credito ascendente alla somma di circa 400,000 ducati; ma tutto fu vano, sicchè nel 24 luglio del 1548 Cosimo dovè riconsegnare al Mendozza la piazza col distretto di Piombino, a riserva però delle fortificazioni del Ferrajo e dell’entrate del ferro di quell’Isola state a lui affittate; premessa l’obbligazione del duca di restituirle ad ogni ordine dell’Imperatore purchè questo fosse accompagnato dal rimborso dell’imprestito e delle spese.
Continuarono le truppe spagnuole a ritener Piombino, a titolo di deposito fintantochè non fu concertato con Jacopo VI una ricompensa a Cosimo equivalente agl’imprestiti e spese fatte. Ma siccome i ministri della corte imperiale si accorgevano che nè l’Appiano, nè Carlo V erano al caso di restituire a Cosimo la somma per lo stato piombinese sborsata; fu risoluto di sospenderne per qualche tempo il trattato. – Di cotale accidente tentarono di profittare i Genovesi con esibire all’Imperatore il denaro dovuto al duca di Firenze e farne l’opportuno deposito onde rimettere il signore d’Appiano nel possesso del suo stato; ma l’offerte vennero rigettate per non togliere al duca le speranze, e per non alienarlo dal partito imperiale, tanto più che correvano allora tempi nei quali la Francia era in guerra con la Spagna e l’Italia da pericolose discordie trovavasi agitata.
Giunto infatti l’anno 1552 mentre i Francesi trionfavano sopra gli Spagnuoli, il duca d’Alva, ministro non meno per valore che per politica abilissimo, fece comprendere a Carlo V esser necessaria maggiore attività e più confidenza negli amici, fra i quali egli designò il duca di Firenze, come quello a cui nelle pendenti turbolenze de’Sanesi, era prudenza dar qualche soddisfazione specialmente nell’affare di Piombino, allora appunto ch’era mancata la vedova d’Jacopo V d’Appiano.
Fu perciò dato ordine al Mendozza, che non potendo egli con le sue truppe dalla flotta turca e da quella del principe di Salerno difendere bastantemente Piombino ed il suo stato, nè mettesse immediatamente al possesso Cosimo a titolo di deposito e di custodia in nome di S. M. I. con l’obbligo di restituirlo ad ogni richiesta. Quindi nel dì 12 agosto di detto anno Signorotto da Montauto generale dello stesso duca di Firenze prese formale possesso di Piombino, Populonia, Scarlino, Suvereto e Buriano in terraferma, di Rio, Capoliveri, Marciana, Poggio ed annessi, oltre il suo Cosmopoli (Portoferrajo) nell’Isola dell’Elba. Per l’acquisto del quale stato sotto di 18 maggio 1553 Cosimo I sborsò altri 16000 ducati d’oro in mano degl’incaricati di Carlo V.
Terminata la guerra di Siena e la consegna di quella città col suo territorio a Cosimo I, questo principe in vigore del trattato di Londra del 29 maggio 1557 fu obbligato di cedere lo stato di Piombino agl’Imperiali per restituirsi agl’Appiani, eccettuato però il paese di Portoferrajo con due miglia circa di circuito intorno, il quale fu rilasciato liberamente al duca di Firenze. – Vedere PORTOFERRAJO.
Infatti nel dì 1 Di agosto del 1559 Girolamo d’Appiano figlio naturale d’Jacopo V prese il possesso di Piombino e del suo stato per Jacopo VI d’Aragona di lui signore, sicchè questi nell’ottobre successivo con giubbilo dei Piombinesi ritornò alla residenza de’suoi antenati. Due anni dopo lo stesso Jacopo VI ottenne dall’Imperatore Ferdinando I, oltre la conferma dell’investitura del feudo, la legittimazione del suo figlio Alessandro, abilitandolo esso ed i suoi figliuoli di poter succedere al padre e all’avo nella signoria di Piombino. – Nell’anno stesso 1562, a dì 4 maggio, Jacopo VI ratificò a favore dei Piombinesi le capitolazioni sino dal febbrajo del 1451 state loro da Emmanuelle I accordate. – Nel 15 maggio dell’anno 1564 Jacopo VI fu eletto dal duca di Firenze generale delle sue armate che guardavano la costa marittima; quindi con decreto del 10 novembre 1573 lo stesso Jacopo VI per favorire gli uomini di Cavinana della montagna di Pistoja che fossero venuti, o che abitassero nello stato di Piombino, concedè alcuni privilegj in benemerenza di avere egli qualche tempo abitato una sua tenuta posta in quell’Appennino. Quindi Jacopo VI dichiarò il figlio suo luogotenente nel governo di Piombino e di tutto lo stato, finchè Alessandro d’Appiano alla morte del di lui padre fu riconosciuto solennemente in signore dai suoi vassalli, in nome dei quali il consiglio e gli anziani prestarono il dovuto giuramento di fedeltà al loro novello padrone.
Alessandro I d’Appiano signore di Piombino. – Non era appena salito sul trono paterno quando Alessandro incominciò a rendersi con il suo modo di operare intollerabile ai vassalli sino al punto da essere trucidato.
La qual tragedia avvenne nel 28 settembre del 1589 per opera di molti congiurati delle principali famiglie di Piombino. Il comandante spagnuolo e donna Isabella figlia di Pietro di Mendozza, moglie del signore estinto, non presero, dice il Litta, le opportune misure contro gli assassini del morto feudatario, nel tempo stesso che gli anziani, il consiglio ed il popolo di Piombino dichiaravansi sciolti dal giuramento di fedeltà verso gli Appiani e in libertà di eleggersi un altro signore. Furono allora proposti in nuovi sovrani il Granduca di Toscana e la Rep. di Venezia, ma prevalse il partito de’congiurati che risolvè di offerire al comandante della guarnigione spagnuola la sovranità di Piombino. Questi però l’accettò in nome di Filippo II re di Spagna, mentre il Grunduca Ferdinando I procurava che la vedova e i figli dell’ucciso Alessandro fossero salvati dal furore de’congiurati, e che i popoli dell’Elba e quelli di terraferma limitrofi al suo stato si mantenessero fedeli al pupillo Jacopo. – Cosimo d’Appiano, al quale spettava di ragione la successione dello stato piombinese. Finalmente lo stesso Granduca reclamò alla corte di Spagna e al vicerè di Napoli contro cotanto ingiusto procedere; al qual effetto Alfonso d’Appiano recossi con un giureconsulto a Madrid per domandare il possesso della eredità paterna in favore del figlio di Alessandro d’Appiano. Dopo tali pratiche furono inviati 800 soldati spagnuoli, ed altri rinforzi si spedirono dai RR. presidj di Orbetello, mossi piuttosto a difendere quel feudo dall’invasione del Granduca di Toscana che ad operare d’accordo con esso. Si sfilarono infatti quelle truppe alle frontiere del Granducato; si scacciarono da Rio le genti di Ferdinando I, si prese possesso di quelle miniere di ferro, degl’istrumenti e della cassa dei denari che appartenevano al Granduca di Toscana in vigore di appalto precedentemente stabilito coll’ucciso signor di Piombino. Ma il Granduca Ferdinando I, tollerando con prudenza le insolenze degli Spagnuoli, si limitò a far intendere al re Cattolico le sue giuste lagnanze.
Finalmente nel gennajo del 1591 vennero arrestati in Piombino molti complici di quell’assassinio, e nel dì 6 aprile del 1591 Diego Ferrara, dopo essersi provvisto di una procura del vicerè di Napoli, partì da Genova incaricato da donna Isabella vedova di Alessandro d’Appiano per ricevere dal governatore spagnuolo la consegna di Piombino e dello stato, siccome avvenne, a nome del pupillo Jacopo Cosimo, che prese il nome d’Jacopo VII.
Jacopo VII d’Appiano primo principe di Piombino. – Succeduto Jacopo VII nella signoria ancor pupillo sotto la tutela di Alfonso d’Appiano di Aragona di lui zio, tre anni dopo (anno 1594) egli ottenne dall’Imperatore Ridolfo II oltre l’infeudazione di Piombino l’erezione del suo stato in principato.
Ma egli ebbe troppo corta vita per goderlo, essendo mancato senza successione (anno 1600) nella fresca età di 22 anni.
PIOMBINO SOTTO I PRINCIPI LUDOVISI BONCOMPAGNI Estinta la linea sovrana degli Appiani insorsero varie controversie per la moltiplicità de’pretendenti, tra i quali don Belisario, don Annibale e don Orazio fratelli e figli di Carlo Sforza d’Appiano discendente d’Jacopo III da una, e dall’altra parte donna Isabella d’Appiano già contessa di Binasco, poi duchessa di Bracciano sorella d’Jacopo VII, oltre altri pretendenti i quali tutti attendevano che l’Imperatore Ferdinando II, a cui era stata rimessa la causa, vi provvedesse.
Ma Ferdinando II, dopo ave e con decreto della camera aulica del 29 ottobre 1624 dichiarata l’investitura del feudo di Piombino in favore di tre sunnominati figli di Carlo Sforza d’Appiano; il di cui ceppo esiste tuttora in Piacenza, obbligandoli a prendere la sottoinvestitura del re di Spagna col pagare a titolo di laudemio 800,000 fiorini del Reno alla camera imperiale, non trovandosi i nuovi investiti in grado di sborsare quella vistosa moneta, dopochè con motuproprio del 2 maggio 1633 gli fu prolungato il termine del pagamento prefisso al dì primo agosto dello stesso anno, e poscia al mese di febbrajo successivo in vigore di altri decreti del 5 e 12 dicembre 1633; finalmente l’Imperatore dichiarò i tre fratelli d’Appiano decaduti da ogni diritto a detto feudo, quando con decreto del 24 marzo 1634, dato in Napoli nel palazzo reale gli ambasciatori straordinari dell’Imperatore Ferdinando II e di Filippo IV re di Spagna fu investito del feudo di Piombino don Niccolò Ludovisi principe di Verona ivi presente e accettante per se e per i suoi figli ed eredi tanto maschi quanto femmine, con l’obbligo di pagare in due tempi determinati alla came ra aulica un milione di fiorini del Reno. – (RIFORMAG. DI FIR.
Carte della Com. di Piombino.) Dopo tutto ciò il principe don Niccolò Ludovisi nel 20 maggio dello stesso anno 1634 fece prendere formale possesso di Piombino e degli altri paesi di quello stato.
Al principe don Niccolò succedè nel 1675 il suo unico figlio Gio. Battista Ludovisi che fu padre di don Niccolò Maria lasciato successore di lui nel 1679, ma che morì in età pupillare. Eredi di don Niccolò Maria furono due sorelle, donna Olimpia e donna Ippolita, nipoti del Pontefice Gregorio XV; la prima, che ottenne nel 1700 dalla Spagna l’investitura, lasciò l’anno dopo con la vita lo stato all’altra sorella donna Ippolita, che si maritò al principe don Gregorio Boncompagni di Roma. Cotesti coniugi, per mezzo del loro governatore generale don Giuseppe Berart, presero possesso del principato di Piombino nel 17 gennajo del 1701, e nel 18 febbrajo del 1706 i principi stessi fecero solenne ingresso nella loro città, dove nel 19 maggio dello stesso anno confermarono i statuti civili e criminali di quella popolazione pubblicati in Piombino. Nel febbrajo del 1707 mancò ai vivi don Gregorio Boncompagni, e nel marzo del 1734 terminò la sua mortal carriera la principessa Ippolita vedova di lui.
Quindi nel dicembre del 1734 donna Maria Eleonora figlia unica del principe don Gregorio Boncompagni e Ippolita Ludovisi, come erede dello stato materno, dopo ottenuta dal Pontefice per dispensa (30 marzo 1705) si maritò al suo zio don Antonio Boncompagni, ed ottenne dal re di Spagna Filippo V l’investitura del feudo di Piombino da poterlo tramandare ai figli e successori di quei due coniugi.
Infatti, mancati i suddetti principi successe nel trono di Piombino D. Gaetano Boncompagni-Ludovisi loro figlio ed erede, il quale ne ricevè la regale investitura nel 13 gennajo dell’anno 1745. Quindi nel 27 maggio del 1777 al principe don Gaetano succedè il figlio suo don Antonio.
L’ultimo di questi dinasti fu il principe don Luigi nato al prenominato D. Antonio Boncompagni-Ludovisi da donna Vittoria Sforza -Cesarini nel 22 aprile del 1767. – Esso venne spogliato dai Francesi dello stato avito, dopo aver la sua dinastia governato mediante due ministri, uno di giustizia e l’altro di finanze, mentre per il militare i Piombinesi dipendevano dal comandante di una guarnigione napoletana compresa sotto il comandante de’RR. Presidj residente in Porto Longone all’Isola dell’Elba.
INVASIONE DE’FRANCESI, ED ULTIMO DESTINO DELLO STATO DI PIOMBINO Fu nell’estate del 1801 che i Francesi impadronironsi del piombinese dominio prima in terraferma, poi nell’Isola dell’Elba, e che invece d’incorporarlo al nuovo Regno d’Etruria, come col trattato di Luneville (9 febbrajo 1801) si prometteva, lo aggregarono al loro Impero, finchè quattr’anni dopo per decreto del 16 agosto del 1805, l’Imperatore Napoleone diede Piombino con il restante del suo stato nel continente a Elisa di lui sorella, moglie di Felice Baciocchi, i quali coniugi poco dopo, mediante il trattato di Bologna del 23 giugno 1805, furono nominati Principi anco di Lucca. Alla caduta di Napoleone il principe don Luigi Boncompagni-Ludovisi reclamò al congresso di Vienna la rapitagli sovranità di Piombino; in guisa che, se coll’articolo cento di quel trattato fu convenuto che il suo principato venisse incorporato per intiero al Granducato di Toscana, vi fu anco la condizione che il principe Boncompagni dovesse ricevere dal Granduca una compensazione per i suoi beni allodiali e per le miniere dell’Isola dell’Elba; lo che ebbe effetto mercé di una convenzione speciale terminata nel 1815 sotto la garanzia imperiale.
Dopo tuttociò il Granduca di Toscana Ferdinando III incaricò il Cav. Federigo Capei a prendere formale possesso dello stato di Piombino col fare di questa piccola città la residenza di un vicario regio, la cui giurisdizione civile e criminale non oltrepassa il perimetro territoriale della sua comunità. Il distretto però di Piombino continuò a far parte come in antico del Compartimento di Pisa fino a che con motuproprio granducale del 3 dicembre 1836 esso fu aggregato al Compartimento di Grosseto.
Finalmente con la legge del 20 luglio 1840 il Granduca LEOPOLDO II abolì e prosciolse a comodo de’possessori terrieri le servitù civiche di pascolo e di legnatico, fino allora esistite nel principato di Piombino, con obbligo ai possidenti di remunerare la Comunità del prezzo di affrancazione.
Chiese e Stabilimenti pii . – La chiesa parrocchiale di S.
Lorenzo a Piombino, già filiale, come dissi, dell’abazia di S. Giustiniano a Falesia, esisteva nella parte meridionale della città, ma essendo troppo angusta alla cresciuta popolazione, nel secolo XIII fu traslatata col titolo medesimo e col battistero nella chiesa di S. Antimo situata nella via del Campo de’Fiori. – Quindi con deliberazione del 22 ottobre 1441 gli anziani ed il consiglio del comune di Piombino elessero in operajo per il restauro del campanile della pieve di S. Lorenzo e di S.
Antimo il pievano della stessa chiesa, prete Cerbone Vinatuzzi, il quale già fino d’allora era stato dichiarato abate titolare della soppressa abazia di S. Quirico col percipere le rendite livellarie dei beni di quella badiola di Benedettini posta nel promontorio fra Piombino e Populonia. La qual badia non è da confondersi con l’altra di S. Giustiniano e S. Bartolommeo di Falesia stata riunita dal Pontefice Alessandro IV, prima alle monache Clarisse, poi dal Pontefice Sisto IV ai Frati Conventuali di S. Francesco, il cui convento era fuori di Piombino. – (Vedere qui appresso: Ch. di S. Francesco.) La pieve di S. Lorenzo in S. Antimo nel 1807 fu trasportata nella chiesa più vasta di S. Michele di Piombino, altrimenti detta di S. Agostino per essere stata abitata da religiosi Agostiniani Romitani fino alla loro soppressione accaduta nella primavera del 1806.
Chiesa di S. Francesco e suo convento soppresso . – L’istituzione del convento de’Frati Minori di S. Francesco in Piombino risale al principio del secolo XIII. Essi ebbero il primo domicilio fuori delle mura di Piombino nel distrutto borgo di S. Francesco. Al tempo dell’assedio di Piombino (anno 1448) fatto dalle truppe napoletane condotte nelle Maremme toscane dal re Alfonso d’Aragona, questo convento fu reso in gran parte inabitabile. Dondechè quei religiosi qualche anno dopo supplicarono il Pontefice Niccolò V, per poter alienare de’beni lasciati alla loro chiesa da alcuni abitanti di Piombino ad oggetto di restaurare quel convento reso inabitabile per effetto delle passate guerre. In vista di ciò Niccolò V con breve spedito da Roma li 11 marzo 1453 ordinò al vicario del vescovo di Massa di verificare l’esposto, e trovatolo concorde di accordare ai Frati Minori di Piombino facoltà di vendere i beni designati per il risarcimento della chiesa di S. Francesco e dell’annessa clausura posta fuori di Piombino. – (ARCH. DELLE RIFORMAGIONI DI FIR. Carte di Piombino).
Ma da una bolla del Pontefice Sisto IV data in Roma li 27 marzo 1480 apparisce, che il convento di quei Frati fuori di Piombino era tuttora poco abitabile per essere stato, dice la bolla, quasi distrutto nelle passate guerre. Per la qual cosa il pontefice Sisto IV revocando ed annullando le lettere pontificie anteriormente concesse ad istanza di Marco de’Cattani pievano di Piombino e d’Jacopo IV d’Appiano suo signore, in virtù delle quali egli aveva incorporato alla pieve de’SS. Lorenzo e Antimo i beni tutti, rendite, diritti e perfino il titolo abbaziale del monastero delle Clarisse di S. Maria e di S. Bartolommeo di Falesia a favore del pievano, vuole invece che quei beni e ragioni vengano consegnati e incorporati al convento dai Frati Minori posto fuori delle mura di Piombino, ordinando a quei Frati di recarsi ad abitare nell’antico monastero delle monache Clarisse di Falesia situato pur esso fuori della porta di Piombino vicino al loro di S. Francesco stato dalle guerre malmenato.
Infatti i Minori Francescani per atto pubblico del 15 settembre 1482, rogato nella chiesa delle monache Clarisse di Piombino sotto il titolo di S. Maria e S.
Bartolommeo di Falesia, presero formale possesso di questo monastero e dei suoi beni conforme al disposto della bolla testè rammentata. Dondechè d’allora in poi i Frati Conventuali di Piombino portarono nella chiesa e monastero di S. Maria il titolo del loro serafico fondatore; sebbene nei secoli posteriori quei religiosi edificassero una nuova clausura con la chiesa di S. Francesco dentro la città di Piombino davanti alla piazza d’arme. Il quale convento e chiesa furono soppressi e profanati nell’aprile del 1806, e quindi uno e l’altra ridotti a usi diversi.
Monastero di S. Maria delle Clarisse di Piombino ceduto ai Frati Minori. – L’istoria delle prime monache Clarisse di Piombino soppresse nel 1480 dal Pontefice Sisto IV è stata confusa con quella del monastero dello stesso ordine esistito in Massa. Certo è che un monastero di Clarisse sotto il titolo di S. Maria esisteva in Piombino fino dal secolo XIII, siccome lo danno a conoscere due bolle del Pontefice Alessandro IV, una delle quali diretta dal Laterano li 5 aprile del 1256 alla badessa e monache di S.
Maria dell’ordine di S. Damiano, che prese sotto la protezione della S. Sede insieme con i suoi beni, e ciò in conferma di quanto era stato concesso dal Pontefice Innocenzio IV e da Ildebrando vescovo di Massa, i quali esentarono quelle monache da qualunque sottomissione e diritto del diocesano con il solo onere di dover inviare alla cattedrale di Massa una libbra di cera nella vigilia della festa di S. Cerbone. – Con altra bolla poi del dì 11 dicembre 1257 lo stesso Pontefice Alessandro IV confermò alla badessa e monache di S. Maria l’unione fatta da Rogerio vescovo di Massa al loro monastero di quello soppresso de’SS. Giustiniano e Bartolommeo di Falesia per essere stato quest’ultimo abbandonato l’anno innanzi dall’abate e dai suoi monaci. – (ARCH. DELLE RIFORMAGIONI DI FIR. Carte della Comunità di Piombino).
Quindi poco a proposito degli Articoli ABAZIA DI FALESIA E MASSA MARITIMA applicai i documenti qui sopra citati al monastero delle Clarisse di Massa invece che a questo di Piombino, cui mi autorizzano a restituirli le considerazioni seguenti: 1. Un ordine del 17 ottobre 1303 dato nella chiesa di S. Maria in Monterotondo di Fra Bindo de’Frati Minori visitatore de’monasteri di S. Chiara in Toscana, autorizzato in ciò dal cardinale Matteo Rossi del titolo di S. Maria in Portico, quando egli diede facoltà a donna Cecilia badessa del monastero di S. Maria di Piombino di alienare alcuni beni posti in Monterotondo; 2. La notizia che il monastero dell’ordine di S. Chiara fuori di Piombino era sotto l’invocazione di S. Maria e di S. Bartolommeo di Falesia; 3. Che dopo l’unione della badia di Falesia al monastero delle Clarisse di Piombino quelle badesse pretesero di subentrare nella giurisdizione Nullius degli abati di Falesia, in guisa che sul declinare del secolo XIV insorsero serie dispute coi vescovi di Massa, terminate con lodo proferito li 12 luglio del 1391 da fra Enrico arbitro eletto da Pietro vescovo e principe di Massa e Populonia da una parte, e da suor Filippa del fù Neri di Piombino abbadessa del monastero e monache di S. Maria e de’SS. Giustiniano e Bartolommeo di Falesia; 4. Perchè alla soppressione del monastero di S. Maria in Piombino ordinata da Sisto IV nel 27 marzo del 1480, sottentrarono nello stesso locale i frati Conventuali sotto il titolo di S.
Francesco investiti con la stessa bolla dei beni e diritti appartenuti a quelle monache Clarisse ridotte allora a tre sole corali compresa suor Gabbriella loro badessa; per la qual cosa i prenominati Francescani divennero possessori delle tre bandite dell’Asca, del Gigante e del Falcone di proprietà in origine dei monaci di Falesia; 5. Finalmente perchè i frati Conventuali di Piombino, come successori dei monaci Benedettini di Falesia, ottennero la precedenza nelle processioni dai Frati Agostiniani entrambi dai Principi Baciocchi soppressi con decreto del 4 aprile 1806.
Chiesa di S. Michele e Convento de’Frati Agostiniani soppresso . – La prima chiesa di S. Michele in Piombino è più antica del 1374, epoca della sua riedificazione sotto il governo del Gambacorti, siccome apparisce dall’iscrizione esistente nella sua facciata. Avvegnachè essa è rammentata in un testamento dell’11 settembre 1288 (stile comune) col quale un tal Andrea del fu Tancredi fabbro di Piombino lasciò un legato a favore della chiesa di S. Michele di detta Terra.
In essa chiesa chiamata comunemente di S. Agostino, dove esistono varj depositi sepolcrali degli Appiani, dopo la soppressione degli Agostiniani Romitani (anno 1806), stante la sua grandezza maggiore, fu trasportata quella dell’arcipretura di Piombino insieme ai titoli e onori della vecchia di S. Antimo e di S. Lorenzo, nella quale circostanza essa fu abbellita e adornata a spese della Principessa Elisa.
Monastero di S. Anastasia delle Clarisse soppresso . – I Piombinesi da tempo assai remoto venerarono fra i santi patroni la Vergine S. Anastasia, cui era dedicata una vetusta chiesa. La quale essendo caduta in rovina gli anziani ed il consiglio del Comune di Piombino nel 3 gennajo del 1518 decretarono doversi rifabbricare valendosi per tale opera delle rendite della bandita chiamata dell’Asca o delle Monache per restituirsi dopo compito l’edifizio ai Frati Conventuali, cui apparteneva.
Appena eretta la chiesa di S. Anastasia, si volle fondare un monastero contiguo per includervi un buon numero di monache dell’ordine di S. Chiara. Al quale effetto dal consiglio e agli anziani nel dì 11 giugno 1606 fu deliberato di servirsi del locale della canova pubblica per edificare a contatto della nuova chiesa di S. Anastasia il monastero divisato, siccome fu prontamente eseguito.
Quindi stabiliti dal Comune tanti beni fondi dell’annua rendita di circa 750 scudi d’oro da lire 7.10 l’uno, previa una bolla del Pontefice Paolo V diretta da Roma li 20 febbrajo 1615 all’ordinario, nel 1617 vi entrarono le Monache Francescane; le quali poi furon soppresse nel 1808 ed il loro claustro unitamente alla vicina soppressa chiesa arcipretale di S. Antimo donato alla Comunità per tramutarlo in un commodo ospedale capace di cento e più letti, siccome venne fatto, col trasportare quà l’altro della SS. Trinità de’Benfratelli. – Vedere l’Articolo seg. Ospedale d i Piombino. – Il primo spedale esisteva in Piombino sino dal secolo XIV sotto il titolo di S. Maria Maddalena, amministrato da uno spedalingo col titolo di rettore nel modo dimostrato da una deliberazione del magistrato comunitativo del 10 agosto 1470, quando fu nominato e accettato in rettore dell’ospedale di S. Maria Maddalena in Piombino un tal don Girolamo. Quello della SS. Trinità tuttora esistente fu fondato sotto Jacopo II verso la metà del secolo XV. Infatti con testamento del dì 11 novembre 1455 un tal Michele del fu Antonio di Benedetto da Piombino instituì suo erede universale l’ospedale nuovo di S. Trinita di Piombino. – (RIFORMAGIONI, Carte di Piombino).
Fu aumentato di dote nel 1570 da Jacopo VI d’Appiano d’Aragona, il quale in detto anno ordinò che i rettori e amministratori del patrimonio da lui assegnato dovessero parare annualmente lire 2015 ai Frati di S. Giovanni di Dio destinati ad assistere gl’infermi dello spedale di S.
Trinita. Quattr’anni dopo i magistrati della Comunità di Piombino decretarono (nel 26 maggio 1576) un’elemosina in cera da offrirsi alla chiesa di detto spedale nel giorno della festa titolare; e più tardi per deliberazione del 12 gennajo 1625 gli anziani del consiglio accordarono ai Frati di S. Giovanni di Dio una somma onde costruire un cimitero per l’ospedale di Piombino. Finalmente il Pontefice Urbano VIII con breve del 5 gennajo 1637 esentò i religiosi medesimi dalla soggezione ai vescovi di Massa nelle cose loro puramente amministrative.
L’ospedale di S. Trinita alla soppressione del monastero di S. Anastasia, dalla piazza d’arme fu traslatato in quest’ultimo locale.
Davanti alla stessa piazza d’arme nel soppresso convento di S. Francesco fu fatta l’abitazione del comandante della Piazza, e la chiesa ridotta a magazzino pel R. Scrittojo.
Dall’altra parte della piazza sono gli ufizi della posta e della sanità, e nel punto più elevato il palazzo de’Principi, detto la Cittadella. Al di sopra di tutti havvi un più vasto edificio, il Padiglione che serve di abitazione all’ufizialità.
CENSIMENTO della Popolazione della Città di PIOMBINO a tre epoche diverse, divisa per famiglie, dopo la sua riunione al Granducato.
ANNO 1818: Impuberi maschi 159; femmine 149; adulti maschi 116; femmine 191; coniugati dei due sessi 356; ecclesiastici dei due sessi 9; numero delle famiglie 197; totalità della popolazione 980.
ANNO 1833: Impuberi maschi 195; femmine 202; adulti maschi 161; femmine 201; coniugati dei due sessi 400; ecclesiastici dei due sessi 4; numero delle famiglie 259; totalità della popolazione 1176.
ANNO 1840: Impuberi maschi 210; femmine 222; adulti maschi 268, femmine 288; coniugati dei due sessi 584; ecclesiastici dei due sessi 11; numero delle famiglie 341; totalità della popolazione 1667 COMUNITA’ DI PIOMBINO. – Il territorio comunitativo di Piombino, compresa la porzione palustre del medesimo, abbraccia 40150 quadrati agrarj, 530 dei quali sono occupati da alvei di acque correnti e da pubbliche strade.
Nell’anno 1833 vi abitavano stabilmente 1443 individui, in proporzione a un dipresso di 29 persone per ogni miglio quadrato di suolo imponibile.
Dal lato di maestrale progredendo dentro terra verso settentrione e di la sino a scirocco levante il territorio comunitativo di Piombino confina con quello di tre Comunità del Gran ducato, mentre per gli altri lati fronteggia col mare toscano.
Per breve tratto dirimpetto a maestrale si tocca con la Comunità di Campiglia, a partire dalla gronda meridionale del Lago di Rimigliano presso la Torre Nuova lungo il littorale e di là per i termini del Padule e del Bracciolo. A quest’ultimo il territorio piombinese voltando faccia da maestrale a grecale rasenta per parecchie miglia quello della Comunità di Campiglia mediante termini artificiali lungo le tenute del Poggio all’Agnello e della Sdriscia sino passato il fiume Cornia.
Arrivato sulla via della Sdriscia, esso dirigesi a levante e quindi a grecale rasentando sempre termini artificiali. A quello di Acquaviva attraversa l’antica via Emilia, ivi appellata la Via della Silice. Quindi il territorio piombinese dirigesi con l’altro campigliese da grecale a levante finchè al botro di Risecco cessa quest’ultima Comunità e sottentra l’altro di Suvereto. Allora i due territorj fronteggiano insieme mediante la via de’Puntoncelli sino passato il viottolo di Quercialta, donde entrano in quello della Sentinella che si dirige da levante a ponente. – Giunti alle sorgenti del Vallino cessa la Comunità di Suvereto, e viene a confine quella di Massa Marittima, con la quale la nostra volta faccia a grecale per salire i Poggi verso Montioni, e di là per la via de’Quattro Confini dirigesi in quella che dirimpetto a levante guida da Montioni a Follonica, la quale abbandona dopo breve tragitto al luogo detto Campostrino. Da cotesto punto il territorio di Piombino entra nella via di Vignale per dirigersi verso libeccio sino al Poggio alla Vacca dove attraversa la via degli Scogli rossi. Allora esso scorre pel crinale de’poggi che da settentrione a ostro s’innoltrano per Valli a ponente di Follonica sino al lido del mare, attraversando la strada da Vignale a Valli e quella comunitativa di Follonica.
Arrivato alla foce di Salivoli , trova dirimpetto a ostro il littorale toscano che percorre, da primo da levante- scirocco a ponente-maestrale passando per Torre Mozza , quindi rasentando il padule omonimo, quindi la foce della Corniaccia, di là dalla quale si diriga a ponente passando per la Torre del Sale davanti i Paduli sotto il poggio del Capezzuolo; al di là del quale trova la foce del Puntone, ossia di Cornia. Dopo di che la spiaggia piegando da ponente a libeccio e poi a ostro costituisce il golfo del Porto vecchio di Falesia; quindi rasentando le scogliere meridionali del promontorio sino alla sua punta forma un angolo retto per riprendere la direzione di ponente. In quest’ultima direzione passa davanti a Piombino, e di là si dirige verso ponente-maestrale sino al casotto del Falcone. Costì prendendo la direzione di settentrione gira intorno a una scogliera per poi innoltrarsi verso settentrione-maestrale lungo il canale di Piombino sino al promontorio di Populonia. Arrivato alla punta settentrionale del medesimo dirige il suo cammino a grecale-levante, quindi a settentrione e poi a maestrale- ponente per costituire il piccolo seno di Porto Baratti, di cui ne percorre i lembi fino al di la del corno settentrionale sul poggio di S. Leonardo. Finalmente inoltrandosi un mezzo miglio a settentrione e dopo piegando a grecale passa dalla Torre Nuova sull’istmo meridionale del Lago di Rimigliano dove ritrova il territorio della Comunità di Campiglia.
Circa i confini territoriali di Piombino e del suo stato, quando dipendeva dai signori di Appiano, con quelli del territorio di Campiglia spettante al Granducato, furono essi convenuti e collocati mediante un lodo pronunziato dagli arbitri sotto il dì 11 novembre del 1577, rettificato nel 21 maggio del 1641.
Fra i corsi d’acqua che bagnano il territorio comunitativo di Piombino si contano il fiume Cornia e la Corniaccia, i quali innanzi di fluire in mare ristagnano in modo tale che la pianura piombinese trovavasi in gran parte, e massimamente nella stagione piovosa, coperta da marazzi e da paduline.
Uno fra i punti più elevati della Comunità di Piombino si può dire il promontorio di Populonia, il quale misurato dalla sommità della sua torre fu trovato dal P. Prof.
Inghirami 314 braccia superiore al livello del sottostante mare.
La struttura fisica di questo promontorio, al pari che del piccolo gruppo montuoso situato da settentrione a ostro fra Porto Baratti e Piombino, e da levante a ponente fra il suo padule ed il mare, spetta per intiero alla roccia di macigno (arenaria grigia e cerulea) alternante con sottili strati di argilla schistosa (bisciajo). Ed è sopra questo terreno che si posano i miseri avanzi dell’etrusca Populonia, e le crescenti fabbriche della moderna Piombino. Tutto il restante di questa comunità è coperto da terreno da alluvione, da ciottoli, da ghiaje e da altri più minuti frammenti trascinati presso il littorale dalle acque della Cornia e della Corniaccia non che dai fossi che scendono dai poggi di Campiglia, ad alcuni dei quali pochi anni indietro fu tracciato un cammino diretto per Torre Nuova nel mare.
Mancano affatto nel territorio in discorso acque termali, mentre esse abbondano in quello contiguo di Campiglia, specialmente alla Caldana presso la R. palazzina della Magona, le quali acque termali probabilmente corrispondono alle Acque Populoniensi di Plinio. – Vedere BAGNI VETULONIENSI.
Esiste bensì nel lido di Torre Nuova andando lungo l’istmo del Lago di Rimigliano, il fenomeno di un recente conglomerato tufaceo dove le arene vengono lentamente aglomerandosi insieme coi gusci di conchiglie mediante un cemento calcare, inguisachè cotesto tufo avventizio rialzasi dalla riva del mare, ed accresce a poco a poco la spiaggia interposta fra il Porto Baratti e il Lago predetto, stato ora prosciugato per essiccazione, e già costituito dalle acque ricche di carbonato calcare condottevi dalla Fossa Calda.
Un simile fenomeno fu osservato da Spallanzani sulla costa di Messina e dal Prof. Paolo Savi in cotesta località medesima, come anche nella spiaggia dell’Ardenza presso Livorno, nel Golfo Viticcio ed al Capo delle Viti nell’Isola dell’Elba.
Infatti di questo e di un altro curioso fenomeno, che affacciasi pure nel distretto comunitativo di Piombino, ha dato contezza il Prof. pisano Paolo Savi in una sua memoria sulla Miniera di ferro dell’Isola dell’Elba: intendo dire dei Pozzali situati a poca distanza dalla bocca della Corniaccia. Si manifestano cotesti Pozzali in mezzo ad un terreno denominato il Paduletto dell’Altura perchè superiore al livello della circostante campagna, la quale è formata da argilla cenerognola sparsa di giunchi, di gramigne e di cespugli di limonio. All’incontro il terreno superiore dove s’incontrano i Pozzali si presenta di color cupo e molle, formato per la massima parte di humus ridotto in torba fangosa, sopra cui veggonsi vegetare molte rigogliose piante palustri. Quindi è che dopo aver traversata la squallida pianura delle tenute della Sdriscia e delle Pianacce, si entra in un terreno oscuro e fresco fra le mente aromatiche ed altre erbe sempre verdi; sennonchè il suolo molleggia sotto i piedi come un’isola natante e trovasi impregnato d’acque a segno che esse sgorgano e si spandono da ogni lato intorno a quelle ricche praterie.
Verso la parte media di simili ridossi s’incontrano certe qualità di siepi formate di roghi, di convolvoli o di un palancato artificiale. È costà fra le canne palustri dove stanno i Pozzali, consistenti in varj spacchi di terreno più o meno larghi e molto lunghi, i di cui margini serpeggianti sono formati dalle ceppaje delle radiche di cannelle, di giunchi, di scirpi, ecc.; da un vero pollino palustre, mancante però di base; avvegnacchè dall’acqua sotterranea, la di cui profondità variando dalle 6 sino alle 20 braccia, quei Pozzali sono scalzali e resi deboli in modo che facilmente si rompono, precipitando nel baratro tuttociò che vi gravita sopra.
L’acqua di cotesti Pozzali suol essere limpida, fresca, senza odore ne sapore sensibile. Essi non si prosciugano mai, e quando domina il scirocco l’acqua fluendo dai Pozzali più copiosa, allora s’impadula il terreno circostante senza che il livello delle acque sotterranee subisca variazione alcuna a confronto del rialzato livello del mare per cagione di traversie.
Stante pero le operazioni del buonificamento nel circondario di Piombino attualmente il paduletto dell’Altura è stato in gran parte risanato per essiccazione mediante lo scolo artificiale dato alle varie acque sorgive dei Pozzali che l’appozzavano. – Vedere PIOMBINO (PADULE DI).
I prodotti precipui del territorio di Piombino sono il bestiame bovino, cavallino e pecorino, i boschi e le granaglie. – Dell’antica cultura de’cereali nel piombinese ci diede qualche indizio Rutilio Numaziano fino dal principio del secolo quinto, quando, sbarcato dalla sua feluca nel Porto vecchio di Falesia, trovò i campagnoli del contiguo villaggio a festeggiare la Dea della germinazione, dicendo: Illo quippe die tandem renovatus Osyris Excitat in fruges germina laeta novas.
E ad onta che il territorio populoniese nella prima invasione de’Longobardi venisse devastato e quelle genti disperse a segno che asserto di S. Gregorio Magno sul cadere del secolo VI non si trovava costà un parroco da somministrare ai nati e ai moribondi il primo e l’ultimo sacramento; ad onta che tutta la contrada di Val di Cornia, segnalata intorno al mille sotto nome di Contado Cornino, cadesse per la maggior parte in potere delle mani-morte, pure in molte possessioni, 4 e forse anche 5 secoli innanzi il mille, ivi esistevano e prosperavano le piante di ulivi, le quali in seguito abbandonate a loro stesse inselvatichirono.
Fra le piante de’paesi meridionali che vegetano rigogliose nel littorale e nel suburbio di Piombino meritano di essere annoverate le Agave americane ed il fico d’india (Opuntia), le quali servono qui come a Longone di siepi agli orti ed ai campi. Rispetto alla Palma dattilifera , sebbene attualmente scarseggi costà, pure cotesti alberi nei secoli trapassati vi dovevano essere in copia, tostochè ad un istrumento del 22 gennajo 1277 si rileva che, mentre il monastero di S. Maria e di S. Bartolommeo di Falesia fuori di Piombino dell’ordine di S. Chiara riceveva dalle monache di Montescudajo un censo annuo di lire 16 moneta pisana, e sei libbre d’olio puro per alcune terre appartenute alla chiesa di S. Perpetua sulla Cecina, le monache di Piombino dall’altro lato dovevano fornire a quelle di Monte Scudajo ogn’anno 200 cultelli di Palma nella domenica di Passione. – (ARCH. DELLE RIFORMAG. Carte di Piombino).
Rispetto ai prodotti di mare la pesca dovrebbe dare una qualche risorsa, ora specialmente che il diminuito dazio del pesce che s’introduce in Piombino vi oppone minore ostacolo.
Rasentando mezzo miglio il littorale del golfo dal Porto vecchio di Falesia fino al capo della Troja lo scandaglio approfonda nel mare da 18 fino ai 45 piedi francesi, e allontanandosi 3 miglia dal suo lido lo scandaglio pesca 114 e per fino 150 piedi francesi.
Lungo poi il canale di Piombino alla distanza di mezzo miglio dalla costa lo scandaglio pesca sino a 124 piedi francesi; e se misurasi in mezzo al canale esso non trova il fondo in alcuni punti che a 144, in altri a 168, e talvolta a 234 piedi.
A quest’ultima profondità in circa improvvisamente nell’estate del corrente anno 1841 per urto ricevuto affondò il Polluce battello a vapore, stato maestrevolmente allacciato nel settentrione di questo stesso anno da un abile marino livornese.
Due piccoli porti esistono nel territorio comunitativo di Piombino; cioè, l’ansa naturale al settentrione del promontorio di Populonia ch’era l’antico suo porto, ora Porto Baratti, e del quale si farà parola all’Articolo POPULONIA; e l’altro a ostro del promontorio medesimo, appellato il Porto di Piombino, sebbene quest’ultimo sia piuttosto un canale che un porto, incapace di ricevere bastimenti superiori alle cento tonnellate.
Più vasto, ma troppo ripieno dallo sbocco vicino del fiume Cornia è il Porto vecchio di Falesia; giacchè lo scandaglio alla distanza di mezzo miglio dalla spiaggia non approfonda più di 18 piedi parigini.
Jacopo IV nel 1504 cedè alla Comunità di Piombino il diritto di ancoraggio sennonchè nel 1678 il Principe Niccoló Ludovisi qualificò Piombino porto franco; per la qual cosa egli ed i suoi successori pagarono una indennità annua a quel Comune sino a che tali misure dai Principi Baciocchi con decreto del 10 febbrajo 1806 furono soppresse.
Non dirò dei forni per la fusione della miniera di Rio dell'Elba stabiliti nei tempi più vetusti nelle vicinanze della Torre Nuova presso il Porto di Populonia, dove tuttavia esistono grandi cumuli di loppe, stantechè essi da gran tempo cessarono, e vennero traslocati alla marina di Follonica presso alle più estese macchie di Scarlino, e di Massa. – Vedere FOLLONICA, MASSA MARITTIMA e POPULONIA.
Non vi sono in Piombino fiere nè mercati, sebbene ne'secoli andati vi si praticassero; le prime che cadevano nella fine di settembre, i secondi nel lunedì di ciascuna settimana.
La Comunità mantiene due medici, un chirurgo e due maestri di scuola. – Risiede in Piombino oltre un Vicario regio un ingegnere di Circondario che presiede a quel buonificamento, un cancelliere comunitativo ed un ricevitore dell'ufizio del Registro. La conservazione delle ipoteche è in Volterra, ed il tribunale di Prima istanza in Grosseto.
QUADRO della Popolazione della Comunità di PIOMBINO a tre epoche diverse dopo la sua riunione al Granducato.
- nome del luogo: PIOMBINO, titolo della chiesa: S.
Antimo in S. Michele (Arcipretura), diocesi cui appartiene: Massa Marittima (già di Populonia), abitanti anno 1818 n° 980, abitanti anno 1833 n° 1176, abitanti anno 1840 n° 1667 - nome del luogo: Populonia, titolo della chiesa: S. Croce (Cura), diocesi cui appartiene: Massa Marittima (già di Populonia), abitanti anno 1818 n° 124, abitanti anno 1833 n° 108, abitanti anno 1840 n° 136 - nome del luogo: Ritorto, titolo della chiesa: S. Antonio (Cura), diocesi cui appartiene: Massa Marittima (già di Populonia), abitanti anno 1818 n° 195, abitanti anno 1833 n° 159, abitanti anno 1840 n° 212 - Totale abitanti anno 1818 n° 1299 - Totale abitanti anno 1833 n° 1443 - Totale abitanti anno 1840 n° 2015
Riferimento bibliografico:

E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, 1841, Volume IV, p. 268.