FIRENZE
(FIORENZA, FLORENTIA).
â CittĂ metropoli della Toscana, bella, fortunata, felice; residenza dei suoi Granduchi, e sede arcivescovile.
La sua posizione geografica, calcolata dall'osservatorio delle Scuole Pie sopra la piazza di S. Lorenzo, (che può dirsi quasi il centro della cittĂ alla destra dellâArno) trovasi fra il grado 28° 55' di longitudine e 43° 46' 41" di latitudine, in un suolo 69 braccia fiorentine sopra il livello del mare Mediterraneo. â Esiste Firenze nel cuore della Toscana, ed ha la cittĂ di Livorno 60 miglia toscane al suo libeccio, Pisa 49 miglia toscane a ponente, Lucca 44 a ponente maestro, Pistoja 20 miglia toscane a maestro, Volterra 44 a ostro libeccio, Siena 40 a ostro, Arezzo 44 miglia toscane a scirocco e appena 3 miglia toscane al suo settentrione-grecale gli avanzi di Fiesole.
Tanti e di tale importanza sono i fatti memorandi relativi alle cose pubbliche di Firenze che un intiero libro, non che un solo articolo, non potrebbe bastare a racchiuderli, ancorchè allo scrivente fosse per fortuna a tal uopo concessa la forza e concisione di Tacito.
Scarso d'ingegno com'io sono, ma costante e geloso di adempire, comunque io possa all'obbligo spaventevole che mi sono imposto, procurerò nel discorrere la storia e gli ordini del governo di Firenze, di attenermi alle parti piÚ prominenti, sul riflesso che in una materia da tanti valenti uomini scritta e conosciuta, è meglio dir poco che diffondersi in molte parole.
Mi è duopo inoltre prevenire il lettore, che all'articolo COMUNITA' di FIRENZE, dove non è molto da dire dello stato fisico del suo territorio, come quello che è quasi tutto rinchiuso fra le civiche mura, mi si offre opportuna occasione per accennare il giro e posizione dei cerchi piÚ angusti e piÚ antichi della città , e i suoi stabilimenti pubblici con i principali tempj e palazzi.
La cittĂ di Firenze, spartita dal fiume Arno che quattro grandiosi ponti di pietra in un sol corpo riuniscono e accomunano, presenta la figura di un pentagono che ha circa cinque miglia di giro, tre lati del quale alla destra e due alla sinistra dellâArno. Ha otto porte e una postierla, dalle quali si sviluppano ampie strade in mezzo a popolatissimi subborghi, superbe case di delizia, amene colline, una fiorente ubertosa e salubre campagna, in guisa che vista dall'alto una immensa cittĂ tutt'insieme con Firenze raffigura.
L'aveva bene contemplata il divino Ariosto, quando nel capitolo XVI delle sue rime scriveva: Se dentro un mur sotto un medesmo nome, Fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi, Non ti sarian da pareggiar due Rome.
Richiamando alla memoria quanto dissi all'articolo Fiesole, senza favoleggiare sull'origine di Firenze, o sull'etimologia del suo nome, che ora dal culto del dio della guerra, ora dal fiore che porta per emblema, dissesi figuratamente città di Marte, e città del Fiore, solamente mi farò lecito di ripetere quÏ un antico prognostico, che a Firenze meglio forse che ad altra città si potrebbe applicare, quando la Sibilla Eritrea, o chiunque fosse, andava vaticinando di un paese di Europa il seguente augurio: " In Europae partibus ex rore nobili descendentium Romuli Romulenes flos quidem floridus candore mirabili liliatus sub Marte nascetur. Sed citra florum morem cum difficultate ac dierum longitudine deducetur in formam. Ante tamen quam areseat sibi multarum gentium subiicet nationes. Et erit fortitudo ejus in rota, et rota dabit partes ejus infimas quasi pares." (BALUZII Miscellan. T. IV) Con frasi poco dissimili si esprimeva la Sibilla Tiburtina, che dicesi coetanea di Ottaviano Augusto, quando cioè Roma stava per scendere dall'apogèo della sua gloria, mentre la città del Fiore era appena sull'apparire di quella nobile rugiada che dava la vita e doveva far sbocciare e fiorire sotto l'influsso del nume tutelare (Marte) quel candido giglio che fu costante emblema di Firenze.
Firenze infatti dai fiesolani (Romulesi) ebbe piccolo e lento principio; dalla colonia cesariana di Augusto acquistò territorio e magistrati; dall'industria mercantile piÚ che dall'agitata indipendenza del medio evo ereditò potenza, fortuna e regno senza che il barbaro Totila abbia avuto il demerito di distruggerla, nè Carlo Magno la gloria di rifabbricarla.
Chi non desÏa dar corpo alle ombre è inutile che vada cercando Firenze o la sua storia fra quelle delle città Etrusche, nè di Roma repubblicana; mentre se non possiamo accertare nè negare, che a quelle remote epoche esistessero presso le sponde dell'Arno, quà dove Firenze siede regina, delle sparse borgate o casali sotto i nomignoli di Villa Arnina, di Camarzo , o di qualsiasi altra maniera si appellassero, altronde non ne consegue, nè alcun documento coevo ci assicura, che sotto nome di Fiorenza una di esse ville sino d'allora venisse intitolata.
Parve bensĂŹ ad alcuni che Firenze fosse giĂ sorta in grandezza molto innanzi che cadesse la Romana repubblica; e che della medesima cittĂ volesse dire Lucio Floro nel libro III delle sue Epitome, lĂ dove accenna, che quattro splendidissimi municipj d'ltalia (Spoleto, Preneste, Interamna e Florentia) furono da Silla venduti all'incanto, quasi nel tempo stesso che il vincitore di Mario faceva spianare la cittĂ di Sulmona, compagna e seguace del Mariano partito potentemente sostenuto dai Sanniti, che in quella contrada dominavano.
Per altro una sola autorità , di fronte al silenzio di tanti classici scrittori, ne in vita di per sè stessa a stare in guardia e mettere in dubbio, non già l'asserto di Floro, ma la svista di chi i suoi libri copiava, potendo aver letto per avventura Florentia invece di Florentinum; paese che corrisponderebbe alla tuttora esistente città di Ferentino, descritta da Strabone sulla via Latina poco lungi dall'Interamna del Liri, preso l'odierno castello d'Isola sul Garigliano. (STRABONE Geogr. lib. V.) à la stessa città della Campania rammentata come illustre municipio, da A. Gellio, e da T. Livio all'anno 569 di Roma; (lib. XXXV.) quando nel suo vasto territorio fu dedotta una colonia Latina.
Avvegnachè non solo è ignoto, che al tempo divisato esistesse, non che, fiorisse la città nostra di Firenze, ma tutti i fatti storici concorrono a far credere, che il Ferentino dei Volsci (detto anche Ferentio nelle Antichità Romane di Dionisi), e non già Firenze dell'Etruria, fosse venduto col suo territorio all'asta pubblica da Silla, dopo aver egli disfatto (anno 82 avanti G. C.) l'esercito dei Sanniti fuori della porta Collina presso Roma, e quello comandato da Mario fra Segni e Ferentino.
Tale fu l'opinione di Coluccio Salutati, abbracciata con molto senno da Vincenzio Borghini nelle sue elaboratissime indagini sull'Origine di Firenze.
Cosicchè senza accettare tutto quello che su di ciò da molti fu dato sicuramente per vero ancorchè alcune cose manifestamente non convengano con la veritĂ dei tempi e delle cose, e senza rifiutare assolutamente per false tutte le opinioni emesse e tutti i racconti dati per genuini, si può dire non ostante, che Firenze sotto l'impero di Cesare Ottaviano avesse un territorio suo proprio tolto (siccome fu giĂ indicato all'articolo FIESOLE) agli antichi coloni fiesolani, per assegnarlo a un numero ignoto di legionarj, a ragione di 200 jugeri per ciascheduno. â Che la colonia militare di Firenze sorgesse ben presto in un qualche splendore, lo fece conoscere Tacito nei suoi Annali, allorchè, nell'anno 16 dell'Era Cristiana, il Tevere fatto gonfio per lunghe piogge portò tanto guasto alle campagne di Roma, che in Senato si discusse: se, a moderare in seguito le inondazioni di cotesto fiume, si dovessero deviare alcuni dei maggiori influenti suoi, fra i quali la Nera e la Chiana.
Furono perciò ascoltate le ambascerie dei municipj e colonie interessate in tale affare, fra le quali si distinse quella de'fiorentini perorando la loro causa; affinchè torta dal corso antico non isboccasse la Chiana in Arno, e i fondi loro inondasse. (TACIT. Annal. lib. I. Cap. 79.) Donde chiaro apparisce che i fiorentini coloni (come i fiesolani ascritti alla tribĂš Scapzia) ottennero sino dai primordj del romano impero col territorio magistrati e legislazione propria: che è quanto dire contado e amministrazione diversa da quella della cittĂ e contado fiesolano. â Vedere FIESOLE.
Sebbene la storia per un lungo periodo di secoli non faccia di Firenze menzione che sia da dirsi di qualche rilievo, pure da altri argomenti si può ragionevolmente dedurre, che essa durante il romano impero crescesse in nobiltĂ di edifizj pubblici; di cui in qualche modo darebbe un'idea la grandezza del suo anfiteatro, che può concepirsi tuttora dalla superstite porzione dell'ambito esteriore, passeggiando fra le piazzette di S. Simone e de'Peruzzi prossime all'ingresso di quella di S. Croce, che trovasi a levante fuori del primo cerchio della cittĂ ; mentre al suo ponente porta sempre il nome di Terma una strada, dove furono i bagni pubblici fra le case deâScali, poi Buondelmonti e la loggia deâCiompi.
Non parlerò del tempio piÚ insigne della città che nel Battista Cangiò il primo padrone, come quello che può dirsi, rapporto all'età , un monumento perpetuo di controversia archeologica, nella stessa guisa che, rapporto al materiale è oggetto di ammirazione per gli artisti, pei curiosi e pei devoti sorpresi e indecisi, se la materia vinca o sia vinta dal lavoro, o se l'edifizio primitivo resti eclissato (come sembra ai piÚ) dai suoi portentosi accessorj.
STATO DI FIRENZE DAL SECONDO AL DECIMO SECOLO A dimostrare che Firenze (principiando dal secolo secondo dell'era volgare) giĂ fosse giunta a un certo splendore, lo provano le premure dell'imp. Adriano, il quale dopo avere governata a nome di Trajano l'Etruria in qualitĂ di pretore, divenuto esso stesso regnante, nell'anno secondo del suo impero (119 dell'E. V.) restaurò la via Cassia guasta dal tempo, prolungandola (a tenore delle espressioni di una superstite colonna miliare) sino a Firenze dai confini di Chiusi. A Clusinorum finibus Florentiam perduxit. â Vedere VIA CASSIA.
Varie lapidi scritte, e qualche torso di statua con pochi altri cimelj trovati in Firenze rammentano il tempo degli Antonini; e forse ci richiama pure all'epoca stessa il testè citato anfiteatro, che sotto nome di Parlagio a'tempi posteriori soleva appellarsi.
Era quello stesso Parlagio, nel quale fu esposto alle fiere coi suoi compagni il fiorentino martire S. Miniato sotto l'impero di Decio persecutore acerrimo dei novelli cristiani. Dei quali Firenze contare doveva un buon numero, tosto che 60 anni dopo quel martirio (313 dell'E.
V.) per testimonianza non dubbia sappiamo che al sinodo adunato in Roma dal pontefice Melchiade intervenne Felice vescovo di Firenze. Lo che avvenne 80 anni prima che S. Ambrogio vescovo di Milano consacrasse la basilica fiorentina di S. Lorenzo fabbricata col denaro di pia donna; e ciò un buon secolo innanzi che accadesse la liberazione della stessa città e di tutta la Toscane dalla spaventosa e repentina irruzione dell'oste sterminata di barbari scesa nel 405 con il loro re Radagasio a devastare l'Italia.
Al quale avvenimento ci richiama la storia di Firenze, stantechè Paolino diacono di S. Ambrogio che scrisse di quel santo la vita, rammenta la seguente particolarità : " che nel tempo in cui Radagasio assediava la città di Firenze, il S. vescovo Ambrogio (passato all'altra vita sino dall'anno 397) apparÏ in sogno ad uno dei suoi cari fiorentini, cui promise nel dÏ seguente la liberazione della patria; la qual visione da lui riferita ai suoi concittadini li riempÏ di coraggio. Infatti nel giorno appresso, arrivato che fu Stilicone generale dell'imperatore Onorio, si riportò vittoria dei nemici. " Tale particolarità supplisce a ciò che non fu avvertito da Paolo Orosio, da S. Agostino e dal cronista Prospero; l'ultimo dei quali scrisse: che l'esercito sterminato di Radagasio, non già sopra Firenze solamente erasi diretto, ma che era diviso in tre parti, per cui fu piÚ facile di superarlo in quella maniera, che secondo tutte le apparenze ebbe del miracoloso.
Avvenne perciò, che i fiorentini poco tempo dopo tale liberazione, per consiglio del loro santo vescovo Zanobi, innalzarono quel tempio che poi divenne cattedrale, sotto l'invocazione di S. Reparata, in memoria del giorno ad essa festivo (8 ottobre) in cui la cittĂ nostra fu liberata dallâcaterminio minacciato dal feroce conduttore degli Unni e dei Sciti.
Ad eternare la quale ricordanza il popolo fiorentino, dopo che era divenuto libero di sè stesso, provvide affinchè nello stesso giorno si corresse ogn'anno un palio, il quale prendeva le mosse alla porta S. Pier Gattolino sino al Vescovado.
Un consimile esempio pare che fosse praticato in Lucca, e in altre città o terre della Toscana, non che della Romagna contigua al Mugello; essendochè alcune di quelle antiche chiese matrici furono dedicate alla stessa vergine e martire Reparata.
Che Firenze infatti sino d'allora fosse circondata da fossi e da un cerchio di muraglie ne abbiamo una conferma in Procopio. Il quale nella storia della guerra gotica, all'anno 542, racconta, che tre capitani di Totila assediarono Firenze, castris circum moenia positis, mentre vi era a custodirla uno dei piĂš valenti capitani di Belisario; cioè, quello stesso duca Giustino, che tre anni innanzi con la sua divisione aveva assediata, presa e forse anche smantellata Fiesole. â Vedere FIESOLE.
Molti scrittori, riportandosi al racconto di alcune croniche, o piuttosto di leggende favolose, diedero come accaduta la distruzione di Firenze per mano di Totila, (che taluni confusero con Attila): comecchè le sue falangi altro danno non sembra che le recassero fuori di quello che potè derivarle da un passeggiero accampamento. Che se la stessa città in seguito dovè aprire le porte e sottomettersi docile al volere dei tre capitani inviati costà da Totila, niun documento ci assicura che da essi, o da chi loro successe, venisse abbattuta e rovinata.
Se ciò realmente fosse accadduto, nè gli autori di quellâetĂ lo avrebbero taciuto, nè la cittĂ di Firenze avrebbe avuta occasione dieci anni dopo (nel 553) d'inviare incontro a Narsete, i suoi rapprentanti, per avere dall'esterminatore dei barbari la promessa di salvare la cittĂ , gli abitanti e i loro beni.
Non verificandosi la distruzione di Firenze ai tempi di Totila, nè trovandosi alcun'altra ragione per attribuire lo stesso supposto ai Longobardi, che in Firenze arrivarono in un tempo in cui il loro furore erasi alquanto contro le cose e le genti romane affievolito, non ebbe per conseguenza motivo Carlo Magno di rifare Firenze piÚ bella che non era; siccome allo stesso fortunato conquistatore mancò l'occasione d'innalzare la Chiesa de'SS. Apostoli nel borgo occidentale di questa stessa città , che si disse consacrata da Turpino arcivescovo di Rems, presente il capitano Orlando; e tuttociò in tempo che Carlo Magno era le centinaja di miglia lontano dall'Italia, mentre tanto Turpino quanto Orlando non si trovavano piÚ nel numero dei vivi.
Deve bensÏ Firenze a Carlo Magno la ripristinazione del primo magistrato politico e militare, sotto il titolo di duca, cui venne in seguito sostituito quello di conte con altre subalterne dignità di Giudici, Scabini, Vicarj, Vicedomini, Avvocati e Centenarj. I quali ufiziali minori, a forma del Capitolare Carolingio dell'anno 809 (§. XXI.) dovevansi eleggere e stabilire, non dal re, ma dal conte e dal popolo.
In conseguenza di ciò non si dovrebbe durare gran fatica a credere, che sino da quei tempi fosse stata in Firenze al pari che nelle altre città del regno Longobardo una tal quale forma di civico regime, e di pubblica amministrazione, senza dubbio ultimo residuo di quella istituzione municipale lasciata dai Romani, e che può dirsi il principio piÚ remoto di quella civica libertà che sorse sotto il patrocinio degl'imperatori Sassoni, e che ingigantÏ durante il dominio degl'imperatori Svevi in Italia.
STATO DI FIRENZE NEI PRIMI TRE SECOLI DOPO IL MILLE Il partito preso nel secolo XI dalla contessa Beatrice a favore della chiesa e dei papi, e caldamente sostenuto dalla sua figlia Matilde, aprÏ un largo campo a Firenze e a tutti i popoli della Toscana, per emanciparsi dal supremo dominio degl'imperatori e dei loro vicarj. Cosicchè in tali politiche agitazioni si eresse, e quindi sopra larga e solida base fu stabilito un governo municipale retto, da primo dai consoli e anziani, quindi dai priori (i signori) delle varie corporazioni d'arti e mestieri, preseduti da un Gonfaloniere, e serviti a breve tempo da tre grandi ufiziali forestieri, Potestà , Capitano del popolo, ed Esecutore degli ordinamenti della giustizia. Il quale regime politico finalmente pervenne a supplire in ogni genere alla sovrana autorità .
Fu verso il 1062, dopo la morte dello zelante pontefice Niccolò II, vescovo di Firenze sotto nome di Gherardo, quando gli subentrò il papa Alessandro II che sedeva sulla cattedra di Lucca; fu allora, io diceva, che si diede il primo esempio di un imperatore fulminato da quella scomunica che seminò il germe delle cittadine discordie sotto nome di Papisti e Imperialisti, di Guelfi e Ghibellini, di Bianchi e di Neri, e sotto altre consimili divise, che tutte le città in genere, ma in special modo questa di Firenze, lungamente agitarono.
Frattanto in simili trambusti politici, in coteste guerre fra il sacerdozio e l'impero prosperando le operazioni mercantili e bancarie dei fiorentini, sparsi nelle principali piazze dell'Affrica, dell'Asia e dell'Europa, si estendevano le corrispondenze, si aprivano nuovi sbocchi all'industria manifatturiera, nel tempo stesso che il territorio della madre patria si ampliava, e che il reggimento del Comune spingeva sempre piĂš lungi il suo potere.
Infatti i nostri primi cronisti pongono all'anno 1078 l'allargamento del secondo cerchio della città , che precedè di 200 anni a un circa la deliberazione e le fondamenta gettate per il terzo e attuale recinto della medesima, sebbene esso non restasse compito che molto tempo dopo.
â Vedere COMUNITA' DI FIRENZE.
Dalla doviziosa suppellettile di tanti compilatori di vicende patrie raccogliendo alcun chè di quanto occorre a ristringere in poche pagine le massime vicende storiche, politiche e amministrative di questa cittĂ , a partire dalla minoritĂ del re dâItalia Arrigo III, si può dire, che la Toscana, e precipuamente Firenze, nel periodo sopra divisato si reggesse in apparenza in nome del re d'Italia, ma in realtĂ ad arbitrio di un di lui vicario o della sua donna sotto il titolo di marchese. â Vi signoreggiava la gran contessa Matilde figlia del marchese Bonifazio, allorquando un altro delegato regio venuto in Toscana con le masnade raccolte dai cattani e conti rurali, nel 1113, moveva contro Firenze. In guisa tale che i cittadini per rintuzzare cotanta baldanza fecero una delle loro prime imprese militari accorrendo ad assalirlo in una bicocca de'conti Cadolingi, qual era quella del castello di Monte Cascioli , o Casiolli, posto 5 in 6 miglia toscane a ponente di Firenze, e poco lungi dall'odierna villa di Castel Pulci, dove restò ucciso Roberto vicario del re . â Vedere CASCIOLI (MONTE) e CASTEL PULCI.
Da un sÏ tenue principio cominciò la grandezza di cotanta città , in un tempo in cui il di lei contado non oltrepassava, al dire del divino Alighieri, Trespiano ed il Galluzzo.
Ma se da un lato la divisione fra il trono e l'altare, da noi poco sopra accennata, fu il segnale di una quasi indipendenza fra i governanti e i governati, fra il principe e i suoi ministri, dall'altra parte si preparava da troppi punti la mina che doveva demolire il mal composto edifizio dello stato; poichè la pravitĂ de'costumi, la poca fede nei giuramenti, la rapina, unâabborrita schiavitĂš, e uomini prepotenti opprimevano la povera umanitĂ . Per tal modo si vide nei primi anni del secolo XII radunarsi in Firenze il secondo concilio generale (anno 1105) precipuamente motivato dal vescovo Ranieri uomo dotto, quanto giusto. Il quale prelato presedè per 42 anni la chiesa fiorentina, siccome apparisce dall'epitaffio che la cittĂ riconoscente pose al suo sepolcro nel tempio che servĂŹ al primo duomo di Firenze.
Ebbe questo buon prelato (e in ciò non fu solo in quella età ) un po' troppa fissa opinione, che fosse vicina la fine del mondo, e l'Anticristo arrivato: mosso a crederlo dalla malvagità dei tempi, e dalle prave ingorde voglie degli uomini, non meno che dai terremoti, dalle inondazioni, dalle apparizioni di comete, da mostruosi avvenimenti e da tanti altri fenomeni della natura che allora in sulla terra abbondarono.
In mezzo a tale stato di cose si trovava Firenze, quando il popolo minuto e grasso cominciò a mettersi in arme per reprimere le oltracotanti schiatte de'Cadolingi, degli Ubaldini, degli Uberti, degli Ubertini di Gaville e di altre famiglie magnatizie. Avvegnachè sino d'allora i reggitori della nascente repubblica presero tale partito da far conoscere alla posterità ch'essi avevano una fondata cognizione intorno l'arti del governo. Quindi a coloro che aderivano volentieri, e che si manteneveno fedeli alla città , usavano molti segni di umanità e di distinzione; al contrario quelli che ricusavano di ubbidire erano puniti con l'esclusione dalla borsa dei signori priori e dalle società delle arti, coll'ammonire ed esiliare i troppo faziosi, coll'espugnare le loro torri, mentre le possessioni di essi s'incorporavano al contado e patrimonio della Repubblica.
Estimavano quei megistrati, che se la sola forza del potente talora basta a vincere e soggiogare il debole, non evvi che la ragione, e un modo piĂš umano di governare che possa affezionare e legare costantemente il vinto al vincitore. CosĂŹ la Signoria di Firenze crebbe in riputazione e grandezza dopo che fece intendere ai contadini: che per liberarli dalle brutali estorsioni di sanguinarj sgherri, e di orgogliosi feudatarj, aveva determinato di riceverli sotto la sua tutela e protezione, ricomprando dagli antichi padroni le loro vite e le loro cose, e spesse volte rindennizzando il signore della perdita dei diritti e ragioni feudali, non che del costo dei loro castelli, torri e resedj pagandoli piĂš di quello che non valevano.
Ognuno che volesse darsi la pena di calcolare le sole provvisioni della Repubblica registrate dagli storiografi fiorentini, relativamente alle somme pagate dalla Signoria di Firenze, (senza dire di quelle che non si conoscono, o di cui manca il valore) facilmente resterebbe convinto che, forse niun contado fu a cosÏ caro prezzo acquistato, quanto quello che nel giro di tre secoli andò formando la Repubblica fiorentina.
Mentre i popoli della campagna accorrevano da ogni parte sotto l'egida della legge, la Signoria di Firenze fabbricava loro nuove terre regolari e munite di mura torrite, perchè servissero di asilo ai refugiati. I quali con la mercè dei privilegi ed esenzioni potentemente alla sua causa affiliava, e ciò nel tempo stesso che di nuovi subborghi e di numerosi edifizj si accresceva dentro e fuori la città capitale.
Altronde questo agitatissimo stato di rivolte, facendo senno dell'uomo plebeo, preparava e promoveva in tanta energia di vita un coraggio animoso, e un'industria sempre crescente in una nazione sommamente perspicace, cui tutt'altro epiteto dare si doveva fuori di quello che di cieca le fu attribuito della malignitĂ di chi disse dei fiorentini, che Vecchia fama nel mondo li chiama orbi.
Già da gran tempo le generazioni meno antiche e meno partigiane hanno deciso, se fu generosità grandissima piuttosto che cecità quella usata dai fiorentini allora quando essi offersero ai Pisani di guardare la loro città dalle interne e anche dalle esterne agitazioni, mentre i cittadini atti alle armi accorrevano all'impresa delle isole Baleari (anno 1114 circa). Se fu cecità , allorchè, in ricompensa della custodia fedelmente prestata, i difensori scelsero fra le spoglie offerte, i due fusti di colonne di porfido, che tuttora davanti alla porta di mezzo del tempio del Battista veggonsi collocate.
Tanto maggiormente lodevole risultare deve cotesto generoso procedere di fronte a coloro che ripensano, come l'abbandono delle proprie case per difendere quelle degli altri, fruttasse ai fiorentini l'incendio materiale della loro patria, e quello piÚ terribile che derivò da alcune opinioni religiose.
Fu in quell'anno stesso del ritorno trionfale da Majorca, o poco dopo, allorchè cessò di vivere la contessa Matilde, la quale chiamando erede della sua casa e del suo podere la Sede Apostolica, lasciò alle generazioni successive un fomite inestinguibile di rivolte, di dispiaceri, di pretensioni e di guerre acerbissime . â Quindi non passò molto tempo che l'imperatore Arrigo V con poderosa oste rientrò in Italia per contrastare al pontefice i possessi della sua corona, gran parte dei quali erano stati sino allora presi e goduti dai marchesi di Toscana, per il governo della quale l'imperatore condusse il marchese Corrado di lui nipote.
Nè lungo tempo passò in mezzo a tali turbolenze che videsi succedere al trono della Germania e dell'ltalia quel Federigo Barbarossa, il quale mise a soqquadro non solo i popoli della Lombardia, ma che promosse in Firenze una delle piÚ feroci commozioni popolari, che fu il funesto segnale di tante altre civiche calamità . Fra le quali disgraziatamente celebre per le conseguenze si rese quella del 1215, promossa dagli Uberti per una donzella nobile fidanzata poi ripudiata da un Buondelmonte.
Ma le prime risse, che cangiaronsi in battaglie di partito, ebbero un tristo preludio fino dall'anno 1177, epoca della caduta di una pila del primo ponte, situato allora fuori della cittĂ , voglio dire, del ponte vecchio. Furono quelli della schiatta degli Uberti, i piĂš possenti e maggiori cittadini di Firenze, che coi loro seguaci nobili e popolani, cominciarono a sopraffare i consoli, nei quali consisteva la prima magistratura eleggibile con certi ordini a corto intervallo; e fu si smoderata guerra, che quasi ogni dĂŹ si combattevano i cittadini insieme in piĂš parti della cittĂ , da contrada a contrada, da torre a torre; le quali torri fino d'allora crebbero per la cittĂ in buon numero all'altezza di 100 e di 120 braccia. (MALESPINI. Cronica fior. cap.
80.) Pertanto non è da dire che, nei tempi posteriori alle due epoche e avvenimenti testè citati, si vivesse in Firenze senza spargimento di sangue cittadino, avvegnachè le sue piazze spesse volte servirono di orribile spettacolo a crudeli esecuzioni.
Io non debbo nè posso quÏ enumerare le molte traversie pubbliche e private della metropoli della Toscana, tosto che da una numerosa schiera di valentissimi storici dell'uno e dell'altro partito furono fatte lunghe e replicate descrizioni piÚ o meno fedeli, piÚ o meno tetre o luminose secondo la loro maniera di vedere e di pensare.
Fu infatti da molti osservato che il Malespini e G. Villani, mostraronsi preoccupati da assurde e insulse leggende tenute da essi in luogo di fatti veri; e non senza ragione fu tracciato il Villani di sentire troppo in favore della parte Guelfa, siccome scriveva con pungente rabbia Ghibellina Dante, il quale sempre indispettito contro i giudici e reggitori che concorsero a sentenziare la sua condanna di esilio, livido nelle sue opere si avventa alla fama di coloro che ai suoi disegni in qualche guisa avversi si dimostrarono.
Alcuni di quegli storici supposero, che i consoli di Firenze fossero una conseguenza o piuttosto reliquia del governo romano, sebbene non siavi piĂš dubbio che cotesta magistratura venisse introdotta nelle cittĂ del medio evo dai collegj delle diverse arti, i membri delle quali convenendo insieme decisero per comune interesse di stare allâobbedienza dei loro maestri, che consoli appellarono.
CosĂŹ senza l'appoggio di documenti del tempo, e scevri di prove legittime, i primi cronisti ebbero anche a credere, che molte illustri e primarie famiglie, nel passaggio di Carlo Magno, altre all'arrivo di Ottone il Grande, venissero d'oltremonti a stabilirsi in Firenze, a Pisa, a Pistoja o nei loro contadi, nei quali ottennero ville e castelli, badie e altre chiese doviziose di beni di suolo.
Fu detto essere di queste ultime arrivate con Ottone I la schiatta dei conti Guidi, mentre essa feudi ed estese possessioni aveva giĂ nella Romagna, nell'Appennino e nelle Valli dell'Arno superiore e inferiore, in quelle dell'Ombrone pistojese, dell'Elsa e della Sieve sino dai tempi dei re Ugo e Lotario, vale a dire molti anni innanzi la venuta di Ottone il Grande in Toscana. â Vedere FAGNO, FARO (VICO), PISTOJA, ec.
Contro questi potenti feudatari la Signoria di Firenze ebbe a rivolgere molte volte e per lunga stagione le sue armi, ora per togliere loro e disfare il castello di Monte di Croce, fra l'Arno e la Sieve, ora per acquistare dai medesimi a caro prezzo Montemurlo, fra Prato e Pistoja.
Cerreto, Vinci, Empoli, Monterappoli e altri molti castelli, nel Val d'Arno inferiore; e finalmente moltissimi altri paesi piĂš tardi in Val d'Ambra, in Mugello, nel Casentino e in Romagna. Operavasi di simile maniera verso i Cadolingi di Capraja, gli Alberti di Mangona, di Certaldo, di Pogna e di Semifonte; nel tempo che eserciti piĂš numerosi si dirigevano verso i contadi di Pisa, di Siena, di Volterra, di Arezzo e di Pistoja, devoti quasi sempre all'impero, quando Firenze era il braccio destro della chiesa e dell'indipendenza Toscana.
Imperocchè poco dopo mancato Federigo II (anno 1250) i fiorentini cavalcarono in Mugello per punire l'audacia degli Ubaldini; corsero a Pistoja per abbattere i Ghibellini, spedirono gente nel Val d'Arno superiore contro gli usciti della città , marciarono a Pontadera, dove restò sconfitto l'esercito Pisano, quando da un'altra parte facevano fronte a'senesi per sostenere l'indipendenza di Montalcino, e tutto ciò si operava nel giro di uno stesso anno.
A buon diritto pertanto i fiorentini celebrarono, come fausto l'anno 1252, il quale chiamarono l'anno delle vittorie.
In questo temp o la città essendo tranquilla e felice, quasi per trofeo dell'acquistata fortuna e per la riconciliazione dei partiti che, vivente Federigo II, l'avevano tenuta divisa, fu coniato il fiorino d'oro della somma purezza di 24 carati e del peso di un ottavo d'oncia, con l'impronta del santo Precursore e del giglio, moneta che per la bontà e bella forma fu imitata da quasi tutte le nazioni di Europa, e conservata con poca variazione di peso e niuna affatto di lega anco ai di nostri, sotto nome di zecchino gigliato. Del quale fiorino è tre volte maggiore l'altro piÚ consueto gigliato, conosciuto in commercio col nome di ruspone.
Due anni prima che tali cose si operassero, Firenze aveva riformato il governo civile e militare affidando quello al consiglio di 12 anziani, questo a due giudici forestieri, potestĂ e capitan del popolo, sotto dei quali militavano i cittadini distribuiti in ischiere con gonfaloni, 20 per la cittĂ e 96 nel contado, quanti erano allora i pivieri.
Che la fortuna non accecasse il popolo fiorentino in mezzo alle sue contentezze, e che l'onore e la probitĂ pubblica e privata non si lasciassero sempre vincere dalla bramosĂŹa del guadagno o dallo spirito di partito, lo provano due fatti storici che occorsero a quel tempo e nell'anno medesimo.
Riporterò col Villani le parole del Malespini, autore contemporaneo, quando i fiorentini, nel 1256, mandarono in ajuto degli Orvietani 500 cavalieri, dei quali feciono capitano il conte Guido Guerra de'conti Guidi.
Giunto questi in Arezzo, senza volontà o mandato del Comune di Firenze, cacciò dal governo e dalla città i Ghibellini che ne tenevano la signorÏa, mentre erano in pace coi fiorentini. Per cui questi ultimi corsero ad oste a Arezzo, e tanto vi stettono, ch'ebbono la terra al loro comandamento e rimisonvi i Ghibellini.
Tale racconto prestasi eziandio a corroborare l'opinione giĂ da me esternata all'articolo CORTONA, rapporto alla sorpresa e assalto dato a questa cittĂ nel febbrajo del 1258 dai Ghibellini allora dominanti in Arezzo piuttosto che dai Guelfi fuorusciti di entrambi i paesi.
L'altro avvenimento che avrebbe immortalato un cittadino dell'antica Grecia o di Roma, se a queste nazioni fosse appartenuto, seguÏ dopo la vittoria riportata nel 1256 al ponte al Serchio dai fiorentini sopra i pisani: per la quale i vinti dovettero comprare la pace a condizioni assai gravose, come era quella, di consegnare la rocca di Motrone presso Pietrasanta. Non potendo con la forza, tentarono i pisani di corrompere segretamente alcuni degli anziani di Firenze, perchè il castello di Motrone fosse piuttosto atterrato.
Era uno di essi Aldobrandino Ottobuoni; il quale nelle precedenti discussioni del senato fiorentino aveva di buona fede consigliato i suoi colleghi, che quel fortilizio si disfacesse piuttosto che mantenervi un dispendioso presidio per conto della Repubblica.
Ma dalla secreta offerta che gli venne esibita di 4000 fiorini d'oro, se a lui riesciva di far prevalere nel giorno della deliberazione la già emessa opinione, senza esitanza si avvide che egli s'ingannava. Tornato pertanto in consiglio con tanta eloquenza perorò, che giunse a far prendere il provvedimento contrario.
Era salita Firenze in breve giro di anni a tanta prosperitĂ e fortezza, che non solamente capo di Toscana divenne, ma tra le prime cittĂ d'ltalia fu annoverata.
I Ghibellini pertanto veggendosi mancare di ogni pubblica autorità , e avendo alla testa Farinata degli Uberti, si raccolsero tutti a Siena, una delle città ch'era tornata di nuovo in guerra coi fiorentini mercè l'ajuto di Manfredi figlio di Federigo II re di Puglia. Il quale regnante nel mese di luglio del 1260 mandò in Toscana a sostegno degl'imperiali 800 cavalieri tedeschi sotto il comando del conte Giordano; capitano in quei tempi assai reputato.
Fu allora che i Ghibellini di Siena assistiti dai pisani e dai fuorusciti di molti altri paesi bandirono oste a Montalcino.
Nè sembrando cosa convenevole ai reggitori di Firenze di abbandonare alle proprie forze i Montalcinesi, senza porre indugio in mezzo, raccolsero e inviarono colà un poderoso esercito. II quale per malizia dei nemici fatto deviare di strada, colla lusinga di consegnargli una delle porte di Siena, diede occasione alla famosa battaglia di Montaperto, che appellare si potrebbe il Waterloo del medio evo.
La strage, per la quale fu vista l'Arbia correre sangue, dopo il segnale del traditore Bocca degli Abati, divenne si orribile che parve agli scrittori fiorentini di poterla paragonare (proporzionando le cose alle nazioni) alla disfatta di Canne; seppure non la superasse nelle conseguenze pubbliche e private.
Sarebbe opera lunga e laboriosa il registrare tanti esilj, tante crudeltà e tante vendette operate in Firenze e nel suo contado contro le persone e le proprietà , senza dire tutto il male che risentÏ la Toscana e gran parte dell'ltalia superiore dai vincitori di Montaperto. Dirò bensÏ essere giunta la irascibilità di questi a tale vituperio, che conculcando ogni legge naturale e civile, inveÏ perfino contro lo sfacellato cadavere del benemerito concittadino Aldobrandino Ottoboni (cui la patria riconoscente aveva eretto un monumento in S. Reparata) scavandolo dalla tomba dove trovavasi già da tre anni sepolto, per gettarlo in una vile cloaca, dopo averlo per tutta la città orribilmente trascinato.
Ville, mobili, poderi e tutte le sostanze de'Guelfi vennero poste a sacco, disperse e messe a comune, i loro resedj, le torri, i palazzi pazzamente atterrati; e per colmo di vendetta al parlamento dei capi della Lega Ghibellina in Empoli fu messo a partito il progetto di disfare da capo a fondo la stessa cittĂ di Firenze: lo che sarebbe indubitatamente accaduto senza l'opposizione decisa del capitano Farinata degli Uberti.
Reggevasi il paese a nome del re Manfredi dal conte Giordano, ma in realtĂ sotto l'influsso di rabbiosi amministratori, che mutarono la faccia alle cose pubbliche e private di tutta la Toscana, ad eccezione di Lucca, l'unica fra tutte le cittĂ che in quei momenti conservasse l'antico regime, e che a molti cittadini esuli offrisse un refugio in tanta calamitĂ .
Poco appresso, dovendo il conte Giordano partire, fu costituito vicario del re in Toscana il Conte Guido Novello di Modigliana, in mano del quale fu riposto anche il governo della giustizia di Firenze.
Una delle prime operazioni del potestĂ Ghibellino fu di cacciare i Guelfi da Lucca e dal suo distretto conducendo l'esercito della Lega, prima nel Val d'Arno inferiore, per occupare le quattro terre dei lucchesi (Fucecchio, S.
Croce, Castel Franco e S. Maria a Monte), poscia nei subborghi di Lucca. Fu allora che i reggitori di essa cittĂ si trovarono costretti a promettere al capitano dei Ghibellini dentro il termine di tre giorni di cacciare i profughi sotto pena della vita; molti dei quali in tale funesta congiuntura furono costretti a prendere il partito di andare oltremonti e oltremare a procurarsi miglior ventura.
Fra questi ed altri posteriori frangenti, ad istanza dei pontefici, entrò in Italia Carlo d'Angiò per cacciare da Napoli Manfredi. Allora i Guelfi usciti di Firenze si esibirono al papa Clemente IV di concorrere all'impresa con i loro cavalieri. Avendo il pontefice accettata l'offerta milizia, consegnò alla medesima una bandiera avente la sua arme, quella stessa che d'allora in poi ritenne sempre il magistrato della Parte Guelfa di Firenze, cioè, un'aquila vermiglia in campo bianco con sotto un serpente verde.
Appena giunse la novella in Firenze della battaglia guadagnata a Benevento con la morte del re Manfredi, l'ultimo giorno di febbrajo 1266, i Guelfi che erano ai confini, ovvero sparsi e nascosti per il contado, appressaronsi alla città , dove il popolo era di animo piÚ guelfo che ghibellino, e misero tale paura nel conte Guido Novello potestà e governatore dei Ghibellini, che egli, nel dÏ 11 novembre 1266, coi caporali e suoi militi fuggÏ alla volta di Prato. Il popolo rimise in Firenze i Guelfi che riformarono il governo, offrendo per dieci anni la signoria al re Carlo d'Angiò; il quale, nel marzo del 1267, vi inviò per suo vicario il conte Guido di Monforte accompagnato da 800 francesi a cavallo. Il suo ingresso in Firenze accadde nella stessa solennità di Pasqua di Resurrezione, nella quale i Ghibellini, 52 anni innanzi, con la morte di Buondelmonte attirarono sopra la loro patria cotante disavventure, talchè parve a G. Villani, che queste fosse giudizio di Dio, poichè i Ghibellini in Firenze non tornarono mai piÚ d'allora in poi in pieno stato. (G.
VILLANI Cronica. lib. VII. c. 15.) Da questo reingresso dei Guelfi, dopo un esilio di sei anni,ebbe origine la seconda riforma politica del governo fiorentino, se si valuta per prima quella del 1250, stata poco sopra accennata. Nel nuovo riordinamento fu deciso di richiamare tutti i cittadini esuli di qualunque partito, e di perdonare ai Ghibellini le passate ingiurie.
Fu allora istituito il magistrato dei capitani di Parte Guelfa, incaricato d'incamerare i beni dei ribelli. Si ordinarono diversi consigli, quello di 12 buonomini, senza dei quali niun progetto, nè alcuna spesa si ammetteva: e perchè le sue deliberazioni avessero effetto, vi era necessario il voto dei gonfalonieri o capitani delle arti maggiori, e dei consiglieri di credenza ch'erano 80, e da questi consigli doveva passare al consiglio generale, ossia dei 300 dove assisteva il podestà .
Ma quanto fu l'anno 1267 avventuroso ai Guelfi di Firenze, altrettanto riescÏ sciagurato il 1269 mediante le alluvioni dell'Arno, che nell'ottobre, traboccando dal suo letto, molta gente, molti alberi, molte case, e perfino i ponti di S. Trinità e della Carraja, trascinò nei torbidi suoi gorghi.
Tacerò del passaggio del re Corradino, che alla parte Guelfa per breve istante tolse il governo di Toscana per favorire i Ghibellini, i quali mediante un tal favore in Firenze occuparono quasi tutti gli ufizj dello stato.
Avvegnachè la sconfitta di Tagliacozzo del 23 agosto 1268 (la quale costò il trono e la vita a Corradino ultimo rampollo degli imperatori Svevi, e a Carlo d'Angiò assicurò il regno) portò anche la costernazione nei Ghibellini di Firenze, costretti a fuggire dalla loro patria, o a umili condizioni accordarsi con la parte contraria che tornava in seggio.
L'anno 1273 fu memorabile per la città di Firenze a motivo della venuta del pontefice Gregorio X con Baldovino imperatore di Costantinopoli e Carlo d'Angiò re di Napoli; e bramando quel papa di rimettervi costà la pace tra il partito dominante e i Ghibellini di fuori, nel dÏ 2 di luglio, tutta quella papale, imperiale e regia comitiva in presenza del popolo si presentò nel greto d'Arno a piè del ponte Rubaconte, dove il pontefice volle che si facesse pace fra le parti avverse; comecchè essa fosse di breve durata. Nè piÚ lunga fu quella che nel 1277 tornò a farsi per opera del cardinale Latino Orsini, delegato a ciò dal pontefice Niccolò III, che tentò di riformare il governo di Firenze, instituendo un magistrato di 14 cittadini, dei quali 8 Guelfi e 6 Ghibellini.
Dopo tutti questi casi, nel 1282, sorse in Firenze una nuova magistratura progettata dai mercanti di Calimala, che rimpiazzò quella dei 14 creati dal cardinale Latino; quella cioè, dei Priori delle Arti, detti piĂš tardi (anno 1458) Priori di LibertĂ . â Erano eletti a breve tempo fra le arti maggiori, (uno per ogni sesto della cittĂ ). I quali in compagnia del capitano del popolo costituivano il potere esecutivo, e tutte le grandi e gravi cose della Repubblica dovevano da essi loro governarsi.
Niuno che fosse stato nobile o grande poteva ottare a tale uffizio, se pure non era ascritto a una delle arti maggiori, a condizione di sostituire all'antico magnatizio un popolare casato.
La storia ha conservato il nome di quei sei priori che, nel 1285, camminando prosperamente gli affari interni ed esterni, deliberarono di ampliare la città con un terzo cerchio di mura, che è quello che tuttora si vede, nel tempo che si dava ordine a lastricare di mattoni le interne vie, cominciando dalla loggia d'Orto S. Michele, dove allora si teneva il mercato del grano.
Le cose dei fiorentini dopo creato il magistrato de'Priori, procedettero cotanto bene, che gli aretini presero il partito d'imitarne l'esempio coll'affidare a uno solo l'autorità concorde di piÚ. Avvenne però, che il priore da essi eletto perseguitando oltremodo i grandi, questi, nel 1287, prestamente lo finirono, cacciando i Guelfi dalla città per affidare le redini del governo al vescovo Guglielmo degli Ubertini, uomo stimato valoroso e grandissimo partigiano dei Ghibellini. Il quale mitrato con l'assalto di Cortona, del 1258, aprÏ la sua carriera politico militare, e nel 1289, la chiuse vittima di ambizione o di coraggio con la battaglla di Campaldino.
Battaglia che fu per lunghi anni celebrata con palio dai fiorentini nel giorno di S. Barnaba, santo che Firenze prese per secondo protettore della cittĂ .
Battaglia famosa non tanto per le conseguenze, quanto per gli uomini celebri che figurarono fra i prodi nelle file dei fiorentini, tra i quali Vieri de'Cerchi e Corso Donati, due personaggi che si fecero in seguito capi di due potenti fazioni; e per avervi militato Dante Alighieri allora Guelfo, mentre 22 anni dopo fu allontanato dalla patria per Ghibellino, nel tempo che sedeva nel magistrato de'Priori Dino Compagni, cronista che succedè immediatamenie a Ricordano Malespini, quando appunto nasceva lo storico piÚ celebre Giovanni Villani.
Era appena corso un anno dalla vittoria di Campaldino, che si credè bene di fare una correzione alli statuti, ristringendo a sei mesi invece di un anno l'ufizio dei potestà di Firenze e di dar effetto a una provvisione che vietava di rieleggere prima di tre anni ogni priore stato di magistrato.
Non ostante che i popolani si fossero ingegnati piÚ volte di porger rimedio con provvedimenti e leggi nuove alle civili discordie, onde tenere in frèno la potenza dei grandi, questi però trovandosi del favore de'parentadi, della reputazione di un'invecchiata nobiltà e della fresca gloria da essi acquistata nelle ultime battaglie, toglievano l'ardire agli offesi di accusarli; nè gli stessi giudici si arrischiavano di castigarli ogni qual volta l'accusa fosse accaduta. Ma quando anche si discorreva nelle società popolari della maniera di provvedere alla salute e libertà comune, veruno mostravasi disposto, e a niuno bastava l'animo di farsene capo.
Il valore e l'industria di un cittadino spedÏ tostamente l'inviluppo di tale negozio. Questi fu Giano della Bella, uomo di condizione popolare, nato però di nobile famiglia, per ricchezze, aderenze e condotta dall'universale apprezzato. Il quale essendo nuovamente eletto de'Priori delle arti, ed entrato in carica li 15 febbrajo del l293, a nativitate, persuase i suoi compagni, che per dare maggior forza al popolo era d'uopo aggiungere all'ufizio dei Priori uno di maggiore autorità degli altri. Questo si chiamò il Gonfaloniere, di giustizia, perchè alla sua custodia fu affidato il gonfalone con l'insegna del popolo, che era la croce rossa nel campo bianco, e una guardia di mille soldati d'infanteria, il cui numero poscia per due volte si raddoppiò.
Quindi si fecero leggi municipali sotto nome di Ordini della giustizia , per punire i potenti che avessero oltraggiati i popolani, e fu deliberato, che qualunque famig lia avesse avuti cavalieri, (erano in tutto 33 casate di messeri) s'intendesse che fossero de'grandi, e che niuno di loro potesse entrare in seggio de'signori, nè diventare gonfaloniere di giustizia, o alcuno de'suoi colleghi.
E a questo ordine di cose legarono tutte le compagnie delle arti o Capitudini, dando ai loro consoli qualche autoritĂ nei consigli generali.
Tali mutazioni di stato promovendo accuse continue e severe punizioni, dovevano sempre piĂš inacerbire per paura e per sdegno i potenti cittadini, i quali non tutti dalla nobiltĂ del sangue, ma per industrie onorevoli, e talvolta per illeciti guadagni eransi fatti grandi, a danno quasi sempre del popolo minuto che volevano piĂš umile; in guisa che essi trovarono finalmente il mezzo di abbattere ques to, costringendo Giano della Bella ad allontanarsi dalla cittĂ (anno 1295), cui tenne dietro il guasto che si diede alle sue abitazioni, e la condanna di tutto il suo lignaggio a un perpetuo esilio.
Il breve periodo del governo fiorentino riformato da Giano della Bella porta tale suggello perenne e glorioso nei monumenti della patria, che ognuno resta ammirato a considerare, che per magnanimo concepimento di quella Signoria fu decretata nell'anno stesso 1294 la costruzione, e gettati i fondamenti di due piÚ grandi chiese di Firenze, cioè, S. Croce, che è il Panteon dei fiorentini, e S.
Reparata, che divenne quella maestosa cattedrale, la quale si vede sempre da tutti con maraviglia: nel mentre che l'arte dei mercanti di Calimala faceva sgomberare d'intorno al battistero di S. Giovanni le arche romane di vecchi sepolcri per rivestire con migliore disegno l'esterne mura di nobili marmi bianchi e neri, invece dei guasti e cadenti macigni.
Nè questi soli furono i monumenti pubblici, ai quali allora si dava opera; imperocchè si ajutavano di denari e di tutti i mezzi i frati Predicatori per l'edificazione della chiesa di S. Maria Novella, e i frati Agostiniani per quella di S.
Spirito, frattanto che s'ingrandiva la piazza contigua dopo comprate le case dei particola ri, e nel tempo stesso che si dava compimento all'acquedotto che dall'Arno entrando per la porta Ghibellina conduceva per uso delle arti copiosa fonte ai lavatoj di S. Simone, e quando infine si apriva una nuova porta del secondo cerchio in Oltrarno al canto della Cuculia, porta che fu chiamata di Giano della Bella.
Chiudevasi questo periodo di magistratura con la morte del primo dotto fiorentino Brunetto Latini, e con la esaltazione al papato di Bonifazio VIII, pontefice di alto ingegno e di grande ardire, quello stesso cui avvenne lo straordinario accidente di trovarsi complimentato da dodici diversi ambasciatori inviati a Roma in nome di altrettanti governi di Europa, i quali tutti interrogati: qual fosse la loro patria? risposero tutti esser nati cittadini di Firenze; per cui Bonifazio ebbe a proferire tale sentenza, che definĂŹ i fiorentini per un quinto elemento.
Innanzi che il secolo XIII spirasse, la Repubblica ordinò l'edificazione di due castelli regolari nel Val d'Arno di sopra, sotto i nomi di S. Giovanni e di Castel Franco; diede principio al maestoso palazzo di residenza della Signoria, (ora il Palazzo vecchio) nel tempo medesimo che fece metter mano ad alzare i fondamenti e le mura del terzo cerchio della cittĂ . â Vedere COMUNITA' DI FIRENZE.
STATO di FIRENZE dal 1300 sino alla CACCIATA del DUCA dâATENE Allora quando uno si fa a considerare la storia di Firenze, fra il declinare del secolo XIII e l'apparire e crescere del susseguente, resta sopraffatto e indeciso se vi sia stata una generazione meno irrequieta di quella, o se vi avesse altra cittĂ , che per copia di virtĂš, per chiari uomini e per private ricchezze di questa maggiormente fiorisse.
Sennonchè cotante doti de'fiorentini, anzichè patrimonio pubblico, essendo parziale corredo d'individui e di famiglie, queste e quelli, sia che fosse troppo vigore, o piuttosto antico livore, ad ogni piccola scintilla si vedevano accendere di sdegno, e convertire le personali discordie in pubbliche micidiali ostilità .
Infatti per cause meramente private da due nobili famiglie consanguinee sorsero in Pistoja col secolo XIV due nuove fazioni, sotto il distintivo di Bianca e di Nera . Ciascuna delle quali fa accolta e presa a proteggere in Firenze, da Donato Corsi la Nera , da Vieri de'Cerchi la Bianca; due schiatte potenti, una piÚ nobile, l'altra piÚ ricca, e sempre fra loro mal d'accordo. Per modo tale che per esse primieramente tornò a mettersi in Firenze tanto scompiglio, che non solo la città , ma tutto il contado si divise e molte volte battagliando o in altra guisa si sacrificò chi per l'una e chi per l'altra parte.
Tutti i Ghibellini tennero co'Cerchi, perchè speravano aver da loro meno offesa; vi si accostarono quelli ch'erano dell'animo di Giano della Bella, dolenti della sua cacciata.
A questi si aggiunsero i parenti e amici de'Cerchi e le persone nemiche di Corso Donati, tra le quali il poeta Guido Cavalcanti, il nipote di Ricordano Malespini, Baschiera Tosinghi, Corso Adimari e Naldo Gherardini.
Colla parte di Corso Donati tennero i grandi, amici e parenti suoi, fra i quali Pino de'Rossi, Geri Spini e loro consorti, Pazzino de'Pazzi, la maggior parte dei Bardi, quelli della Tosa, e molti altri messeri, o cavalieri.
Credendo, o per lo meno figurandosi di provvedere alle discordie interne con lâintervento esterno, la Signoria di Firenze pregò il papa Bonifazio VIII, affinchè mandasse un personaggio di sangue reale, per riformare la discorde cittĂ , che ben presto arrivò, li 4 novembre 1301, e fu molto onorato.
Ognuno sa che Carlo di Valois giunse a disporre del governo fiorentino a seconda dell'arbitrio suo; ognun sa che poco dopo il suo arrivo furono confinati ed espulsi dalla patria Dante Alighieri, il padre del Petrarca e moltissimi altri di parte Bianca, ai quali per giunta vennero confiscati e tolti i loro beni e le loro case disfatte.
Ecco le parole di Dino Compagni, testimone oculare: "L'uno nemico offendeva l'altro; si facevano ruberie; i potenti domandavano denari ai deboli; maritavansi le fanciulle a forza; uccidevansi uomini, e quando una casa ardea forte messer Carlo domandava: che fuoco è quello? gli era risposto ch'era una capanna, quando era un ricco palazzo. " Partito da Firenze Carlo di Valois, e dal mondo Bonifazio VIII, nuove divisioni fra i grandi e i popolani di parte Nera causarono nuove risse, tumulti e battaglie cittadine, tantochè la Signoria ricorse a Benedetto XI appena fatto pontefice, rimettendosi alla sua elezione per avere un buon potestĂ . â Questo aneddoto storico forma l'argomento di una lettera di quel papa, spedita li 10 aprile 1304 da Monte Rosi alla Signoria, nella quale, nomina tre o quattro candidati per cuoprire l'ufizio richiesto, esortando il popolo fiorentino alla concordia e alla pace.
Al quale scopo, egli soggiunge aveva inviato a Firenze il cardinale fr. Niccolò vescovo d'Ostia, descrivendone l'ottimo carattere nel modo simile a quello che ci viene dipinto dallo storico Giovanni Villani, (MANNI Sigilli antichi. Tom. XXV.) Frattanto nè il legato pontificio ottenne l'intento voluto, nè il potestà ricercato potè piÚ comparire a Firenze, involta piÚ che mai fra tumulti, perturbazioni, assalti e rovine.
A simili mali politici se ne aggiunsero due materiali, la caduta del ponte alla Carraja (il dÏ 1 maggio 1304) allora di legname, per troppa calca di popolo accorso a vedere una rappresentazione che si faceva nell'Arno dell'anime dannate nell'Inferno. A tal rovina tenne dietro (10 giugno) un artifiziale incendio che arse e consumò 1700 case, a cominciare dalla piazza del Duomo, Or S. Michele, via di Calimala, Mercato Nuovo e Vacchereccia sino al Ponte vecchio; incendio che portò la miseria in molte famiglie, e che per eccellenza di scelleratezza rese celebre al pari del nome di Erostrato quello di Neri Abati, che di tal maligno artifizio fu addebitato.
Non trascurarono i fuorisciti di trarre profitto da tanta desolazione e spavento, cogliendo il destro, per rientrare con armata mano in Firenze; e già erano in buon numero penetrati nella città , e dato principio al combattimento, se un primo svantaggio non li sbigottiva a segno da ritirarsi dall'azione. In guisa che il loro colpo per poco senno e per viltà andò fallito. Invece di vittoria essi abbandonarono molte vittime al furore della parte irritata; la quale rivolse le armi contro le castella dei magnati di contado che a tali imprese avevano contribuito.
Fu allora dai Neri dopo qualche resistenza preso e disfatto ai nobili de'Cavalcanti canti il castello delle Stinche fra la Pesa e la Greve, e gli abitanti chiusi nelle nuove carceri fabbricate in Firenze sul terreno degli Ubert i, (anno 1305) attualmente convertite in belle ed ariose abitazioni. Nè a questo solo castigo si limitò la Signoria retta dalla parte Guelfa, ma unitasi al governo di Lucca, mosse guerra a Pistoja, i cui cittadini dopo ostinata difesa, per rabbia di fame, dovettero aprire le porte agli assalitori (li 10 d'aprile 1306) e vedere, ad onta della capitolazione, atterrare le mura della città e le case dei grandi mettere a sacco.
La terza impresa fu diretta nel Mugello contro gli Ubaldini, i quali con buon numero di Ghibellini usciti di Firenze, si fecero forti nel castello di Montaccianico; presso il quale la Repubblica fiorentina fece edificare (anno 1306) la regolare terra murata di S. Barnaba, ossia di Scarperia.
Prima che l'anno stesso terminasse il suo giro, sembrando ai popolani di Firenze che i loro grandi avessero presa troppa baldanza, vollero rafforzare il governo coll'istituire l'ufizio dell'Esecutore degli ordinamenti, della giustizia, perchè egli dovesse sorvegliare e procedere contro i grandi che offendessero i popolani e contro i rivoltosiâ ll primo eletto In tale carica fu Matteo de'Ternibili di Amelia, sotto di cui si abbellĂŹ alcuna parte di Firenze, e si rifece la via de'Cavalcanti, oggi detta di Baccano, di che resta ivi tuttora la lapida con lo stemma. Al Ternibili, nel 1309, successe nel medesimo impiego di Esecutore degli ordinamenti della giustizia Albertino Musatto da Padova, il quale tre anni dopo figurò sotto le bandiere dell'imperatore Arrigo VII con la penna e con la spada.
In realtà la comparsa di Arrigo VII in Italia fu per i fiorentini simile a quella di un astro apportatore di nuove procelle, comecchè Firenze dopo Brescia sia stata la città che mostrò maggior cuore, e tale da resistere e render vana ogni sorta di minaccia, anche nel tempo che essa fu da numerosa oste (anno 1313) assediata e le sue belle e popolose campagne dagli assedianti dilapidate.
La morte dell'imperatore rincuorò il governo di Firenze che per un tempo determinato si era messo sotto la protezione di Roberto re di Napoli. Imperocchè da questo coronato s'inviava costà il potestà sotto nome di vicario R., accompagnato da piÚ centinaja di cavalieri e da baroni del regno. Esso sopravvedeva alla giustizia tanto nel civile che nel criminale, e comandava la guerra previo giuramento, di attenersi fedelmente agli statuti della Repubblica.
Frattanto nuovi casi trassero nuova procella dalla parte di Val di Nievole, quando Uguccione della Faggiuola, giunto a Pisa, rianimò i Ghibellini, mesti e avviliti per l'inattesa morte di Arrigo VII, a speranza di vittoria.
Questa infatti l'ottenne ben presto solenne e completa (20 agosto 1315) contro l'oste riunita dei Fiorentini, Senesi, Volterrani, Pistojesi, e di tutte le Terre di parte Guelfa della Toscana, raccolta fra la Pescia maggiore e la Nievole, in guisa che la battaglia di Montecatini fu quasi un altra disfatta di Montaperto.
Dissi, quasi di Montaperto, avvegnachè non giunsero questa volta i vincitori Ghibellini di mettere a soqquadro come allora fecero la Toscana tutta; e se ad alcuni di essi in Firenze riescÏ di riporre il piede, mancò, loro la forza di prendere stato. Al contrario i vincitori inasprirono i vinti, talchè agli usciti prolungarono la pena di esilio, pubblicando i loro beni, e sentenziavano altri, all'ultimo supplizio, fra i quali Dante Alighieri, nel tempo stesso che s'innalzavano le nuove mura, dalla porta al Prato a quella di San Gallo, per mettersi in difesa da quelli di fuori.
Vi fu anche un momento in cui Firenze si rallegrò, quando sentĂŹ avvenuta in un giorno medesimo (10 aprile 1316) lâespulsione di Uguccione dalla Signoria di Pisa e da quella di Lucca, per soverchia tirannĂŹa usata in verso le due cittĂ ; dalle quali i fiorentini con tutti i loro alleati ben presto ottennero i prigioni fatti alla sconfitta di Montecatini.
Sennonchè in luogo di Uguccione sorse in Castruccio un piÚ intraprendente capitano, e di piÚ alta mente di qualsiasi altro di quel secolo; avvegnachè egli diede assai che fare e bene spesso triste lezioni ai fiorentini finchè visse.
Egli adunque senza alcuna provocazione rompendo con Firenze la pace, alla testa dei lucchesi e dei pisani, nella primavera del 1320, e nuovamente nel 1321 e 1323, corse nella Val di Nievole, e di là nel Val d'Arno inferiore recando ogni sorta di danno e saccheggio ai paesi aperti, o difesi da muri e da rocche del contado fiorentino, e ardÏ perfino con l'oste di avvicinarsi a Prato. Lo stesso duce nell'anno 1325 pervenne inaspettatamente a impadronirsi di Pistoja. Quest'ultimo colpo di mano di un destro politico e di un valoroso militare provocò tale ira e vergogna nel governo e popolo fiorentino, che si raccolse in città un esercito piÚ numeroso di quanti altri ne avesse avuti Firenze in proprio, senza contare l'aumento che ricevè dalle milizie a piedi e a cavallo delle città collegate.
Ma una sÏ numerosa oste, che credeva di potere conquistare Lucca non che i paesi tolti da Castruccio, restò vinta con grande strage (li 23 settembre 1325), e in gran parte esangue o prigioniera di piÚ accorto capitano fra le paludi di Bientina e di Fucecchio. La rotta dell'Altopascio, che contasi fra le memorabili sconfitte degli eserciti fiorentini, mosse il vincitore verso Firenze con l'idea di profittare della paura e dello scompiglio del popolo, onde con manovra di mano maestra vedere d'impadronirsi della stessa città . Fu allora che a insulto e scherno dei vinti fece battere moneta a Signa e correre tre palj da Peretola sino al ponte alle Mosse, che è un miglio presso a Firenze, mentre i fiorentini stavansi rinchiusi dentro le nuove mura che procurarono in massima fretta di circondare di fossi e fortificare. Se in quell'occasione non fosse comparsa a salvare la patria un'altra Vetturia nella matrona de'Frescobaldi, la quale per la carità della patria distogliesse il figlio Guido Tarlati vescovo di Arezzo dall'unire il suo esercito a quello di Castruccio, Firenze avrebbe dovuto soccombere a tanta sciagura.
Giunse poco dopo in sussidio Gualtieri duca d'Atene, in qualità di vicario interino di Carlo duca di Calabria con 400 cavalli. Il quale Gualtieri seppe tenere il suo posto saviamente, finchè non arrivò lo stesso duca di Calabria figlio del re Roberto accompagnato da una splendida corte. Ma le pompose feste date dai fiorentini per riconoscere quel principe in quasi assoluto signore della Repubblica, piuttosto che occuparsi di raccogliere gente per tentare di respingere il temuto Castruccio, fecero perdere tanto tempo, che quest'accorto capitano potè porsi in grado da riparare a tutti gli assalti, che dopo gli furono mossi contro da piÚ lati con la croce, con la spada e con le congiure.
Ad aggravare la somma di tante sciagure il commercio di Firenze risentĂŹ contemporaneamente alla disfatta dell'Altopascio un danno immenso pel fallimento di 400,000 fiorini d'oro della societĂ mercantile de'Petri e degli Scali.
Che piÚ! a sostegno di Castruccio stava per muoversi dalla Germania con numeroso seguito Lodovico duca di Baviera, per venire a incoronarsi re a Milano, a Roma imperatore. Ma il capitano lucchese, volendo fare pomposa corte all'intruso coronato, costretto di allontanarsi dai suoi dominj perdè Pistoja per sorpresa dei fiorentini. Comecchè un tale acquisto costasse ben presto lagrime di sangue ai pistojesi obbligati di arrendersi per fame a discrizione del reduce e indispettito Castruccio, che seppe rendere immobile un numeroso esercito fiorentino (3 agosto 1328) inviatogli contro. Dopo tale emergente il re Bavaro si andava avvicinando minaccioso verso Firenze; e già il governo preparavasi a fargli fronte quanto poteva fortificando le mura della città e quelle dei vicini castelli, e provvedendo l'una e gli altri di armi e di vettovaglie, sul timore di dovere sostenere un secondo assedio piÚ formidabile di quello del settimo Arrigo: quando la morte di Castruccio liberò Firenze e il suo contado da tante angoscie.
Assai maggiore fu la paura e il danno che le avvenne nell'autunno del 1333, allorchè seguÏ una delle piÚ strabocchevoli inondazioni dell'Arno, la quale allagò tutta Firenze, colla distruzione di muri, di pescaje e di tre ponti dentro la città , cioè, del ponte Vecchio, del ponte di S.
Trinita, e di quello della Carraja.
Immensa fu la rovina e guastamento della campagna, sicchè Giovanni Villani non trovando numero di moneta che potesse adeguarla, solamente aggiunge che a rifabbricare i ponti, le mura e le vie del Comune di Firenze si spesero piÚ di 150,000 fiorini d'oro.
Sorprenderà il sentire come pochi mesi dopo accaduto tanto flagello, si tornasse a ricostruire, non solamente i ponti, muri e altri edifizi abbattuti, ma si spendessero grandi somme per l'annona, per il magnifico palazzo alzato sopra le logge di Or S. Michele, dopo la provvisione dalla Signoria decretata, nel dÏ 25 settembre dell'anno 1336, mentre si gettavano i fondamenti della torre maravigliosa di Giotto; e tutto ciò nel tempo stesso che si attendeva alla dispendiosa guerra e alla malaugurata compra di Lucca, per la quale i reggitori di Firenze spesero invano una disordinata somma di moneta, non calcolando quella che consumossi nelle guerre di Lombardia contro Mastino della Scala.
Del dominio e della entrata che aveva il Comune di Firenze tra il 1336 e il 1338 ne ragionò lo storico G.
Villani cittadino guelfo, e uno de'mercanti fiorentini, quando la sua patria signoreggiava in Pistoja, in Colle di Val d'Elsa e nei respettivi contadi, quando teneva 18 castella murate del territorio di Lucca, e 46 castella forti del distretto e contado di Firenze, senza le tante rocche e castelletti di proprietĂ dei cittadini oltre una grandissima quantitĂ di terre, borghi e ville non murate.
La somma dell'entrate di Firenze stava si piĂš che altrove nel commercio, che formava la maggior ricchezza dei cittadini; i quali però ebbero poco dopo una fatale scossa nel fallimento delle compagnie deâPeruzzi e dei Bardi, creditori di 1,365,000 fiorini d'oro per somministrazioni fatte a Eduardo III re d'Inghilterra, che non trovossi in grado di soddisfare.
Pareva alla Signoria di Firenze di non potere fra tante avventure sostenere meglio il governo che affidandone l'esecutivo a una specie di dittatore, cui diedero il titolo di Capitano della guardia, o Conservatore del popolo.
Quest'ufiziale creato tre anni dopo la grand'alluvione, senz'obbligo di ubbidire agli ordini della giustizia, nè di render conto ad alcuno fuori che ai Priori delle arti, tenne sÏ aspro e crudele governo che alcune potenti famiglie cercarono di cospirare nella città per abbattere il capitano e abolire quell'ufizio.
Coi Bardi si unirono alcuni de'Frescobaldi, de'Rossi, de'conti Guidi, i Pazzi di Val d'Arno, i Tarlati di Arezzo, gli Ubertini, gli Ubaldini, i Guazzalotti di Prato, i Belforti di Volterra e piĂš altri: i quali doveano levare la cittĂ a rumore per uccidere il capitano della guardia, e rifare in Firenze nuovo stato. E sarebbe loro certamente venuto fatto, se non vi fosse stato chi rivelasse la cogiura, che scoppiò con tristo effetto dei congiurati nel settimo compleanno della disastrosa piena dellâArno, cioè il dĂŹ d'Ognissanti 1340. Era nel numero dei congiurati mess.
Jacopo de'Frescobaldi priore di S. Jacopo Oltrarno, quello stesso che nel 1335 alienò al capitolo fiesolano i terreni posti sul poggio dove fu la rocca di Fiesole, e che a cagion di simil congiura fu condannato come ribelle del governo con la confisca de'suoi averi. â Vedere FIESOLE pagina 113. col I.
Da tale macchinazione nacque una riforma nel regime di Firenze, la quale fruttò, invece di uno, due Conservatori, abusivamente detti, della pace. A questi fu accordata maggiore autorità di prima, ad uno per sorvegliare la città e all'altro il contado; sicchè dal cattivo governo di costoro si venne presto a cadere nelle pessime mani di Gualtieri duca d'Atene, chiamato a coprire lo stesso ufizio di Conservatore della pace, quale altra volta esercitò con plauso e giustizia. Cosicchè poco dopo il popolo si diede di buona voglia in braccio a lui acclamandolo, invece di Conservatore per un anno, Signore di Firenze e Principe a vita con illimitata autorità .
Che però se al duca riescÏ facile di acquistare la città e dietro a essa tutto lo stato di una Repubblica che in libertà non sapeva mantenersi, e la servitÚ patire non poteva, per egual modo Gualtieri vide prestamente strapparsi lo scettro, sbalzandolo dal trono quei grandi e quei popolani medesimi, dai quali era stato onorato, acclamato e posto in palagio.
Le accuse secrete, i tormenti, le condanne in denari, le punizioni a un duro carcere, al taglio della testa, della lingua o della mano, ed altre turpitudini e dissolutezze, furono i flagelli che subentrarono alle esultanti feste di gioja fatte nel dĂŹ 8 settembre 1342 a onore del duca d'Atene. A rendere le quali piĂš solenni vi concorse perfino la persona piĂš rispettabile della cittĂ , quale fu il vescovo fr. Angelo Acciajuoli, che a coronare la festa della Signoria del duca Gualtieri, disse un panegirico per magnificare le credute virtĂš del mascherato principe appresso il popolo.
Ma l'atroce maniera di operare del duca d'Atene e dei suoi satelliti, gli preparò contro in un tempo medesimo tre cospirazioni diverse, di grandi e di popolani, senza che una sapesse nulla dell'altra.
Lo stesso vescovo di Firenze Acciajuoli, pentito di avere ingiustamente lodato il tiranno, si era fatto capo della prima e piÚ forte congiura. Alla testa della seconda si posero i Donati e i Pazzi, mentre della terza era il primo Antonio Adimari. La scoperta di tante e sÏ numerose macchinazioni spaventò, ma non avvilÏ il duca, il quale si preparava a farne vendetta da suo pari, quando tutti i cittadini corsero armati in piazza per assediarlo in palazzo, trucidare i suoi agenti e cacciare via il tiranno dalla residenza dei Signori con perpetuo esilio dallo stato.
I 21 gonfaloni delle arti maggiori e minori, che ogn'anno nel giorno di S. Anna sventolano intorno ai pilastri della chiesa di Or S. Michele, rammentano la festa anniversaria della cacciata del duca d'Atene (26 luglio 1343); il di cui governo non lasciò altra memoria lodevole fuori di quella che per tristezza sua derivò in bene alla città , mercè la riunione di molte famiglie cospicue per odio inveterato fra esse d'animo alienate, e la magnifica strada che al tempo suo fu ampliata da Or S. Michele sino allo sbocco della piazza della Signoria.
STATO DI FIRENZE DAL 1343 alla CAPITOLAZIONE di PISA Posata alquanto la cittĂ dal furore dopo la cacciata del duca d'Atene, 14 cittadini nominati dal popolo sotto la presidenza del vescovo Acciajuoli si occuparono di riformare il governo e le magistrature; e vinse il partito che i magnati fossero a parte degli ufizi per maggior unione dell'universale, in guisa che i grandi entrarono nel magistrato della Signoria per una terza parte, e negli altri ufizi per la metĂ .
Era stata fino allora la cittĂ di Firenze divisa per Sesti, cinque alla destra e uno alla sinistra dell'Arno, questo era nominato di Oltrarno, gli altri si appellavano S. Piero Scheraggio, Borgo (SS. Apostoli), S. Pancrazio, Porta del Duomo e Porta S. Piero ; cosicchè, sei Priori (Signori),uno per Sesto, si erano fatti. Eccetto che per alcune mutazioni giĂ da noi avvertite, talvolta 12 e 13 col gonfaloniere si vennero a creare, ma poco di poi erano tornati a sei. â Parve bene di riformare la cittĂ da Sestieri in Quartieri, sĂŹ per essere i Sesti di Oltrarno e di S. Pier Scheraggio i piĂš imposti degli altri, sĂŹ perchè dei grandi uno per Quartiere elegger si voleva.
Non ostante simili misure governative nè i grandi si acquetarono, nè il popolo si trovò contento di averli per colleghi negl'impieghi maggiori, nè la mediazione del vescovo Acciajoli bastò a contentare gli uni e gli altri.
Contro tali e cosĂŹ frequenti mutazioni sull'ordine del governo, che soggettavano Firenze a continue agitazioni e a sempre nuove riforme, scagliossi non senza ragione la penna dell'esule poeta, quando rivolgendosi verso la patria esclamava: Verso di te che fai tanto sottili Provvederementi, che a mezzo novembre Non giunge quel che tu d'ottobre fili.
(DANTE. Purg. C. VI) Ciascuno infatti avrebbe creduto, cacciato che fu da Firenze il duca d'Atene, che potessero i cittadini vivervi quieti, onorati e felici. Nondimeno tante erano le leggi, tanti gli ordinamenti di giustizia, disponenti per loro natura, piuttosto che a impedire, a promuovere divisione, che Firenze poco tempo ebbe a godere in pace il frutto della riacquistata libertĂ .
Erano corse infatti poche settimane, quando avvennero quei mali, dei quali erasi dubitato, e che mossero la cittĂ a nuovi rumori, battagliando il popolo contro i nobili barricati nelle loro torri, sulle testate dei ponti e nei capi strade: e fu tanto ostinata la zuffa contro i grandi, che questi si trovarono da ogni lato costretti a cedere all'impeto di tutta una popolazione armata, e quindi a lasciare l'ufizio dei Signori totalmente in mano degli artigiani.
Fu allora che dal partito vincitore si ripristinò il Gonfaloniere di giustizia, come al tempo di Giano della Bella, che si ammisero nel consiglio intimo della Signoria 16 gonfalonieri di arti e mestieri: per modochè tutto il regime governativo nell'arbitrio del popolo grasso e minuto si era ridotto.
Il solo benefizio che potesse servire in qualche modo ad acquetare i grandi fu quello d'inscrivere 500 magnati, fra la cittĂ e il contado, nella classe dei popolani, e conseguentemente di abilitare i medesimi agl'impieghi dello Stato.
A quest'epoca (anno 1344) risale l'istituzione delle compagnie de'Vigili, oggi appellati Pompieri, promossa dai molti incendj che ognora per la città accadevano; e fu destinata la campana cha si recò da Vernio, quando s'appigliava il fuoco di notte, a darne il cenno dai merli del palazzo del popolo.
Provvidesi eziandio all'indennità di coloro, i quali avevano prestato al Comune, con iscrivere i loro crediti nei libri del debito pubblico, mercè d'un provvedimento deliberato nel febbrajo 1345. Il qual debito si trovò che ammontava a 570,000 fÏorini d'oro; cui vi erano da aggiugnere quasi altri 100,000 fiorini per ragione della compra di Lucca, pretesi da Mastino della Scala. Pel quale debito la Repubblica accordò ai creditori dello stato il 5 per 100 d'usufrutto; ciò che diede origine al Monte dei 5 intieri (Mons quinqe integrorum), espressione talvolta specificata negli atti posteriori a quell'età .
A rinfrancare i creditori del Monte comune la Signoria di Firenze destinata aveva una parte delle rendite sopra le gabelle comunitative. Quali esse fossero, e a qual somma, all'anno 1338, ascendessero simili proventi e le maggiori risorse della Repubblica Fiorentina, lo lasciò scritto a memoria dei posteri Giovanni Villani nel libro XI della sua Cronica; al capitolo 92 della quale apparisce, che: il Comune di Firenze di sue rendite fisse aveva assai piccola entrata, ma reggevasi in quei tempi per gabelle, e nei casi di bisogno, per prestanze o imposte (balzello) sopra le ricchezze dei suoi cittadini. Le quali gabelle vendevansi annualmente all'incanto e rendevano al governo un anno per l'altro circa 300,000 fiorini d'oro,allorquando questa moneta si spendeva a ragione di lire 3 e soldi 2 a un circa; lo che corrispondeva a 930,000 lire. Allo stesso proposito nota pure il Villani, che nè il re di Napoli nè quello di Sicilia nè quello di Aragona avevano allora tanto d'entrata.
Rendite fisse di Firenze innanzi la peste del 1348 - Rendevano le gabelle delle porte pei generi che entravano, e che uscivano dalla cittĂ , fiorini 90,200 - Quella della vendita del vino a minuto, fiorini 58,300 - Lâestimo del contado; fiorini 30,100 - La rendita del sale; fiorini 14,450 - Totale fiorini 193,050 N. B. Le anzidette 4 maggiori gabelle erano destinate, nel 1338, a far fronte alle spese della guerra diLombardia, che in mesi trentuno e mezzo costò al Comune di Firenze piu di 600,000 fiorini d'oro.
- La gabella sopra i prestatori; fiorini 3,000 - La gabella dei contratti; fiorini 20,000 - La gabella delle bestie e dei macelli della città ; fiorini 15,000 - La gabella dei macelli del contado; fiorini 4,400 - La gabella delle farine e macinature; fiorini 4,250 - La gabella delle pigioni della città ; fiorini 4,150 - La gabella delle pigioni del contado; fiorini 550 - La gabella dei cittadini che andavano di fuori in impiego; fiorini 3,500 - La gabella delle accuse e scuse; fiorini 1,400 - La gabella dei mercati della città per le bestie vive; fiorini 2,000 - La gabella dei mercati del contado; fiorini 2,000 - La gabella del segno dei pesi e misure; fiorini 600 - La gabella della spazzatura delle biade sulla piazza d'Orsanmichele, e nolo delle bigoncie; fiorin i 750 - La gabella degli sporti delle case; fiorini 7,000 - La gabella delle Trecche, e Trecconi; fiorini 450 - La gabella della tassa a mallevadorÏa di portare d'arme, a soldi 20 per ciascuno; fiorini 1,300 - La gabella dei Messi; fiorini 100 - La gabella de foderi del legname che venivano per Arno; fiorini 50 - La gabella dei rischiami dei Cons. dell'Arti per ciò che toccava al Comune; fiorini 300 - La gabella degli approvatori di mallevadorÏe; fiorini 250 - I beni dei beni dei ribelli banditi rendevano, almeno; fiorini 7,000 - Il guadagno della zecca sulla moneta dell'oro valutasi; fiorini 2,300 - Quello sulla moneta dei quattrini e piccioli; fiorini 1,500 - I passaggi dei beni; fiorini 1,600 - Le condannagioni rendevano; fiorini 20,000 - I nobili del contado pagavano fiorini 2000 - L'entrata de'difetti de'soldati a cavallo e de'fanti; fiorini 7,000 - Quella delle prigioni; fiorini 1,000 - Totale fiorini 306,400 Si avverta che varie rendite, come quelle delle gabelle sulle mulina e pescaje, delle possessioni del contado, e altre minori entrate del Comune di Firenze, sono indicate senza darne la somma dallo stesso autore. Il quale dopo aver noverate nel capitolo susseguente (93) le spese dei diversi impiegati civili e militari della città di Firenze, discorre nel capitolo 94 del numero e classe dei suoi abitanti, delle quantità delle parrocchie, conventi, badie, ec. In guisa che stimavasi che fossero allora in Firenze da 25,000 uomini atti a portare arme, dai 15 in fino ai 70 anni, tutti cittadini, tra i quali 1500 nobili della classe dei grandi con 75 cavalieri di corredo.
Si battezzavano in questi tempi in San Giovanni per anno dai 5500 ai 6000 bambini; nel qual numero per altro è da avvertire esservi comprese le parrocchie suburbane dipendenti dalla pieve maggiore di S. Reparata.
Calcolavasi la popolazione totale della città a circa 90,000 bocche dal consumo del pane che bisognava di continuo, sebbene un tal calcolo fosse per riuscire assai fallace, sia perchè la maggior parte de'ricchi nobili e agiati cittadini stavano con le loro famiglie 4 mesi dell'anno, e taluni piÚ, nelle loro ville di contado, sia perchè molti di loro panizzavano per conto proprio.
Entravano in Firenze nel giro di un anno, da 55000 cogni di vino, e in tempi di abbondanza sino a 65000.
Si macellavano per anno i seguenti capi di bestie: Manzi e vitelle, circa N° 4,000 Agnelli, castrati e pecore, circa N° 60,000 Capre e becchi, circa N° 20,000 Majali, circa N° 30,000 Ogni giorno abbisognavano per gli abit. di Firenze grano, moggia N° 140 Entravano nel mese di luglio dalla porta S. Frediano some di poponi 4000, e tutte si distribuivano nella città .
I fanciulli e fanciulle che frequentavano le scuole di leggere erano circa N. 10,000 Quelli che imparavano l'abbaco in sei grandi scuole pubbliche, N. 1,200.
I giovanetti che studiavano grammatica e logica in 4 grandi scuole, N. 600 Le chiese, fra quelle della città e dei subborghi, N° 110 cioè Parrocchie, N° 57 Badie con 80 monaci, N° 5 Priorati, N° 2 Conventi di frati, N° 22 Monasteri con 500 donne, N° 24 Totale N° 110 Preti cappellani, N° 300 Spedali per 1000 poveri e infermi, N° 30 Botteghe dell'arte della Lana, N°200 Queste impannavano da 70 in 80 mila pezze di panni lani, che valevano 1,200,000 fiorini d'oro a un circa, e davano lavoro da vivere a piÚ di 30,000 persone.
I fondachi dell'arte di Calimala, ossia de'mercanti e acconciatori de'panni forestieri, erano intorno a venti. Essi acconciavano ogn'anno piĂš di 10,000 pezze di panni che facevano venire di Francia e da altre parti oltramontane, per la valuta di 300,000 fiorini d'oro, e tutti questi panni eran venduti in Firenze, senza contare quelli che si rinviavano all'estero.
I banchi dei cambisti erano circa 80.
Le botteghe di setajoli, 83 Si coniavano ogn'anno di moneta d'oro fiorini 350,000, e talvolta sino a 400,000. Di moneta d'argento da quattro piccioli l'una se ne batteva circa lire 20,000.
Il collegio de'giudici era di circa N.° 80 Quello dei notari N.° 600 I medici e cerusici circa N.° 60 Le botteghe de'speziali intorno a N.° 100 I forni della città N.° 146 I mercatanti e merciaj erano in gran numero, e da non potersi contare le botteghe delle arti e mestieri minori.
Oltre a ciò non vi era cittadino, popolano o grande, che non avesse già edificato, o che non fosse per costruire in contado una qualche possessione con belli edifizj e molto meglio che in città . "E sÏ magnifica cosa era a vedere, (cito le espressioni dello storico) che i forestieri non usati a Firenze venendo di fuori, i piÚ credevano per le ricche abitazioni e belli palagj che erano d'intorno a tre miglia a Firenze, che tutti fossono della stessa città , senza dire delle case, torri, cortili e giardini murati piÚ da lungi, talchè si stimava che intorno a sei miglia aveva tanti ricchi e nobili abituri che due Firenze non avrebbono tanti. Tale si manteneva lo stato di questa capitale dopo la cacciata del duca d'Atene, quando due piÚ micidiali e invisibil nemici, uno dopo l'altro, vennero ad assalirla, e giunsero quasi a distruggerla; voglio dire la desolatrice carestia del 1346, e 1347, e la memorabile pestilenza del 1348 da Giovanni Boccaccio con tanta eloquenza descritta.
Per i quali due flagelli mancarono in questa città quasi 100,000 persone: se pure non fu esagerato di troppo il novero dato dal Boccaccio; avvegnachè 10 anni innanzi, per asserzione di Giovanni Villani, rimasto vittima di quella pestilenza, la popolazione di Firenze, non compresi gli abit. delle parrocchie suburbane, stimavasi che fosse di circa 90,000 abitanti.
Gli assegnamenti che il Comune aveva accordati per proseguire la grandiosa fabbrica di S. Maria del Fiore in questi anni di traversie furono sospesi, siccome lo manifesta un'istanza degli Operaj di quel tempio presentata al magistrato della Signoria li 12 marzo 1350 stile comune; nella quale fu esposto: come fino dall'anno 1332 era stato ordinato dai Signori Priori, che quelli i quali compravano le gabelle del Comune pagassero agli Operaj della nuova cattedrale due denari per lira dell'incasso che ritraevano per servire alla detta costruzione; e siccome un tal ordine non era stato osservato, e per mancanza di mezzi gli Operai erano sul punto di dover sospendere la fabbrica con disonore del Comune, per ciò domandavano la conferma di tale provvisione. Infatti la Signoria rescrisse per l'esatto adempimento di ciò che fu deliberato nell'anno 1332.
(ARCH. DIPL. FIOR. Carte del Bigallo .) Ad accrescere nuova costernazione alla desolata città si aggiunse, tre anni dopo, la menifesta ostilità d'un potente principe in mess. Giovanni Visconti arcivescovo di Milano. Il quale, impadronitosi di Bologna, inviava per la valle del Reno un numeroso esercito, che, oltrepassato l'Appennino di Pistoja, scorrendo disertò le campagne delle valli dell'Ombrone e del Bisenzio sino quasi alle porte di Firenze. E ciò nel tempo stesso che si scoprivano fautori del Visconti gl'Ubaldini del Mugello, i Pazzi del Val d'Arno, gli Ubertini di Val d'Ambra e i Tarlati di Arezzo.
Finita che fu cotesta dispendiosa guerra con il trattato di Sarzana (anno 1353), Firenze ebbe che fare con le compagnie di avventurieri rimaste senza offerente che le assoldasse. E quasi che ciò non bastasse a tormentare i fiorentini, sopraggiunse altra cagione di scandalo per odio intestino di due potenti famiglie, gli Albizzi e i Ricci; le quali rinnovarono con la ripristinazione dei capitani di Parte Guelfa le tragiche scene dei partiti, e le persecuzioni verso i cittadini tenuti, o accusati per Ghibellini. In apparenza contro questi partitanti, ma in realtà per soddisfare le private vendette, fu data a quel magistrato di terroristi maggiore e piÚ dispotica autorità di prima, essendo in suo arbitrio di ammonire chiunque cittadino reputasse non perfetto Guelfo, privandolo per tal gastigo del diritto di poter concorrere ad esercitare alcun ufizio, o impiego civile nella Repubblica.
Ă avvegnachè un tal modo di procedere dispiacesse a molti, e inclusive a Uguccione dei Ricci che ne fu l'autore, questi essendo entrato uno dei priori (anno 1358), con altra legge provvide, che ai sei capitani di Parte Guelfa tre se ne aggiungessero, dei quali due fossero dei minori artefici, e che non si potesse ammonire un cittadino, se prima una deputazione di 24 Guelfi non confermasse la sentenza dei capitani di Parte, che aveva chiarito, o dichiarato uno come Ghibellino. Nè è da passare sotto silenzio, che in mezzo a simili vicende civili, politiche e naturali, la Signoria di Firenze riparava a forti spese straordinarie, come quella di pagare nel passaggio dellâimp. Carlo IV 100,000 fiorini (anno 1355) per la conferma degli antichi privilegj; di spenderne 35,000 per la costruzione delle mura castellane di S.
Casciano in Val di Pesa; e ciò nel tempo istesso che accerchiavasi la terra di Figline, e che abbellivasi la città col proseguire la sospesa fabbrica della cattedrale, col terminare il cerchio delle mura di Firenze fra porta S.
Gallo e porta la Croce, coll'ampliare la piazza del popolo, e col dar principio alla magnifica loggia dellâOrgagna, appena che questo insigne artista ebbe compito il sontuoso tabernacolo della Madonna d'Orsanmichele, il quale costò la forte somma di 80,000 fiorini d'oro.
A tanta prosperitĂ interna corrispondevano le cose di fuori, sia per l'espulsione della compagnia del conte Lando dal territorio fiorentino, per la quale Firenze accolse con pompa straordinaria e quasi in trionfo il capitano Pandolfo Malatesta condottiere dei suoi eserciti; sia per l'acquisto che si fece poco dopo (anno 1360) de'paesi tolti ai Tarlati agli Ubaldini e ai Belforti, famiglie nemiche della repubblica.
Se non che amareggiava l'animo di molti nobili cittadini la tirannia dei capitani di Parte Guelfa, i quali ad onta della legge del 1359, che doveva tenergli in freno, avevano ricominciato ad ammonire senza riguardo, o pietĂ .
Nè guari andò che alcuni nobili fiorentini, stati esclusi dagli impieghi come ammoniti pensando col danno pubblico vendicarsi delle offese private, trattavano niente meno che di dare Firenze in mano al Visconti di Milano.
Figurava nel numero dei congiurati Bartolommeo de'Medici, uomo ardito e di grande animo, il quale, o per rimorso di carità di patria, o per conoscersi in pericolo, svelò (anno 1360) il segreto a Silvestro, fratello piÚ virtuoso e di natura amantissimo della sua patria, pregandolo di provvedere allo scampo suo ed a quello della repubblica. Infatti i capi della congiura furono arrestati e decapitati, e tutti gli altri condannati all'esilio.
Con l'anno 1361, dopo molte reciproche violazioni di trattati, si venne ad un'aperta rottura tra i fiorentini ed i pisani; i quali erano da cinque anni inaspriti, per aver quelli abbandonato il Porto pisano e stabilito il loro commercio marittimo nella Maremma senese al porto di Talamone.
Nel mentre si viveva nella città con simili travagli, il Comune di Firenze non trascurava le cose politiche all'esterno; fra le quali una delle maggiori che accadessero nel 1361 fu di spedir gente a liberare Volterra dalla tirannia di Bocchino Belforti, mentre a lui porgevano aiuto i pisani. Ciò bastò a inasprire la ferita riaperta nel 1357 a cagione delle antiche franchigie tolte dalla repubblica di Pisa alle mercanzie dei fiorentine che venivano per la via di Porto pisano, e che costrinse il Comune di Firenze a rivolgersi verso Siena per giovarsi di uno dei suoi porti, benchè questo fosse piÚ remo to e assai meno comodo scalo.
Le piccole e indifferenti scaramuccie accadute, dal 1357 al 1361, fra i due popoli non presero l'aria d'un'aperta ostilitĂ se non dopo l'occupazione d'un castelletto sopra Pescia (Pietrabuona); pel quale si accese tale incendio, che diede occasione ad una guerra disastrosissima, tanto per Firenze, quanto per Pisa.
Avvegnachè, se la prima campagna fu quasi sempre nell'esito delle battaglie favorevole ai fiorentini, nella seconda e terza si rivoltò la fortuna dal lato dei pisani; sia per la morte del prode capitano Piero Farnese; sia per la peste che tornò a fare strage in Firenze, dove tolse ai viventi un altro storico in Matteo Villani; sia per l'ajuto di una numerosa compagnia d'avventurieri inglesi che, militando per la repubblica pisana, si diedero a percorrere a man salva e da ogni lato ardere e mettere a sacco il contado fiorentino sino alle mura della capitale.
Ma ogni scorno, se non bastò, a riparare tutti i danni accaduti, fu cancellato dalla sola giornata (ERRATA : del 29 luglio) del 28 luglio 1364, giornata che Firenze tuttora festeggia con la corsa del palio di S. Vittorio, in memoria della segnalata vittoria riportata in quel dÏ fra il paese di Cascina e la badia di S. Savino, dall'esercito fiorentino sopra l'oste pisana. Dopo sÏ decisiva battaglia, per stanchezza di spese, ma non di gare, fu conclusa la pace di Pescia, che tornò le cose allo stato di prima.
Fu allora che la Signoria di Firenze decretò nuovi assegnamenti di denari per compiere il terzo cerchio delle mura , per proseguire la gran torre di Giotto e la fabbrica della chiesa principale ridotta giĂ al chiudersi delle sue volte; e fu nellâanno 1366 che in questo sacro grandioso edifizio ebbe luogo la prima funzione pubblica, allorchè il cav. bresciano Guglielmo de'Pedezzocchi, come potestĂ di Firenze, prestò solenne giuramento nelle mani del Gonfaloniere di giustizia Michele Castellani assistito dai Priori delle arti, da'Collegj e da un immenso popolo.
Non lasciava per altro vivere in pace i fiorentini il sospetto che essi avevano di due grandi potentati, al momento che s'incamminavano verso l'Italia, il papa Urbano V da Avignone per la via di mare, e l'imperatore Carlo IV dall'Alemagna per l'Alpi della Chiarentana (Carniola).
Ma l'oro e la destrezza dei fiorentini bastarono a riparare tutto; talchè ad essi fu affidato il difficile incarico d'intromettersi paciarj tra la nobiltà e il popolo di Siena dopo la sollevazione del 1368, ch'ebbe a costar la vita a Carlo IV in mezzo a una numerosa cavalleria costretta a prendere la fuga; e fu pure opera dei fiorentini quella d'indurre (anno 1369) l'imperatore stesso a rimettere alla testa del governo di Pisa Piero Gambacorti, ch'egli medesimo pochi anni innanzi aveva fatto esiliare dalla sua patria.
Il quale ultimo avvenimento fu di preludio a ristabilire con profitto reciproco fra i pisani e i fiorentini le antiche franchigie delle mercanzie, tornando questi ad approdare con i loro legni al Porto pisano, e abbandonando quello piĂš remoto e meno sicuro della Maremma senese.
In una parola la politica fiorentina pervenne quasi nel tempo stesso a sventare i disegni di Bernabò Visconti sopra la Toscana coll'impedire che si rimettesse in Pisa l'ex doge Agnello suo partitante, col recuperare la Terra di Sanminiato ad onta di un esercito milanese che difendeva i sollevati, col prestarsi generosamente a favore dei lucchesi perchè prendessero cura contro i maneggi della biscia di Milano, coadiuvandoli col denaro, per ridurre il vicario dell'imp. Carlo IV a lasciare Lucca in libertà . Nè in questo mentre la Signoria di Firenze si stava dal richiamare le forze e il pensiero del nemico verso i suoi stati, portando la guerra in Lombardia, sebbene questa riescÏ di corta durata.
Ma per fatalitĂ delle cose umane, se il piĂš delle volte le guerre esterne solevano attemprare e assopire le discordie interne, la pace con le potenze limitrofe era quasi costantemente per Firenze il preludio di sollevazioni domestiche e di battaglie civili.
Per i suoi meriti nella guerra pisana di grande era stato fatto popolano il valoroso difensore di Barga, Benchi de'Buondelmonti, mercè cui egli diveniva abile a poter sedere nel magistrato de'Signori.
Nel tempo che il Benchi aspettava di entrare dei Priori si fece una legge: che niuno de'grandi fatto del popolo potesse esercitare quella magistratura se non dopo un intervallo di anni venti, a meno che la persona graziata non mutasse arme e casato, rifiutando la consorteria e parentela antica.
Il quale maligno divieto mosse a sdegno la persona che piĂš di ciascun'altra era stata presa di mira, sicchè il Benchi, accozzatosi con Piero degli Albizzi dittatore della setta de'Guelfi, indusse il tirannico magistrato della Parte a tornare ad ammonire con piĂš ferocia di prima . â Per le quali sciagure molti probi cittadini mossi dall'amore della patria, dopo varii consigli si recarono nel palazzo del popolo per indurre la Signoria a porre un rimedio a cotanto arbitrario e oppressivo procedere contro il vivere libero in un paese che aveva nome e stemma di libertĂ .
Il provvedimento preso (anno 1372) dai Signori fu di creare i Dieci di LibertĂ , e di affidare a 56 cittadini il difficile incarico di liberare con mezzi opportuni la Repubblica da tali ingiustizie. Tale provvedimento appunto servĂŹ per dimostrare quanto fosse vero l'assioma politico del Machiavelli, quando disse: che gli assai uomini, sono piĂš atti a conservare un ordine buono, che a saperlo per loro medesimi ritrovare. â Infatti i 56 deputati a tanto negozio pensarono piĂš a spegnere le esistenti sette di quello che a tor via le cagioni delle future, nè l'una cosa nè l'altra conseguirono. Imperciocchè essi esclusero per un triennio da tutte le magistrature tre principali individui delle famiglie Albizzi e Ricci, e fra questi Piero degli Albizzi e Uguccione de'Ricci; eccetto che dal potere essere ammessi fra i capitani di Parte, cagione primaria di ogni scandalo. La quale deliberazione, se tolse per eguale misura ai due capi di setta il seggio della Signoria, quello del magistrato de'Guelfi restò aperto a Piero degli Albizzi, dove teneva grandissima autoritĂ ; e se prima egli e i suoi fautori erano all'ammonire caldi, diventarono dopo questa ingiuria ardentissimi. Alla quale mala volontĂ nuovo ardire si aggiunse, dopochè nel 1373, per timore di quel tremendo tribunale, non solo fu rigettato dal senato fiorentino il progetto di una legge il cui scopo era: che nessuna ammonizione avesse effetto per l'avvenire, se prima non fosse approvata dal magistrato de'Signori e dai Collegj, ma appena che escĂŹ di signoria il Petrobuoni, da cui tal riforma venne proposta, fu egli arrestato e, quasi per grazia, condannato all'esilio dai Robespierre della Repubblica fiorentina.
A coteste vendette cittadine si aggiunsero pubbliche afflizioni colla carestia del 1374, e con l'ostile contegno del cardinal di S. Agnolo Legato di Bologna; il quale, anzichè sovvenire i fiorentini di viveri, mentre di questi tutta Romagna abbondava, come apparÏ la primavera del 1375, con grande esercito valicò l'Appennino di Firenzuola nell'animo di affamare e cosÏ di poter impadronirsi di Firenze. La qual impresa sarebbe succeduta secondo i suoi voti, se le truppe mercenarie fossero stale piÚ fedeli al Legato, e se ai fiorentini fosse mancato il rimedio potentissimo, cui sapevano ricorrere nei mali piÚ perigliosi, per corrompere la compagnia inglese, mercè il regalo di 130,000 fiorini d'oro, obbligandola ad abbandonare il cardinale ed a rispettare per 5 anni il dominio fiorentino.
Nè questo bastò alla Signoria intenta a punire l'ambizioso porporato nemico. Imperocchè quella guerra, che non si voleva in casa propria, fu portata nello stato donde era partita. Si creò tosto un magistrato di otto cittadini, chiamati dal popolo gli Otto Santi della guerra, con autorità di poter operare senza appello, e spendere senza darne conto. Si fece lega con Bernabò Visconti, si posero delle tasse sul clero, e si giunse in pochi mesi a far ribellare al pontefice molte città , fra le quali ForlÏ, Gubbio, Città di Castello, Perugia, Todi, Viterbo e Bologna, da dove al legato convenne ritirarsi quasi in fuga. Cosicchè nei tre anni che durò la guerra i fiorentini dimostrarono coi fatti alla Corte romana, come prima suoi amici l'avessero costantemente e validamente difesa, cosÏ suoi nemici la potevano senza timore affliggere e mettere a soqquadro.
Essendo morto il papa Gregorio XI (anno 1378) e rimasta Firenze senza guerra di fuori, tornò a viversi in gran confusione dentro la città , dove i capitani di Parte erano giunti a tanta audacia che, nè ai Signori nè agli Otto di guerra portavano alcuna riverenza, per modo che coll'ammonire divennero gli arbitri del potere e i padroni di escludere dagli ufizj piÚ importanti della repubblica chiunque da loro fosse stato preso di mira.
La prima coraggiosa resistenza a questa tirannia venne da una famiglia di ricchi popolani, che acquistando sempre piÚ credito e fortuna si pose piÚ tardi al timone della repubblica, e finalmente se ne appropriò tutto il carico.
Quel messer Silvestro de'Medici, che pochi anni innanzi aveva svelato alla Signoria la congiura, in cui era implicato il di lui fratello, quello stesso fu il promotore di una legge che l'oligarchia dei capitani di Parte doveva raffrenare, e agli esuli, al pari che agli ammoniti, dare speranza di poter essere alla patria e alle dignitĂ richiamati.
La legge stessa arringata, combattuta e finalmente approvata, richiamò alla piazza dei Signori un immenso popolo che mise a scompiglio tutta la città , e che partorÏ la popolare sedizione, meglio conosciuta sotto nome di tumulto de'Ciompi, e provocata dall'infima plebe, la quale invitò mess. Silvestro de'Medici a farsene capo.
Scoppiò la rivoluzione nel 20 luglio del 1378, e il giorno appresso sedeva in palazzo il gonfaloniere de'Ciompi Michele di Lando. Questo plebeo, di arte scardassiere, deliberò quietare la città e fermare i tumulti con tali ordini di giustizia, che lo dimostrarono cotanto sagace e prudente, da dovere piuttosto alla natura che alla fortuna tenersi obbligato. E per dar principio alla riforma della città egli rinnovò i sindachi delle arti, privò del magistrato i Signori e i Collegj, arse le borse degli ufizj, licenziò gli Otto della guerra, e fece dai nuovi sindachi delle arti creare la Signoria, quattro della plebe minuta, due delle arti maggiori e due delle minori. Dette a Silvestro de'Medici l'entrate delle botteghe del Ponte Vecchio, e a se stesso riservò la potesteria d'Empoli. Ma non trovando la plebe buona la riforma fatta dal suo partigiano, si sollevò contro di lui, che seppe coraggiosamente affrontarla e tenerla a dovere con fermezza, prudenza e valore; sicchè terminato il tempo della magistratura di cui fu onorato, lo accompagnò una grandissima moltitudine dal palazzo alla sua casa privata, preceduto dai donzelli della Signoria con l'arme del popolo, una targa, una lancia e un palafreno ornato magnificamente, in testimonianza delle virtÚ da esso dimostrate.
Spenta la sedizione, rimase un occulto fermento in varie classi di cittadini; il pubblico ben presto si nauseò del puzzo degli uomini di vile mestiere, che in grazia della riforma de'Ciompi erano pervenuti a sedere in palazzo accanto ai nobili popolani. I malcontenti di dentro, dando maggior ansa ai cittadini esuli, tenevano con essi loro strette pratiche per richiamarli in città a costo anche di dare la patria in mano a una qualche potenza nemica.
Il che era cagione che in Firenze con grandissimo sospetto si vivesse, e che si prestasse facilmente fede alle segrete delazioni; cosicchè accusati molti de'grandi, come traditori della patria furono giudicati. Nè a Piero degli Albizzi giovò la grandezza della casa, nè l'antica riputazione sua, per campare la vita.
Ai quali pericoli, oltre l'aggiungere altre leggi e nuove armi soldare in fortificazione e difesa del Comune, con una somma di danari si provvide che il re Carlo di Durazzo, su cui i fuorusciti appoggiavano ogni speranza, nel passaggio dalla Toscana non recasse molestia alcuna alla Repubblica fiorentina.
In mezzo a tanti avvenimenti la tranquillitĂ interna non fu sconvolta, se non quando (anno 1381) la violenza di due popolani tolse ad armata mano dalle carceri del capitano del popolo un falso e vilissimo accusatore d'innocenti e ragguardevoli cittadini, meritamente condannato al supplizio.
Tale violenza scandalizzò la città ; e Giorgio Scali, uno dei suoi promotori, venne arrestato, giudicato e con alcuni dei suoi piÚ stretti amici in mezzo al popolo armato in pubblica piazza decapitato. E perchè Firenze era piena di diversi umori e desiderii, ognuno, innanzi che l'armi si posassero, di conseguirli a seconda della propria passione agognava; tanto che per lo spazio d'un anno si andò per la città tumultuando, ora dal partito dei grandi, ora dai nobili popolani, ed ora dagli artigiani minori e dal popolo minuto. In conclusione, prima che terminasse l'anno 1381, si formò un governo, per il quale alla patria tutti i confinati dal giugno 1378 in poi si restituirono, nel tempo stesso che ripristinossi il magistrato della Parte, e che alle arti infime e alla plebe fu tolto l'onore dai Ciompi accordato di essere ammessa agli ufizj e alle magistrature della Repubblica, riducendo al terzo i Priori delle arti minori, ed escludendo questi dalla dignità di gonfaloniere di giustizia. Fra le molte provvisioni e riforme fu pure ristretto l'abuso di far grandi i popolani, e arcigrandi i grandi o magnati.
Cadde sotto la giustizia del capitano del popolo un seguace del decapitato Giorgio Scali, Ciardo vinattiere plebeo, la di cui taberna nei Camaldoli di S. Lorenzo porta tuttora il nome di Cella di Ciardo . Costui dovè subire la stessa sorte del suo protettore, quando un nuovo tumulto popolare si levò, nel febbrajo del 1382, che produsse l'esilio di un numero grande di cittadini; fra i quali parve sopramodo cosa detestabile che fosse compreso Michele di Lando, dimenticando le singolari sue virtÚ di avere salvato, nel 1378, Firenze dal furore e dalle rapine di un'ebria canaglia.
Fermata finalmente la sommossa con severi castighi, visse Firenze infino al 1393 bastantemente quieta, ma non esente dal vedere i cittadini esiliati e ammoniti; nel tempo che la repubblica al di fuori estendeva il suo territorio con la compra della cittĂ e contado d'Arezzo (anno 1384).
Tale acquisto, che assai rallegrò i fiorentini, fu bentosto amareggiato dagli avvenimenti che accadevano nell'Italia superiore, dopochè Giovanni Galeazzo conte di VirtÚ, impossessatosi della persona di Bernabò suo zio, si era reso di tutta Lombardia principe. Imperocchè Vicenza, Verona e Padova con tutte le terre dei Signori della Scala e dei Carraresi erano cadute in potere del Visconti, quando egli rivolse le armi e gli artifizj verso la Toscana per staccare Pisa, Siena ed Arezzo dall'amicizia de'fiorentini.
Ma i reggitori di Firenze in mezzo a tanti pericoli, a tanti segreti maneggi, a sÏ numerose armate, che sotto le insegne della biscia milanese militavano, non si lasciarono punto nè poco spaventare; e se era piÚ cauto uno dei suoi condottieri di eserciti, il conte Giovanni d'Armagnac, davanti Alessandria della Paglia, (anno 1391) il duca di Milano andava a rischio di perdere il proprio invece d'impossessarsi degli stati altrui.
La reciproca stanchezza, benchè gli odj non fossero scemati, fece prestare orecchia alle proposizioni di pace, la quale si concluse in Genova nel gennajo del 1392; mercè cui ritornarono entrambe le parti nello stato in cui erano prima della guerra, dopo avere sofferto danni scambievoli, immense spese e fatiche. E perchè dagli agenti del nemico si domandava idonea mallevadoria per osservare il convenuto trattato, Guido del Palagio, uno degli ambasciatori fiorentini, a quel congresso con grandezza d'animo rispose: La spada sia quella che sodi, poichè Giovanni Galeazzo ha fatto esperienza delle nostre forze e noi delle sue. (AMMIR. Istor. Fior. lib.
XV.) Attendeva la Repubblica fiorentina a respirare dalle passate molestie, e a provvedere con nuove leggi a riempire la cittĂ di abitazioni, obbligando chiunque veniva fatto cittadino a fabbricare una casa in Firenze, almeno di cento fiorini d'oro, e condannando al doppio coloro che non avessero soddisfatto a tale obbligo imposto con precedente riformagione del 1378. CosĂŹ provvidesi ad accrescere il numero de'cappellani nella nuova cattedrale fiorentina, affinchè si celebrassero i divini ufizj con maestĂ proporzionata al tempio e al carattere di un popolo devoto e dovizioso, e quindi pubblicossi una legge, che per ciascun testamento legato, o codicillo si dovessero pagare soldi venti allâOpera di S. Reparata Nel principio dell'anno 1393, seguitando le cose ad essere quiete, si ridussero le scritture pubbliche nei libri che sino ai nostri giorni portano il nome delle Riformagioni; e questi, conservati nella sala de'grandi del palazzo del popolo, vennero affidati alla diligenza e fede di due probi cittadini.
Vedendo poi, che la moneta del fiorino d'oro per la sua bontĂ era trasportata fuori, dove cambiavasi con guadagno, fu proibito di estrarre dal territorio della Repubblica piĂš di 50 fiorini d'oro per volta, nel tempo stesso che si accrebbe del cinque per cento la valuta del fiorino nuovo in confronto di quello del suggello vecchio.
Cessò la quiete interna della città tostochè prese possesso del gonfalonierato di giustizia (settembre 1393) Maso di Luca degli Albizzi, nipote di Piero a cui nel 1379 fu mozzo il capo. Serbava egli nell'animo fresca la memoria dell'offesa con ferma deliberazione di vendicarsi (quando ne avesse il destro) de'suoi nemici, e in particolare degli Alberti: a uno dei quali (Benedetto) la morte di Piero degli Albizzi fu imputata. Maso colse l'occasione di uno, che sopra certe pratiche tenute coi ribelli fu esaminato, il quale diversi individui degli Alberti fra i complici di quella congiura nominò. Per la qual cosa molti di costoro venendo arrestati, fu deliberato che tutti della stirpe Alberti, salvo Antonio e i fratelli suoi, figli di Niccolao, fossero fatti de'grandi e confinati, nel tempo che molti popolani furono ammoniti o morti. Tante ingiurie e condanne mossero le arti e il popolo minuto a sollevarsi, parendogli che fosse tolto loro l'onore e la vita. Una parte di costoro corse a casa di Vieri de'Medici, il quale dopo la morte di Silvestro suo cugino, era rimasto capo di quella potente famiglia popolana rammentandogli, che come Silvestro aveva salvata la patria dalla tirannia di Piero degli Albizzi, cosÏ da lui il popolo fiorentino sperava che dagli artigli del nuovo gonfaloniere e dei suoi fautori lo liberasse.
Non mancò che la voglia a Vieri di farsi principe della città , nè mancò chi al medesimo suggerisse quello che poteva fare. Ma pensando all'instabilità del favore della plebe, che vede freddamente salire sulla forca chi il giorno innanzi avrebbe posto sul trono, Vieri diede buone parole, andò al palazzo de'Signori per confortargli alla moderazione, e indusse il popolo a posare le armi, promettendogli giustizia. Non per questo il discorso del Medici moderò il contegno del gonfaloniere, nè le condannagioni e gli esilj si videro diminuire, e molto meno revocare.
Fra cotesti ed altri simili tentativi degli esuli e dei malcontenti che avevano in mira di riformare a loro piacere il governo della cittĂ , il duca di Milano non perdeva mai l'occasione di tenere in scatto, ora con artifiziose proteste di pace, ora mediante un'apparente tregua, e ora con guerra aperta, i reggitori del dominio fiorentino.
Infatti non era appena firmato a Genova il trattato del 1392 che il conte di VirtÚ, indispettito di non aver potuto staccare dall'amicizia dei Fiorentini Piero Gambacorti signore di Pisa, si rivolse a corrompere l'ingrato segretario di lui, Jacopo di Appiano, al punto da farne il sicario del proprio padrone, adescato di sottentrare al medesimo nel governo della città ; la quale mercè di tal perfidia serva divenne del potente protettore. A sostenere il nuovo tiranno di Pisa, furono dal duca inviate in Toscana alcune compagnie di avventurieri per allettare Jacopo d'Appiano a cose maggiori non senza lusinga di soggiogare anche Lucca; siccome il Visconti adopravasi nel tempo stesso a togliere ai Fiorentini la Terra di Sanminiato, dando speranza a Benedetto Mangiadori d'essere l'arbitro della sua patria. Se non che un simile attentato per fedeltà dei Sanminiatesi e delle popolazioni limitrofe verso la repubblica fiorentina non sortÏ l'effetto desiderato.
Imperocchè i Sanminiatesi armati in massa assediarono il Mangiadori nel pretorio medesimo, dove egli barbaramente poco innanzi aveva assassinato (20 febbrajo 1397) un inerme senatore fiorentino, Davanzato Davanzati, mentre costà esercitava l'ufizio di vicario.
Se a cotali cose si aggiungano i forti armamenti del duca di Milano, le scorrerie e i danni che si facevano per la Toscana dalle masnade assoldate dallo stesso Visconti, nel tempo che egli tirava nel suo partito i reggitori di Siena ed era giĂ principe di Perugia, non vi è da domandare qual risoluzione dovesse prendere un popolo accorto e potente, che vedeva da ogni intorno inceppate le sue comunicazioni commerciali e torglisi una dopo lâaltra le principali risorse tendenti a conquiderlo, impoverirlo ed abbatterlo.
Fu risoluta la guerra con pieno arbitrio ai Dieci della balĂŹa onde la spingessero con vigore non solo in Toscana, ma la portassero anche in Lombardia, cercando da ogni parte e a qualunque prezzo armi e collegati contro il prepotente tiranno dell'alta Italia.
Questa seconda guerra col duca di Milano ebbe fine, o piuttosto fu sospesa, con la tregua pubblicata nel maggio 1398, poco innanzi che accadesse in Pisa la morte d'Jacopo d'Appiano; al quale succedè nel governo il figlio Gherardo. Ma, non avendo nè il coraggio nè l'accortezza del padre per sostenere la potenza ereditata di fronte a un'apparente protettore che voleva con l'inganno, o con la forza soggiogare e impadronirsi di tutte le repubbliche della Toscana, Gherardo diede ben presto ascolto alle proposizioni di Giovanni Galeazzo, al quale consegnò per il prezzo di 200,000 fiorini d'oro la città e territorio di Pisa, riservando per sè l'assoluto dominio dell'isola d'Elba, del lerritorio di Piombino, e di pochi altri minori castelli fra la Cornia e il padulo di Castiglione.
Fu questo un colpo di fulmine che afflisse i Fiorentini piÚ che se avessero perduta una battaglia campale. Tentò il duca eziandio, per mezzo d'un altro iniquo attentato, d'impossessarsi di Lucca; e ciò col persuadere un fratello ad uccidere l'altro fratello, Lazzaro Guinigi, che aveva la maggioranza nella sua patria. Fu anche per opera dello stesso Visconti, che ebbero ardire di ribellarsi dai Fiorentini molti degli Ubertini ed alcuni dei conti Guidi; nel tempo che i Senesi incantati dal sibilo di quella serpe si lasciavano accerchiare dai suoi avvolgimenti, cedendo alle truppe milanesi la stessa capitale con le principali fortezze della loro repubblica.
A tanto sbigottimento e precipizio delle cose politiche in Toscana si aggiunse nuova sciagura nella pestilenza, la quale percorrendo l'Italia fece una strage orribile in Firenze per rendere ad essa sempre piĂš tristo l'ultimo anno del secolo XIV.
Lo sdegno dei Fiorentini verso il duca milanese andava tanto maggiormente inasprendosi, quanto piĂš si moltiplicavano le offese, e quanto meno queste erano dirette e scoperte onde poterle rintuzzare.
Alle quali cose si aggiunse (anno 1401) il timore che Bologna, caduta sotto la signoria di Giovanni Bentivoglio, non fosse in grado neppure essa di resistere alle astuzie del Visconti; mentre egli non ebbe ribrezzo di maneggiarsi in questo tempo, perchè morisse di veleno l'eletto imp. Roberto di Baviera, col promettere al venale suo medico 40,000 fiorini d'oro. Tale iniquità determinò l'offeso Augusto a scendere sollecitamente in Italia con un'armata di 15,000 uomini a cavallo, ed un buon numero di fanti, nell'intenzione di sbalzare di seggio e di punire il Visconti; alla quale impresa veniva non meno caldamente stimolato dai Fiorentini con la promessa di grandi somme di denaro. Ma per fortuna del duca diMilano, dopo il primo scontro d'armi accaduto verso Brescia con la peggio dei Tedeschi, l'imperatore trovossi abbandonato dalla maggior parte de'principi alemanni che lo avevano accompagnato con le loro milizie in Italia; cosicchè ai Fiorentini aumentarono i pericoli, dopo aver pagati senza alcun vantaggio 200,000 fiorini a Roberto prima che egli ritornasse in Germania.
Intanto lo sforzo della guerra dalle vicinanze di Milano si ridusse intorno a Bologna (anno 1402), alla cui difesa erano accorsi con l'oste fiorentina molti collegati; ma questi, invece di tenersi dentro le mura, vollero azzardare la battaglia tre miglia lungi dalla città , al ponte di Casalecchio, dove restò, sconfitta dai milanesi l'armata della lega, che poco dopo perdè Bologna, ultimo propugnacolo della repubblica fiorentina.
Ma allora quando Giovanni Galeazzo non aveva quasi piÚ ostacoli da superare per impadronirsi di Firenze, cinta per ogni parte dalle sue forze; quando faceva preparare un diadema d'oro per incoronarsi sulle sponde dell'Arno in re d'Italia; mentre fuggiva la peste di Pavia, egli fu colpito improvvisamente dalla morte sulle rive del Lambro (3 settembre 1402); cosicchè per inaspettata fortuna la repubblica fiorentina si trovò fuori di un pericolo che minacciava la sua esistenza politica; e cosÏ ebbe fine una delle guerre piÚ lunghe e piÚ disastrose che contino gli annali di Firenze.
Le grandi turbolenze insorte nello stato milanese e in tutti i paesi dove Galeazzo teneva guardia e signoria, ricondussero ben presto Bologna e Perugia sotto il dominio del Papa, e fecero risolvere poco dopo anche i Senesi a escire di mano ai Visconti di Milano e a rappacificarsi coi fiorentini. Era intanto Pisa toccata a un figlio naturale del conte di VirtÚ (Gabriello Maria), che governava il paese con poca soddisfazione dei suoi abitanti. Dondechè la Signoria di Firenze, sperando di potere occupare Pisa per sorpresa, fece marciare segretamente verso quella città un esercito, che fu non solamente dai Pisani respinto, ma che mosse gelosia nei reggitori della repubblica di Genova, per timore che Firenze dopo la conquista di Pisa, fosse per divenire potenza marittima.
Si maneggiarono quindi i Genovesi con Gabbriello Maria, e col re di Francia, per chè volessero prendere il novello Signor di Pisa sotto la loro accomandigia. Accertata una tale protezione, fu intimato al governo di Firenze di desistere da ogni ostilità contro il protetto pupillo milanese; ma vedendo che i Fiorentini non prestavano orecchie a simili minacce, furono sequestrate le molte merci che essi possedevano in Genova, nel mentre che Buccicaldo maresciallo di Francia e governatore de'Genovesi presidiava di gente e di navigli Livorno e altre fortezze del littorale pisano. Convenne alla Signoria di Firenze cedere all'urgenza e adattarsi a una tregua col Visconti (anno 1404) promossa e intavolata dal Buccicaldo, da quello stesso che un anno dopo offerse segretamente la compra di Pisa ai Fiorentini, cercando di persuadere Gabbriello Maria ad aderirvi stante la difficoltà di poter conservare quella città .
I Pisani avendo potuto trapelare un tale negoziato si sollevarono e dopo fiera zuffa (21 luglio 1405) costrinsero Gabbriello a ricoverarsi colla madre e coi suoi soldati nella cittadella, e di la fuggire a Sarzana. Ciò determinò il Visconti a conchiudere il trattato della vendita di Pisa e del suo territorio con Gino Capponi a tal uopo incaricato dal Comune di Firenze, per modo che la guarnigione lasciata quivi dal Visconti dovette consegnare la cittadella di Pisa con le fortezze di Ripafratta e di S. Maria in Castello ai Fiorentini, obbligandosi questi a pagare al venditore 200,000 fiorini d'oro.
Ma benchè la cittadella di Pisa al pari delle altre due fortezze dalle milizie milanesi venisse consegnata alle truppe fiorentine, non per questo i pisani si lasciarono cosÏ facilmente porre il giogo per ubbidire a de'padroni che da gran tempo odiavano. In guisa che mentre la guarnigione fiorentina prendeva le disposizioni opportune per soggiogare la città di Pisa, avvenne che, per negligenza o vigliaccheria delle sentinelle, il presidio della cittadella fu sorpreso e fatto prigione dai Pisani armati in massa alla presenza di tutto un esercito fiorentino accampato fuori della città .
La novella di questa perdita rattristò Firenze, e quindi mosse a sdegno la Signoria un'ambasciata orgogliosa inviata dai Pisani a richiedere con espressioni quasichè derisorie le fortezze di Ripafratta e di S. Maria in Castello. Cosicchè la guerra fu di comune consentimento deliberata gagliarda per terra e per mare contro i Pisani, i quali dal canto loro si prepararono a sostenerla con il maggior loro sforzo e la piÚ ostinata risoluzione.
Gino Capponi e Maso degli Albizzi furono destinati commissarj dell'esercito in tale impresa ma il Capponi sopra ogni altro si distinse per le provvide disposizioni da esso date nell'esercito, affinchè Pisa restasse per ogni lato circondata da formale assedio, per impedirle di ricevere qualsiasi specie di soccorso.
Quantunque la grande strettezza delle vettovaglie facesse sperare che la cittĂ assediata non potesse lungamente resistere, non ostante la Signoria di Firenze caldamente desiderava di averla sollecitamente per mezzo della forza.
Si credè perciò di far rimpiazzare Gino Capponi e Maso degli Albizzi da due nuovi commissarj, Vieri Guadagni e Jacopo Gianfigliazzi, i quali giunti al campo promisero grandi ricompense ai soldati, se riescivano a penetrare di assalto dentro Pisa. L'esercito fiorentino tentò infatti di notte tempo la scalata dalla parte sinistra dell'Arno, ma i Pisani animosamente vi accorsero armati, ributtando con grave perdita gli assalitori dalle mura della città .
Compresa la difficoltà di guadagnare Pisa per scalata si accerchiò di piÚ stretto assedio,si cambiò il generale e si rinviò al campo Gino Capponi; il quale in un sol giorno (21 giugno 1406) seppe rappacificare con incredibile destrezza gli umori inaspriti dei due coraggiosi capitani dell'esercito fiorentino, rendendoli entrambi nel tempo stesso piÚ utili all'opera. Frattanto gli assediati scarseggiando ognor piÚ di viveri d'ogni specie, si risolsero a cacciar fuori di Pisa le bocche inutili; la qual cosa sembrando che fosse per portare piÚ in lungo la guerra, determinò i commissarj fiorentini a bandire nel campo, che qualunque uomo uscendo dalla città venisse fatto prigione, sarebbe impiccato, le donne bollate in viso e scorciati i loro panni infino sopra il ventre. Tali ed altre non meno aspre misure, come quella di far gettare in Arno un messo del duca di Borgogna, inviato al campo dei Fiorentini per intimare al loro esercito in nome del suo padrone di astenersi dal molestare Pisa, tolsero viepiÚ speranza di salvezza agli assediati. Perlochè Giovanni Gambacorti, che allora reggeva la suddetta città , pensò di fare intendere segretamente alla Signoria di Firenze: che dove egli fosse certo di ottenere alcune oneste condizioni, tratterebbe la resa di Pisa e del suo dominio.
Si diede facoltĂ ai commissarj fiorentini di stipulare la capitolazione, le condizioni della quale furono infatti piĂš vantaggiose al Gambacorti che ai Pisani. â Vedere PISA.
Allora Gino Capponi, la mattina deâ9 ottobre 1406, marciando alla testa dellâesercito, entrò placidamente in Pisa, dopo aver minacciato con bando e con le forche alzate, che sarebbe impiccato chiunque avesse avuto ardire di saccheggiare la troppo afflitta e sparuta cittĂ .
CosÏ cessò la pisana Repubblica; e quella città che per quattro secoli figurò tra le prime potenze marittime dell'Europa, e che fu un tempo si grande magnifica e popolosa, da quel momento in poi vide strapparsi ogni sua ragione di stato, sparire dal novero dei governi della Toscana, per vivere spossata e solinga nell'ozio del suo servaggio.
STATO DI FIRENZE DAL 1406 SINO ALLA CONGIURA DEI PAZZI Comecchè il mantenimento della guerra di Pisa avesse costretto la Signoria di Firenze a creare con nuove imprestanze un nuovo Monte comune, non lasciava in questo mentre di abbellire sempre piÚ la città .
Avvegnachè si provvide a decorare l'esterne pareti della fabbrica d'Orsanmichele con assegnare a ciascuna corporazione delle arti una nicchia o pilastro per collocarvi le statue di marmo o di bronzo dei santi protettori, lavorate dai migliori maestri; e ciò nel tempo che uno di questi, Lorenzo Ghiberti, per commissione dell'arte di Calimala, fondeva le maravigliose porte del Battistero. Fu eziandio dopo finita la guerra pisana che gli operaj di S. Maria del Fiore insieme ai consoli dell'arte della lana decretarono di fare innalzare quella maestosa cupola che mostra il genio del sommo artefice Filippo Brunelleschi.
Non mancarono ciò non ostante ai Fiorentini occupazioni di maggior momento per l'ostinatezza di due papi (Benedetto XIII e Gregorio XII), i quali nel mentre che contrastavansi le chiavi di S. Pietro, tenevano agitata e divisa la cristianità . Le premurose istanze dei reggitori di Firenze, unite a quelle di altri governi italiani, indussero finalmente i padri della chiesa a tenere un concilio in Pisa, dove fu eletto in legittimo pontefice (26 giugno 1409) il cardinale Pietro di Candia, che prese il nome d'AlessandroV, senza peraltro che i due rivali v'intervenissero per deporre, come promettevano, la tiara.
Uno di essi, Gregorio XII, era protetto da Ladislao re di Napoli, il quale dopo essersi impadronito di Roma, inoltravasi con poderosa oste in Toscana, disertando il contado senese, e minacciando cose peggiori ai Fiorentini.
L'arrivo dell'oste napoletana alle porte di Siena, e le mosse che di là prendeva per invadere il territorio della Repubblica fiorentina, guastando e mettendo a ruba quanto incontrava, determinarono la Signoria ad opporvisi con quante maggiori forze poteva. Per tale effetto strinse lega con i Senesi, col cardinal Coscia legato pontificio e con Luigi II d'Angiò rivale a Ladislao nella successione del regno di Napoli, e come tale del pontefice Alessandro V proclamato in Pisa.
L'unica impresa che in quel frattempo riescisse all'esercito napoletano fu d'impadronirsi (30 giugno 1409) per mezzo di pratiche tenute con quei di dentro, della città di Cortona; la quale poscia Ladislao, per rappacificarsi cedè al Comune di Firenze, (gennajo del 1411) mediante il prezzo di 60,000 fiorini d'oro; dopo che la repubblica ne aveva consumati in quelle ostilità piÚ di 600,000.
Trovandosi i Fiorentini stanchi da tante vessazioni e smunti da straordinarie spese, rivolsero l'animo a porre un freno ai suoi governanti, affinchè in avvenire non potessero muover guerra, far leghe, o confederazioni, ne inviare eserciti fuori del dominio, o dove la Repubblica fiorentina non aveva giurisdizione, se prima il progetto non venisse approvato da quattro diversi consigli; cioè 1.° da quello de'200: 2.° dal consiglio de'131; 3.° da quello del Capitano ossia del Popolo: 4.° finalmente dal consiglio del Potestà , ovvero del Comune.
Una delle piĂš importanti deliberazioni di queste quattro Camere fu di convertire in legge dello Stato (anno 1415) la compilazione degli Statuti fiorentini, stata affidata a una commissione composta di cinque esperti cittadini, assistiti da Paolo di Castro e da Bartolommeo Volpi da Soncino, due sommi giureconsulti che allora leggevano nello Studio di Firenze.
In questo medesimo tempo vennero istituiti i vicariati di Mogello e di Val d'Elsa, destinando la residenza loro a Scarperia e a Certaldo, quando già il vicario del Val d'Arno di sopra aveva il pretorio in San. Giovanni; e ciò nel tempo che dichiaravasi Fiesole e l'Impruneta (ora al Galluzzo) residenza di due minori potestà .
Mancando allora nella circolazione la piccola moneta dei piccioli, fu decretato di coniarne una quantitĂ col determinare, che la lega per fabbricarli fosse composta di undici once di rame e di un'oncia di argento purissimo per ogni libbra, della quale la zecca ne dovesse formare mille piccioli, corrispondenti fra tutti al valore di lire 4, 3, 4; quando il fiorino nuovo o di suggello computavasi lire 3, 13, 4.
Per buona fortuna la città di Firenze dopo la pace con Ladislao visse per qualche anno tranquilla dentro e fuori, sicchè nel 1421 si fece dai Genovesi per 100,000 fiorini d'oro l'importante acquisto del porto di Livorno, di quel porto che doveva divenire uno dei piÚ grandi emporii del Mediterraneo, e il centro del commercio marittimo della Toscana.
Una perdita però assai lacrimevole fu fatta in questo anno medesimo (1421) in Gino Capponi cittadino benemerito della sua patria, in servigio della quale egli consacrò tutta la sua vita, scevro di mire indirette, e alieno dalle passioni dei partiti allora dominanti. Questo nuovo Aristide dell'Atene d'Italia, che contribuÏ sopra ogn'altro nella conquista di Pisa, innanzi di morire ebbe la contentezza di sapere, che i Fiorentini con la compra di Livorno avevano assicurato stabilmente l'importante possesso della città e territorio di Pisa, ai di cui diritti eventuali aveva testè rinunziato, con la pace del 1420, Filippo Maria uno dei figli del conte di VirtÚ che riacquistò la maggior parte della Lombardia.
Quest'ultimo duca, per quanto non contasse l'ingegno del padre, ne aveva ereditata tutta la crudeltà e finzione, sicchè non seppe lungamente persistere nella promessa di non impacciarsi delle cose di Toscana e di Romagna.
Quindi non erano decorsi ancora quattro anni, quando Filippo con poderosa oste penetrato nell'Emilia, fraudolentemente assalÏ e si rese padrone d'Imola, di Lugo, di ForlÏ e di Forninpopoli. Un tal disleale procedere del Visconti determinò la Signoria di Firenze a una nuova guerra, nella quale i di lei eserciti furono tre volte sconfitti, innanzi che le riescisse di associare all'impresa i Veneziani con altri alleati, e cosÏ di poter richiamare le principali forze del duca milanese dentro i suoi dominii.
In questo tempo Firenze trovavasi in grande molestia per conto delle gravezze state imposte sopra i grandi, cosicchè uno di loro, Rinaldo di Maso degli Albizzi, davanti a molti de'suoi colleghi adunati nella chiesa di S.
Stefano al ponte, propose fra i provvedimenti da prendersi quello di scemare della metĂ il numero delle arti minori, e cosĂŹ di quattordici ridurle a sette; affinchè la plebe nei consigli della Repubblica avesse meno voti e autoritĂ , mentre si veniva ad accrescere nei parlamenti lâinfluenza dei grandi. Alla proposta dellâAlbizzi, comecchè soddisfacesse il genio di quegli adunati, rispose Niccolò da Uzzano, uno dei cittadini di piĂš invecchiata esperienza, dicendo: che il voler raffrenare la plebe senza opporsi a coloro, i quali ogni volta che vogliono la possono far sollevare, non era altro che il nutrire uno che potesse impadronirsi di tutti; cosicchè egli concludeva, di non doversi cosa alcuna in diminuzione dei diritti della plebe tentar di operare, senza guadagnare prima quei ricchi e potenti popolani, i quali sotto zelo di pietĂ , aiutando i poveri, sollevando i miseri, pagando i debiti altrui, impiegando in diversi mestieri ed esercizi gli artigiani, e facendo il volgo quasi ministro delle loro ricchezze, venivano per tali mezzi a impadronirsi della moltitudine.
Conobbe manifestamente ciascuno che lâUzzano intendeva discorrere di Giovanni di Bicci dei Medici, il quale essendo diventato ricchissimo e di natura benigno e generoso, poteva dirsi anche il primo della sua famiglia che riacquistò grandissima popolaritĂ nella sua patria. Fu dunque di consenso comune incaricato Rinaldo degli Albizzi, che fosse con Giovanni, e il confortasse a entrare con essi loro nella progettata impresa. Ma questi giudicando pericoloso il rimedio proposto, come quello che portare doveva manifesta divisione nella cittĂ a rischio della rovina della repubblica e di chi ne fosse stato autore, il Medici disapprovò il consiglio di Rinaldo e dei nobili suoi colleghi. Conosciuta dal pubblico una tal pratica, non fece essa che accrescere popolaritĂ e reputazione a Giovanni e alla sua casa a scapito del partito contrario.
Ma continuando ciascuno a dolersi di essere oltre misura gravati nelle tasse imposte durante la guerra, fu deliberata la legge del catasto (anno 1427) in modo che ogni possidente dovesse pagare un mezzo fiorino per cento di capitale.
Non volevano i grandi sopportare un simile censimento; ma non trovando strada da disfare la legge che lâordinava, pensarono al modo di farle contro, col procurarle de'malcontenti per avere cosĂŹ piĂš compagni a urtarla.
Mostrarono dunque agli ufiziali deputati a imporre il catasto, come la legge gli obbligava ad accatastare eziandio i beni dei comuni distrettuali, fra i quali Volterra col suo territorio, per vedere se tra quelli vi fossero altri possessi de'Fiorentini.
Il tentativo fu fatto; ma la bisogna andò in una maniera poco favorevole alla quiete della repubblica; giacchè dopo molte doglianze e dispute non volendo i Volterrani ubbidire, seguÏ ribellione per opera di un ardito plebeo (Giusto Landini), che fattosi capo del tumulto trasse la città dalle mani dei Fiorentini, ed egli stesso signore della sua patria si dichiarò, e per sole due settimane vi si mantenne.
Perduta adunque e ritornata quasicchè in un tratto Volterra sotto il dominio fiorentino successe a questa sommossa la guerra di Lucca; la quale città , dopo la ricuperata indipendenza dell'anno 1370, era stata agitata dalle interne fazioni niente meno delle altre repubbliche toscane. La famiglia Guinigi, una delle piÚ potenti e piÚ cospicue prosapie lucchesi, da quell'epoca in poi si acquistò tale ascendente sopra i suoi concittadini, che Francesco, poi Lazzaro suo figlio quindi Paolo Guinigi fratello di quest'ultimo, quasi senza interruzione per mezzo secolo vi governarono come principi.
Somministrò Paolo Guinigi nell'ultima guerra cagione di dolersi alla Repubblica fiorentina per aver mandato il figlio con una mano di armati nell'esercito del duca di Milano; talchè uno dei capitani di compagnie stato al soldo de'Fiorentini, Niccolò Fortebraccio, muovendosi da Fucecchio, ostilmente s'innoltrò nel territorio di Lucca. Lo che diede a dubitare che avesse operato non senza tacita annuenza di qualcuno de'reggitori di Firenze, cui riescÏ poi facile impresa di persuadere i loro colleghi per impegnarli in una guerra, che facevasi credere di breve durata, di sicuro successo e utile quanto giusta. L'esito peraltro dimostrò tutto il contrario; mentre il cimento fu lungo, difficile, dispendiosissimo e totalmente sfavorevole ai Fiorentini; cosicchè, invece di acquistare il territorio di Lucca, la Repubblica fiorentina vide invadersi e disertare una gran parte del proprio. Mentre che questa guerra travagliava Firenze, ribollivano sempre piÚ i maligni umori dei partiti dentro la città , e Cosimo de'Medici, dopo la morte di Giovanni suo padre, con maggior animo nelle cose pubbliche, con maggior studio e solerzia con gli amici che non fece il di lui genitore si governava, nel tempo stesso che intendeva a beneficare e con dimostrazioni frequenti di liberalità a farsi molti partigiani. Dimodochè l'esempio suo aumentando il carico a quelli che governavano, pareva loro che, il lasciar crescere in cotal guisa la potenza di Cosimo, fosse per divenire sempre piÚ opera pericolosa. Ma piÚ pericoloso era il progetto proposto dal contrario partito, di esiliare Cosimo dalla patria, siccome lo fece conoscere Niccolò da Uzzano. Imperocchè interpellato su di ciò, quest'uomo venerando rispose: che coloro, i quali pensavano di cacciare Cosimo di Firenze, dovevano prima che ogni cosa misurare le loro forze e quelle di colui che volevano sbalzare. E dato anche riuscisse fatto di esiliarlo, soggiungeva, essere quasi impossibile, tra tanti suoi amici che vi rimarrebbero, ovviare che presto non rimpatriasse.
Non solo adunque l'Uzzano non volle consigliare, ma altamente disapprovò di pigliare un partito, che per ogni lato egli vedeva dannoso alla città .
Queste ragioni discorse da un uomo di somma riputazione nella repubblica, raffrenarono alquanto l'animo di coloro che bramavano la rovina di Cosimo il vecchio; ma seguita la pace di Ferrara (26 aprile 1433) mercè la quale Lucca col suo territorio restò libera, e non molto dopo mancato di vita Niccolò da Uzzano, la città di Firenze rimase senza guerra,e la fazione dei grandi senza alcun freno; onde Rinaldo degli Albizzi, che di tal partito era principe, impaziente dell'autorità e stima sempre crescente di Cosimo de'Medici, e vedendo che uno dei due di loro doveva ormai soccombere, tenne tal modo con i Signori che gl'indusse a chiamar Cosimo in palazzo, rinchiuderlo in una prigione, e quindi dalla patria esiliarlo.
Rimasta Firenze vedova di un tanto cittadino, erano tutti sorpresi e sbigottiti, vinti e vincitori. Dondechè Rinaldo degli Albizzi dubitando della sua apparecchiata rovina, rampognava quelli del suo partito di essersi lasciati vincere dai preghi e dai denari dei loro nemici, col l'aver lasciato Cosimo in vita e gli amici suoi nella città ; essendochè gli uomini grandi, o non si hanno a toccare, o tocchi che sono debbonsi spegnere affatto.
Ma il consiglio di mess. Rinaldo essendo res tato senza l'effetto da esso lui desiderato, avvenne che prima di un anno dacchè Cosimo era stato confinato a Padova, appena entrati di governo otto Priori e il gonfaloniere, tutti partigiani dell'esule, si verificò il pronostico fatto da Niccolò da Uzzano; Cosimo de'Medici fu richiamato, accolto e acclamato in Firenze quasi come un cittadino che tornasse trionfante da una vittoria, con tanto concorso di gente e dimostrazione di benevolenza, che da ciascuno volontariamente venne salutato benefattore del popolo, e Padre della patria.
Appena rimessi in Firenze dall'esilio tanti ingiuriati cittadini aderenti e seguaci di Cosimo, pensarono questi senz'alcun rispetto di assicurarsi dello Stato e delle prime magistrature, spogliando la cittĂ di nemici e di sospetti, e volgendosi a beneficare nuove genti per fare piĂš gagliarda la parte loro. La famiglia degli Alberti, e qualunque altro esule o ribelle venne restituito coi suoi beni alla patria; tutti i grandi, eccetto pochissimi, nell'ordine popolare furono ascritti; le possessioni dei nemici di Cosimo per piccolo prezzo fra i partigiani di lui si divisero; e se questa proscrizione dal sangue (ancorchè in qualche parte nel sangue restasse tinta) fosse stata accompagnata, avrebbe a quella di Silla e di Ottaviano potuto quasi equipararsi. Oltre di ciò il partito di Cosimo con opportuni provvedimenti, appropriandosi le redini della repubblica e traendo dalle borse degli elettori i nomi deânemici per riempirle di amici, sempre piĂš si fortificava. Fu dato ai sig. Otto di guardia autoritĂ sopra la vita, si proibĂŹ a chicchessia di potere scrivere o ricevere lettere dai ribelli confinati, ed ogni parola, ogni cenno, ogni usanza che a quelli che governavano fosse in alcuna parte dispiaciuta, veniva con pene gravissime gastigata. E perchè alcuni amici dolcemente avvertirono Cosimo, non potersi patire che per tante famiglie ornatissime, per sĂŹ grandi cittadini sbalzati dalla patria, la cittĂ si guastasse, ebbero da lui cotale risposta: esser meglio cittĂ guasta che perduta. Non si affannasero però, giacchè con poche braccia di scarlatto molti cittadini ogni dĂŹ poteva vestire, conoscendo bene egli che a mantenere uno stato nuovo gli abbisognavano uomini nuovi. Per tutta la vita di Cosimo la cittĂ di Firenze restò compressa nella quiete della servitĂš, senza che avesse mai luogo uno di quei movimenti, coi quali una popolazione suol tentare di riacquistare la perduta libertĂ .. â Realmente a partire dall'anno 1434 cominciò la decadenza della Repubblica fiorentina, la quale sino d'allora restò sotto il dominio diretto o indiretto della casa deâMedici. E benchè Firenze avesse in seguito alcuni brevi intervalli di libertĂ essa ricadde ben presto nel primo laccio, sino a che, abolite coi nomi le forme antiche, si convertĂŹ la repubblica in principato.
Poco innanzi che tali mutazioni politiche e proscrizioni cittadine fossero incominciate, si serrò l'occhio della maestosa cupola di S. Maria del Fiore, nel giorno stesso che sbarcò a Livorno il pontefice Eugenio IV, quello medesimo che nel dÏ 25 marzo del 1436 nel giorno della Pasqua di Resurrezione con magnificenza confacente a una grande e ricca città consacrò la mentropolitana fiorentina; nella quale, dopo la sacra funzione, fu creato cavaliere dal pontefice Giuliano di Niccolao di Roberto Davanzati allora gonfaloniere di giustizia e riputatissimo cittadino, cui Eugenio di sua propria mano cinse il fermaglio nel petto.
Nell'anno stesso 1436 il governo di Cosimo diede motivo di alterare la pace col duca di Milano; poichè sentita la sollevazione di Genova, i reggitori di Firenze fecero lega coi Genovesi e coi Veneziani contro quel duca, lo che bastò al Visconti per ricominciare le ostilità senza altra dichiarazione di guerra. A fomentare la finale contribuirono i maneggi dei fuorusciti fiorentini, fra i quali precipuamente si distinse Rinaldo degli Albizzi, che da Trapani rompendo i confini si era recato a Milano.
Accadde la prima battaglia fra i due eserciti sotto Barga con esito favorevole a'Fiorentini, capitanati dal conte Francesco Sforza. Questa prima vittoria persuase e indusse la Signoria a tentare un'altra volta l'impresa di Lucca, difesa virilmente dai suoi abitanti, e quindi liberata per poca costanza del C. Sforza; il quale lusingato dal matrimonio di Bianca figlia del duca di Milano, abbandonò il servigio de'Fiorentini per passare a quello del loro nemico, lo che obbligò a lasciare in pace i Lucchesi e aprire con essi un trattato (28 aprile 1438) che accordò al conte Sforza una parte del territorio conquistato. â Vedere COREGLIA.
Ebbe poco dopo Firenze il maestoso spettacolo del greco imperatore Giovanni Paleologo, del pontefice Eugenio IV, di cardinali, patriarchi, metropolitani, e di un buon numero di prelati greci e latini venuti per riunire nel Concilio ecumenico la chiesa greca con la latina.
Frattanto gli esuli fiorentini non cessavano di sollecitare il duca di Milano a rimetterli in Firenze, dove contavano facilmente di poter entrare con l'ajuto dei fautori che avevano in città . Le loro istanze furono esaudite dal Visconti, il quale affidò la spedizione militare al miglior suo capitano Niccolò Piccinino. Questi inoltratosi con numeroso esercito in Romagna, penetrò nella Toscana per la valle del Lamone, ed estese le sue scorrerie nel Mugello e nel Casentino, di dove trapassò nella valle superiore del Tevere. Costà accorse l'armata fiorentina: e a'29 giugno 1440 conseguÏ sotto Anghiari la vittoria, per la quale Firenze si rallegrò a segno che ogni anno la rammenta con la corsa del palio di S. Pietro. Accrebbe letizia alla città l'acquisto che si fece poco dopo (marzo 1441) della nobil Terra del Borgo S. Sepolcro venduta col suo distretto alla Repubblica fiorentina dal pontefice Eugenio IV per il prezzo di 25,000 ducati d'oro.
Uno dei commissarj dell'esercito fiorentino fu Neri di Gino Capponi, che in questa stessa guerra si era maravigliosamente distinto non tanto per i felici successi mercè sua ottenuti nel Casentino e nella Val Tiberina contro il conte di Poppi e il Piccinino, quanto anche per molti altri importanti servigi che in qualità di legato aveva resi alla sua patria; sicchè egli era riguardato dopo Cosimo de'Medici il principale cittadino di Firenze. SÏ nobili prerogative dovettero dare tale ombra al capo del governo, che fornÏ a molti cagione di sospettare che fosse stato effetto della coperta politica di Cosimo per abbassare la fama e autorità del Capponi, quello di consigliare il Gonfaloniere Orlandini a far trucidare e quindi gettare dalle finestre del palazzo del popolo il capitano Baldaccio di Anghiari, militare sopra ogn'altro eccelentissimo e grandemente al Capponi affezionato.
La morte del duca di Milano (12 agosto 1448) fece restar in tronco le trattative di pace intavolate con le Repubblica di Firenze e di Venezia, quando un nuovo nemico si affacciò nel re Alfonso di Napoli. Il quale, chiamato da Filippo Maria all'eredità dello Stato milanese, veniva avvicinandosi con numerosa oste di cavalli e di fanti nella Toscana. Considerando egli, che per la via del Val d'Arno superiore non poteva far cosa alcuna di gran momento, rivolse il suo esercito verso il territorio di Volterra, di dove penetrò nelle pisane maremme. I Fiorentini veggendo un re potente in casa loro, il quale non soleva cosÏ di leggieri dalle sue imprese desistere, nè potendo conoscere essi dove un simil contegno ostile avesse andare a riuscire, tentarono di aprire con Alfonso una qualche trattativa di amicizia; per aderire alla quale chiedeva quel re, che la Repubblica gli pagasse 50,000 scudi, e non s'impacciasse dei fatti di Piombino.
Concorreva la maggior parte de'cittadini in simile accordo, meno che Neri Capponi, il quale affacciò in consiglio cosĂŹ valide e persuadenti ragioni, che fu concluso, non doversi il governo di Firenze in alcun modo piegare a far pace col re, se il signore di Piombino, che era deâFiorentini raccomandato, non si lasciava dall'Aragonese quieto nel principato.
Intanto il re di Napoli con ogni sforzo per mare e per terra infestava continuamente la Terra di Piombino, sino a che, nel dĂŹ 8 settembre 1448, fu ordinato di prenderla per assalto. Ma il coraggio dei Piombinesi, la fermezza di Rinaldo Orsini loro principe e gli ajuti dei Fiorentini, resero vano ogni sforzo, in guisa che gli assalitori furono costretti di ritirarsi dalla battsglia, e quindi dopo gravi perdite di abbandonare la Maremma o tutta la Toscana.
Nel mentre che l'esercito d'Alfonso ritornava mezzo ed infermo a Napoli, il conte Franc. Sforza, come genero del morto Visconti, adoprava ogni possa da riconquistare per conto proprio il ducato di Milano, contro voglia di quelle popolazioni che si erano sollevate e rimesse in libertĂ ; e ad onta dei Veneziani, le cui armate in ogn'incontro egli sconfisse per terra e per acqua. Fu lo Sforza sovvenuto palesemente dalla Repubblica fiorentina, e privatamente da Cosimo de'Medici, sperando questi di procacciarsi in quello un presidio ai figli e ai nipoti, e agli aderenti della sua casa un valido protettore ed amico.
Quanto fu sentito con giubilo dai reggitori del Comune di Firenze l'ingresso del C. Sforza in Milano acclamato da quei cittadini in loro principe (anno 1450), altrettanto i Veneziani e il re di Napoli si erano adontati con il governo fiorentino, quasichè i suoi soccorsi pecuniarii avessero posto in grado il fortunato figlio del Cutignola di vincere e farsi signore della Lombardia.
Incominciaronsi le ostilità dai due potentati con l'espulsione dei nazionali Fiorentini dai veneti e dai napoletani dominii, tentando eziandio di farli esiliare dagli scali del Levante, a fine di escluderli dal commercio di Candia, di Costantinopoli e di Ragusi. E per nuocere in tutte le maniere alla Signoria di Firenze, i Veneziani fecero lega con la Repubblica di Siena, e procurarono di mutare lo stato di Bologna per distaccarla dall'amicizia de'Fiorentini. Intanto che questi stringevano alleanza col nuovo duca di Milano e preparavansi, alla guerra il re di Napoli, che sentiva ancora la vergogna di essere stato costretto a retrocedere con numerosa oste dalla Toscana, inviava costà il suo figlio Ferdinando con 8000 cavalli, e 4000 fanti. Il qual esercito entrato per la Val di Chiana, si fermò davanti il castello di Fojano, che dopo un pertinace assedio di 43 giorni dovette rendersi a patti (2 settembre 1452). Avuto ch'ebbero i nemici Fojano, vennero nei confini del Chianti, verso Brolio e Cacchiano, combattendoli inutilmente, prima di accamparsi davanti il debole castello di Rencine che l'ebbono in pochi giorni.
Non accadde però lo stesso della Castellina, paese propinquo 10 miglia a Siena; giacchè per quanto il luogo, per arte e per sito, non presentasse grandi ostacoli, pure resistè a quell'esercito, che vi stette inutilmente un mese e mezzo a combatterlo, intanto che una numerosa flottiglia del re, scorrendo lungo la marina pisana, per poca diligenza del castellano occupava la rocca di Vada.
I Fiorentin i, non essendo ancora in forze da misursasi con quelle dell'Aragonese, stavano sulle difese, schivando di venire a battaglia, fino a che i nemici si ridussero ai quartieri d'inverno. Nel qual tempo la Repubblica in varie guise preparavasi a respingere l'oste napoletana, sia con l'indurre Renato d'Angiò a venire dalla Provenza in Italia per contrastare ad Alfonso la successione al regno di Sicilia, sia con l'accomodare al nuovo duca di Milano 80,000 fiorini d'oro, per ricevere da esso una squadra di 2000 soldati di cavalleria, sia con l'assoldare Manuello d'Appiano Signore di Piombino condottiero di 1500 cavalli, con tali ajuti la Repubblica fiorentina riacquistò facilmente (nell'estate del 1453) i paesi tolti dai Napoletani; e ciò nel tempo medesimo che scoprivasi in Romagna un suo ribelle in quel Gherardo di Giovanni Gambacorti, al di cui padre la signoria di Firenze, mercè la capitolazione di Pisa, aveva concesso il dominio del Vicariato di Bagno.
Le ostititĂ del re Alfonso dovettero obbligatamente cessare dopo il trattato conchiuso, nel 9 aprile 1454, fra i Veneziani e il duca di Milano; alla quale pace aderirono volentieri i Fiorentini, piĂš tardi e di male in cuore l'Aragonese, costretto a richiamare dalla Toscana le sue truppe e il di lui figlio Ferdinando, nel mentre questi aspirava a impadronirsi di Siena.
Poco dopo questo tempo sentÏ Firenze come un ristoro ai sofferti mali la notizia della morte di un suo fiero nemico in Alfonso di Aragona, amareggiata però dalla perdita che poco prima la repubblica aveva fatta in un sommo cittadino, Neri di Gino Capponi, mancato in Firenze, li 22 novembre dell'anno 1457, fra i compianti di tutta la città ; la quale riguardò sempre in cotesto integerrimo uomo di stato il fedele seguace delle civili virtÚ ereditate dal padre, seppure non lo sorpassava per maturità nei consigli, per valentia nei mezzi della guerra, e per destrezza nelle ambascerie che sostenne.
Memore dei Ricordi, che per lui distese il genitore, fece egli conoscere all'universale, che il servire la patria è un sacro dovere di cittadino sino al punto, che neppure l'ingratitudine o gli intrighi delle fazioni poterono affievolire in esso tale dovere, e molto meno indurlo in sentimenti contrarii all'interesse e all'onore del suo paese.
In una parola Neri Capponi fu dopo Cosimo il cittadino piĂš rispettato di Firenze, con questa differenza, che Neri si acquistò credito e riputazione somma per vie pubbliche e notorie, in modo che egli aveva assai amici e nessuni, o pochi partigiani; mentre Cosimo, essendosi fatto strada per vie pubbliche e private, aveva piĂš partigiani che amici.. â Fintantochè il Capponi visse, gli aderenti di Cosimo per paura si mantennero uniti e forti; perduto Neri, la cui stima universale serviva ai settarj d'un qualche freno, cominciarono i medesimi a trovarsi meno concordi fra loro, e a desiderare una piĂš assoluta autoritĂ .
Infatti morto che fu appena il Copponi, ebbe luogo in Firenze qualche movimento piÚ di segreti maneggi, che di forza aperta, per tentare di riformare la costituzione del 1434. Avvegnachè dopo il ritorno di Cosimo il governo erasi ristretto nelle mani di pochi individui, i quali non solamente non lasciavano campo alla sorte nell'elezione della Signoria, ma avevano fatto nascere tale provvisione, che toglieva perfino uno dei piÚ preziosi diritti ai cittadini, cioè la libertà di chiamare in giudizio quelli che gli governavano. I partigiani stessi di Cosimo, o fossero fra loro discordi, o si trovassero annojati di questo perpetuo dittatore, o troppo grave cosa gli sembrasse servilmente dipendere dall'arbitrio di coloro che facevano e disfacevano a loro senno leggi e magistrati, raccolti insieme ragionavano, e pubblicamente consigliavano; I.° ch'egli era bene che la dittatoria potestà della Balia, della quale era per terminare il suo tempo, piÚ non si rinnovasse; 2.° che si serrassero le borse dei Priori; 3.° e che quei magistrati, non piÚ a mano, ma a sorte secondo i favori dei passati squittinj si estraessero.
Cosimo che sapeva in ogni modo di non correre alcun rischio nella sua dittatura, condiscese alle preci della malcontenta fazione; conoscendo bene che nelle borse, dalle quali doveva sortire ogni bimestre la prima magistratura, erano stati chiusi i nomi di cittadini di tutti i ceti, la maggior parte nuovi e al Padre della patria per avidità d'impieghi, per interessi di denari, o per ragione di mercatura ligj o ben affetti. Ottenuta tale riforma, parve all'universale di avere acquistata la propria libertà , sebbene l'esito mostrò ben presto tutto il contrario.
Imperciocchè fatti gli squittinj, ed entrati di Signoria gli eletti, questi non operarono mica secondo la voglia di coloro che tal riforma avevano promossa; ma secondo il proprio arbitrio, o quello del loro padrone, la repubblica governavano. Si accorsero ben presto gl'innovatori della loro follia, giacchè non al Medici, ma ad essi stessi avevano preclusa la strada alle cariche e si erano lasciata fuggire di mano la cosa che ambivano di carpire.
Quello però che fece piÚ spaventare i malcontenti, ed a Cosimo dette maggiore occasione a fargli ravvedere, fu allorchè risuscitò il modo di rifare il catasto come nel 1427. Questa legge vinta, e di già creato il magistrato che la doveva eseguire, fece risolvere i grandi a stringersi insieme per scongiurare Cosimo, affinchè volesse ristabilire l'ordine oligarchico da esso stato introdotto fino dall'anno 1434. Il dittatore peraltro non volle cosÏ per fretta dare ascolto a simili lamenti, acciocchè i faziosi sentissero piÚ vivamente il loro errore, e ne portassero piÚ lunga pena. Tentossi nei consigli la legge di far nuova BalÏa, ma non si ottenne; e perchè un gonfaloniere volle senza consentimento adunare il popolo a parlamento, lo fece Cosimo dai Priori di lui colleghi sbeffare in modo, che egli impazzò, e come stupido dal palazzo della Signoria alla casa sua fu rimandato.
Nondimeno perchè un tal contegno aveva fatto crescere l'orgoglio nei nuovi governanti, e nella plebe gli insulti verso i grandi, non parve a Cosimo il lasciare piÚ oltre trascorrere le cose, che le non si potessero poi ritirare a sua posta, dondechè essendo pervenuto al gonfalone della giustizia Luca Pitti, uomo animoso ed audace, si credè costui un istrumento opportuno per governare l'impresa; riservandosi il Medici a favorire il tentativo dietro la scena, acciò, se la riforma non sortiva l'esito desiderato, ogni biasimo a Luca e non a Cosimo fosse imputato.
Volle il Pitti sul principio tentare la mutazione col persuadere i suoi colleghi, che cotesta introdotta libertà di elezione era una licenza sfrenata; al quale erroneo consiglio si opposero i magistrati con tali forti espressioni, che uno di essi come sedizioso venne arrestato e posto alla tortura. Fu allora che Pitti ricorse all'arbitrio; e avendo ripieno di armati il palazzo, chiamò il popolo in piazza, cui per forza fece consentire quello che volontariamente non aveva potuto ottenere, riducendo il governo al regime del 1434, e coronando la sua opera col fare esiliare quattordici cittadini che si erano dichiarati caldamente attaccati alla pubblica libertà . Innanzi che Pitti terminasse la sua magistratura si propose una riformagione, in vigore della quale la magistratura suprema della repubblica, stata fino allora appellata dei Priori delle Arti, dovette prendere il titolo dei Priori di Libertà , quando appunto in Firenze era cessata ogni libera ragione.
Fu Luca Pitti in premio dell'opera sua dalla Signoria fatto cavaliere, e da Cosimo riccamente presentato, nel mentre quasi tutta la città concorreva a offerirgli doni. Cosicchè egli venne in tanta fidanza e superbia da por mano a innalzare due grandiosi edifizj, che uno in Firenze, cangiato poscia nella maestosa reggia, (sebbene di palazzo Pitti conservi tuttora il nome) l'altro a Rusciano sopra a Ricorboli luogo propinquo un miglio alla città . Per condurre a fine i quali edifizj Luca non perdonava ad alcuno straordinario modo; per cui non solo i cittadini lo presentavano, e delle cose necessarie all'edificatoria lo sovvenivano, ma le comunità e le popolazioni del fiorentino distretto gli somministravano ajuti, nel tempo che agli uomini di ogni delitto macchiati Luca offriva asilo, purchè nelle sue case lavorassero.
Gli altri grandi della città , se non edificavano al pari, non erano meno violenti nè meno rapaci del Pitti; in modo che, se allora Firenze non aveva guerre di fuori che la distruggessero, dai suoi cittadini era distrutta.
SeguÏ durante questo tempo la morte di Cosimo (il dÏ 1 di agosto 1464); di quell'uomo ch'ebbe la forza di tenere per 30 anni nelle sue mani il governo della repubblica, e che ne assicurò il dominio nella sua casa. Lasciò di sè grandissimo desiderio nella città e all'estero, in quanto che non solamente egli superò ogni altro, dei tempi suoi, d'autorità , di prudenza e di ricchezze, ma anco di magnificenza e di liberalità . La quale ultima prerogativa si fece conoscere assai visibilmente dopo la morte sua, giacchè non vi era cittadino di alcuna qualità cui Cosimo grossa somma di denari non avesse prestata. E tanto era il credito ch'egli teneva all'estero, che quando i Veneziani, e Alfonso d'Aragona contro la repubblica fiorentina si collegarono, Cosimo col ritirare il suo avere dalle piazze di Napoli e di Venezia, si crede vi lasciasse un vuoto tale di numerario, che i due sopraddetti potentati fossero costretti ad accedere alle proposte condizioni di pace.
Apparve la magnificenza di Cosimo in varj edifizj sacri che in Firenze, nel poggio di Fiesole, e nel contado dai fondamenti fece costruire. Il suo grandioso palazzo in via Larga (poscia de'march. Riccardi) e quattro sontuose ville, a Careggi, a Fiesole, a Cafaggiolo ed a Trebbio non solo edificò, ma di vasi preziosi e di tavole da egregi artisti dipinte adornò, senza dire di altre minori fabbriche, cappelle, altari e ospizj da esso fondati e arricchiti.
Difficilmente si potrebbe indicare nella storia del medio evo un cittadino che al pari di Cosimo sia stato colmato di elogj; talchè a lui, un anno dopo morto, la Signoria di Firenze per decreto pubblico confermò il titolo di Padre della patria. Nondimeno negli ultimi tempi della vita angustiava l'animo del vecchio Medici non aver potuto, nel lungo periodo che egli tenne le redini dello Stato, di un acquisto onorevole accrescere il dominio fiorentino; e tanto piÚ se ne doleva, quanto che gli parve essere stato da Francesco Sforza ingannato; il quale mentre era conte promisegli, appena si fosse insignorito di Milano, di fare per i Fiorentini l'impresa di Lucca, che poi non mantenne.
Lasciò Cosimo erede delle sue ricchezze e del suo potere il figlio Piero, debole e infermiccio, cui commise morendo, che delle sostanze e dello stato secondo il consiglio d'un suo intimo confidente e cittadino riputatissimo (messer Diotisalvi Neroni) si lasciasse governare. Ma la fiducia nell'amico e consigliere non corrisposero nè alle promesse del Neroni, nè alle speranze del Medici. Imperocchè sotto pretesto di rimediare ai disordini del patrimonio, Diotisalvi indusse Piero de'Medici a ritirare dai suoi debitori somme rilevanti di denari, imprestate loro dal padre per acquistarsi nella cittĂ e fuori partigiani ed amici; la quale operazione posta ad effetto cagionò in Firenze grandi fallimenti, per cui molti mormorando, si alienarono dal suo partito. â Visto da messer Neroni, che i suoi consigli ottenevano l'effetto desiderato, si strinse con Luca Pitti, con Agnolo Acciajoli e con Niccolò Soderini, bramosi ognuno per diverso fine, di torre a Piero la reputazione, e lo stato. â Luca Pitti, il piĂš potente cittadino dopo Cosimo, morto lui non voleva essere il secondo. Agnolo Acciajoli, per private cause, nutriva odio con i Medici; mentre Niccolò Soderini, mosso da mire meno ambiziose, bramava che la sua patria piĂš liberamente vivesse, e dai magistrati estratti a sorte si governasse.
Pareva a questi capi di avere la vittoria in mano, perchè la maggior parte del popolo, con cui essi adonestavano la loro impresa, gli seguiva. Si tentò inutilmente da alcuni piÚ pacifici cittadini di acquetare tali dissapori, mentre le inimicizie cominciarono a manifestarsi aperte dopo la morte di Francesco Sforza duca di Milano (8 marzo 1466). Ma non giovando l'eloquenza del Soderini, nè l'orgoglio del Pitti, nè le segrete arti del Neroni a screditare Piero de'Medici, fuvvi chi fra i congiurati propose che si dovesse uccidere quest'altr'idolo della plebe; ricordando quello che a Rinaldo degli Albizzi, a Palla Strozzi, a Ridolfo Peruzzi e a tanti altri grandi della città era intervenuto a cagione di aver lasciato Cosimo in vita prima dell'esilio.
A volere con sicurezza eseguire il meditato disegno, stimarono i faziosi necessario un esterno soccorso d'armati. S'impegnò di coadiuvarli nell'impresa Ercole d'Este fratello di Borso marchese, poi duca di Ferrara; il quale inviò una compagnia di sopra mille cavalli verso l'Appennino di Fiumalbo, intanto che i congiurati designavano il tempo e il luogo di assalire Piero de'Medici nell'andare o nel tornare ch'egli faceva alla città dalla sua villa di Careggi. La destrezza però fino d'allora manifestata dal giovinetto Lorenzo suo figlio, e quindi gli appoggi de'fautori e amici della sua casa, sconcertarono talmente gli avversarj che tenendo questi titubanti e irresoluti, molti di essi crederono bene di venire con Piero a una riconciliazione.
Ma Niccolò Soderini, stimando vano un tal rimedio e troppo grave l'attentato, sebbene non condotto a fine, perchè il Medici volesse dimenticarlo, con energiche parole stimolò Luca Pitti a ritornare con piÚ calore e piÚ fermezza all'esecuzione dell'impresa.
Si raccolsero armi e amici tanto in città che in contado, e si sollecitò il march. Ercole d'Este, affinchè con le sue genti si facesse innanzi da Fiumalbo per la montagna di Pistoja. Questa novella, saputa da Piero, egli ordinò al figlio Lorenzo di essere con Luca Pitti, affinchè con ogni suo ingegno lo persuadesse a desistere da quei movimenti; lo che a meraviglia riescÏ a lui di renderselo mansueto in guisa che tenuti inoperosi i congiurati, venne a terminare il tempo di quella Signoria, nella quale i contrarj al partito Mediceo avevano troppi fautori. Ma entrati di seggio i nuovi priori e gonfaloniere di giustizia, quasi tutti amici della casa Medici, la parte di Piero non istette piÚ sospesa un istante; giacchè non piÚ tardi che nel secondo giorno (2 settembre 1466) chiamato il popolo a parlamento, si crearono quattro giorni appresso gli Otto di balÏa insieme col capitano del popolo; e la prima legge della nuova Signoria fu, che le borse dei priori per dieci anni si tenessero a mano, affinchè non si eleggessero piÚ a sorte.
Poco appresso si pubblicarono i nomi degli esiliati, fra i quali l'Acciajoli coi figli, il Neroni e due fratelli, il Soderini con Geri suo figliuolo, e Gualtieri Panciatichi di Pistoja. Non fu nel numero dei confinati Luca Pitti, il che gli accrebbe biasimo, come se avesse pattuito la salvezza sua col danno degli amici e compagni. Ma ben presto egli conobbe essergli stata predetta la verità da Niccolò Soderini, perciocchè la sua casa non fu piÚ frequentata, ed egli non piÚ veniva salutato da persona che lo incontrasse per via, mentre altri lo sfuggivano,e altri gli mormoravano dietro chiamandolo rapace e crudele, e molti le cose da loro a Luca donate, come imprestate richiedevano; talchè non solo dal suo superbo edificare si rimase, ma il resto della vita che gli sopravanzò finÏ oscuramente.
Alcuni dei principali esuli, fra i quali Neroni e Soderini, si recarono a Venezia, sapendo che l'odio di quei senatori verso la casa dei Medici, che aveva assistito lo Sforza loro nemico, non era ancora spento. Il desiderio pertanto di vendicarsi mosse i reggitori della Repubblica veneziana a dare ascolto ai fuorusciti fiorentini, e sebbene apertamente contro Firenze non si dichiarassero, somministrarono però gente, armi e denari con il migliore condottiere d'eserciti (Bartolommeo Collione), cui in seguito unironsi le forze di altri regoli dell'Emilia e della Romagna.
Intanto dal canto suo il governo di Firenze preparavasi alla difesa raccogliendo denari dai cittadini mediante un balzello di 100,000 fiorini d'oro, sollecitando ajuti all'estero, e collegandosi per 25 anni col duca di Milano e col re di Napoli. Nell'estate del 1467 i due eserciti nemici trovavansi di fronte nel territorio d'Imola, dove successe (25 luglio) la battaglia della Molinella, la quale sortĂŹ un evento indeciso, sebbene da ambe le parti infino a notte si combattesse con gran fermezza e valore.
Però dopo quella giornata non accadde piÚ fra le parti belligeranti cosa alcuna di notabile, sia perchè il generale veneziano con le sue forze si ritirasse alquanto verso la Lombardia, sia per una tregua che, agli 8 di agosto, si fece per intavolare condizioni di pace; intanto che, sopraggiunto l'inverno, ciascuna delle due armate si ridusse alle stanze. Peraltro a Firenze, dove non si contava molto sulla conclusione del trattato, si fecero nuove provvisioni di denari per tre anni successivi mediante imprestanze, le quali produssero al pubblico erario la vistosa somma di 1,200,000 fiorini d'oro.
Infatti, appena entrato il mese di febbrajo del 1468, si seppe a Firenze con poca soddisfazione, come il pontefice Paolo II di nazione veneziano, a guisa di arbitro aveva pubblicata in Roma la pace, a condizione che le parti belligeranti, collegandosi insieme, dovessero pagare un'annua pensione di 100,000 scudi a Bartolommeo Collione per la guerra che si aveva a fare contro i Turchi in Albania, e intanto ordinava che ai Fiorentini il borgo di Dovadola, e al signore d'Imola Mordano e Bagnara si restituissero.
Non piacque alla Signoria di Firenze, nè al duca di Milano, di avere a pascere con i loro denari un capitano di ventura, e fecero sentire al pontefice che si sarebbero appellati di tale arbitrio al futuro Concilio; ma Paolo II volendo persistere nella pronunziata sentenza, procedette all'atto di scomunica contro coloro che da quella dissentivano.
Dopo che la repubblica fiorentina ebbe creato il magistrato dei Dieci della guerra, o che il duca di Milano e i Veneziani ebbero inviato gli eserciti verso la Romagna per ricominciare le ostilità , il pontefice, mitigando la prima sentenza, nel dÏ 25 aprile del 1468 pronunziò migliori condizioni di pace, senza fare piÚ menzione del veneto condottiero.
Nel tempo che tali affari di fuori si maneggiavano, la Signoria di Firenze dava il bando di ribelli al Neroni, al Soderini e all'Acciajoli per avere rotti i confini, e per essere stati la cagione di una guerra dispendiosissima, alle spese della quale dovettero in parte supplire le sostanze dei fuorusciti. â Vedere DONORATICHINO.
Nell'anno medesimo 1468 la repubblica fiorentina acquistò in compra da Lodovico Fregoso per 30,000 fiorini d'oro Sarzana, Sarzanello, Castelnuovo e alcuni altri minori castelli della Lunigiana.
Terminata la guerra e sopite le civili tempeste, Lorenzo dei Medici, uno dei principali attori in tali politiche faccende, volle rallegrare la città con torneamenti ed altre feste spettacolose atte ad affezionare sempre piÚ il popolo alla sua causa. Se non che l'infermità del di lui padre, aggravandosi ognora piÚ, dava campo agli ambiziosi del dominante partito di regolare a loro arbitrio la cosa pubblica. Si vuole da alcuni istorici fiorentini, che un giorno Piero chiamasse a sè i principali cittadini, e parlasse loro in guisa da farli vergognare, rampognandoli d'avere troppo abusato della fiducia che in essi aveva riposta, sia perchè eransi fra loro i beni degli esiliati divisi, sia perchè vendendo a capriccio la giustizia, gl'insolenti esaltavano e gli uomini pacifici con ogni sorta d'ingiuria opprimevano. Ma vedendo che tali rimostranze non giovavano, Piero fece venire celatamente nella villa di Cafaggiolo Agnolo Acciajoli; nè si dubitò punto dal Machiavelli, che se il figlio del Padre della patria non fosse stato dalla morte sopraggiunto, volesse richiamare i fuorusciti per frenare le rapine di coloro, i quali, sotto il manto dell'amicizia e di un falso amore patriottico, si erano impadroniti delle prime magistrature della città .
In tanta angustia di animo, aggravandosi il male della podagra Piero de'Medici, li 2 dicembre 1469, cessò di vivere, senza che Firenze potesse intieramente conoscere le sue virtĂš. Ma tanto era saldamente stabilito il potere della sua casa, che dopo la morte di lui non seguĂŹ movimento alcuno; cosĂŹ che i suoi due figliuoli furono, benchè giovanetti, come capi della repubblica generalmente onorati. Alla quale tranquillitĂ interna contribuĂŹ piĂš di tutti Tommaso Soderini, cittadino di gran prudenza, di somma avvedutezza nelle cose politiche, e sinceramente ai Medici affezionato. Imperocchè lungi egli dall'imitare il fratello Niccolò Soderini, mostrò collâeffetto quanto la sua fede fosse diversa da quella del Neroni, allora quando ragunò uno scelto numero di fiorentini nel convento di S. Antonio presso porta Faenza, dove intervennero Lorenzo e Giuliano deâMedici: e a quell'assemblea con grave eloquenza delle condizioni della cittĂ , di quelle dell'ltalia, e degli umori dei varj principi di essa avendo a lungo discorso, concluse, che se desideravano essi in Firenze si vivesse uniti, e dalle divisioni di dentro come dalle guerre di fuori sicuri, era necessario osservare quei due giovanetti, e loro la buona riputazione ereditata dal padre e dall'avo mantenere. Parlò dopo il Soderini Lorenzo con tanta saviezza e modestia, che a ciascuno egli dette grandi speranze di sè; sicchè prima che di lĂ partissero gli adunati, giurarono tutti di prendere i due pupilli come in figliuoli, e questi viceversa di tenere quei cittadini per altrettanti padri.
Continuava la quiete in Firenze, allorchè nel 1470 occorse in Prato un improvviso tumulto eccitato da un fuoruscito (Bernardo Nardi), il quale, introducendosi di notte tempo con pochi armati nella Terra, volle tentare un colpo da disperato. Ma la debolezza de'mezzi, la scarsità dei fautori e la fedeltà dei Pratesi, non che del cavaliere Giorgio Ginori che arrestò il capo di quella sommossa, fecero pagare caro ai ribelli un simile attentato.
Sul declinare dell'anno 1470 Lorenzo deâMedici ebbe il primo onore pubblico, quando fu eletto sindaco del Comune, affinchè a nome del popolo nella metropolitana fiorentina il gonfaloniere Gianfigliazzi per le sue mani fosse vestito cavaliere.
Nell'anno appresso (1471) con straordinaria pompa i Fiorentini accolsero nelle loro mura il duca e la duchessa di Milano accompagnati da un magnifico corteggio. In tale circostanza si fecero sacre rappresentanze spettacolose, una delle quali cagionò l'incendio dell'antica chiesa di S. Spirito.
Prima che l'anno medesimo terminasse, il sistema governativo di questa città subÏ un'altra riforma a scapito della pubblica libertà , stantechè per ristringere il governo nelle mani di pochi, fu vinto il partito di eleggere una commissione di 40 cittadini, all'arbitrio dei quali fu affidata la nomina del consiglio de'200. A costoro medesimi fu data potestà di fare tutto quello che il popolo fiorentino insieme, (eccetto di levare il catasto) soleva per mezzo delle 4 Camere ordinare, annullando per conseguenza i Consigli del Comune e del Popolo, all'anno 1382 poco sopra rammentati. Fra le varie riformagioni in tale occasione decretate, fu approvata anche quella che ridusse al numero di 12 le 21 corporazioni delle arti e mestieri.
Nel mentre che tali riforme in Firenze preparavansi, cessava di vivere in Roma il pontefice Paolo II, cui poco dopo succedè il cardinale Francesco della Rovere, che prese il nome di Sisto IV; quello stesso Sisto che doveva essere il piÚ animoso persecutore della casa de'Medici, sebbene da principio dasse segni di gran favore a Lorenzo, allorchè fu destinato dalla repubblica fiorentina tra i sei ambasciatori andati a Roma per complimentarlo.
Ă fama che Lorenzo de'Medici avesse avuto animo di fare il fratello Giuliano cardinale, forse per rimanere egli piĂš libero nelle cose del governo della cittĂ , ma che al pontefice non sembrasse bene di aggiungere cotanta riputazione a quella potente famiglia.
In quell'anno stesso 1471, si suscitarono dei dissapori fra i Volterrani e i Fiorentini, a cagione di alcune divergenze insorte per conto delle allumiere di Castelnuovo, state concesse in affitto dal Comune di Volterra a una societĂ composta di negozianti tanto fiorentini che senesi. I Volterraui affidarono la decisione della lite all'arbitrio di Lorenzo de'Medici, sperando di avere in lui un patrono, o almeno un giudice spassionato, ma trovarono invece un loro avversario e tiranno. Avvegnachè per un fatto meramente privato fu dichiarata la guerra, assediata e presa Volterra, e tosto riunita insieme con il suo distretto, al contado della Repubblica fiorentina. â Vedere VOLTERRA.
Per consolare l'afflitta città abbandonata (1472) a un orribile saccheggio, che fu causa della sua desolazione, vi si recò l'arbitro Lorenzo, il quale, nel tempo che spargeva denari per calmare lo sdegno dei vinti, faceva costruire nel punto piÚ prominente della città una fortezza, in mezzo alla quale vide erigersi la bastiglia del Maschio.
Il conte Federigo d'Urbino capitano generale di quell'impresa, fu dalla Signoria di Firenze con grandi onori ricevuto, di preziosi oggetti regalato, e con decreto pubblico dichiarato cittadino. Affinchè poi la cittadinanza non paresse vana, il Comune comprò da Luca Pitti, per donare al conte di Urbino, la possessione magnifica della villa di Rusciano fuori di porta S. Niccolò.
Ma questo generale, con poco decoro suo e punta gratitudine a tante dimostrazioni, abbandonò ben tosto gli stipendj della repubblica fiorentina, per passare al servizio del re di Napoli e del pontefice Sisto IV; il primo de'quali conoscevasi antico e scoperto, l'altro novello e piÚ pericoloso nemico della città di Firenze e de'Medici che la dominavano.
Nè tampoco quei due sovrani della bassa Italia tralasciarono di tentare gli animi de'varj signori di Romagna e dei Senesi per offendere sempre piÚ d'appresso i Fiorentini, nel tempo che papa Sisto lusingava altamente l'ambizione del conte Federigo dichiarandolo duca d'Urbino. Del quale ostile procedere accorgendosi i reggitori della Repubblica, non mancarono essi di prepararsi alla difesa; sicchè essi col duca di Milano, con la Repubblica di Venezia, con i Perugini e con il signore di Faenza si collegarono. In questi sospetti e avversità di umori, fra i principi e le repubbliche dell'Italia, si visse qualche anno innanzi che alcun serio tumulto nascesse. Si mosse questo in Milano, nella chiesa e nel giorno di S. Stefano (anno 1476) da pochi congiurati, i quali trucidarono il duca Galeazzo; lo che fu un tristo preludio di altro non meno sacrilego assassinio, col quale poco dopo si tento in Firenze di spegnere con le persone il già colossale potere della famiglia che vi signoreggiava.
Dopo la vittoria riportata nel 1466 da Piero de'Medici sopra i di lui nemici, si era riformato e ristretto in modo il reggimento della Repubblica fiorentina da ridurre le prime magistrature nelle mani di Lorenzo o dei suoi ministri e seguaci; sicchè a coloro che n'erano malcontenti, o conveniva con pazienza quel modo di vivere comportare, o se pure avessero bramato di liberarsene, era duopo il tentarlo segretamente, e per via di congiure.
Non ignorava però Sisto IV, che Lorenzo de'Medici, in grazia di tanta influenza, formava un obice potentissimo alla sua ambizione, di che esso pontefice già contava piÚ di una prova, sia allorchè voleva comprare per il nipote Girolamo Riario la città d'Imola, sia quando il Medici segretamente ajutava Niccolò Vitelli, signore della Città di Castello, perchè si era opposto alle armi e alle minacce di Sisto, intento a rimettere in quella città i fuorusciti.
Adontato da queste, e fors e da altre cause meno palesi, Sisto IV, appena vacata la sede arcivescovile di Pisa, la conferĂŹ nel (1474) al cardinale Francesco Salviati, che sapeva dei Medici acerrimo nemico; tolse a questi la tesoreria pontificia di Roma per conferirla a Francesco de'Pazzi, stirpe per ricchezze e nobiltĂ in Firenze delle piĂš cospicue, e ai Medici rivale . â Aveva Cosimo de'Medici giĂ da un pezzo la Biauca figlia di Piero con Guglielmo nipote di mess. Jacopo della famiglia de'Pazzi aveva in matrimonio congiunta, sperando che quel parentado levasse via l'inimicizie fra le due case rivali; nondimeno la cosa procedette altrimenti; perchè Lorenzo, volendo esser solo a dominare, vedeva contrario alla sua autoritĂ riunirsi nei cittadini ricchezze e stato. Questo fece che a mess. Jacopo, primo della famiglia Pazzi, ed ai molti nipoti di lui non solamente non furono conceduti quei gradi di onore, che a loro piĂš degli altri cittadini pareva meritare, ma il dispetto e l'inimicizia contro i Medici ognora piĂš in quelli si accrebbe dopo che il magistrato degli Otto di balĂŹa, per una leggera cagione, Francesco de'Pazzi da Roma a Firenze costrinse a ritornare.
Una maggiore onta e danno negl'interessi, per l'influenza di Lorenzo, risentÏ Giovanni de'Pazzi altro fratello di Francesco, allorchè vide carpire alla sua famiglia una ricchissima eredità lasciata da Giovanni Borromeo, e ciò in vigore di una legge retroattiva, che spogliò la moglie sua, unica figlia del Borromeo, per far passare il patrimonio del suocero in Carlo Borromeo di lui nipote.
Non potendo adunque con tanta nobiltà e illustri parentele sopportare sÏ grandi ingiurie, i Pazzi cominciarono a pensare al modo di vendicarsene, e decisero: che solo col sangue di Lorenzo e di Giuliano onte si fatte potevano ripararsi e spegnere odj cotanto intestini e feroci. Dopo varie conferenze intavolate a Roma da Francesco de'Pazzi, il piÚ ardito di sua famiglia, si associò al criminoso progetto il conte Girolamo Riario nipote del Papa, e quindi il cardinale Salviati arcivescovo di Pisa, di poco tempo avanti stato offeso dai Medici; e finalmente si tirò, sebbene non senza fatica, nella volontà dei congiurati il vecchio Jacopo. Furono eziandio concertati i mezzi per ricevere di fuori un pronto ajuto all'impresa che si meditava, tenendo i congiurati a loro disposizione un corpo di cavalleria nei confini della; Romagna, comandato dal generale pontificio Gio. Battista da Montesecco, uno dei pincipali attori in quella orribile scena. Della quale scena si fece teatro la chiesa metropolitana di Firenze piena di popolo, in presenza di un cardinale, in giorno festivo (26 aprile 1478), quando si celebrava la principale messa, e nel punto stesso in cui Tratto dal ciel misteriosamente Dai sussurrati carmi il figliuol Dio Fra le sacerdotali dita scende.
Fatta una simile deliberazione, i congiurati se n'andarono a S. Maria del Fiore, dove, nell'ora e al momento segnalato, quelli apparecchiati ad uccidere Giuliano con tanto studio lo ferirono, che dopo pochi passi cadde estinto; ma gli altri destinati a trucidare il fratello Lorenzo,con sĂŹ poca fermezza all'assunto impegno adempirono, che egli fu in tempo, con l'armi sue di porsi sulle difese, e con l'aiuto degl'amici, che tosto lo attorniarono, di ricovrarsi e mettersi in salvo nella vicina sagrestia. In questo mentre l'arcivescovo Salviati si era mosso con un drappello di congiurati verso il palazzo del popolo per assalire il magistrato della Signoria, ma invece l'arcivescovo stesso e i suoi seguaci, per ordine del gonfaloniere, cui pervenne in tempo la notizia di tanto eccesso, vennero presto disarmati, e quindi, parte alle finestre del palazzo con un laccio alla gola sospesi, e parte gettati nella piazza e dall'accorso popolo fatti a pezzi e trascinati per la cittĂ ; in una parola quanti nelle congiura si scoprirono complici, furono presi e trucidati.
STATO DI FIRENZE DAL 1478 ALL'ULTIMO SUO ASSEDIO Fu in ogni tempo e fra tutte le nazioni costantemente provato essere pur troppo vero il politico assioma dal piÚ scaltro istorico fiorentino tre secoli indietro pronunziato che le congiure generalmente sogliono partorire chi le muove rovina, ed a colui, contro il quale sono mosse, grandezza. Dondechè quasi sempre un principe d'una città da simili macchinazioni assalito, se non è ammazzato (il che raramente interviene) sale in maggior potenza, e molte volte, essendo buono, diventa cattivo. L'importante periodo istorico che abbiamo qui sopra percorso, trovandosi quasi tramezzo a quelli dell'antica e della moderna istoria, ha da poter mostrare alla posterità , sia che rivolga l'occhio verso i remoti avvenimenti della prima, sia alle rivoluzioni della seconda, molti clamorosi esempi confacenti a confermare sempre piÚ l'assioma del Machiavelli.
Infatti l'esilio di Cosimo, seguito ben presto dal suo richiamo, portò nella sua persona autorità e riputazione tale da divenire il regolatore della repubblica fiorentina; la cospirazione del 1466 confermò a Piero di lui figlio le redini dello stato; finalmente la cungiura de'Pazzi fruttò a Lorenzo, detto poi il Magnifico, onoranza maggiore e immenso potere, ai suoi discendenti corone e triregni, a Firenze stragi senza esempio, oppressioni senza freno, e guerre senza frutto.
Dopo che il piano della discorsa congiura andò fallito, senza che nella cittĂ seguisse mutazione del reggimento dai nemici interni e dai potentati di fuora desiderato, il pontefice Sisto IV e Ferdinando re di Napoli risolvettero di eseguire a forza aperta quello che non avevano potuto ottenere di nascosto. Dondechè con grandissima celeritĂ messi i loro eserciti insieme, verso Firenze gli fecero incamminare, preceduti dalla dichiarazione di non volere altro dalla repubblica fiorentina, se non che lâesilio di Lorenzo deâMedici, unico loro nemico.
Intanto incominciarono a far sentire gli effetti della loro ostilitĂ col sequestrare le mercanzie o altre sostanze che i Fiorentini avevano nei dominii di Roma e di Napoli; e perchè, oltre le temporali anche le spirituali ferite Firenze sentisse, si fulminarono maledizioni dâinterdetto dal Vaticano. Fu risposto al Breve di scomunica di papa Sisto con la forza e dignitĂ confacenti a un popolo stato sempre della Cattolica religione e dellâApostolica sede valido sostegno. Si cercò dalla Repubblica fiorentina di raffrenare le forze spirituali fra le mani di cotal pontefice col dare ordini perentorj, affinchè nella metropolitana stessa, dove era seguito il sacrilego attentato, si tenesse un sinodo da tutti i prelati della Toscana soggetti al dominio di Firenze; e costĂ infatti, nel dĂŹ 23 luglio 1478 quei padri della Chiesa discussero e pronunziarono un appello delle ingiurie e dei torti di Sisto IV al futuro Concilio.
Si prepararono quindi con ogni sollecitudine le armi temporali, mettendo insieme truppe e denari in quella somma che i Fiorentini poterono maggiore; mandarono per ajuti al duca di Milano e ai Veneziani, e in faccia a Italia tutta, dando prove non equivoche dellâira, della persecuzione e dellâingiustizia del pontefice, la loro causa con valide ragioni giustificarono.
Non passò molto tempo che lâesercito regio-papalino, penetrando per la Val di Chiana, arrivò sul territorio fiorentino in Chianti, dove si trattenne 40 giorni ad assediare la Castellina; e ciò innansi che la Repubblica avesse messo in ordine forze sufficienti da fargli fronte. â Frattanto essendo sopraggiunto il verno senza che il nemico facesse altro acquisto dâimportanza, se si eccettui il castello di Monte Sansavino, si ridusse agli alloggiamenti nel contado di Siena, il cui governo mostrossi di lui amico.
Al ritorno della primavera i Fiorentini avevano presi tali vigorosi provvedimenti che furono in grado di respingere dalle campagne di Pisa alcune bande di fuorusciti capitanate da valenti condottieri, e poco dopo con una divisione del loro esercito comandata da Roberto Malatesta riportarono una luminosa vittoria sullâarmata papalina al lago Trasimeno; nel tempo stesso che unâaltra divisione, campeggiando fra Colle e Poggibonsi, teneva in scacco lâoste napoletana. Ma i disordini che sopravvennero nel campo deâFiorentini presso Poggibonsi (fosse per aviditĂ di preda fra i soldati, o per discordia fra i loro comandanti) produssero tale sconcerto che essi con ogni qualitĂ di offesa fra loro assalironsi, e quindi uno di quei capi (Ercole duca di Ferrara) ritornossene con le sue genti in Lombardia.
Allora il duce napoletano, profittando delle accadute dissensioni che lâavversario avevano indebolito, mosse coi suoi rapidamente da Siena verso Poggibonsi per assalire il campo deâFiorentini; i quali senza vedere la faccia del nemico si fuggirono abbandonando bagagli, viveri e artiglieria. Convenne perciò in tanta sventura richiamare frettolosamente il Malatesta dallâassedio di Perugina, affinchè cuoprisse Firenze da un colpo di mano, e difendesse il suo contado messo a ruba dallâoste Aragonese che aveva sparso da per tutto spavento e desolazione. â Che se il duca di Calabria avesse profittato della fortuna a lui offerta dalla viltĂ di un esercito prezzolato, la causa di Lorenzo deâMedici, e forse la stessa Firenze era perduta. Ma la dilazione, che fu sempre favorevole agli oppressi, salvò anche questa volta la cittĂ insieme col felice protagonista di quella guerra. Al che si aggiunse lâavvicinamento della fredda stagione, che sospese le ostilitĂ per rinchiudere le truppe, secondo lâuso di quellâetĂ , nei quartieri dâinverno.
Era quasi per finire il suo corso lâanno 1479, quando il papa e il re di Napoli, dopo due campagne, mandarono a offrire per tre mesi una tregua che fu volentieri accettata dai Fiorentini; ai quali un tale riposo servĂŹ per distintamente conoscere i sostenuti affanni, gli ultimi errori nella guerra commessi, le perdite fatte, le spese invano sostenute, le gravezze e i molti disgusti che la repubblica per lâambizione di una sola famiglia ingiustamente sopportava. â Le quali avvertenze,non solo tra i privati, ma nei consigli pubblici animosamente discorse, mossero Lorenzo dei Medici ad una di quelle azioni, che sogliono giudicarsi dal successo, temerarie, se infausto, grandi, se l'evento riesce felice. Risolse Lorenzo di recarsi egli stesso a Napoli, per mettere all'estremo cimento la insinuante eloquenza sua e il carattere del re Ferdinando, comecchè questo per molti esempi lo avesse dato a conoscere atrocissimo.
Imbarcatosi egli a Livorno nel cuor dell'inverno (5 dicembre 1479) con lettere credenziali della Repubblica, giunse a Napoli preceduto da sĂŹ gran fama e riputazione, che non solamente dal re, ma da tutta la cittĂ venne onoratamente e con grande espettazione accolto e corteggiato.
Il trionfo però di Lorenzo fu dopo essersi presentato al trono di Ferdinando, davanti al quale egli con tali persuasive maniere e con sĂŹ grande intelligenza parlò degli affari politici della sua patria, delle condizioni e diversi umori dei principi e popoli d'Italia, di quello che si poteva sperare nella pace e temere nella guerra, che Ferdinando, dopo l'ebbe udito, si maravigliò piĂš della grandezza d'animo di Lorenzo, della finezza d'ingegno e gravitĂ del suo giudizio, di quello che non si era prima maravigliato dell'avere egli solo potuto tante traversie sopportare. Entrò il re di Napoli in tutte le viste dell'ospite giĂ suo nemico, tanto che non solo si fece la pace (6 marzo 1480), ma fra loro nacquero accordi perpetui a conservazione de'comuni Stati. Tornò pertanto Lorenzo in Firenze grandissimo, s'egli se n'era partito grande, e fu dalla cittĂ ricevuto con quella allegrezza, che le sublimi sue qualitĂ e i recenti servigj meritavano. â Quello che arrecò noja a tanto tripudio fu la perdita che la repubblica fiorentina in questo tempo intese della cittĂ di Sarzana, stata inaspettatamente occupata da Agostino Fregoso di Genova contro la fede dei trattati; mentre dalla parte di Siena i Fiorentini miravano non senza inquietudine il duca di Calabria fermo col suo esercito, e dimostrando di esservi ritenuto dalle discordie di quei cittadini, talchè era fatto l'arbitro delle differenze loro al segno, che molti in denari, alcuni con le carceri, altri coll'esilio ed anche alla morte avendo condannati, diede all'universale ragioni da sospettare che di quella cittĂ non fosse per divenire tiranno.
Per buona sorte però de'Senesi e de'Fiorentini nacque un'accidente inaspettato, il quale diede al re di Napoli e al papa maggiori pensieri che quelli della Toscana, allorchè (28 luglio 1480) lo sbarco repentino di 6000 Turchi sulle coste di Taranto, l'assalto e l'uccisione che fecero (4 agosto) di quanta gente essi trovarono in Otranto, costrinsero il re Ferdinando a richiamare con grande premura il figlio e le sue genti dalla Toscana.
Questo medesimo caso obbligò Sisto IV a mutar consiglio; e dove prima non aveva mai voluto ascoltare proposizioni dai Fiorentini, fece loro sentire, che quando si piegassero eglino a domandargli perdono, sarebbe venuto a un accordo. â Non parve alla cittĂ interdetta di lasciar passare una sĂŹ favorevole occasione. Furono inviati a Roma 12 ambasciatori, i quali, dopo alcune pratiche, ricevuti nel portico di S. Pietro, doverono gettarsi ai piedi del papa assiso in trono, circondato da'suoi cardinali e prelati, per iscusarsi dell'accaduto con espressioni servili e con i piĂš grandi segni di umiliazione. Alle quali scuse Sisto rispose con parole piene di superbia e d'ira, rimproverando ai Fiorentini i pretesi delitti e le cattive opere che avevano data cagione s'accendesse una guerra, che fu spenta per la benignitĂ di altri e non per i meriti loro. Lessesi poscia la formula della benedizione e dell'accordo; al quale Sisto IV, oltre le convenute, altre condizioni onerose aggiunse per obbligare i Fiorentini a tenere armata una flottiglia contro il Turco.
Pareva che gli affari politici di Firenze fossero assai bene assestati, ancorachè molti si lamentassero, che il Magnifico coi denari del Comune alle cose sue private piuttosto che a quelle della Repubblica avesse rimediato.
Solo restava da riconquistare Sarzana, che Agostino Fregoso aveva venduta alla società politico-mercantile del banco di S. Giorgio di Genova, la quale a quell'epoca possedeva anche Pietrasanta. Ciò diede impulso a riaccendere contro i Genovesi nuova guerra; e la prima operazione fu diretta ad assalire e conquistare Pietrasanta, nell'anno medesimo in cui morÏ Sisto IV, (1484) e che s'innalzò sulla cattedra di S. Pietro il cardinale Gio.
Battista Cybo col nome di Innocenzo VIII. Mostrò questi un animo piÚ pacifico e un'inclinazione piÚ favorevole ai Fiorentini; lo chè conosciuto ben presto da Lorenzo de'Medici, fu con ogni industria da esso coltivato, cosicchè desiderando il nuovo papa d'invertire di qualche stato, e onorare di amici un figliuolo che teneva, chiamato Franceschetto, non conobbe in Italia con chi lo potesse meglio congiungere che con Maddalena figlia del Magnifico, onde formare un utile non meno che decoroso parentado. Questo infatti si concluse nell'anno medesimo (1487) che i Fiorentini ruppero l'esercito de'Genovesi davanti Sarzana, e riebbero questa città .
Riposò la Repubblica tranquilla nella potenza e nei talenti di Lorenzo de'Medici, il quale essendo rimasto libero dalle interne ed esterne molestie, si volse tutto ai comodi della vita e agli ornamenti della pace, attendendo a fare acquisto di libri rari, di mss. antichi, di oggetti di belle arti, e onorando di ogni maniera scienziati, artisti, filologi e poeti con affetto e generosità tanto maggiore, in quanto che egli conoscevasi nelle lettere assai versato. I piÚ celebri ingegni della sua età erano piuttosto gli amici e i compagni chi i protetti di Lorenzo; sicchè il palazzo veramente regio da esso innalzato nel poggio a Cajano, il pittoresco ritiro di Agnano alle falde del Monte pisano, e le magnifiche ville di Careggi e di Fiesole, ascoltavano spesse volte insieme il linguaggio del filosofo e le rime del poeta fra le geniali opere dell'artista e le generose grazie del mecenate.
Pare che ajutassero a rendere piĂš glorioso il reggimento di Lorenzo alcuni cittadini intente a far piĂš bella la cittĂ coll'edificazione di superbi palazzi; dei quali senza dubbio quello di Filippo di Matteo Strozzi contasi pur oggi per uno dei piĂš nobili e piĂš maestosi d'Italia.
Lorenzo trovavasi al colmo della sua grandezza, quando fu recato a Giovanni suo figliuolo il cappello cardinalizio nella età di 13 anni, per modo che giovane si trovò fatto papa col nome che da esso prese il secolo dei prodigj di Raffaello e di Michelagnolo.
All'alta rinomanza di Lorenzo cooperava non tanto il suo merito letterario, il giudizio finissimo che aveva nelle arti, e l'impulso generoso ch'egli dava agli studj, pei quali Firenze divenne la sede della letteratura e dei sommi artisti di Europa, quanto anche vi concorreva la stima e riputazione in cui egli era tenuto dai monarchi. A lui infatti dovettero gli Estensi la pace che salvò loro lo Stato nel 1484; gli Aragonesi di Napoli il ritorno della tranquillità turbata nel 1486 dalla guerra de'suoi baroni, il pontefice Innocenzo VIII la sommissione di Osimo ribellata da un suo tiranno; infine l'Italia tutta di non avere Lorenzo in veruna maniera acconsentito alla discesa dei Francesi, quando volevano soccorrerlo contro Sisto IV.
In una parola Lorenzo, comecchè guidasse i Fiorentini alle arti e ai piaceri per distoglierli dalle cure politiche dei loro avi, comecchè egli giungesse fino a manomettere il Monte comune per resistere ai di lui nemici, fu altronde tale uomo che seppe compensare con moltissimo bene il male che faceva alla libertà , parola divenuta ormai vuota di senso tra un popolo che da piÚ di mezzo secolo la pubblica libertà aveva perduta, e in un tempo in cui la gente che cresceva aveva succhiato altro latte e si andava nutrendo di principj diversi da quelli delle già estinte generazioni.
Laonde non si avrebbe piĂš a ricercare, dirò col Pignotti, se il Magnifico sia stato lâoppressore della repubblica; ma piuttosto, se il governo repubblicano fosse pei Fiorentini a quellâepoca il piĂš adatto.
MorĂŹ Lorenzo nella villa di Careggi, li 8 aprile del (ERRATA: 1490) 1492, della dolorosa malattia ereditata dal padre, con soli 44 anni di etĂ . In punto di morte volle vedere il padre Savonarola, di cui aveva mendicata lâamicizia per lâambizione di avere un letterato di piĂš e un oratore meno nemico; ma egli voltò le spalle a quel frate Gavotto, quando fu da lui richiesto di restituire a Firenze il libero regime.
Piero primogenito di Lorenzo, non ostante il difetto dellâetĂ , per partito della Signoria (il cui gonfaloniere, come se fosse morto il sovrano di Firenze, aveva preso lâabito di corruccio), e grazie allâintervento dei principi italiani che avevano inviati costĂ i loro ambasciatori per condolersi della morte del Magnifico, Piero, io diceva, qual successore del padre anche nelle cose di stato, fu dichiarato abile a tutti gli onori, magistrature, dignitĂ e privilegj della repubblica. Quanto però a Lorenzo fosse inferiore il figlio, dâingegno e di carattere, lo provò ben presto Firenze e lâItalia tutta.
Mancato con Lorenzo deâMedici il moderatore dei governi di quasi tutta la penisola, e succeduta alla sua perdita quella del pacifico Innocenzo VIII, salĂŹ nel suo posto lo scaltrissimo Rodrigo Borgia, che cambiò il nome in Alessandro VI.
Turbossi ben presto la pace dâItalia con lo svilupparsi fra i due piĂš potenti principi della medesima quei cattivi semi e tenebrosi motivi che la prudenza di Lorenzo e il suo credito avevano saputi tenere in freno e comprimere, se non del tutto estirpare.
Avvegnachè la troppa ambizione di Lodovico Sforza arbitro del duca di Milano, mosse il re di Napoli a richiederlo di liberare dalla tutela il nipote, giunto ormai ai suoi 20 anni. Dissimulò Lodovico; ma poco dopo si ruppe ogni pace. Allora Piero deâMedici che avrebbe potuto tenere la bilancia eguale tra quei due rivali, lasciò travedere qualche propensione verso Ferdinando, al sospettoso Lodovico, il quale per cupidigia di regno meditò di abbattere la casa Aragonese di Napoli col chiamare i Francesi in Italia e col far ritornare in scena il testamento, vero o apocrifo, della regina Giovanna II; la quale, dopo aver diseredato Alfonso re dâAragona, lasciò i suoi diritti a Renato duca dâAngiò.
Intanto Lodovico Sforza, piĂš noto col soprannome di Moro , simulando sempre, per segreti emissarj faceva credere ai principi Italiani, châegli adopravasi con ognâimpegno per stornare il re di Francia dal pensiero che aveva di scendere con numeroso esercito dalle Alpi.
A questâoggetto Lodovico aveva inviato un ambasciatore a Piero deâMedici, il quale credè di aver in mano lâoccasione propizia per convincere Carlo VIII della malafede del suo preteso alleato, onde distorlo dalla meditata impresa. Ma la bisogna andò tutta al contrario: stantechè tale rivelazione non solamente non distornò il re di Francia dallâimminente guerra, ma la condotta di Piero deâMedici, fatta palese al Moro , chiuse tra i due governi ogni strada a qualsiasi riconciliazione.
Arroge a ciò, che lâesito disgraziato di un tale maneggio fu la conseguenza di un altro fatto, il quale portò lâultimo colpo al credito e allâautoritĂ del figlio del Magnifico nella sua patria.
Carlo VIII con forbito esercito era di giĂ nel 1494 penetrato nella Toscana per la Lombardia, valicando lâAppennino della Cisa o di Pontremoli, quando sâintese a Firenze, che i Francesi avevano disertati molti paesi della Lunigiana soggetti o raccomandati della Repubblica, e che giĂ quellâoste era intorno ad assediare Sarzana.
Lâavvicinamento di una formidabile armata, e le atrocitĂ che aveva commesse nella sua marcia, destarono tale indegnazione e spavento nei Fiorentini, che esternando il loro mal umore contro Piero deâMedici, liberamente incolpavano la sua inconsideratezza di non avere nulla preveduto e nulla apparecchiato, onde fare argine a tanta piena, che minacciava lâimminente rovina della cittĂ e della repubblica.
Parve che Piero allora si scuotesse da tanta ignavia; e ricordandosi forse per la prima volta, ma poco a proposito, degli esempj di suo padre, volle copiare quello che fu senza dubbio il piÚ difficile, e che bastò a segnalare le eminenti qualità del Magnifico.
Piero si decise di partire per la Lunigiana alla testa di unâambasceria di ragguardevoli cittadini, che lasciò indietro a Pietrasanta, per recarsi solo a Sarzana davanti a Carlo VIII, nel tempo che i Francesi investivano la fortezza di Sarzanello; ma egli, che non aveva nè il genio nè la destrezza Lorenzo, ritornò carico di accuse a Firenze, ove gli fĂš inibito lâingresso nel palazzo della Signoria, per avere arbitrariamente offerte e cedute ai Francesi le fortezze di Sarzana, di Sarzanello, di Pietrasanta e di Motrone, e perfino quelle di Pisa e di Livorno, membri importantissimi dello stato. Per la qual cosa il popolo fiorentino essendosi contro un tale arbitrio acerbamente irritato, Piero dagli amici suoi sbigottiti lasciato senza consiglio, temendo della vita, con viltĂ pari alla fretta, fuggĂŹ coi fratelli lungi dalla patria.
Per tale sconsigliata partenza piĂš che le arbitrarie concessioni fatte al re di Francia, Pietro, Giuliano e il card. Giovanni Medici, tre figli del Magnifico, furono dichiarati ribelli, e alcuni dei loro palazzi del popolo saccheggiati.
Proseguivano intanto i Francesi la loro marcia per la Toscana, sicchè appena giunti in Pisa vi furono accolti con tanta letizia del popolo, che prese a gridare libertà .
Non poteva Carlo aderirvi senza ledere la sua dignitĂ rompendo le convenzioni stabilite con Piero in Sarzana.
Una deputazione di pisani recossi al palazzo dove Carlo alloggiava, e seppe con sĂŹ flebili espressioni dipingere lâintollerabile giogo deâFiorentini, che quel coronato, alzando la mano, disse: di voler fare ciò che fosse giusto; la quale risposta fu interpretata quanto una concessione di ciò che i Pisani domandavano. Esciti dallâudienza i deputati gridarono al popolo affollato, che gli attendeva, essere stata dal re accordata la grazia. Ciò bastò alla plebe per abbattere tutti gli stemmi della Repubblica fiorentina, e gettare in Arno lâinsegna del Marzocco, (il leone) nella di cui vece fu innalzata la statua del liberatore Carlo VIII.
Questi, non sapendo bene le cose che aveva concesse, volle che restassero in Pisa gli ufiziali deâFiorentini per esercitarvi la solita giurisdizione, non ostante che avesse ceduta la cittadella vecchia ai Pisani, ritenendo le sue genti la nuova. Quindi Carlo con il grosso dellâarmata si diresse a Firenze, dove entrò pomposamente, ai 17 novembre 1494, colla lancia alla coscia; lo che secondo lâuso francese indicava signoria della cittĂ . Andò ad alloggiare nel palazzo deâMedici in Via Larga, e a tutti i suoi militari furono assegnati quartieri dentro la cittĂ . La quale illuminata di notte e addobbata con tappeti di giorno, presentava lâidea di una festa in mezzo ai maggiori pericoli, sperando i Fiorentini di aver in qualche modo a placare il grandissimo sdegno contro di essi concepito da quel re. Nondimeno, per essere provveduti a ogni caso, aveva il governo ordinato ai maggiori cittadini, che empiessero le loro case occultamente di uomini del contado, che vi facessero entrare i condottieri con i loro camerati militari stipendiati dalla repubblica, e che ciascuno, tanto dentro quanto fuori della cittĂ , stasse attento per correre allâarmi al suono della campana maggiore del pubblico palagio.Terminate le prime cerimonie festevoli verso cotanto gravosi ospiti, incominciossi a trattare di accordo. Le prime proposte del re furono esorbitanti, scordatosi, o messa in non cale la convenzione fatta con Piero deâMedici; avvegnachè egli, oltre le domande intollerabili in denari, pretendeva di essere riconosciuto signore di Firenze e del suo dominio; dalla quale richiesta, benchè finalmente si discostasse, voleva nonostante lasciarvi uomini di toga con una qualche regia giurisdizione.
Erano da ogni parte esacerbati gli animi, non volendo Carlo dalle ultime sue pretensioni declinare, nè i Fiorentini a somme troppo gravose di moneta in alcuna guisa obbligarsi, nè giurisdizione e preminenza dâimpero nel loro stato consentirgli, quando in mezzo a tante difficoltĂ quasi insuperabili sviluppossi la virtĂš di Piero Capponi, uno dei quattro cittadini deputati a trattare col re. Era il Capponi uomo dâingegno, come dâanimo grande, e in Firenze stimato per queste qualitĂ , che rendevansi in lui piĂš splendide dallâesser nato di famiglia onorata, e dallâaver egli per avo un Neri e per bisavolo un Gino Capponi, due uomini che bastano a controbilanciare i tristi di un intiero secolo.
Avvenne intanto che Piero Capponi trovandosi un dĂŹ coi suoi colleghi alla presenza di Carlo VIII, e leggendosi da un segretario regio i capitoli immoderati, i quali come ultimatum dal re si proponevano, Piero con gesti impetuosi, tolta di mano del segretario quella scrittura, la stracciò innanzi agli occhi di Carlo VIII, soggiungendo con voce concitata: poichè si domandano cose sĂŹ disoneste, voi sonerete le vostre trombe, e noi soneremo le nostre campane; volendo espressamente inferire, che le differenze si sarebbero decise con lâarmi; e con il medesimo impeto, andandogli dietro i compagni si partĂŹ subito dalla presenza e dalle camere del re deâFrancesi.
Questâazione risoluta ed attiva, che poteva porre in estremo pericolo ognâaltra cittĂ , fu la salvezza di Firenze.
Lâenergia di Pier Capponi davanti a un potente monarca, in mezzo a un esercito tanto piĂš orgoglioso, quanto che non aveva visto ancora in Italia altro che scene di tradimenti, di bassezze e di viltĂ , fece tale e tanta impressione nellâanimo di Carlo e dei suoi cortigiani, che richiamati indietro i deputati della Repubblica fiorentina, e lasciate le domande, alle quali ricusavano di consentire, si convenne insieme in questa sentenza; 1.° Che la cittĂ di Firenze fosse amica, confederata e sotto la protezione perpetua della corona di Francia; 2.° Che le fortezze di Sarzana, Sarzanello, Pietrasanta, Motrone, Pisa e Livorno, cedute da Piero de'Medici, rimenessero in mano deâFrancesi fino a che il re non avesse fatta lâimpresa del regno di Napoli; 3.° Che in questo frattempo la giurisdizione, il governo e l'entrate di quelle terre e cittĂ fossero secondo il solito dei Fiorentini; 4.° Che si restituissero subito tutti gli altri paesi tolti e ribellati alla Repubblica, o li potesse ricuperare con l'arme, in caso che i rivoltosi ricusassero di aderirvi; 5.° Che i Fiorentini pagassero al re per sussidio della sua impresa 120,000 ducati a tutto giugno dellâanno 1495; 6.° Che si perdonasse ai Pisani il delitto di ribellione; 7.° Che fossero liberati dal bando di ribelli Piero de'Medici, il cardinal Giovanni e Giuliano di lui fratelli; ma non potesse il primo accostarsi per cento miglia ai confini del dominio fiorentino, gli altri due a cento miglia dalla cittĂ di Firenze.
Questi furono gli articoli e le condizioni piĂš importanti del trattato fra Carlo Vlll e la repubblica fiorentina, pubblicato e giurato solennemente durante la celebrazione della messa (26 novembre 1494) nella chiesa metropolitana, assistendo alla funzione lo stesso monarca con tutta la corte, la sua truppa in parata e un affollato popolo.
Due giorni dopo il re abbandonò Firenze, dov'era dimorato dieci dÏ, partendo verso Siena accompagnato da due ambasciatori, cioè, da Francesco Soderini vescovo di Volterra, che fu poi cardinale, e da Neri Capponi cugino di Piero.
Contuttociò nè lâesilio della famiglia Medici, nè la partenza dell'esercito francese giovarono a ristabilire in Firenze la tranquillitĂ , oppure a portare un piĂš libero regime, dove giĂ da 60 anni era rimasto poco piĂš che l'apparenza ed il nome di Repubblica.
In tale stato di cose pensò invece la Signoria di accrescer forza al potere esecutivo. Fu convocato il popolo in piazza (2 dicembre 1494) per carpirgli una tumultuaria approvazione onde eleggere una BalÏa, o giunta straordinaria con pieno potere di riformare il governo.
Furono quindi dalla creata BalĂŹa nominati i Venti Accoppiatori, ossia coloro che avevano il diritto di scrutinare e porre nelle borse i nomi di cittadini aventi diritto di potere esercitare lâufizio dei Priori e le primarie magistrature dello Stato. Si elessero i Dieci della guerra che variando titolo furono chiamati i Dieci di libertĂ e pace. Perchè poi non nascesse piĂš il caso di sopraffare l'un l'altro per la via dell'arbitrio fu eletta una deputazione di altri 10 cittadini destinati a sgravare chi fosse stato troppo imposto a far grazia ai debitori vecchi, e a porre sopra i beni stabili unicamente una gravezza, la quale, dal retribuire la decima parte del prodotto sulla rendita totale, fu chiamata lâimposizione della Decima.
Cotali riforme, che ristringevano in mano di pochi il governo, incontrarono una grande opposizione dalla parte di coloro, cui piaceva un piĂš largo e comune regime; sicchè sorsero subito due nuove fazioni. Il fomite delle civili discordie acquistò maggior sviluppo da un religioso entusiasmo, tostochè osò prendervi parte un troppo zelante missionario, (fra Girolamo Savonarola) che salito in gran fama di uomo di Dio, nelle sue predicazioni mescolava alle massime del vangelo le discussioni politiche, declamate in tuono profetico. â La sua voce tuonando dal pergamo fra il partito aristocratico e quello popolare, diè il tratto alla bilancia a favore del secondo, onde questo de'Piagnoni o Frateschi, lâaltro degli Arrabbiati era chiamato. Il primo trionfo deâPiagnoni fu la destituzione dei 20 Accoppiatori i quali uno dopo l'altro volontariamente o costretti si dimessero dal loro ufizio.
Si formò in seguito un Consiglio generale composto di 830 cittadini dellâetĂ di 30 anni compiti, purchè fossero netti di specchio, cioè non inscritti come morosi al libro delle pubbliche gravezze. Da quel Consiglio si eleggevano i diversi magistrati tanto della cittĂ , quanto del contado e dominio fiorentino. Per l'elezione dei priori di cadaun quartiere, traevansi a sorte dalle borse 24 candidati, quindi si eleggevano tra quelli a pluralitĂ di voti i due destinati a entrare di signoria, e quando toccava a quel quartiere la nomina del gonfaloniere di giustizia,vinceva il nome di quello che avesse riunito piĂš voti dei 20 dalle borse levati a sorte.
Per accogliere sÏ grande assemblea di cittadini, che in seguito fu accresciuta circa del doppio, fabbricossi per suggerimento del Savonarola il vasto salone nel palazzo della Signoria, terminato con troppa fretta da Simone del Pollajolo. Che però essendo la sala riuscita bassa e poco luminosa, fu piÚ tardi da Cosimo I fatta rialzare e dipingere da Giorgio Vasari.
Nell'occasione di tale riforma governativa, in segno di giustizia e d'aver oppresso il tiranno, rizzossi sulla ringhiera del palazzo della Signoria, ora sotto un arco della loggia dellâOrgagna, il gruppo di bronzo della Giuditta, opera egregia di Donatello.
Ma nel mentre gli animi dei Fiorentini si agitavano per dare piĂš larga forma al reggimento della CittĂ , i loro negozj esterni non andavano migliorando, sia per la manifesta ribellione dei Pisani, risoluti di non ritornare piĂš sotto il dominio fiorentino, sia perchè il re Carlo, quantunque avesse giĂ compita la conquista di Napoli, non solo avea mancato alla promessa di restituire le fortezze che gli erano state consegnate, ma le sue genti medesime favorivano e aizzavano i Pisani, divenuti aggressori, a impadronirsi di varie castella tolte ai Fiorentini. â Si trattò per mezzo di ambasciatori della restituzione di Pisa davanti al re che l'aveva promessa, e a tal uopo riscossa una somma di denaro. Ai lamenti dei Pisani, e alle accuse di crudeltĂ di leggi, e di eccessive gravezze imposte loro dai Fiorentini (cui faceva eco in Roma Burgundio Leoli celebre giureconsulto pisano), fu risposto in nome della Repubblica dal vesc. Soderini: che i Pisani furono governati colle stesse leggi e condizioni degli altri paesi del dominio di Firenze. La decisione sulla sorte di Pisa veniva altresĂŹ ritardata dai ministri del re, avidi di raccogliere grandi somme di moneta da ambe le parti. Tutto fu dai Fiorentini inutilmente tentato; invano lo zelante fra Girolamo, andato a Poggibonsi incontro a Carlo VIII, che ritornava da Napoli, a nome di Dio gl'intimò lâadempimento delle promesse, riportandone solo parola di restituire le piazze richieste tostochè il re fosse giunto in Asti.
Arrivato costĂ con le sue genti il monarca,dopo essersi col ferro aperta la strada a Fornovo in mezzo a un grandâesercito della lega nemica, ritornò a Firenze inaspettatamente Niccolò Alamanni con lâordine del re, affinchè Livorno e Pisa fossero restituite in grazia delle convenzioni tra esso e i delegati della repubblica stabilite in Torino ai primi di settembre dello stesso anno 1495.
Infatti Livorno si riebbe subito con le sue torri (15 settembre) senza altra difficoltà , che quella dell'ajuto di nuova moneta. Non seguÏ lo stesso delle altre fortezze, e molto meno di Pisa, il di cui generale francese Entragues trovava sempre pretesti di dilazione, benchè replicati ordini ricevesse dal suo sovrano. La passione dell'oro e l'amore per una giovinetta pisana a tal segno prevalse in lui sopra l'obbedienza e fedeltà dovuta al suo principe, che per 12,000 ducati per sè, e 8,000 per distribuire ai soldati, l'Entragues consegnó, nel primo dÏ del 1496, la cittadella ai Pisani, dai quali per suo consiglio fu subito disfatta. Si aggiunse quindi l'altro tradimento per di lui mezzo operato, vendendo Sarzana e Sarzanello per 24,000 scudi ai Genovesi, e poco dopo alienando Pietrasanta e Motrone per 17,000 scudi ai Lucchesi, senza curare gli ordini piÚ pressanti del re di Francia. Ma questi infedeli ministri non erano i soli che facessero contro i Fiorentini, tostochè il duca di Milano, il senato di Venezia e l'imperatore Massimiliano inviavano a Pisa soccorsi d'ogni specie, mossi ognuno di essi da diversi fini.
Stavano le truppe fiorentine campeggiando in Val dâEra, quando per ricuperare il castelletto di Sojana il commissario della Repubblica, nel 21 settembre 1496, animando i suoi all'assalto, rimase colpito a morte; e Firenze ebbe a piangere in quel prode l'intrepido Piero Capponi, quello stesso che strappando i capitoli alla presenza di Carlo VIII con coraggiosa risposta due anni innanzi aveva salvato l'onore e la libertĂ della sua patria.
Crebbero i timori e l'allarme in Firenze per l'avvicinamento dell'imperatore, quando s'intese che a Genova s'imbarcava con animo di fare l'impresa di Livorno. Fu perciò presidiata validamente questa piazza, talchè si trovò in grado di far fronte alle forze che la strinsero di assedio per terra e per mare: e potè anche sostenere la penuria di vettovaglie fino alla comparsa di una flotta dalla Provenza, la quale, passando in mezzo a quella de'nemici, entrò nel porto con soccorso di viveri, di armi e di militari.
La qual cosa ravvivò il coraggio e le forze negli assediati tanto che, rinnovando di frequente le sortite con esito sempre sfavorevole ai nemici, venne costretto lâimperatore a ritirarsi con le sue genti dall'assedio, dopo avere con poca gloria e verun profitto rischiata la vita.
D'allora in poi i Fiorentini ripresero (novembre del 1496) la maggior parte delle terre e castella delle colline pisane, intanto che l'oste imperiale ripiegavasi verso Sarzana, e che l'esercito della lega, per discordia dei capi, gelosia dei gabinetti, mancanza di paghe e di vettovaglie, stavasi nei quartieri inoperoso, e disgustato.
A quest'epoca risale il pio istituto in Firenze del Monte di pietĂ , proposto nelle sue prediche dal Savonarola, e per accatto di elemosine fondato a benefizio dei bisognosi, con la lodevole mira di frenare le strabocchevoli usure.
Si tentò poco dopo una trattativa tra le parti belligeranti, ma i Veneziani capi della lega non solo non vi concorsero, ma apertamente sostenevano Piero dei Medici, il quale cercava per forza di rimpatriare. Favorito in seguito dal duca di Milano e dai Senesi, aveva Piero concertato con i fautori di dentro di levare a rumore Firenze; alle cui porte con ogni diligenza alla testa di 800 cavalli e di 3000 fanti la mattina del 28 aprile 1497 videsi accostare, contando fra i complici suoi aderenti nella cittĂ Bernardo del Nero allora gonfaloniere di giustizia. Ma sconcertati i congiurati appena videro scoperta l'impresa di Piero poco innanzi del suo arrivo alla Porta romana, e avviliti dalle misure di difesa che il governo bentosto ebbe ordinate, quei di dentro stettero inoperosi, e Piero de'Medici con i suoi armati credè bene di ritirarsi frettolosamente per timore che gli venisse tagliata la strada da qualche divis ione dellâesercito fiorentino che poteva richiamarsi in Val dâEIsa dal territorio pisano. I capi della congiura furono condannati a morte senza accordar loro il benefizio dell'appello, lo che inasprĂŹ altamente il partito degli Arrabbiati contro i Frateschi, in guisa che riescĂŹ loro di vendicarsene con altre armi e con tali mezzi, che portarono sul patibolo il frate campione della fior. libertĂ (4 maggio 1498).
La quale luttuosa catastrofe fu preceduta di pochi giorni dalla morte di Carlo VIII; cosĂŹ che se con la perdita del frate predicatore fu tolto al partito Mediceo un pericoloso nemico nella cittĂ , mancò altresĂŹ ad esso una parte di appoggio nelle forze esterne e specialmente in quelle del duca di Milano per rivolgerle a guardare la casa propria, minacciata da Luigi XII pronto a incamminarsi dalla Francia nella Lombardia alla conquista di quel ducato. Per questi accidenti la Repubblica fiorentina avendo creato di nuovo i Dieci di libertĂ , e condotti al suo servizio uomini d'ogni arme e valenti capitani, spingeva con vigore l'impresa dalla parte di Pisa, nel tempo che da un altro lato faceva fronte a nuovi eserciti de'Veneziani che dalla Romagna rimontavano le valli transappennine per scendere con Piero deâMedici nel Casentino e in Val Tiberina.
Riesci quindi ai Fiorentini di stringere amicizia con Luigi XII nella seconda sua discesa in Lombardia (anno 1500) e di ottenere al loro soldo 5000 Svizzeri e 500 lance, onde riavere ad ogni costo Pisa. La quale cittĂ era loro scappata di mano pochi mesi innanzi, all 'occasione che fu atterrata (10 agosto 1499) una parte delle sue mura, assalita ed espugnata la rocca di Stampace. â Vedere PISA.
Ma per avventura anche la posteriore impresa militare deâFrancesi contro Pisa non riuscĂŹ meglio delle altre e fu anzi la piĂš disgraziata delle precedenti pei Fiorentini.
Avvegnachè appena arrivato quell'esercito in Lunigiana, tolse Massa e Carrara al marchese Alberigo Malaspina amico della repubblica; occupò quindi Pietrasanta, e fece accordo coi Lucchesi di non restituir questa Terra ai Fiorentini innanzi che essi riacquistassero Pisa. Giunto finalmente quel corpo di truppe davanti alla preaccennata città , fu incominciato con gran fervore l'assedio, ed era già aperta la breccia in una estensione di 40 braccia, quando per imperizia del capitano, e per disordine nella milizia, o per segrete intelligenze con gli assediati, fu sospeso il colpo tanto che quest'ultimi rianimati da soccorsi quasi inaspettati, tolsero affatto ogni speranza agli assalitori di guadagnare la loro città .
Non ostante che Firenze sentisse la gravezza di tanti mali, erano però questi di gran lunga superati dal timore fortissimo che vi si aggiunse di perdere, non tanto Pisa con le terre e castella del suo antico contado, ma l'indipendenza propria, tosto che si scoprirono le prave voglie del fraudolento duca Valentino. Il quale ajutato di denari, di consigli e di forze dal padre, con lâonorato titolo di voler reintegrare le membra sparse dello Stato pontificio, sotto la protezione del re di Francia, aveva rivolte le mire all'occupazione dell'Emilia, costringendo a fuggire da Imola la contessa Caterina Riario coi figli, togliendo la signoria di Rimini a Pandolfo Malatesta, Pesaro a Giovanni Sforza, e Faenza ad Astorre Manfredi; l'ultimo de'quali contro la fede della capitolazione fatto prigione, a Roma per ordine del duca fu barbaramente strangolato. Questo stesso fior di virtĂš, onde mantenersi l'acquisto di tante belle opere in Romagna, stava apparecchiandosi a dare esecuzione a de'concetti anco piĂš smisurati, impegnando Alessandro VI a collegarsi per interesse proprio coi Veneziani, nell'intenzione di potere rimettere in Firenze l'esule famiglia de'Medici, onde avere per suoi vicini principi nuovi, riconoscenti ed amici.
In questo stato di agitazioni politiche principiò il secolo XVI, quel secolo in cui dovevano spirare una dopo lâaltra le repubbliche di Pisa, di Firenze e di Siena. Per quanto i reggitori dello Stato fiorentino non trascurassero di vegliare e di provvedere alla pubblica salvezza con ogni sorta di mezzi, pure tanta diligenza sembrava insufficiente alla grandezza dei mali che gli si minacciavano.
Cominciò il duca Valentino a mandare a chiedere passo e vettovaglie per i luoghi della Repubblica; le quali cose ottenne a condizione, che le sue genti non dovessero entrare in terra alcuna murata, nè condur seco ribelli o nemici dello Stato. â Appena peraltro il Valentino videsi arrivato con 800 uomini d'arme, e 7000 fanti a Barberino di Mugello, fece intendere alla Signoria di Firenze, che a volerlo tenere amico, conveniva organizzare unâaltra forma di governo; oltre di che domandava che gli venisse accordata una pensione a titolo di capitano di eserciti, e che fosse data qualche soddisfazione ai Vitelli e agli Orsini, e qualora volesse egli intraprendere la conquista di Piombino, non dovesse essere impedito dalla Repubblica, seppure non lo voleva ajutare . â Fuori che in mutare Stato, fu risposto al duca, che si compiacerebbe. Ma accostandosi egli con le sue masnade sempre piĂš vicino a Firenze, riempĂŹ la cittĂ di spavento, non tanto pel numero de'nemici di fuori, quanto per l'intelligenza che dubitavasi esistesse con quelli di dentro.
Intanto, a prevenire ogni tumulto, si presero i necessarj provvedimenti col guarnire i poggi dei contorni e la cittĂ di gente fedele. Essendo giĂ il duca Valentino arrivato a Campi, sei miglia vicino a Firenze, e veggendo egli i cittadini quieti e il governo fermo nel suo proponimento, sopraggiuntigli in questo mentre ordini dal re di Francia che gl'inibivano di molestare la repubblica fiorentina, risolvè accordarsi seco mediante una provvisione di 36,000 ducati per 3 anni, con il solo obbligo di mandare 300 uomini d'arme ad ogni bisogno di guerra: purchè nessuna delle due parti fosse per ajutare i nemici o ribelli dell'âaltra, e che la Repubblica non desse noja al duca nellâimpresa che era per fare di Piombino. Firmate le convenzioni, il Valentino ai 17 maggio 1501 partĂŹ con le sue genti per Empoli e di lĂ per la Val dâElsa, rubando i paesi che attraversava, come se vi passasse un nemico; il quale, innoltratosi in Val di Cecina, non prima del 25 maggio uscĂŹ dal distretto della Repubblica, e per Val di Cornia entrò nel Piombinese.
Frattanto i Fiorentini ripresero con piĂš calore le ostilitĂ contro Pisa, dove le cose sue sarebbero procedute con felice successo, se nuovi tumulti insorti in Val Tiberina e in Val di Chiana, non avessero richiamate al rove le armi della Repubblica. E perchè d'ogni parte le crescessero i pericoli, intorno a questo tempo (giugno 1502) il feroce Valentino tolse lo stato a Guidobaldo duca d'Urbino, e poco dopo, entrato nel dominio di Camerino, con bestiale feritĂ strangolò con i teneri suoi figli Giulio Varano di quel paese Signore, nel tempo quasi medesimo che Arezzo, Cortona, Sansepolcro, Anghiari, Pieve S. Stefano, ed altri castelli limitrofi ribellavansi ai Fiorentini, ed accoglievano fra le loro mura Piero de'Medici, il Cardinale di lui fratello, e Vitellozzo Vitelli. Sennonchè quest'ultimo spaventato dalla crudeltĂ del Valentino; e temendo di esserne preda come il Varano (siccome in realtĂ avvenne), si accordò con le truppe Francesi accorse nel Val dâArno superiore, consegnando ai loro ufiziali la cittĂ di Arezzo, la quale bentosto con gli altri paesi del contado aretino, per ordine di Luigi XII, venne nellâagosto del 1502 ai Fiorentini riconsegnata.
Per quanto quest'ultimo successo recasse un qualche conforto a Firenze, tuttavia continuava nei cittadini ragionevole motivo di temere dell'insidie del fraudolento duca, essendo ormai conosciuto per uomo, che nè ad amici, nè a nemici serbando alcuna fede, procurava di sottomettere ogni cosa alla sua crudelissima libidine.
Laonde in Firenze, per meglio vegghiare sui maneggi di lui, che qual nuovo conte di VirtÚ, mirava niente meno che a insignorirsi di Siena, di Lucca e di Pisa, affinchè poi, circondata dalle sue armi, la repubblica fiorentina venisse a cadergli in seno per forza, fu convocato dalla Signoria il consiglio generale; nel quale fu deciso di creare il primo magistrato della Repubblica, non piÚ ogni due mesi, come fino allora erasi usato, ma un primo console a vita con l'antico titolo di gonfaloniere; cosÏ che per evitare un estremo si andò a rischio di incorrere in un altro piÚ pericoloso del primo. Fortunatamente cadde l'elezione in Piero Soderini, uomo di somma probità , accetto generalmente al popolo quanto un Publicola, e privo di figli da non poter dare ombra di aver a destinare ai suoi discendenti lo stato. Insieme col gonfaloniere a vita (che incominciò col mese di novembre 1502) fu dato principio al tribunale collegiale della Ruota fiorentina nel palazzo del potestà , levato via, non solo l'appello al capitano del popolo, ma questo magistrato medesimo dichiarato soppresso.
Fu cagione di maggior soddisfazione alla cittĂ , ed accrebbe onore alla famiglia Soderini, oltre l'elezione di Piero, la promozione del cardinal Francesco di lui fratello, fatta li 31 maggio 1503, appena tornato dall'ambasceria di Francia. Il novello porporato fu accolto in patria con solenne entratura e con onore grandissimo dai magis trati e da tutti gli ordini dei cittadini, poche settimane innansi che con letizia di tutta Italia giungessero avvisi della morte di papa Alessandro (18 agosto 1503) stimata per molti conti utile ai Fiorentini. SalĂŹ per pochi giorni sulla sedia di S. Pietro il pont. Pio III di casa Piccolomini, nipote di Pio II, per modo che dovette riaprirsi presto il Conclave. Dal quale nel dĂŹ primo di novembre fu proclamato in pontefice il cardinale Giuliano della Rovere, nipote di Sisto IV, che prese il nome di Giulio II, uomo di maravigliosa altezza d'animo, che aveva vigorosamente sostenuta l'inimicizia di Alessandro VI per la ecclesiastica libertĂ , ed erasi familiarizzato nell'arte della politica alla corte di Francia, da esso sino allora costantemente frequentata. â La Signoria di Firenze inviò a Roma ambasciatori, affinchè dopo le consuete cerimonie di obbedienza, mostrassero a Giulio II il sommo pericolo che derivare poteva ad esso lui e ai Fiorentini, nel caso che la Romagna fosse pervenuta in potere dei Veneziani: le cui armate in tempo di sede vacante avevano occupata la cittĂ di Faenza e molti altri paesi dei Malatesta in Val di Lamone, nè erano giovati a nulla i soccorsi mandati da Firenze in favore e a sostegno di quei piccoli principi.
Ricominciarono in quest'anno le ostilità tra i Francesi e gli Spagnoli nel regno di Napoli quando rinforzati quest'ultimi sotto la condotta del famoso Consalvo di Cordova, nelle vicinanze del Garigliano (dicembre 1503) riportarono una completa vittoria sopra i Francesi, fra le cui file trovavasi Piero de'Medici. Questi fuggendo allora sopra una barca alla foce di quel fiume terminò annegato una vita errante dopo 9 anni di esilio dalla patria.
Chi volesse salire al Monte Cassino vedrebbe il bel cenotafio che nel 1550 fece colĂ erigere Cosimo I con la seguente iscrizione: Petro Medici Magni Laurentii filio, Leonis X Pont. Max. fratri, Clementis Vll patrueli; Qui cum Gallorum castra sequeretur, ex adverso praelio ad Livis ostium periit, Anno aetat. XXXIII.
Dopo una vittoria cotanto segnalata, cominciarono gli Spagnoli a rendersi formidabili a tutta Italia; onde il Comune di Firenze, benchè fosse in lega e sotto la protezione del re di Francia, inviò al Gran capitano Consalvo un ambasciatore, acciocchè con ogni studio procacciasse di farlo benevolo ai Fiorentini, nè rivolgesse una parte delle sue genti in soccorso di Pisa; contro la quale cittĂ allâapparire della primavera del 1504 si volevano riprendere con piĂš calore le ostilitĂ . Ma i Pisani disposti a vincere o morire, quasi sempre sventarono tutti i mezzi e tutti gli sforzi del popolo fiorentino, non di rado resi vani dalle potenze oltramontane, per mantenere nella loro dependenza l'una e l'altra cittĂ ; e ciò sino a che, sul declinare dellâanno 1508, il re Cristianissimo, quindi il re Cattolico, mettendo i Pisani a mercato; indussero i Fiorentini, quando volessero senza opposizione dei due coronati, battagliando farsi padroni di Pisa, a pagar loro grosse somme di denaro (100,000 ducati al re di Francia e 50,000 a quello di Spagna); e dopo tutto ciò chiese ed ottenne anche la sua quota (40,000 ducati) Massimiliano imperatore.
Ă altresĂŹ vero che questâultima paga sopra ogni altra fruttò alla Repubblica fiorentina, avendola effettuata dopo le capitolazioni che confermarono al Comune di Firenze tutti i privilegj concessigli dai precedenti imperatori, compresa la cessione a tutte le ragioni, che sopra la cittĂ e distretto fiorentino, compresa Pisa con l'antico contado, potesse mai aver avuto l'Impero (AMMIR. St. Fior.
l.LXXVIII.) Frattanto a volere che i Pisani, stretti da maggiori difficoltĂ , si riducessero piĂš presto alla resa, fu dai Fiorentini assoldata nel 1509 una flottiglia, perchè guardasse la costa sulla foce di Arno, e alla cittĂ per via di mare impedisse ogni soccorso di gente e di vettovaglie; mentre dalla parte di terra Pisa era assediata dall'esercito diviso in tre parti; una delle quali accampossi alla sinistra e le altre due alla destra dellâArno. Tutti gli altri passi essendo chiusi, venne perciò a mancare agli assediati ogni speranza di soccorso, per modo che facendosi sentire la fame con le piĂš lacrimevoli miserie, cominciò il minuto popolo a tumultuare. Simulò il governo pisano di venire ad una trattativa per tener tranquilla la plebe, e nel tempo stesso tentare un colpo di mano sopra l'esercito fiorentino; ma la prima essendo stata scoperta, e il secondo andato fallito, bisognò che i Pisani si piegassero alla resa.
Era sulla fine del maggio 1509, quando si diressero a Firenze otto ambasciatori pisani accompagnati da Alamanno Salviati, uno dei tre commissarj dell'esercito fiorentino, per presentarsi alla Signoria, dalla quale ottennero una onorevolissima capitolazione, con ampio perdono della ribellione e di tante ingiurie e danni fatti alle cose pubbliche e private de'Fiorentini.
Nell'ottavo giorno di giugno i tre commissarj della Repubblica presero il possesso di Pisa, tornata dopo una ribellione di 15 anni sotto il dominio Fiorentino, e per la seconda volta, passato di poco il periodo di un secolo, vinta dalla fame e dall'oro, piĂš che dalle armi soggiogata.
Vi furono rimessi secondo l'antico costume i consueti magistrati, nominati però dalla Signoria di Firenze con l'approvazione de'consigli: e a tempo brevissimo vennero eletti per primi, Alamanno Salviati in Capitano del popolo, ossia Conservatore della pace, e Francesco Taddei in Potestà di Pisa.
Acconce in cotal modo le piĂš importanti cose dello Stato, restava però alla cittĂ di Firenze il dispiacere delle recenti nozze senza consentimento della Repubblica contratte da Filippo Strozzi figlio di quell'altro Filippo che edificò il grandioso palazzo, per aver egli, contro una legge che proibiva le parentele coi ribelli, tolta in moglie Clarice figlia di Piero de'Medici; onde Filippo fu condannato a una multa, e per cinque anni ammonito. â Nè potevasi mai prevedere che la sorella di Leone X col suo marito Filippo Strozzi, come anche i figli che erano per nascere da quel connubio, dovessero essere fieri nemici non meno al duca Alessandro figlio di Lorenzo de'Medici, loro respettivo nipote e cugino, quanto anche al di lui successore duca Cosimo I.
Dopo l'acquisto di Pisa, il governo fiorentino, avendo rivolte le cure alla parte economica, bandĂŹ la moneta dâargento tosata, e fissò un giusto peso per le altre. Fu allora che si aumentarono sino a tre, dove prima erano due, gli ufiziali della zecca, al pari dei Triumviri monetales di Roma; che si coniò, oltre diverse altre monete di minor valore, quella d'argento, di cui ne entravano venti per ogni fiorino dâoro, la quale dal papa allora regnante fu chiamata col nome di Giulio.
Dopo tali provvedimenti il gonfaloniere perpetuo, veggendo essere già finiti 8 anni del suo reggimento, volle dar conto di tutte le pubbliche spese fatte in tempo della sua amministrazione. Ordinò a tal uopo lo spoglio dei libri della Camera, ossia della depositeria dello Stato, e raccolto tutto quello che dai sindachi del Comune era stato saldato, fu trovato essersi spesi in quel periodo di anni per conto della Repubblica 908,300 fiorini d'oro.
Ciò fu notificato ai 22 di dicembre 1510, il giorno innanzi che si scuoprisse una congiura contro il Soderini, ordita in Bologna da un Prinzivalle di Luigi Stufa giovine fiorentino, il quale, immaginando di aver per compagni alcuni suoi concittadini, recossi a Firenze per tentare Filippo Strozzi, che come parente deâMedici e per tale effetto ammonito, credè, pronto a entrare nella cospirazione; ma accortosi della risposta dello Strozzi, che non solo non avrebbe aderito, ma che probabilmente potrebbe svelare al governo il suo reo disegno, si ricovrò prontamente in Siena. Il Soderini che veder doveva in questo attentato con quali nemici aveva a fare, invece di cercare ogni mezzo di riconciliarsi con il pontefice, conscio dell'attentato, lo sdegnò maggiormente coll'accordare ad alcuni cardinali la cittĂ di Pisa per tenervi un concilio. Da ciò ne avvenne che Giulio II richiamò da Firenze il suo Legato, e fulminò sulla cittĂ l'interdetto, che provvisoriamente sospese all'avvicinarsi dellâesercito francese. Ciò accadde poco prima della famosa giornata di Ravenna, (11 aprile 1512) in cui si colmò di gloria il valoroso duca Alfonso d'Este, e nella quale restò prigioniero il cardinale Giovanni de'Medici Legato pontificio. Ma la morte del prode generale di Foix, rimasto nel campo di battaglia, bastò a distruggere tutti i frutti della vittoria dagli alleati de'Fiorentini riportata.
Appena Giulio II vide l'esercito francese ritirarsi dall'Italia, riprese il suo tuono imperioso, stimolato dall'odio contro il gonfaloniere Soderini, non meno che dal desiderio di avere autoritĂ piĂš che spirituale sopra tutta l'Italia. Dondechè Giulio, nel luglio del 1512, intimò ai Fiorentini di rimuovere dal governo il Soderini, premurosamente insistendo, affinchè si rimettessero in patria i fuorusciti, e nella pristina grandezza la famiglia de'Medici. Indi spedĂŹ a Firenze Lorenzo Pucci suo datario, per tentare con lâoratore che vi teneva Don Raimondo di Cardona vicerè di Napoli, allora generale dellâesercito alleato, i Fiorentini a staccarsi dallâamicizia del re di Francia, affinchè si unissero alla lega, cui fu dato il titolo di Sacra .
Frattanto che si perdeva in progetti e in trattative il gonfaloniere della Repubblica fiorentina, tenevasi in Mantova un congresso segreto fra gli ambasciatori della Sacra alleanza, nel quale si determinò, che il ducato di Milano fosse reso a Massimiliano Sforza, che si assalisse repentinamente il territorio fiorentino. Con questa deliberazione il Vicerè alla testa di un esercito spagnolo si mosse da Bologna per l'Appennino di Pietramala, dove lo raggiunse il cardinale Giovanni de Medici con la qualità di Legato pontificio in Toscana, di corto. fuggito verso Milano dalle mani de'Francesi, dei quali era rimasto sino allora prigioniero.
A Firenze, inteso lâavvicinamento degli Spagnoli, sul timore eziandio che da unâaltra parte si avanzassero le truppe pontificie, erano gli abitanti in grandissimo spavento, tanto piĂš che poche erano le genti d'arme, ne alcun capitano di vaglia, cui si potesse il comando affidare. Nondimeno si cercò di provvedere al riparo sollecitamente, quanto la brevitĂ del tempo lo comportava; nè si mancò eziandio di tentare, benchè tardi, la via dell'accordo, mandando ambasciatori al Papa e al Vicerè. Ma se da un lato il primo mostrossi inflessibile alle offerte e alle preghiere, rispondendo non essere questa impresa sua, e farsi senza soldati pontificii; dall'altro lato il Vicerè, che giĂ era disceso col suo esercito dallâAppennino della Futa a Barberino di Mugello, presso 18 miglia a Firenze, rispondeva per un suo messo alla Signoria, non essere intenzione della Sacra lega di alterare il dominio, nè la libertĂ dello Stato, solo che si rimovesse il gonfaloniere Soderini, e che i Medici potessero ritornare a godere la patria. A tali domande esposte nel consiglio generale, il gonfaloniere si mostrò pronto ad aderire per ciò che riguardava la sua persona, col rinunziare la suprema magistratura, nella quale per consentimento pubblico era tanti anni seduto: dichiarando nel tempo stesso, che si attribuirebbe a singolare felicitĂ , se questa domandata rinunzia e il richiamo de'Medici in patria come privati cittadini, e non arbitri delle leggi e dei magistrati, fosse il vero mezzo della salute della patria.
Non era dubbio quello che il consiglio generale avesse a deliberare, per l'inclinazione che aveva quasi tutto il popolo di mantenere il governo libero. Perciò con maraviglioso accordo fu risoluto, che si consentisse al ritorno de'Medici come uomini privati, ma che si rifiutasse la domanda di rimuovere il gonfaloniere Soderini, e con la vita si attendesse a difendere la comune libertĂ . â Però volti tutti i pensieri alla guerra, e fatta provvista di denari, si spedirono 2000 fanti con pochi uomini di cavalleria nella Terra di Prato; la quale si temeva avesse a essere la prima assaltata, siccome infatti lo fu pochi giorni appresso dal Vicerè. Il quale, poichè a Barberino ebbe raccolto l'esercito e le artiglierie, si accostò con 5000 uomini di quella terribile fanteria, che aveva saputo sola far argine a tanto impeto nella giornata di Ravenna; indi a poco cominciò a battere con due cannoni le mura di Prato verso la porta, che ha tuttora il nome del Serraglio; e appena aperta la breccia, s'ordinò l'assalto, non trovando piĂš ostacoli mediante la fuga dei difensori. In guisa che gli Spagnoli, entrati dentro, corsero liberamente la Terra (il dĂŹ 29 agosto dellâanno 1512) dove non era piĂš resistenza ma grida, fuga, violenza, sacco, e uccisioni.
Nè sarebbe stata salvata cosa alcuna dallâavarizia, libidine e crudeltĂ dei vincitori, se il cardinal deâMedici, messe le guardie alla chiesa maggiore, (dove era uno dei tanti suoi benefizj ecclesiastici) non avesse cercato di conservare l'onestĂ delle donne, che quasi tutte vi si erano rifugiate.
I cittadini piĂš facoltosi, salvati alla strage, furono costretti per via di minacce, o dai tormenti straziati, di redimersi a carissimo prezzo dalla prigionia de'Spagnoli.
Il miserabile evento di Prato spaventò tutta Firenze, e piÚ d'ogn'altro il gonfaloniere, il quale retto piuttosto che rettore, irresoluto lasciavasi guidare dalla volontà degli altri; cosicchè furonvi molti giovani nobili, e avidi di cose nuove che divennero piÚ audaci. Contavasi fra questi Anton Francesco degli Albizzi e Paolo Vettori, i quali già eransi con Giulio de'Medici, figlio di Giu liano, occultamente abboccati in una villa del territorio fiorentino dalla parte di Siena. Ora avendo essi comunicato il progetto loro a Bartolommeo Valori, giovine splendido e al pari del Vettori indebitato, decisero insieme di cavar per forza il gonfaloniere dalla residenza della Signoria. Infatti, due giorni dopo la perdita di Prato, entrati essi con pochi compagni in palazzo, e introdottisi nella camera del Soderini, lo minacciarono di torgli la vita, se non si partiva di là , dandogli in tal caso fede di salvarlo. Alla qual cosa per soverchio timore cedendo il gonfaloniere, fu tratto di palazzo e accompagnato alla casa del Valori, donde la notte appresso si condusse fuori di Stato.
RisentÏ particolarmente i tristi effetti di cotale avventura il celebre Niccolò Machiavelli, il quale avendo in questo tempo perduta la carica di segretario della Repubblica, si ridusse a vivere ritirato e meschino nella sua villetta a S.
Andrea in Percussina, maledicendo la dappocaggine di Pier Soderini, resa ormai volgare da quei suoi piccantissimi versi: La notte che morĂŹ Pier Soderini Lâalma nâandò dellâinferno alla bocca; E Pluto le gridò: anima sciocca, Che inferno? Vaâ nel Limbo deâbambini.
Ma lo scritto che dĂ maggiormente a conoscere il carattere del Segretario fiorentino, a me sembra il tenebroso opuscolo da esso lui in detta villa dopo il ritorno de'Medici a Firenze sul subietto del Principato compilato, per indirizzarlo alla magnificenza di Giuliano, sperando, siccome l'autore faceva presentire allâamico Vettori, che quel suo lavoro fosse per essere accetto a un principe, e massime a un principe come lui nuovo; e desideroso che questi Signori Medici cominciassero ad adoprarlo (Niccolò); perchè se poi (cito le sue parole) non me li guadagnassi, io mi dorrei di mè. (LETTERA DEL MACHIAVELLI A FRANCESCO VETTORI.) La fraudolenta cacciata del gonfaloniere perpetuo accaduta nel giorno stesso che dovevano escire di carica i vecchi priori, fu non senza minaccia dei congiurati formalmente acconsentita dalla Signoria che esciva di seggio, e dalle altre magistrature.
Non era appena il Soderini dalla città partito, che i nuovi Signori inviarono al Vicerè legati per trattare di un accordo, il quale per opera del cardinale de'Medici facilmente si compose; obbligandosi il governo di Firenze di restituire alla patria, come privati cittadini tutti gl'individui della famiglia Medici, con facoltà di ricomprare fra certo tempo i loro beni dal fisco alienati; mentre dovè la Signoria aderire, in quanto alle cose politiche di fuori, ad entrare nella Sacra lega , e inoltre ad adempire agli obblighi verso di quella contratti dal cardinale, pagando, cioè, per mercede del ritorno de'Medici 40,000 ducati all'Imperatore; 80,000 al Vicerè per le spese della guerra e per interesse suo proprio altri 20,000 ducati.
Rimossi per tal guisa i pericoli della guerra, i Fiorentini determinarono con nuove leggi, che il gonfaloniere si eleggesse per un anno, sebbene dopo il primo eletto (Gio.
Battista Ridolfi) si ritornasse all'antico sistema bimestrale.
Quindi fu risoluto che, senza alterare il senato, o sia il consiglio degli 80 (con l'autoritĂ del quale si deliberavano le cose piĂš gravi), per dargli maggior vigore gli si aggregassero in perpetuo tutti coloro che nei tempi trascorsi avessero amministrate le prime dignitĂ ; vale a dire, dentro la cittĂ , quegli che fossero stati o gonfalonieri di giustizia, o dei dieci della balĂŹa di guerra; e fuori di Firenze, coloro che, essendo stati nel consiglio degli 80, avessero anche eseguite ambascerie presso qualche potenza, o fossero stati commissarj generali nella guerra.
In quanto al resto rimasero fermi per allora gli ordinamenti antichi.
Ma troppo erano trascorse le cose, e troppo potenti nemici aveva la pubblica libertà . Nel centro del dominio un esercito prepotente e sospetto; dentro la città audacissimi giovani cupidi di opprimerla; dello stesso animo, benchè con le parole dimostrasse il contrario, era il cardinale de'Medici; il quale non reputava premio degno di tante fatiche il ritorno suo e de'suoi come privati cittadini.
La Signoria avendo ratificato il trattato dagli ambasciatori conchiuso col Vicerè, questi nel 14 di settembre entrò in Firenze, accompagnato da molti soldati ufiziali del suo esercito, dal cardinale Giovanni, dal fratello Giuliano e dal loro nipote Lorenzo.
Quindi nel giorno seguente, mentre era congregato nel palazzo del popolo per le cose occorrenti il generale consiglio, comparve costĂ il Vicerè con un numeroso seguito sotto titolo di avere a trattare di un qualche pubblico negozio; quando in poco dâora, sopraggiunta altra gente d'armi, allâimprovviso fu assalita la porta, e occupati tutti i posti della residenza, depredando gli argenti, e ciò che v'era per uso della Signoria. Costretti i Priori dalla forza, dovettero cedere alla proposizione fatta da Giuliano de'Medici, presente a quella scena, di far chiamare subito al suono della campana maggiore il popolo in piazza. Coloro pertanto che vi concorsero, circondati dagli Spagnoli armati, consentirono che fosse data ampia BalĂŹa a 50 cittadini, investendoli per un anno della medesima autoritĂ che aveva presso i Romani la somma dittatura, con autoritĂ di potersi da sè medesimi per un altro anno raffermare. Furono quindi cotesti arbitri scelti tutti fra i dipendenti o amici del cardinale, in guisa che la nuova BalĂŹa, a forza di riformagioni, ridusse il governo alla forma medesima châera innanzi all'anno 1494, col ridonare ai Medici non solo il perduto dominio e grandezza, ma col porli in grado di governare la cittĂ piĂš imperiosamente e con arbitrio piĂš assoluto di quello che soleva fare lo stesso Magnifico. In tal modo fu oppressa quella libertĂ civile che dal probo gonfaloniere Soderini era stata in Firenze rispettata, e per opera di armate straniere questa volta carpita dalla famiglia medesima, cui nei tempi trascorsi era riescito di assorbirla a forza di buone grazie, di munificenze e di oro.
Era da pochi mesi restituito alla patria e agli onori l'espulso ramo Mediceo, quando s'intese la morte di Giulio II, accaduta in Roma la mattina del dĂŹ 21 febbrajo 1513, mentre egli proponevasi di spogliare il prode duca Alfonso del dominio di Ferrara. Nonostante i suoi smisurati concetti, Giulio II lasciò di sè altissima ricordanza per il gigantesco progetto di liberare lâItalia dal domino dei forestieri, che egli a imitazione degli antichi Romani qualificava col titolo di barbari, per lâambizione inesauribile di esaltare col mezzo della guerra e col sangue dei Cristiani l'impero temporale della Chiesa, per l'ardore generosissimo con cui favorĂŹ le arti belle, e i sommi maestri, che allora fiorivano; cosicchè mercè di quel pontefice divenne ammirabile il tempio maggiore dell'orbe Cattolico, e lâimmenso palazzo Vaticano.
Il settimo giorno del conclave (11 marzo), senza discrepanza di alcuno, fu eletto in pontefice il cardinale Giovanni de'Medici, di soli 37 anni, il quale assunse il nome di Leone X . â SentĂŹ di questa elezione quasi tutta la CristianitĂ , e Firenze precipuamente, gioja e piacere grandissimo, per la chiara memoria del valore paterno e per la fama che risuonava per tutto della liberalitĂ , dolcezza e amore di lui verso le arti e i letterati. â La cavalcata solenne del possesso di Leone X, nella quale si vuole che egli prodigasse la somma di 100,000 ducati, riescĂŹ una festa delle piĂš magnifiche, e di tanta pompa, che Roma da molti secoli non aveva visto nè la piĂš decorata nè la piĂš bella; e fece quel giorno piĂš memorabile e di maggiore ammirazione il considerare, che colui che formava l'oggetto di tanto splendore era stato lâanno innanzi, in quel dĂŹ medesimo (11 di aprile) fatto daâFrancesi miserabilmente prigione alla sanguinosa battaglia di Ravenna.
Per tale avvenimento i Fiorentini divennero entusiasti, e tutte le altre cittĂ della Toscana fecero pubbliche feste e allegoriche rappresentazioni, fra le quali si racconta quella eseguita a Siena col cavallo Trojano condotto in cittĂ , con cui pare che simbolicamente si volesse avvertire il popolo del pericolo che minacciava alla sua libertĂ quella stessa famiglia, per un individuo della quale allora si festeggiava.
Fra i dieci ambasciatori fiorentini destinati a recarsi in tal circostanza a Roma fu compreso l'arcivescovo Cosimo deâPazzi, ma sopraggiunto da grave infermitĂ , cessò di vivere nel giorno stesso della gran cavalcata di Leone, il quale poco dopo nominò alla stessa cattedra arcivescovile di Firenze il cavalier gerosolimitano Giulio deâMedici nato da Giuliano suo zio, quello stesso Giulio, che nella festa predetta, armato sopra un grosso corsiere videsi in Roma portare il gonfalone della religione di Rodi, e alla prima promozione nominato cardinale di Santa Chiesa.
Pochi mesi dopo, il pontefice Leone X, fatto arbitro fra i Fiorentini e i Lucchesi a cagione di alcune pretensioni di Stato, pronunziò sentenza che i secondi dovessero restituire ai primi la Terra di Pietrasanta con il suo distretto. â Governavasi pertanto la cittĂ di Firenze a piacere e secondo gli ordini del Papa, il quale indusse il magistrato della BalĂŹa a creare in capitano de'Fiorentini con suprema assoluta potestĂ Lorenzo suo nipote, fig liuolo di quel Piero che cedè le fortezze della Repubblica a Carlo VIII; nel tempo che il fratello Giuliano imbarcava a Livorno con la novella sposa figlia di Filippo duca di Savoja, invitato dal Papa a Roma non senza conforto di farlo salire sopra uno dei troni d'Italia, per quanto il carattere di Giuliano da tali ambizioni si mostrasse alieno anzi che nò.
Appena arrivato in Roma, Giuliano fu nominato capitan generale della Chiesa, e il cardinale Giulio inviato a Bologna Legato apostolico. Giuliano però non tenne che di nome quella carica; avvegnachè essendosi ammalato, fu incaricato del comando delle truppe pontificie il nipote Lorenzo, con ordine di passare in Lombardia per unirsi alle genti dei Collegati destinati a far fronte aâFrancesi che col loro re Francesco I tornavano in Italia.
La vittoriosa giornata da questi ottenuta (13 settembre 1515) a S. Donato presso Marignano decise Leone X a stringere accordo, e quindi a collegarsi col vincitore. Ai 21 di ottobre i plenipotenziarj convennero nei preliminari del trattato di pace, mercè cui il re prese sotto la sua protezione il Pontefice, il fratello e il nipote, a condizione però che la Chiesa restituisse Parma e Piacenza tolta da Giulio II, come membri del ducato di Milano.
Quindi Leone X, avendo fatto invitare Francesco I a un abboccamento in Bologna, si partĂŹ da Roma li 6 novembre 1515, accompagnato da 18 cardinali e da un corrispondente corteggio di prelati, di ambasciatori esteri e di altri illustri personaggi; ed entrando in Toscana per la Val di Chiana, prese la strada di Arezzo, di Montevarchi e dell'Incisa, di dove per S. Donato in Collina si condusse, ai 16 dello stesso mese, all'Impruneta, e nel giorno appresso alla villa Gianfigliazzi a Marignolle. CostĂ si trattenne tre giorni per dar tempo ai Fiorentini di compire i grandiosi preparativi, che si facevano ad oggetto di ricevere il pontefice con pompa non piĂš veduta. Egli vi entrò li 30 novembre passando come un conquistatore per sette archi trionfali tutti ornati di figure allegoriche, oltre quella di Lorenzo padre del pontefice, posta sopra un arco a S. Felice in Piazza con sotto queste parole: Hic est Filius meus dilectus. Altre pompose feste si rinnovarono al ritorno del pontefice da Bologna. â Per altro nè cotanta gioja della cittĂ , nè la presenza di sĂŹ acclamato pontefice bastarono a sollevare il di lui fratello Giuliano dalla infermitĂ che lo affliggeva, e contro la quale riescirono vani tutti i rimedj dellâarte; sicchè poco dopo la partenza del Papa, nella Badia Fiesolana, dove ultimamente era stato condotto, li 17 marzo del 1516 morĂŹ nella fresca etĂ di 37 anni, non lasciando che un figlio naturale, Ippolito, che fu poi cardinale, natogli mentre era esule in Urbino.
Giuliano per le sue lodevoli qualitĂ , per il gusto che nelle lettere e nelle belle arti aveva ereditato, a preferenza di ogni altro della sua casa, portò l'onorevole paterno titolo di Magnifico, trasmesso anche al figlio Ippolito. Egli fu dai Fiorentini sinceramente compianto, tanto piĂš che la sua autoritĂ servĂŹ di freno all'orgoglio del nipote Lorenzo e alle brame smoderate di Leone X di lui fratello, trattenendolo, finchè visse, dal perseguitare il generoso ospite del suo esilio, Francesco Maria della Rovere duca di Urbino. Ma appena mancato ai viventi Giuliano, tormentato (ERRATA: dalla sorella Clarice) dalla cognata Alfonsina Orsini il Papa occupò il ducato dâUrbino con una guerra che costò (dal 1517 al 1518) non meno di 800,000 ducati, la maggior parte cavati dai Fiorentini; guerra poco onorata al primo e poco utile ai secondi, che dovettero contentarsi due anni dopo (luglio 1520) di ricevere in ricompensa di tanta moneta il Vicariato di Sestino con la fortezza di S. Leo, e la regione di Montefeltro. â Vedere SESTINO.
Questa stessa guerra diede chiaramente a conoscere quanto lâaffetto del nipotismo fosse di pregiudizio ai papi, con tutto che dopo il trattato di cessione di quel ducato, Lorenzo deâMedici, riconosciuto in nuovo duca di Urbino, avesse fissato il matrimonio (aprile 1518) con Maddalena di Boulogne, da cui naque la celebre Caterina di Francia, che costò la vita alla madre (28 aprile 1519.) Rimase anche orfana sette giorni dopo del padre (il 5 maggio), nell'anno stesso in cui venne al mondo (11 giugno 1519) il primo Granduca di Toscana.
Non fu la perdita di Lorenzo pianta dai Fiorentini, come quella di Giuliano; che anzi per un rumore divulgatosi, sino da quando tornò di Francia sposo, essere intenzione di lui farsi Signore di Firenze, molti cittadini sentirono contente della sua morte. Infatti tostochè la sorte arrise al duca Lorenzo, questi manifestò un carattere orgoglioso e prepotente a segno che tutti gli affari pubblici si facevano dalle sue creature; di modo che egli considerava lo Stato fiorentino come un patrimonio avito, di cui potesse liberamente disporre; e lo faceva con tale arbitrio, che trascurava perfino quelle formalitĂ e quella decenza che usarono i suoi maggiori, se non altro per far credere al popolo che esso viveva sempre sotto un libero regime. Lo stesso cardinal Giulio di lui zio, recatosi da Roma a visitarlo, ne ripartĂŹ ben presto mal soddisfatto. â Tornò il cardinale a Firenze negli estremi giorni del di lui nipote; estinto il quale, e compite le esequie con le consuete condoglianze, andò il porporato a visitare la Signoria, e con quella moderazione e politica che Lorenzo non conosceva, si trattenne con essa a riordinare le cose del governo, mostrando dispiacere, che la scelta dei magistrati, soliti per antico uso a trarsi dalle borse a sorte, fosse stata fatta ad elezione del duca. E allorchè Leone X destinò quel cardinale arcivescovo di Firenze in preside e governatore della Repubblica, questi seppe con tali prudenti consigli provvedere al reggimento di essa, che si fece ammirare e ben volere dal maggior numero de'Fiorentini, non accortisi ancora dei suoi ambiziosi desiderj, tenuti per tanti anni con incredibile artifizio mascherati e compressi.
Vide Leone X nella morte di Lorenzo mancare il fondamento principale su cui voleva basare un trono per la sua famiglia; e vi fu anche alcuno che in tal'occasione non mancò davanti lo stesso Papa di perorare la causa deâFiorentini; avvegnachè nella persona di lui si andava a spegnere il sangue legittimo dei discendenti del vecchio Cosimo, da cui cotanta grandezza era stata fondata, pregandolo a voler fare opera gloriosa e ben meritata col rimettere la patria in quella libertĂ che aveva prima.
Non era ancora terminato l'anno 1519 quando a Leone fu recapitato l'avviso della morte in Firenze accaduta di Maddalena di lui sorella, madre di Lorenzo Cybo, primo di quella famiglia fra i marchesi di Massa e Carrara, e madre parimente di quel cardinale Innocenzo Cybo che ebbe cotanta parte negli affari politici di Firenze ai tempi del duca Alessandro, e di Cosimo I.
Alla morte della sorella del Papa tenne dietro (7 febbrajo 1520) l'altra della cognata Alfonsina Orsini vedova di Piero deâMedici, quella che sopra tutti con fervorose istanze aveva indotto lo stesso Leone a fare l'impresa d'Urbino, ed alla quale fu dato ad enfiteusi dalla Repubblica fiorentina senza sborso di denari, il padule di Fucecchio.
Con questa rapidità le grandi speranze e le grandi fortune nate e svanite quasi ad un tempo stesso, mostravano in mezzo alle glorie de'Medici la caducità dell'umane grandezze; dondechè Leone da tante morti ammonito, pensò a far costruire la famosa sagrestia nuova di S.
Lorenzo a Firenze per collocarvi le sepolture del fratello Giuliano, e del nipote Lorenzo: per eseguire le quali il Buonarroti, senza saputa dei suoi biografi, nell'aprile del 1521, lo troviamo a Carrara, dove stette qualche tempo a contrattare i marmi delle cave, che appellansi del Polvaccio , per quelle sepolture . â Vedere SERAVEZZA.
Aveva pur cessato di vivere nell'anno 1519 lâimperatore Massimiliano I d'Austria, che lasciò il trono al nipote Carlo V; sulla di cui testa per una mirabile combinazione di circostanze e di ereditate successioni, oltre gli Stati aviti della Germania, si riunirono le corone del Romano impero, dei regni di Spagna, e dell'Indie, dei Paesi Bassi, della Borgogna e della Franca Contea. Ottenne la corona imperiale per elezione, gli altri Stati per diritti paterni, e materni.
Quando perciò si considera quanti furono i colpi della fortuna, che riunirono sotto il comando di quell'Augusto giovinetto sĂŹ vasta porzione dellâEuropa e dellâA merica, non si può fare a meno di non riconoscere ciò che è stato dagli storici chiamato la propizia stella della Casa d'Austria.
Questa nuova e straordinaria potenza diede motivo a Leone X di cambiare sistema alla sua politica, cosicchè staccossi egli dalla lega col re di Francia per stringere alleanza col nuovo imperatore, sotto la di cui protezione pose nel tempo stesso i suoi parenti, la repubblica fiorentina e la S. Sede. Allâincontro i Veneziani e il duca Alfonso di Ferrara si collegarono coi Francesi, i quali ben presto perdettero Milano, e la maggior parte delle cittĂ della Lombardia, occupata dalle truppe Spagnole; e ciò nel tempo che gli Svizzeri al servizio del Papa ricuperavano i ducati di Parma e Piacenza. Poco dopo l'annunzio di questa fortunosa impresa, un'immatura ed improvvisa morte colse Leone X nel 1 dicembre dell'anno 1521, non senza sospetto di propinato veleno, trapassato con il cordoglio di non aver egli riparato a tempo all'esplosione di un'eresia che col pretesto degli abusi di una corte corrotta staccò dal grembo di S. Chiesa una gran parte dell'Alemagna, cosicchè fu pagata da quel pontefice assai cara la gloria di dare il nome al suo secolo.
Alla morte di Leone il cardinale Giulio deâMedici partĂŹ da Firenze per recarsi a Roma al conclave; nel quale dopo 38 giorni di Sede vacante trovossi proclamato in pontefice il cardinale di Utrecht del titolo deâSS. Giovanni e Paolo, che prese il nome di Adriano VI. Terminato il conclave ritornò in patria il cardinale Giulio, sotto i di cui auspicj continuava a governarsi la repubblica fiorentina, tanto nello spirituale quanto nel temporale; piĂš sicuro di prima per aver egli sventati i tentativi del cardinal Soderini suo rivale che avrebbe voluto togliere di mano al Medici le redini dello Stato. Conosceva però Giulio l'amore de'suoi concittadini per la perduta libertĂ , stata sua mercè quasi che spenta dalla forza esterna; quindi lasciava ad essi travedere una qualche speranza di restituirli nel pristino regime. La quale finzione seppe sĂŹ bene rivestire, che giĂ tenevasi in Firenze come un evento talmente sicuro, che disputavasi perfino sulla forma del governo piĂš acconcio alla cittĂ . Vi erano in via della Scala i celebri Orti Oricellarj, cosĂŹ detti da Bernardo Rucellaj letterato distinto, il quale, dopo la morte del suo cognato Lorenzo il Magnifico, ivi accolse la celebre Accademia Platonica.
Ora continuandosi tale riunione, si raccoglievano costĂ molti giovani amanti delle lettere per disputare di subietto politico, e leggervi discorsi liberi e confacenti alla riforma del governo. Questâopinione giunse tant'oltre, che Alessandro de'Pazzi compose un'orazione a nome del popolo fiorentino per ringraziare il cardinal de'Medici di tanto benefizio nel giorno della riforma. Fu lâorazione portata all'arcivescovo porporato, il quale, dopo essere stato piĂš volte interrogato a dirne il suo parere, rispose che, l'orazione gli piaceva, ma non il soggetto .
Probabilmente il trovarsi delusi in tali lusinghe piuttosto che mossi da frivole cagioni private, indusse alcuni di quei letterati a cospirare contro la vita del cardinale; dondechè due di loro furono presi, processati, ed ebbero la testa mozza, mentre altri furono esiliati come cospiratori. Non andò senza macchia di qualche intelligenza con i processati Niccolò Machiavelli che i suoi discorsi sulle Decadi di T. Livio soleva leggere negli Orti Oricellarj; i di cui concorrenti furono in tal circostanza banditi, e dispersi, oppure dal governo sorvegliati.
Frattanto il pontefice Adriano VI arrivava dalla Spagna a Livorno (23 agosto 1522) accompagnato da Paolo Vettori che, in rimunerazione di avere cacciato di seggio il Soderini per rimettervi i Medici, fu fatto da Leone X generale delle galee pontificie. Di lĂ il Papa si recò a Roma, seguitato poco dopo dal cardinale de'Medici, che divenne il consigliere di Adriano, al quale poco dopo la di lui morte successe nel trono del Vaticano (19 novembre 1523) sotto nome di Clemente VII . â Uno dei primi atti di clemenza del nuovo eletto fu la restituzione della patria, dei beni e degli onori alla famiglia Soderini, azione assai lodevole, seppure non fu, come dissero alcuni storici, quella bolla pontificia alla Signoria di Firenze spedita per condizione da esso ricevuta in conclave: o almeno lo fece per mostrare di fuori e col nome quella clemenza e pietĂ , la quale egli, a dir vero, dentro e co'fatti non ebbe. â Il nuovo Papa, dietro l'esempio di Leone X, disegnò subito che la grandezza della casa de'Medici venisse non ne'discendenti legittimi di Lorenzo fratello di Cosimo padre della patria, ma nella persona d'Ippolito figliuolo naturale del magnifico Giuliano, ed in quella di Alessandro figliuolo medesimamente spurio di Lorenzo duca d'Urbino. â I quali due individui, sebbene di tenera etĂ , Clemente VII avrebbe voluto, se non fargli signori assoluti di Firenze, almeno investirli di autoritĂ straordinaria, senza però dimostrare di essere a ciò mosso dal suo arbitrio o volontĂ , ma richiesto e quasi pregato dai Fiorentini tutti per il pubblico bene e salute universale della cittĂ . La cagione perchè egli andava cosĂŹ ritenuto e guardingo era, oltre alla natura sua, il sospetto che aveva di Giovannino deâMedici; cosĂŹ allora appellavasi a distinzione dell'altro Giovanni, poi Papa Leone, quel valoroso capitano delle bande nere, che fu padre di Cosimo I.
Tanto Clemente VII si adoperò affinchè la Signoria di Firenze decretasse lâabilitazione di Ippolito figlio di Giuliano a tutti gli ufizj e dignitĂ della repubblica, non ostante lâetĂ sua di 15 anni, che alla fine dâagosto del 1524 il Magnifico (che con questo titolo volle rinnovarsi in lui la memoria del padre e dellâavo) fu accolto in Firenze senzâaltra cerimonia, affidando Clemente la spedizione del gli affari politici, e la direzione del giovanetto al Legato Silvio Passerini di Cortona. Questo ministro metteva ogni studio nel contentare il Papa in tutte le cose quanto sapeva e poteva il piĂš, non curandosi nè di spogliare troppo il pubblico, nè di aggravare fuori dâogni modo e misura i privati; in guisa che al suo tempo, quantunque fosse di breve durata, oltre due accatti, che si posero ai secolari,e non comprese lâimposizioni che si misero agli ecclesiastici, bisognò ancora che si vendessero dei beni delle corporazioni dâarti e mestieri. Ippolito per tanto era contemplato in quel momento come signore e rappresentante di tutta la casa Medici: nè si poteva alcun affare di Stato dai magistrati della repubblica fiorentina discutere senza consultare questo fanciullo, o il cardinale suo direttore.
Scorrevano per lâItalia in questo tempo due eserciti, lâuno della lega di Carlo V, lâaltro di quella di Francesco I.
Clemente VII, ingannandosi neâsuoi calcoli politici, abbandonò la lega dellâImperatore per tenersi a quella del re deâFrancesi; quindi avvenne che le milizie di Carlo V, dopo la vittoria di Pavia, piombarono per vendetta sullo Stato pontificio e in Toscana, mentre che per unâaltra via varcava lâAppennino del Mugello un corpo di truppe della lega contraria, condotto dal duca dâUrbino, cui il governo fiorentino in grazia di questâalleanza riconsegnò le fortezze di S. Leo e di Majolo avute da Leone X, insieme col distretto di Montefeltro, a riserva di Sestino.
Erasi intorno alla stessa epoca, secondo il disegno del celebre architetto Antonio da SanGallo, posto mano a innalzare alcuni bastioni fuori della porta a San Miniato; i quali infino al poggio di Giramonte arrivavano; mentre per consiglio dei capitani Federigo da Bozzole, e del conte Piero Navarra con infinito dispiacere di chiunque ciò vide, quasi tutte le torri, le quali a guisa di ghirlanda a ogni 200 braccia le mura di Firenze coronavano, vennero gettate a terra o sino al pari delle mura rasate.
Stavano per tanto gli animi dei Fiorentini sollevati, mentre avevano due potentissimi eserciti nel loro territorio, uno come nemico, lâaltro sotto nome dâamico, ma entrambi per manometterlo e saccheggiarlo. Infatti le truppe appena arrivate nei contorni di Arezzo, si dettero a predare la Val di Chiana e il Casentino, avanzandosi sino nel Val dâArno di sopra a Firenze. Quando ai 30 di aprile 1527 alcuni nobili e arditissimi giovani, deâquali si era fatto capo Piero di Alamanno Salviati, profittando dellâimbarazzo dei governanti, e di un pontefice loro nemico, chiesero armi alla Signoria sotto pretesto di difendere la cittĂ contro le soldatesche di Carlo V.
Spaventato il cardinale Passerini da tale domanda, si ritirò dalla cittĂ col pegno a lui affidato per passare al campo del duca dâUrbino, il quale era ormai giunto presso Firenze. â Ma rinfrancato il Passerini dalle esortazioni di Baccio Valori, che al vivo dipinse in quei primi momenti dâinopinata mutazione la titubanza e confusione del governo fiorentino, animato anche dai capitani dellâesercito dei collegati e dal coraggioso Piero Noferi conte di Montedoglio, determinò di lasciarsi ricondurre in Firenze, dove i soldati con le moschetterie forzarono quelli del palazzo a sottomettersi, e dopo una convenzione dallo storico Francesco Guicciardini dettata sopra un banco dâuna bottega in via del Garbo, quindi dal cardinale Silvio e da Ippolito deâMedici sottoscritta, restarono per essa tutti gli atti del magistrato della sollevazione annullati, e a tutti i capi della sommossa accordato il perdono.
In questo mentre Carlo di Borbone alla testa di un esercito sfrenato di Tedeschi, Spagnoli e Italiani, sloggiando da Arezzo attraversò in fretta il territorio senese per arrivare a grandi giornate a Roma. La quale città trovandosi sprovvista e sorpresa fu messa barbaramente a sacco e sangue da quelle masnade, sebbene al Borbone costasse la vita (6 maggio 1527).
Tale orrenda sventura che obbligò Clemente VII a rinchiudersi nel Castel S. Angelo, ridestò coraggio nei Fiorentini, sperando di poter compire con maggior fondamento e piĂš prudenza, che non erasi fatto nel mese innanzi, il disegno di ricuperare lâantica libertĂ .
Ad accrescere il pubblico fermento era giunta in Firenze con Filippo Strozzi Clarice deâMedici sua moglie, entrambi sdegnati contro il Papa; il primo per essere stato dato in ostaggio agli Spagnoli, e quindi lasciato esposto allâindiscretezza dei nemici, lâaltra (châera figlia di Piero deâMedici di cui ereditò tutta lâalterigia) perchè mirava con disdegno due Medici bastardi preferiti alla sua famiglia nel principato di Firenze, e per non averle Clemente VII mantenuta la promessa di fargli cardinale Pietro suo figlio maggiore. Allâarrivo di quei due conjugi a Firenze si tennero segreti consigli, dove intervennero i principali cittadini, i quali indussero la Signoria a far un decreto che riapriva il gran consiglio del popolo, salvo che il numero dei votanti limitossi a 800 invece di mille; e di piĂš obbligarono quei Signori a creare una nuova balĂŹa di 20 buonâuomini, 5 per quartiere, lâautoritĂ della quale per tutto il luglio vegnente durar dovesse. Deliberossi ancora, che si avessero ad eleggere 120 uomin i, (30 per quartiere) di 29 anni compiti, i quali insieme coi Signori, colleghi e balĂŹa, avessero autoritĂ di rinnovare, infino ai 20 di giugno susseguente quegli ufizi che costumavano prima di essere nominati dal consiglio deâsessanta. Allora Filippo Strozzi partecipò al cardinale Passerini e al Medici siffatta provvisione, e nel tempo stesso annunziò al conte Noferi, che la Repubblica non avesse piĂš bisogno di lui, nè delle sue guardie al palazzo.
Vista e letta dal cardinale tal provvisione, prima di firmarla vi fece aggiungere gli articoli seguenti (in data del 17 maggio 1527); cioè, che Ippolito, Alessandro e la duchessina Caterina de'Medici fossero come gli altri cittadini rispettati; che non si potesse procedere contro loro, nè contro il cardinale di Cortona e suoi parenti per cagione di cose seguite dopo il 1512; che fosse loro permesso di stare o di allontanarsi dalla città a loro piacimento ed arbitrio; e che a tutti di Casa Medici fosse conceduta esenzione per cinque anni dalle pubbliche gravezze.
Non credette per altro il cardinale di Cortona che si potesse con sicurezza riprender la vita privata in una città , nella quale si era dominato da principe; dondechè determinò di partirsi con i due giovani, consentendolo il governo, per ordine del quale furono accomiatati, e verso i confini scortati dai fanti del conte Piero Noferi di Montedoglio.
Fu questa la terza ed ultima cacciata deâMedici, i quali stati fuora tre anni a viva forza, nel modo che qui appresso si dirĂ , ricuperarono la patria, della quale si fecero assolutamente signori e padroni, compreso tutto il suo distretto e dominio.
Una qualche riforma si portò in quest'occasione sul sistema civile dal governo, col nominare un Senato di 80 individui, e col portare a un anno la durata della prima magistratura. Concorse la maggior parte deâvoti a eleggere gonfaloniere di giustizia, sino al luglio del 1528, Niccolò Capponi figliuolo di quel Piero, che fu cotanto benemerito della patria, e cognato per via di moglie di Filippo Strozzi testè nominato. Egli erasi acquistata qualche riputazione appresso i suoi cittadini sino da quando fu dei tre commissarj di guerra allâultima impresa di Pisa, dove si era fatto un gran nome Gino suo arcavolo nella prima capitolazione della stessa cittĂ .
Avendo in tal guisa i Fiorentini ricuperata la tanto ambita libertĂ , molte cose nondimeno venivano a turbare questo quasi universale contento. Imperocchè la peste che in questâanno ricomparve con leggieri principj, venne a tale che dal mese di maggio infino al novembre si trovarono esser morte dentro la cittĂ circa 40,000 persone, oltre le molte famiglie fuggite per ripararsi a Prato e nei luoghi meno afflitti; in modo che, non potendosi per le deliberazioni pubbliche riunire nel generale consiglio 800 cittadini, si decretò che per allora servisse la metĂ . Dopo la peste nacque sĂŹ gran carestia che per molti anni non si ricordava in Firenze nè in contado essere stata la maggiore. Ma quello che non meno di coteste sciagure affliggeva i buoni, era il non trovarsi tra i cittadini quellâunione che in tal caso sarebbe stata necessaria; in guisa tale che, appena sâerano i Medici di Firenze partiti, il popolo corse alle lor case per rubarle, e con gran fatica potè il Capponi, con altri buonâuomini difendere le une, e raffrenare l'altro.
Aggiungasi che a molti parve di vedere grandissima parte di coloro, pei quali i Medici restarono cacciati, non cercare punto il vivere libero e lo stato popolare, ma sivvero un governo di pochi; una vera aristocrazia: cui ad altro non voleva riferirsi quel consiglio di ottimati da loro medesimi con sĂŹ grande autoritĂ nominati.
Laonde in mezzo a tanti mali cagionati dalla peste, dalla fame, dalle spese sofferte per guerre esterne, o per interne sollevazioni, la Signoria volse l'animo a opere di devozione, e a ordinare leggi santissime con la mira di poter riformare i guasti, disonesti e viziosi costumi nella cittĂ .
Avvicinandosi il tempo in cui Niccolò Capponi doveva lasciare la prima magistratura, da lui medesimo fu promossa nel consiglio generale una proposizione sopra tutte singolarissima, quella cioè di eleggere GesĂš Cristo per re deâFiorentini. Il progetto fu accolto a prima giunta quasi a pieni suffragi, se si eccettuino 26, che tal decreto non approvarono . â Fu il titolo di questa legge scritto sopra la porta del Palazzo della Signoria in lettere dâoro, attorno al nome di GesĂš che tuttora ivi scolpito si vide; nella quale cosa fu eseguito il pensiero del Savonarola, che, in una predica, aveva proclamato fra la numerosa sua udienza GesĂš Cristo per Re del popolo fiorentino.
Per questo fatto Niccolò Capponi essendosi acquistato maggior favore fra i cittadini avvenne, che nellâelezione imminente del nuovo gonfaloniere egli fu raffermato, avendo avuto neâsecondi favori per emulo in quellâonore mess. Baldassarre Carducci.
Era la cittĂ di Firenze nell'etĂ che queste cose seguivano, aggravata da molti debiti, stante le esorbitanti spese che sâerano fatte per servire piĂš che altro ai politici disegni dei Medici, le quali somme di denaro furono cavate dalle borse dei cittadini, o per via di balzelli a tutta perdita, o per via di accatti che mai o di rado si rendevano. Ed era necessario che in tal modo seguisse, tostochè le usuali entrate del governo fiorentino non oltrepassavano allora i 270,000 scudi in circa, dei quali se ne assorbivano 80,000 nel rendere i frutti e le paghe del Monte comune; e infino a 100,000 scudi si spendevano annualmente nel palazzo dei Signori, nelle paghe deglâimpiegati, nelle guardie ordinarie dello Stato e delle fortezze, nelle muraglie pubbliche di fortificazioni, e in simili altre cose. Quindi non restando che assai poco di avanzo dell'entrate consuete per le altre spese, faceva duopo bene spesso ricorrere a degli accatti. Infatti in questo stesso anno 1528 due imprestanze furono poste; una delle quali di 20,000 fiorini da pagarsi fra 25 giorni da 20 cittadini, a mille fiorini per ciascuno; e lâaltra di fiorini 70,000 da accattarsi fra tutto il popolo dentro il mese di luglio del medesimo anno. Ma tutte queste provvisioni non erano sufficienti a riparare alle urgenze della Repubblica, sicchè poco dopo furono tassati 40 cittadini per ricavare da essi altri 20,000 fiorini.
Fra le colpe apposte al passato governo, la piĂš ragionevole era lâinutile dissipazione del denaro; poichè calcolossi essers i speso nellâacquisto, e poi nella difesa del ducato dâUrbino, per fare un appannaggio al duca Lorenzo, almeno mezzo milione di ducati d'oro; unâegual somma nelle guerre di Leone X contro i Francesi; 300,000 ducati ai capitani imperiali prima dellâelezione di Clemente VII, e nella guerra che incominciò allora ad accendersi, e che terminò quando fu consumata la Repubblica, si distrussero non meno di 600,000 ducati dâoro.
La trista rimembranza di queste e di altre non meno odiose cose spingeva spesse volte una folla di giovani a trascorrere agli insulti verso gli antichi reggitori della cittĂ , e contro tutti quelli che mantenevansi ancora, o che furono amici dei Medici.
Il gonfaloniere Capponi era lâuomo del giusto mezzo di quella etĂ , piĂš Piagnone che Arrabbiato. La sua moderazione sembra che venisse in lui consigliata dai riguardi dovuti a un concittadino Pontefice, col quale i Fiorentini venivano indirettamente ad essere in lega mediante quella che essi avevano col re di Francia . â Peraltro i fanatici della nuova libertĂ , i nemici piĂš arditi de'Medici si diedero a calunniare pubblicamente Niccolò Capponi; dei quali fecesi capo un uomo feroce, Baldassarre Carducci, giĂ professore di diritto nellâuniversitĂ di Padova. Era costui nella mutazione del governo tornato alla patria con gran favore, sicchè tanto alla prima quanto alla seconda elezione del gonfaloniere annuale, era sempre appresso al Capponi, rivale il piĂš prossimo per numero di voti. Dopo la conferma del Capponi nella carica di gonfaloniere, il Carducci fu allontanato dalla cittĂ con lâonorevole veste di ambasciatore della Repubblioa al re di Francia, acciocchè impegnasse quella maestĂ a non intrigarsi con Papa Clemente, e per dimostrarle che Firenze era paratissima ad ogni spesa onde sostenere la sua parte in Italia. â Una mano di giovani nobili, al gonfaloniere avversi, col pretesto di voler formare una compagnia armata per la custodia della cittĂ , sotto la quale si sarebbero poi riuniti tutti i loro fautori, chiesero perciò ai Signori una bandiera col motto Libertas.
Conobbe quel magistrato lâimportanza della domanda e il disegno deâfaziosi, onde in vece di mettere a partito il provvedimento richiesto, la Signoria ricorse allâespediente di armare tutta la cittadinanza indistintamente, dai 18 infino in 36 anni, divisa in 16 compagnie di circa 300 soldati per ciascuna (quattro per Quartiere) militante sotto i soliti antichi 16 stendardi o gonfaloni dei Quartieri della cittĂ . Ragunavansi ogni mese per le rassegne, e per eseguire gli esercizj militari, armati tutti di picche, di corsaletti e di archibusi con sĂŹ belle armi che la rivista di quelle bande recava diletto, fiducia e meraviglia anche ai forestieri.
Tali furono le pubbliche sciagure, tali le molte gare private che a quell'epoca affliggevano la Repubblica fiorentina; mentre in quanto alle cose di fuori non erano per anche in Firenze messe le barbe del nuovo regime popolare, che cominciarono a svellersi da ambizioni segrete, da inimicizie palesi, da opinioni opposte e contraddittorie intorno al reggimento politico della stessa cittĂ .
Una delle quali opposizioni, sostenuta con troppo partito nel generale consiglio, fu d'importantissima conseguenza a Firenze, come quella che segnalò la perdita irrefragabile della sua libertà . Essendochè le truppe imperiali, dopo il saccheggio di Roma, mentre stavano assediando in castello il pont. Clemente VII, mandarono agenti a Firenze perchè facessero intendere ai suoi reggitori, che se volevano collegarsi con loro, promettevano la ratifica di Cesare ad ogni convenzione che fosse per trattarsi a favore e in difesa della repubblica fiorentina e della sua libertà .
Sopra di che fattesi piĂš pratiche, non vi fu modo che i cittadini piĂš influenti e i primi capi del popolo volessero mai dare orecchi a trattativa alcuna, preferendo piuttosto che la cittĂ fosse deâFrancesi alleata. In siffatta opinione concordavano altresĂŹ molti buoni ed onesti cittadini, che tenevano in riverenza le profezie di fra Girolamo Savonarola, il quale allorchè predicava la felicitĂ di Firenze, usava dire Gigli con Gigli dover fiorire. Questa opinione, che fu la piĂš conforme allâumore del popolo, persuase talmente i reggitori della cittĂ , che essi fecero subito una specie di coalizione col re Francesco I contro lâimperatore Carlo V, coalizione che portò seco ben presto con un doloroso e lungo assedio la perdita irreparabile della Repubblica. I Fiorentini rinnovando lâantico trattato di alleanza con la Francia, si trovarono per conseguenza ad essere per singolare contraddizione momentaneamente alleati eziandio con Clemente VII loro peculiare nemico.
Non mai o radissime volte avvenne, che magistrato alcuno deliberasse cosa nessuna la quale interamente soddisfacesse a tutti ed anche non fosse da molti biasimata. Nè è dubbio che a mantenere quel governo, bisognava (a parere dello storico Varchi) lasciata la via di mezzo, o accomunare lo stato anco al minuto popolo, come nella congiura deâCiompi, o seguitando il volere degli Arrabbiati e tirannicamente procedendo, assicurarsi affatto dei capi del popolo; ma gli uomini molte volte o non fanno o non possono nè risolvere nè eseguire ciò che conoscono e quanto vorrebbero. Oltre che in una repubblica non bene ordinata, anzi corrotta, com'era allora questa di Firenze, è del tutto impossibile, o che vi surgano mai uomini buoni e valenti, o che pure insurgendovi, non siano invidiati tanto e perseguitati, che eglino o sdegnati si mutino, o cacciati si partano, o afflitti si muojano.
Scabroso e difficilissimo pertanto era il ben dirigere il timone della Repubblica fiorentina a cui presedeva allora il Capponi, uomo, cui piaceva da un lato la libertĂ , mentre dall'altro lato avrebbe voluto conciliare con la maestĂ del pontificato la fortuna della casa Medici e l'indipendenza della sua patria.
Mentre i nemici del gonfaloniere Capponi erano intenti a spiarne le pratiche e le azioni per ruinarlo nella pubblica opinione, accadde un accidente il piĂš opportuno ai loro disegni. â Siccome egli odiava i modi violenti, dopo l'ultima espulsione deâMedici, aveva posta ogni sua cura in frenare quanto poteva la rabbia dei loro nemici riammettendo aglâimpieghi gli antichi aderenti di quella odiata famiglia, e cercando di non inasprire con misure troppo caustiche Clemente VII. Teneva pure una privata corrispondenza in Roma con Jacopo Salviati familiare e parente del Pontefice. Aveva appunto il Capponi ricevuta una lettera nella quale, benchè si dicesse che il Papa amava la libertĂ di Firenze, nondimeno vi si leggevano alcune espressioni ambigue atte a generare sospetto.
Questa lettera, caduta per negligenza di tasca al gonfaloniere, fu recata a uno dei Signori (Jacopo Gherardi) nemico acerrimo del Capponi; il quale Gherardi trovando in quel foglio un corpo di delitto, chiamò tosto in palazzo i suoi amici armati, fece adunare il consiglio coi suoi colleghi, dai quali sollecitò un precipitoso giudizio, promovendo la sentenza di morte sopra il gonfaloniere. Ma se non restò vinta la proposizione del Gherardi, si vinse però il partito di deporre il Capponi dalla prima magistratura, eleggendo in sua vece per otto mesi (18 aprile 1528) Francesco Carducci di professione mercante. â Credette Niccolò ritornarsene la sera a casa, quando i Signori, di cui era proposto lâaccusatore Jacopo Gherardi, ragunatisi col nuovo gonfaloniere obbligarono il vecchio a restare in palazzo per essere esaminato intorno alla sua condotta da un giurĂŹ di 80 cittadini.
Comparve il Capponi in presenza dei suoi giudici per ben due volte, lâultima delle quali con tanta gravitĂ , moderazione e sicurezza discorse di sè medesimo e del suo operato da sventare in ogni parte lâaccusa e tutti i sospetti cavati da quella lettera; in guisa che quel giuridico consesso, maravigliato della bontĂ , della prudenza, e delle sue virtĂš cittadine, decise che dalla fatta querela fosse assoluto. Dopo di ciò il Capponi fu onorevolmente da alcuni magistrati e da molto popolo alla sua casa accompagnato.
Era di due mesi a un circa entrata la Signoria nuova in palazzo col gonfaloniere Carducci, quando sentissi il primo accordo tra il Papa e lâImperatore, pubblicato in Barcellona aâ29 giugno. Nel quale trattato, perciò che a Firenze apparteneva, era stato convenuto che lâImperatore avrebbe data per moglie Margherita sua figliuola naturale ad Alessandro deâMedici, nipote di Clemente, obbligandosi Cesare di rimettere in Firenze il prefato Alessandro, il magnifico Ippolito, giĂ creato cardinale, e di restituirli entrambi in quella grandezza, in cui erano innanzi la loro cacciata. â Al quale accordo andò dietro quello conchiuso in Cambray li 5 agosto col re di Francia; dal quale, sebbene si comprendessero dal re i suoi collegati d'Italia, lâesperienza nondimeno mostrò che essi soli non raccolsero frutto alcuno con quelle grandi paci dei due piĂš grandi monarchi dellâEuropa. Tali notizie intese dai Fiorentini, ormai accertati che la guerra doveva venire loro addosso fecero tosto diverse pratiche per riconciliarsi collâImperatore e anche col Papa; ma troncata ogni speranza di accomodamento, risolvettero correre la sorte terribile della guerra, disponendo i cittadini e la cittĂ alla piĂš vigorosa resistenza e difesa.
STATO DI FIRENZE DURANTE IL SUO ULTIMO ASSEDIO Per quanto alla storia antica, e alla moderna ancora non manchino esempj di grandissima maraviglia per lâardire, fermezza, ed eroico valore degli abitanti di alcune castella o cittĂ dimostrato nel sostenere orribili assedj; pure questo di Firenze si rese al pari di qualsiasi altro meritevole di trapassare alla memoria degli uomini; non tanto, per i sacrifizj di ogni genere, cui in quel lungo periodo i Fiorentini soggiacquero, ma per ravvisare in quella guerra le cagioni che per le mutazioni dei tempi, per la malafede degli uomini, per la debolezza dei mezzi, per i falsi o irresoluti consigli dei suoi stessi ufiziali e magistrati, nelle maggiori bisogne tutte concorsero a lasciare ad ogni modo, e contro voglia dei piĂš, cadere Firenze vinta ed afflitta ai piedi di un suo ostinatissimo nemico.
Prima che si scoprisse la corrispondenza del Capponi, per diversi altri riscontri eransi i Fiorentini accorti che Papa Clemente, sebbene colle parole dicesse il contrario, non cercava coi fatti altro intento, che o per amore o per forza il dominio di Firenze ricuperare.
Per la qual cosa, sino dal bel principio della espulsione della sua Casa, i reggitori del governo fiorentino pensarono a organizzare le 30 ordinanze, ossia battaglioni delle Leghe del contado, affidandone la condotta per due anni a due valenti uomini di guerra (Babbone da Brisighella, e Francesco deâmarchesi del Monte) con amplissima autoritĂ di poterle comandare, senza però rimuovere gli ufiziali nominati dal magistrato dei Nove della milizia, e di dovere essi stessi stare agli ordini deâcommissarj e governatori generali. Le ordinanze del distretto fiorentino affidate al comando del Brisighella erano queste 16: 1. Pescia; 2. Barga; 3. Fivizzano e Castiglion del Terziere; 4. Pietra Santa; 5. Vico Pisano ; 6. Scarperia e Barberin di Mugello; 7. Borgo S. Lorenzo, Vicchio e Dicomano; 8. Pontassieve e Cassia; 9.
Firenzuola e Piancaldoli; 10. Marradi e Palazzuolo; 11.
Castrocaro e Portico; 12. Modigliana; 13. Galeata; 14.
Val di Bagno; 15. Poppi, Castel S. Niccolò e Pratovecchio; 16. Bibbiena, Castel Focognano e Subbiano. â Le altre 14 ordinanze consegnate a Francesco del Monte furono: 1. San Miniato al Tedesco ; 2. Campiglia; 3. Pomarance; 4. Radda, Greve e Colle; 5.
San Gimignano e Poggibonsi; 6. Terra nuova, Castel Franco, Laterina, Montevarchi e il Bucine; 7. Monte San Savino, Fojano e Civitella; 8. Montepulciano; 9. Cortona ; 10. Castiglion Aretino ; 11. Arezzo; 12. Anghiari, Montedoglio e Monterchi; 13. Borgo a San Sepolcro ; 14.
Pieve San Stefano, Chiusi e Caprese.
Unâaltra provvisione di somma importanza per la pubblica sicurezza era stata vinta nei consigli prima che entrasse lâanno 1529; la quale fu mossa dalla determinazione lâanno innanzi presa, di fortificare la cittĂ di Firenze; e perchè ciò senza grave danno di molti particolari non si poteva eseguire, fu deciso che stesse ai Nove ufiziali della milizia a dichiarare la valuta di tutte le case, monasteri e altri edifizj che per tale cagione bisognasse disfare e gettare a terra; e similmente stimassero essi il valore deâcampi o altre terre, che in fortificando occorresse guastare. Le quali stime e valute dovessero finalmente esser valide quando la Signoria con tutti i collegj dentro il termine di dieci giorni le avessero approvate. Il che fatto, si dovevano i padroni di detti effetti scrivere creditori in un libro particolare del Monte comune, per riceverne glâinteressi a ragione del 5 per cento, infintanto che il Comune non avesse soddisfatto loro il valore del capitale.
Quindi per fornire i confini di gente armata, i Dieci di LibertĂ inviarono commissario di tutte le genti fiorentine ad Arezzo e Cortona Raffaello Girolami; il quale menò seco otto capitani appartenuti alle bande nere cosĂŹ dette, perchè alla morte del valoroso loro duce, Giovanni deâMedici, si monturarono tutte a lutto.
Fu autorizzato il Girolami ad assoldare 5000 fanti e quanti potesse il piĂš di quelli appartenuti alle accennate bande nere.
Lo stesso magistrato dei Dieci elesse per un anno con titolo di governatore sopra le fortificazioni e ripari della città di Firenze il sommo Michelagnolo Buonarroti, che entrò pur anche dei Nove della milizia.
Perchè poi non mancassero denari da pagare le compagnie e i capitani assoldati, furono in uno stesso giorno (6 agosto 1529) proposte e vinte tre provvisioni; la prima di esse relativa a un imprestito di 80,000 fiorini; la seconda fu per tassare un accatto a quelli che non lâavessero avuto nel 1528; e la terza per incamerare tutti i residui dei balzelli e prestanze, o qualsiasi altra imposizione passata e non saldata.
Prima che fosse eletto in ajutante del commissario di guerra ad Arezzo, aveva militato fra le bande nere il capitano Francesco di Niccolò Ferrucci, quellâuomo che da privatissimo cittadino, mentre era potestĂ di Radda (anno 1527) diede prove di valore col ritogliere armata mano la preda ai nemici e respingere i Senesi di lĂ dal Chianti; quindi, passato alla guardia di Empoli, salĂŹ a tanta virtĂš durante la guerra e assedio di Firenze, che a lui, sebbene troppo tardi, fu dal suo governo tanta autoritĂ militare accordata, quanta forse nessun altro cittadino dalle repubbliche italiane del medio evo ottenne giammai.
CosĂŹ il Ferrucci, se in vece di essere inviato a Perugia presso Malatesta Baglioni, fosse restato con le soldatesche in Arezzo, non avrebbe al certo tanto vilmente e senza preciso comando, lasciato questo posto in balia dei nemici; come fece appunto chi in appresso venne al presidio di quella stessa cittĂ .
Avvegnachè lâesercito fiorentino sotto gli ordini del commissario Anton Francesco degli Albizzi, anzichè aspettare quello del nemico comandato dal principe Filiberto dâOranges, ritirossi da Arezzo a Montevarchi e costĂ , unitosi al Malatesta che aveva abbandonato con le sue genti Perugia, si accostò a Firenze con maravigliosa sorpresa dei cittadini e dei magistrati, meno il gonfaloniere Carducci, che senza consultare la Signoria nè i Dieci della guerra aveva scritto allâAlbizzi che si ritirasse con le truppe verso Firenze per maggior difesa della cittĂ . Se poi una tal misura non mostrò nellâAlbizzi troppo timore, diede almeno a travedere una tale quale propensione verso il partito dei Medici, come alcuni non senza ragione dubitarono, rammentandosi che era quel medesimo Albizzi che aveva cavato di palazzo il gonfaloniere Soderini. Comunque sia quella strategica fu sĂŹ mal concepita e di sĂŹ gran danno nei resultamenti, che potè, se non accagionare, almeno sollecitare la rovina e caduta della cittĂ .
In tanta confusione di cose quei medesimi Tedeschi, Spagnoli e Italiani, che con tanta rapacitĂ , libidine e barbarie avevano due anni innanzi stuprata e saccheggiata Roma, arrivarono alla vista di Firenze, prima che eglino sel pensassero.
â Nondimeno i governanti della Repubblica furono solleciti a mettere in armi tutta la gioventĂš di Firenze, la quale memore delle glorie passate mostrossi ardente nel difendere la patria, e ognor pronta a obbedire ai comandamenti e ai capitani che fossero per esserle assegnati.
Fu deposto, e poco meno che vicino a perdere la testa, il commissario Albizzi, rimpiazzato da Raffaello Girolami e da Zanobi Bartolini, nominati entrambi con ampia balĂŹa commissarj di guerra di tutto lâesercito fiorentino.
Era questo formato da circa 8000 soldati forestieri e di 3000 urbani distribuiti come appresso. Col titolo di governatore generale ebbe il primo grado nel comando della guarnigione Malatesta Baglioni,quello stesso che con poco buon preludio aveva aperta la campagna ritirandosi da Perugia. Ebbe il secondo grado Stefano Colonna eletto in capitano sopra tutte le ordinanze civili dei Quartieri della cittĂ e del bastione di San Miniato. Le truppe sparse nel territorio per guardare le terre e cittĂ murate, come Prato, Pistoja, Empoli, Volterra, Pisa, Colle e Montepulciano, ascendevano a circa 7000 fanti con 600 cavalli. La spesa poi di questâesercito montava intorno 70,000 ducati il mese. Cosa maravigliosa a dirsi, se si ha riguardo alla durata di quellâassedio; se si considera, che in quel periodo furono a Firenze serrati tutti gli esercizj, sospeso ogni commercio e lavorio, fuorchè di vivere tutti armati, e intenti giorno e notte in militari ronde e scaramucce.
Nel dĂŹ 24 ottobre del 1529 il generale deânemici postò le sue genti sulle colline di Montici e di Arcetri, nel pian di Giullari, alla torre del Gallo e a Giramonte. Da cotestâultimo punto piĂš prossimo alle mura della cittĂ fece battere inutilmente con 150 colpi di cannone il campanile di San Miniato al Monte, fasciato per consiglio del Buonarroti di coltroni, e sopra il quale era stato collocato un pezzo di artiglieria che danneggiava, senza ricever danno, il campo nemico. Si facevano ogni tanto, ora di notte e ora di giorno, delle sortite dalle bande guidate da Prospero Colonna loro generale, ad onta che molte volte fossero impedite dal troppo cauto comandante supremo Baglioni. Da un altro lato tosto che lâesercito imperiale si avvicinò a Firenze, i Senesi cominciarono a correre e rubare nel territorio fiorentino al loro limitrofo, cacciando armata mano i Ricasoli di Brolio, dove misero fuoco, e mandando gente ad assalire Montepulciano, con tutto che non riescisse per allora dâaverlo . â Aggiungasi che i popoli delle cittĂ e principali terre del distretto fiorentino, come Arezzo, Pistoja, Volterra e San Miniato, non potendo tollerare di vedersi soggetti a guisa di schiavi ad un governo di nome libero, appena potè porgersi loro il destro, sollevaronsi contro i Fiorentini, tenuti da essi anche piĂš nemici dellâesercito invasore. E quasi che ciò non bastasse a congiurare ai danni di Firenze, vi furono molti dei suoi piĂš influenti e ricchi cittadini, i quali appena che videro arrivata sulle colline alla sinistra dellâArno unâarmata imperiale per stringere dâassedio Firenze, nel loro animo gioirono. Avvegnachè, se in apparenza mostravano di amare la patria,in realtĂ essi altro non ambivano che di assicurarsi uno stato, per cui piĂš spesse ai Medici anzichè alla Repubblica, parvero affezionati.
Per le quali ultime ragioni entrato che fu il gonfaloniere di giustizia col gennajo del 1530 Raffaello Girolami (quello fra i 4 ambasciatori inviati a Carlo V, che ritornò solo in patria), si diè bando di ribelli a 28 emigrati delle famiglie primarie di Firenze: fra i quali Jacopo Salviati, Pier Francesco Ridolfi, lo storico Francesco Guicciardini, Alessandro Corsini ec.
A Baccio Valori châera commissario per il Pontefice nel campo nemico, oltre la taglia di mille fiorini dâoro a chi lo dasse vivo come traditore della patria, fu sfregiata e sdrucita una lista della casa sua da capo a piè, secondo una legge antica. Nè potè passare senza traccia di traditore, e pagarne la pena, Lorenzo Suderini, che ragguagliava Baccio Valori nel campo nemico di ciò che di piĂš importante accadeva in Firenze.
La severitĂ dellâenunciato bando fu cagione che molti ritornassero in patria, e tra questi Michelangnolo Buonarroti; il quale poco innanzi con Rinaldo Corsini e Antonio Mini suo creato se nâera uscito di Firenze. La cagione si fu per avere egli, come uomo zelante della salute della sua patria, inutilmente avvertito il gonfaloniere Carducci dal quale fu mal accolto, quando lo prevenne a stare in guardia del Malatesta Baglioni, avendo inteso dire dal suo amico Mario Orsini (uno deâcomandanti dellâesercito fiorentino che lasciò la vita in quellâassedio) che era da temersi fortemente (siccome i fatti ogni giorno piĂš lo confermarono) che Malatesta dovesse far tradimento.
Lâesercito dellâOrange si distese dintorno alle colline sopra Firenze in guisa da circondare con un semicerchio tutta quella parte della cittĂ situata alla sinistra dellâArno, mentre dal lato destro verso il poggio di Fiesole e dalla parte verso il piano di Sesto e di Campi le comunicazioni si mantennero libere sino a che non calarono dallâAppennino di Bologna 8000 Tedeschi mandati dallâImperatore; di modo che non meno di 34000 combattenti congiuravano nel tempo stesso alla rovina di Firenze e del suo stato. â Con tutto ciò le mura delle cittĂ conservavansi tuttora illese, nè i Fiorentini tralasciavano di mostrare ad ogni uopo prontezza, coraggio ed anche valentia nel combattere contro lâesercito il piĂš agguerrito di Europa.
Nè mancavano a tener vivo il coraggio degli assediati, oltre lâamore della libertĂ e la difesa delle cose piĂš care, la prediche di alcuni fervorosi frati Domenicani (fra Benedetto da Fojano e fra Zaccharia da Fivizzano) i quali, a imitazione del loro correligioso fra Girolamo Savoranola, vaticinavano vittoria e felicitĂ per le piazze, per le chiese e persino nel gran salone del palazzo del popolo.
A siffatte prediche tenevano dietro precessioni analoghe per riscaldare sempre piĂš lâanimo deâFiorentini; i quali non contenti di tenersi sulle difese domandavano spesse volte ai loro capi di essere condotti fuori delle mura a combattere gli assedianti. â Fra le diverse azioni, due massimamente meritano di essere qui rammentate; la prima accaduta nella notte piovosissima del 10 novembre 1539, quando il principe di Orange, pensando di ricevere meno offesa dallâartiglierie, o di trovare i Fiorentini, per cagione della festa di S. Martino, sepolti nel sonno e nel vino, con 400 scale, stategli fornite con molti altri arnesi di guerra dai Senesi, sâaccostò a un tempo stesso con tutte le sue genti alle mura e ai bastioni della cittĂ dalla parte dâOltrarno, cioè dalla porta S.Niccolò sino a quella di S.
Frediano. Ma oltre che gli assalitori trovarono le sentinelle e le guardie vigilanti, la milizia nazionale e tutto il popolo sorse allâarme in un attimo; sicchè alle quattro ore di notte era corsa tanta gente armata in tutte le vie conducenti alle porte di Oltrarno, che dalla calca non si poteva passar piĂš oltre. Fu in quella stessa notte veduto un veccho condurre seco per mano un suo figliolino, il quale dallo storico Varchi interrogato, cosa egli far volesse di quel fanciullo, rispose: voglio châegli scampi o muora insieme con meco per la libertĂ della patria.
Lâaltro fatto che fa onore alle milizie fiorentine, fu quando esse impazienti di assalire il nemico si presentarono ai comandanti prontissime ad investirlo nei suoi stessi accampamenti. La qual cosa, essendo contraria ai voti e alle intenzioni di Malatesta Baglioni, cui poco innanzi a nome della repubblica il gonfaloniere Raffaello Girolami aveva consegnato il bastone del comando generale, fu da lui quasi a inganno consentita; giacchè inviò le milizie fiorentine al primo assalto contro la prode fanteria Spagnola, forte non tanto per il sito in cui era postata, quanto per essere la truppa piĂš valorosa di ogni altra; talchè dava minore speranza di essere vinta,e maggior motivo al Baglioni di screditare il suo emulo Stefano Colonna, onesto quanto valoroso comandante di quelle gurdie nazionali. Ordinò dunque il Malatesta, che la mattina del 5 di maggio 1530 dovessero, divise in tre colonne, escir fuora a unâora medesima da tre lati, cioè dalla porta S. Frediano, dalla porta di S. Pier Gattolini, e da quella di S. Giorgio sulla Costa; e ciò dopo avere data istruzione ai comandanti, che investissero a prima giunta e sâimpossessassero del poggio di Colombaja, dove fu il convento di S. Donato a Scopeto, fra la collina di San Gaggio e quella di Bellosguardo.
Il poggio era fortificato e guardato da un reggimento di veterani Spagnoli e da un coraggioso loro colonnello, Baracone da Nava, che vi restò morto dopo un sanguinoso assalto: nel quale assalto le milizie diedero prove non dubbie di coraggio e di destrezza. Nel tempo che da questo lato i Fiorentini attaccavano con intrepidezza gli Spagnoli, unâaltra colonna escita per la porta S. Frediano assaliva i nemici alle spalle, combattendo aspramente contro quelli che guardavano i poggi di MontâOliveto e di Bellosguardo sino a Marignolle. Dondechè lâOrange veggendo tanta gente fuora, e dubitando che volesse assaltare tutto il campo, comandò ai Tedeschi postati alla destra del fiume di mettersi in ordinanza per accorrere in rinforzo agli Spagnoli combattenti nellâopposto lato. La terza colonna, che doveva escire dai bastioni di S. Miniato e dalla porta S. Giorgio, per cooperare di concerto con lâaltre due, non si mosse dai suoi quartieri, avendo in quella mattina medesima perduto il suo capitano, Amico da Venafro, stato ucciso da Stefano Colonna adontato da una di lui ardita e insubordinata risposta. Vacillarono pertanto in quella zuffa le valorose fanterie Spagnole, che furono presso ad esser rotte, se non venivano rinforzate da nuove compagnie; dondechè essendo i nemici superiori di numero, di posizione e di disciplina, convenne alle truppe fiorentine ritirarsi con buon ordine dalle suburbane colline, dopo aver combattuto con sommo valore e bilanciato lâesito di quella giornata, che poteva convertirsi in una gloriosa vittoria, se in quella avesse agito la terza colonna.
Fra i distinti fiorentini che restarono morti in quella sanguinosa fazione fuvvi Piero di Leopoldo deâPazzi capitano del gonfalone della Vipera, e mess. Lodovico di Niccolò Machiavelli châera il porta insegne del capitano Michelagnolo da Parrano.
Ai 16 di maggio, fatta la rassegna generale delle milizie urbane, quelle dai 18 infino a 40 anni si trovarono essere intorno a 3000, e 2000 l'altre da 40 a 55 anni. Fu poi cantata una solenne messa sulla piazza di S. Giovanni, presente la Signoria, i Dieci di LibertĂ e il generale con tutte le bande civiche, alle quali si fece prestare giuramento (toccando ciascuno il libro aperto deâvangeli), che non abbandonerebbe mai l'un l'altro, e finchè avesse spirito ciascuno difenderebbe la libertĂ della patria.
Per cavare denari in tutti quei modi che i Fiorentini potevano,fu fatto un lotto di beni dei ribelli, al quale si metteva un ducato per polizza; e cominciata ai 17 maggio nei modi soliti la pubblica estrazione, se ne cavarono 6600 fiorini dâoro.
Nello stesso mese, dopo essere stata messa a partito undici volte, fu vinta una legge, mediante la quale si raccolsono tutti gli argenti e gli ori non coniati dalle varie classi di abitanti di Firenze, eccetto dai cittadini che allora militavano, e medesimamente furono raccattati gli ori e gli argenti delle chiese, lasciati solamente i necessarj al culto divino, non escluse le gioje d'intorno alla reliquia della S. Croce, e quelle della mitra che Leone X donò al capitolo della cattedrale. Quindi fatte le stime, e accreditatine i respettivi padroni, si mandarono in zecca, e furono coniati per sino a 53000 ducati di una nuova moneta d'argento, alla quale era unito un poco dâoro, del peso di denari 13 e grammi 7 l'una, spendendosi ciascuna di esse per un mezzo ducato (lire 3,10). Coteste monete da una parte avevano il giglio con le parole intorno Senatus Populusque Florentinus; nel rovescio la croce con una corona di spine, e nel contorno Jesus Rex noster et Deus noster.
Nel tempo medesimo che intorno a Firenze ogni giorno bagnava il terreno di sangue per le frequenti scaramucce, nacque un caso che tenne la guarnigione, la cittĂ e i nemici di fuori intenti a un duello, insorto per cagione di amore di donna piĂš che di patria. Furono due nobili fiorentini, Lodovico Martelli che militava a favore della cittĂ , e Giovanni Bandini ribelle nel campo nemico. I quali, dopo essersi con cartello sfidati, chiesero di avere ciascuno un compagno, pure nobile e cittadino, nel duellare. Il Martelli si elesse Dante da Castiglione, ed il Bandini Bertino Aldobrandi. Uscirono i due cavalieri di Firenze con licenza del Malatesta e dell'Orange nelle designate arene in due chiusi steccati, e in presenza dei due eserciti sul poggio deâBaroncelli, ora il Poggio Imperiale. Vennesi al fatto, e nel duello del Martelli contro il Bandini restò Lodovico ferito a morte, mentre nell'altro agone si combattè con diversa fortuna, perchè l'Aldobrandi aveva date cinque ferite a Dante, che stava quasi sulle difese, quando questi menò la spada con tanto impeto contro l'avversario, che lo fece di subito morire; e comecchè dallâuna e dall'altra parte fosse eguale la perdita e la vittoria, ciò nondimeno si rispose a gara dalla cittĂ e dal campo con lo sparo delle artiglierie.
Quanto il pericolo si faceva piĂš grande, tanto piĂš cresceva l'odio contro i traditori. Per la qual cosa furono condannati a morte Jacopo Corsi e il di lui figlio Giovanni accusati di avere tenuto trattato di consegnare al nemico Pisa, châera stata alla loro custodia dalla Repubblica affidata. SubĂŹ la stessa sorte un frate Francescano convinto di aver avuto in mira d'inchiodare le artiglierie; e fu impiccato Lorenzo Soderini, giĂ commissario di guerra a Prato, perchè ragguagliava, come si disse, il nemico di quanto accadeva giornalmente in Firenze.
FarĂ ribrezzo a taluni il sentire che si condannassero alla pena della testa perfino coloro che pronunziavano parole in qualche guisa favorevoli agli antenati degli espulsi Medici, non eccettuato Cosimo il padre della patria e Lorenzo il magnifico. â Reca perciò maraviglia, che in mezzo a tanta sorveglianza contro i cittadini sospetti di tradimento, e fra cotanti pericoli, il governo non rivolgesse una maggiore attenzione verso il generale Malatesta Baglioni, giĂ reso sospetto dalle cose dette da Michelagnolo al gonfaloniere Carducci, e dalle stesse di lui operazioni, senza contare la segreta corrspondenza che egli teneva con il generale nemico e, indirettamente, con papa Clemente: siccome lo provarono poi la cedola trovata in petto dell'Orange, quando fu spogliato il suo corpo in campo di battaglia, e le lettere fatte di pubblico diritto dal Lunig.
In mezzo però a tanti traditori risaltava piĂš splendida la fede e il valore di un sol cittadino che rese lungamente incerto l'esito di sĂŹ potenti e ostinati nemici fino alla battaglia di Gavinana. Mancò allora a Firenze unâaltrâuomo come Francesco Ferrucci a comandere l'esercito durante l'assedio della cittĂ , sicchè la sua virtĂš potesse stancare, e forse anche obbligasse l'esercito nemico a sloggiare di lĂ ; e cosĂŹ rimettere ad altro tempo la conquista e la schiavitĂš di Firenze da Clemente VII ardentemente desiderata.
Fu Ferrucci il solo piloto che mostrasse piĂš capacitĂ e maggior coraggio in mezzo a sĂŹ procellosa tempesta. Da Empoli, dove fu inviato col titolo di commissario di guerra per guardare (ERRATA: tutto il Val dâArno) tutto il piano del Val dâArno inferiore e sovvenire di vettovaglie lâassediata cittĂ , terribile quanto il fulmine egli accorreva, ora a San Miniato scalando le sue mura per cacciarne i nemici, ora con unâardita marcia compariva a Volterra che alla Repubblica si era ribellata, e costĂ , vinti i sollevati, batteva Spagnoli e Italiani accorsi per riavere la cittĂ . â Dopo tal gloriosa azione, il Ferrucci fu con decreto della Signoria innalzato a un grado quasi dittatorio, che lo dichiarò commissario generale degli eserciti della Repubblica. Fu allora che quel prode meditò di eseguire la piĂš ardita impresa che abbia mai tentato fra moltissimi ostacoli e con pochissimi mezzi qualsiasi generale, deciso di perire o di liberare dalla fame e dallâassedio la sua patria. Fatte le necessarie disposizioni per la conservazione e difesa di Volterra, il Ferrucci in tre marcie lungo la Cecina, pel littorale di Rosignan, Val di Fine e Val di Tora si condusse a Pisa con circa 1500 fanti, oltre alcune lance e pochi soldati di cavalleria. Giunto costĂ si ammalò di febbre, per cui fu obbligato a trattenersi 13 giorni; dove accozzatosi con Gianpaolo Orsini e con Bernardo Strozzi, commissarj di guerra in quella cittĂ , si occupò nei preparativi della sua impresa.
Frattanto egli visitò le due cittadelle, prese seco per istatichi coloro, i quali dubitava piĂš capaci di muovere tumulto; riunĂŹ insieme sotto 25 bandiere un esercito di circa 3000 pedoni, e di 600 cavalli; fece preparare un buon numero di trombe artifiziate (quasi gli antichi razzi alla Congreve) che gettavano fuoco lavorato, per distribuirle a ciascuna compagnia, provvidesi di pezzi da campagna, di una buona quantitĂ di scale, di varie qualitĂ di ferramenti di molta munizione da guerra, e delle necessarie vettovaglie, fra le quali una buona dose di biscotto. Appena sentissi libero dalla febbre il Ferrucci, nella notte che precedè il dĂŹ primo agosto, uscĂŹ con il suo esercito di Pisa per la porta di Lucca, il cui territorio attraversò per incamminarsi in Val di Nievole; ma il capitano Maramaldo coâsuoi Calebresi, seguitando dâappresso lâesesrcito del Ferrucci, aveva giĂ barricato il passaggio sulla Pescia minore al ponte di Squarciaboccone; per la qual cosa Ferrucci dovè rivolgere la marcia a settentrione, rimontando la Valle Ariana; talchè la sera arrivò a Medicina castello deâLucchesi, dove pernottò.
La mattina del 2 Agosto, partito a buonissimâora, mostrava di voler condurre lâesercito per la volta dei poggi fra Prato e Pistoja al Montale, per cui fece sembiante di prendere la strada che mena a Pistoja; ma poco stante volse il cammino piĂš in alto verso le sorgenti della Pescia maggiore, sino al castello di Calamecca, dove si fermò la seconda notte. La mattina del 3 agosto, che fu lâultimo giorno della vita del Ferrucci, giunto che fu sulla cresta della montagna, ingannato dalle guide inviate dai Cancellieri, che volevano punire i loro privati nemici, trovossi invece a San Marcello. Il quale castello tenendo dalla parte deâPanciatichi, seguaci dei Medici, fu crudelissimamente arso e quasi disfatto.
Questa marcia del Ferrucci non fu ignota al principe dâOrange, come quello che veniva informato di tutto dal generale deâFiorentini Malatesta Baglioni, il quale aveva promesso di non combattere gli alloggiamenti durante la sua assenza. Arrivato il principe con circa 8000 soldati tra Pistoja e Gavinana, ebbe avviso, come il Ferrucci era con le sue genti comparso a San Marcello; per lo che dopo aver rinfrescato lâesercito, si avviò in fretta verso la terra di Gavinana per essere il primo ad occuparla, mentre il commissario fiorentino con lâistessa mira movendosi in ordinanza da San Marcello, presentossi davanti a quel paese quasi contemporaneamente al capitano nemico Fabbrizio Maramaldo, nel mentre che questi dallâopposta banda per la rottura di un muro stava per entrarvi.
Non dirò le prove di valore che con sproporzionato numero di forze fecero i soldati fiorentini condotti a quel cimento.
Ă nota la buona fortuna che essi ebbero al principio della battaglia, avendo visto cadere estinto lâOrange generale dei nemici; ma ciò non fu che un passeggero segnale di vittoria contrastata da una battaglia sanguinosissima; nella quale i Tedeschi, facendo barriera a chi fuggiva, rinfrescavano con nuove genti il combattimento dentro e fuori di Gavinana.
Benchè il Ferrucci e lâOrsini avessero formata tutta una fila di ufiziali e sostenessero gagliardamente lâimpeto Austro-Ispano-Papale, scagliandosi dovunque vedevano il bisogno maggiore, e incoraggiando i soldati, che al combattimento lasciavansi infilzare dalle picche, o trapassare daglâarchibusi piuttosto che ritirarsi un passo a dietro; pur nòn ostante tanto ardire, quel prode Fiesolano vedendo la piazza di Gavinana ricoperta di cadaveri correre sangue da ogni parte, nè potendo molto adoprare le trombe da fuoco per le grandi piogge in quel dĂŹ cadute, dopo essere rimasti esangui nel campo circa 2500 combattenti, il Ferrucci con i suoi ajutanti trovossi fatto prigione. Ma un sĂŹ bel trionfo non bastava al Maramaldo, il quale contro il diritto delle genti, per vendicarsi dellâonta ricevuta a Volterra, dopo averlo fatto disarmare, trapassò al Ferrucci la gola, togliendo barbaramente di vita il piĂš ardito e valoroso capitano di quellâetĂ , colui che perfino morendo bravava il suo nemico col dirgli: che egli ammazzava un uomo oramai morto.
Allorchè giunse a Firenze il fatale avviso dellâesito di quella giornata, la cittĂ fu piena di spavento e di dolore.
Ad onta però di tanta sventura, il governo resisteva ancora, e ricusava ad ogni modo di aderire alla condizione costantemente richiesta dagli agenti Cesareo-Papali, quella cioè di rimettere i Medici in patria.
CosĂŹ il popolo anzichè capitolare chiedeva di esser condotto a battersi contro gli assedianti prima che fosse di ritorno lâesercito vittorioso dalla montagna di Pistoja. Ma il Baglioni, il quale aveva, come si disse, assicurato lâOrange, che di Firenze non uscirebbe alcuno a nojare il campo durante lâassenza di lui e delle truppe imperiali, ostinatamente si oppose a tale istanza sino al punto di minacciare, che avrebbe lasciato il comando piuttosto che con unâoperazione intempestiva procurare la certa rovina e il sacco della cittĂ .
Quando però la dimissione del Malatesta fu dal governo accettata, vedutosi il perfido deluso, poco mancò che non pugnalasse il commissario Andreolo Niccolini nellâatto che questo gli presentava il congedo. Si sparse per Firenze lâallarme a cagione di un simile attentato; per cui il gonfaloniere Raffaello Girolami mosso a sdegno, risolvè di mettersi alla testa del popolo per andare a combattere, e a viva forza cacciare dalla cittĂ il Baglioni oramai scoperto traditore e nemico. Ma questi aveva giĂ fatto occupare dalla fanteria perugina la porta S. Pier Gattolini, e sbarrate le vie di lĂ dâArno con parecchi pezzi di moschetti piantati sui capistrade.
Firenze era ormai perduta, e alcuna forza umana non poteva a quellâora salvarla dai traditori di dentro e dalle masnade che da lungo tempo la tenevano assediata, avide di aver presto a saziare con le cose piĂš preziose dei Fiorentini la loro inesauribile libidine e aviditĂ .
Cosicchè dopo tanto sangue sparso in undici mesi di assedio, dopo infinite agitazioni intestine, dopo tante privazioni sofferte, di fame, di peste, e di stenti, dopo avere nel periodo di soli tre anni (dallâagosto del 1527 allâagosto del 1530) a forza di contribuzioni straordinarie forniti per le spese di guerra 1,416500 fiorini dâoro, dopo tuttociò Firenze finalmente dovè abbassare la fronte ai suoi interni ed esterni nemici.
Fu in mezzo a tante desolazioni che la Signoria risolvè di inviare, la mattina del 10 agosto, quattro ambasciatori a don Ferrante Gonzaga, luogotenente generale nel campo nemico, per chiedere una capitolazione.
Le trattative furono aperte nella casa dove risedeva Baccio Valori incaricato del papa Clemente, nel poggio di S. Margherita a Montici, alla presenza di Ferrante a nome di Cesare e di Baccio Valori per conto del Pontefice da una, e dallâaltra parte, Bardo Altoviti, Jacopo Morelli, Lorenzo di Filippo Strozzi, e Pier Francesco Portinari, rappresentanti della Repubblica fiorentina. Il giorno appresso vennero i capitoli approvati dai Signori, dai collegj e dal consiglio degli 80 . â Sono troppo note le condizioni di quellâaccordo per non averle qui a riportare; nè giova tampoco rammentare esser stata posta per base della capitolazione: che qualunque fosse la forma del governo da stabilirsi in Firenze da S. M. I. dentro il termine di 4 mesi, sâintendeva sempre che la libertĂ sarebbesi conservata, e tutte le azioni passate tanto pel pubblico che pei privati perdonate e poste in oblĂŹo.
Avvegnachè di tutti i dieci capitoli, non solo non ne fu osservato alcuno, ma di ciascuno di essi fu fatto presso che il contrario.
In quel giorno (20 agosto) in cui Baccio Valori da 4 compagnie di soldati Corsi aveva fatto occupare il palazzo della Signoria, e tutti i capistrade che rimettono nella piazza, in quel giorno stesso al suono del campanone di palazzo fecesi chiamare il popolo a parlamento, perchè si rappresentasse in ringhiera lâultima farsa repubblicana dai Signori. Per ordine dei quali ad alta voce il cancelliere delle Tratte per tre volte allâudienza domandò: se piaceva al popolo si creassero 12 persone che avessero tanta autoritĂ e balia essi soli quanta soleva averne il popolo fiorentino tutto insieme? Fu risposto da quella gente di sĂŹ, col gridare palle, palle, Medici, Medici.
Tra le prime deliberazioni prese dai Dodici riformatori (dei quali fece parte lo stesso Baccio Valori) fu quella di togliere il potere esecutivo alla Signoria, di levare di mezzo i Dieci di LibertĂ , e di cassare gli Otto di Pratica, col crearne deânuovi. Nè gran tempo trascorse, dacchè le promesse recentemente giurate furono scancellate col sangue di molti cittadini giustiziati, con le deportazioni, le confische, le prigioni, ed altre simili atrocitĂ atte ad incutere, piuttosto che amore, paura e terrore al popolo, per dovere meglio accogliere il nuovo principe Alessandro, nipote di Clemente VII, che era per arrivare a Firenze con la bolla di Carlo V e col titolo di Signore della Repubblica fiorentina.
STATO DI FIRENZE DURANTE LA DINASTIA MEDICEA ALESSANDRO I DUCA Speravasi che si avessero a estinguere in Firenze le fazioni, spegnere le ire e distruggere i sospetti con la morte, con le carceri e con lâesportazione deâpiĂš ardenti repubblicani; e ciò tanto piĂš, quanto che molti lusingavansi di un quieto vivere sotto il dominio di quella casa, la quale, potevasi dire, che ormai da un secolo teneva in mano il governo della Repubblica fiorentina.
Con uu sĂŹ fatto apparecchio cominciò lâanno 1531, quando nel mese di aprile si videro appiccare sopra la porta del palazzo deâSignori le armi del Papa, onde incominciare a dare alcun segno, come le cose per lâavvenire avessero a procedere; e poco stette a sentirsi la notizia, che Alessandro deâMedici, giĂ fidanzato di Margherite dâAustria, incamminavasi verso la Toscana.
Giunto con un numeroso seguito a Prato, nel di 5 di luglio, e, secondo l'Ammirato, nel giorno medesimo anniversario della cacciata del duca d'Atene, fece il duca novello la sua entratura in Firenze per la porta a Faenza, incontrato da un drappello di giovani, complimentato dagli ambasciatori esteri e nazionali, corteggiato dalla nobiltĂ e dal popolo accompagnato alla chiesa della Nunziata, e quindi al suo palazzo in Via larga. â La mattina seguente il duca in compagnia del ministro di Carlo V, del nunzio di Clemente VII, e in mezzo a un gran codazzo di cittadini andò al palazzo dei Signori, i quali, preceduti dal gonfaloniere Benedetto Buondelmonti, andarono incontro al principe sino alla scala.
Tosto che il Duca arrivò nel salone messosi in una specie di residenza, il ministro imperiale (châera alla destra del principe) fece leggere la bolla di Carlo V, in vigore della quale Cesare ordinava, che lâillustre famiglia deâMedici, e conseguentemente il signor Alessandro deâMedici duca di Civita di Penna suo dilettissimo genero, dovesse essere ricevuto e accettato nella patria con tutta la sua casa con quella stessa autoritĂ e maggioranza, la quale vi avevano i Medici innanzi che cacciati ne fossero; e che riformandosi lo Stato, e creandosi i magistrati come innanzi al 1527, il duca Alessandro fosse capo e proposto di tal reggimento in tutti gli ufizj,nel modo ch'era stato deliberato per legge manicipale nel dĂŹ 17del mese di febbrajo prossimo passato; e che in tale supremazia si conservasse, finchè durava la vita sua; cosĂŹ dopo la sua morte succedessero nel potere i suoi legittimi figliuoli ed eredi. Venendo poi a mancare la linea di Alessandro, in tal caso S. M. I. ordina e vuole, che nello stesso dominio succeda il piĂš propinquo di detta casa deâMedici della linea di Cosimo il vecchio o di Lorenzo di lui fratello.
Fatta una tale cerimonia, il gonfaloniere, e dopo lui i priori ed i maggiori magistrati ivi presenti, con segni e con parole di umiltĂ e di riverenza, mostrarono di sottoporsi mansueti al volere di Cesare, che ordinava sotto l'imperio de'Medici lâagitata loro patria tornasse a riposarsi.
Parendo dunque che in tal modo fosse ogni cosa acquietata, fu stimato che, come non piÚ necessarie, le armi di ogni sorta fossero dai cittadini fedelmente consegnate. Per conseguenza vennero soppressi i 16 gonfalonieri delle compagnie; fu dato un altro scopo al temuto magistrato dei Capitani di Parte, convertendolo nei Nove ufiziali sopra i bastioni, ponti e strade; fu tolta via la sicurtà che si faceva ai magistrati di non poter esser convenuti davanti ai tribnnali come le persone private; nè molto in là andò, che si volle anche scancellare l'ultima immagine della Repubblica col togliere di mezzo la Signoria. Ciò avvenne nell'aprile del 1532 sotto Gio.
Francesco deâNobili, ultimo Gonfaloniere di giustizia, dopo una serie di 1372 che per il corso di 240 anni avevano tenuto nel Palazzo vecchio il gonfalone della Repubblica fiorentina.
Da quel momento, a tutto rigore, dovrebbe annoverarsi l'epoca del principato del duca Alessandro, quando cioè la Signoria fu autorizzata ad eleggere una commissione di 12 cittadini, oltre il gonfaloniere ultimo, con piena potestĂ di riformare l'amministrazione governativa dello Stato. â La piĂš sollecita operazione fu quella di nominare 48 senatori a vita, per destinarli consiglieri e coadiutori del supremo capo e signore della Repubblica. Fu quindi ringraziata per sempre e licenziata di palazzo la Signoria; dopo che essa era uscita nel dĂŹ 1° maggio con solennitĂ a prendere il duca Alessandro per condurlo nella residenza dei confalonieri di giustizia, come spettavasi a chi era divenuto di Firenze assoluto padrone. Infine per abolire ogni vestigio di libertĂ , fu distrutto il campanone che chiamava il popolo a parlamento.
Il senato, o sia il consiglio deâ48, per poter squittinare gli ufizj e spedire le petizioni private, si aggregò un consiglio di 200 cittadini, che dal numero chiamossi deâ200, e da questo prese nome il salone del palazzo vecchio, dove soleva giĂ riunirsi il gran consiglio del popolo.
Fu dato ordine che ogni tre mesi dei 48 senatori si traessero quattro per formare un magistrato che fu chiamato dei Consiglieri. A uno di essi si diede il titolo di luogotente del Duca, il quale doveva in qualche modo rappresentare l'estinta Signoria e decidere molte cause importanti a quella magistratura riserbate. Dai 48, previa l'approvazione del Duca,si deliberavano le leggi, si vincevano le provvisioni, si proponevano le imposizioni; ed era necessario che in tutti i magistrati della cittĂ presedesse alcuno di quei senatori.
Data e stabilita questa nuova forma di governo, con dispaccio del 12 maggio 1532 ne fu reso partecipe l'Imperatore in termini a un dipresso del tenore seguente: "I Dodici riformatori della Repubblica fiorentina si fanno un dovere di partecipare a S.M.I. la riforma stabilita nel governo della cittĂ , essendo stato cassato il magistrato deâpriori, nel quale avendo potuto per l'addietro aspirare qualunque del popolo, erasi ridotto una sorgente feconda di sedizioni e di tumulti; che perciò hanno trasferita tutta l'autoritĂ della Signoria in 4 consiglieri da scersi fra la nobiltĂ e il fiore della cittadinanza; cosicchè a questo nuovo magistrato, alla cittĂ , e a tutta la repubblica, i Dodici riformatori avevano costituito per capo e signore il Duca Alessandro deâMedici genero della MaestĂ sua, nel quale, e in tutti i suoi successori legittimi essi dichiaravano transfusa tutta la dignitĂ e autoritĂ della Repubblica fiorentina." (Riformagioni di Firenze.) Ad oggetto di guadagnar la plebe ad assopirla nei divertimenti, il duca Alessandro, a imitazione del duca di Atene, ripristinò i Saturnali fiorentini, volgarmente appellati Potenze, significato che davasi a diverse brigate di persone del popolo; le quali univansi sotto un capo col titolo e con la veste di duca, di signore, di marchese, di monarca, dâimperatore, di re, o di gransignore. Ciascuna Potenza aveva bandiera e insegna sua propria, e soleva cominciare i suoi spettacoli dal primo di maggio sino a tutta estate, festeggiando per la cittĂ , e gareggiando l'una con l'altra per lusso, per invenzione e per brio, talchè spesso terminavasi in risse civili, in battaglie cruenti di sassate, in crapole scandalose e in altri tumulti popolari. Ă memorabile l'iscrizione lapidaria esistente nella facciata della chiesa di S. Lucia sul Prato, come quella che rammenta uno di quei campioni: Imperator Ego vici praeliando lapidibus. Anno MDXXXXIV.
In apparenza il popolo mostrava di essersi quasi scordato delle vecchie sofferenze e sventure; e i cittadini non spatriati, attendendo a coltivare e a murare, pareva che ne dassero una specie di conferma. Era tra questi Filippo Strozzi, il quale comprava case per gittarle a terra, onde avere piazza davanti al suo palazzo; e tutti coloro che avevano sporti alle case di via larga, per far il piacere del duca e accrescere bellezza a quella via, li fecero in pochi mesi levare.Nell'anno medesimo che ciò si operava (1534) per dare maggiore luce e rendere piÚ salubri le abitazioni private, fu accresciuto ornamento alla piazza de'Signori, ora del Gran Duca, collocandosi davanti alla porta del palazzo ducale e allato al Davidde del Buonarroti il gruppo di Ercole e Cacco, scolpito da Baccio Bandinelli.
Ma questa non era che apparenza di felicità ; avvegnachè le famiglie piÚ potenti e piÚ ricche, i grandi capitalisti, i maestri delle arti maggiori per dispetto, per timore, o per livore si erano allontanati da Firenze; dove in sostanza vivevasi di malavoglia nell'universale, sia per al novità del governo, sia per vedersi in certo modo degradati, sÏ ancora per la violenza sua, come pure per i cattivi portamenti della famiglia del Duca, e dei soldati che erano alla sua guardia. Al che si aggiungeva pure, che lo stesso duca Alessandro in verso le donne, di qualunque condizione o stato elleno fossero, mostravasi disonestissimo.
Per assicurar sempre piĂš il suo potere, Alessandro aveva posta mano a erigere in un angolo della cittĂ verso maestro, presso la porta Faenza e il torrente Mugnone, una fortezza spaziosa e forte; convinto esso, e piĂš di lui papa Clemente, di non potere contare dentro Firenze su di un migliore e sicuro appoggio, quale fora senza dubbio quello che posseggono i buoni principi nell'amore dei loro sudditi. Per dar luogo al nuovo castello, che perse il titolo di S. Gio. Battista dal monastero di donne Vallombrosane ivi presso levato, dovettero demolirsi, fra le altre fabbriche, l'antica villa di S. Antonio degli arcivescovi di Firenze, e il contiguo borgo di porta Faenza. FornĂŹ denari per tale impresa il ricco Filippo Strozzi, quello stesso a cui quattro anni dopo la fortezza di S. Gio. Battista servĂŹ di carcere e di tomba.
Vivevasi in cotesta guisa in Firenze, allorchè accadde la morte di Clemente VII (29 settembre) in quel giorno stesso in cui era tornato dall'esilio Cosimo di lui bisavolo .
â La sede vacante dopo pochi giorni (15 ottobre) fu coperta da cardinale decano Alessandro Farnese, che volle esser chiamato Paolo III.
Frattanto una gran parte dei fuorusciti fiorentini si era raccolta in Roma, dove essi cominciarono ad avvicinare Filippo Strozzi coi suoi maggiori figliuoli e quindi a far la corte al cardinale Ippolito deâMedici, come quello che, in confronto del duca Alessandro, per essere maggiore di etĂ e di senno, sentiva tuttora il rancore di essere stato da papa Clemente a lui proposto nel principato della sua patria. Donde avvenne che la casa di Ippolito era diventata lâasilo della piĂš nobil parte deâfuorusciti, i quali accrescevano con ogni arte e con ogni potere questo mal talento del cardinale verso il duca, sperando essi che cotal inimicizia dovesse partorire la rovina di tutti e due loro, siccome accadde in realtĂ , ma non in quella maniera, e con quellâesito che i fuorusciti si aspettavano . â Concorrevano a favorire fra i principali fiorentini i maneggi deâfuorusciti, oltre i sopraindicati Strozzi stati di recente offesi da Alessandro, anche i cardinali Ridolfi e Salviati, mossi a ciò dallâinteresse privato piĂš presto che da volere che la patria loro vivesse in libertĂ .
Conciossiachè ciaschedun di essi era nato di una figliuola di Lorenzo il Magnifico, nipote di Cosimo, la di cui linea era mancata in papa Leone fratello delle loro madri. A questa cosĂŹ fatta ragione aggiungevasi lâonta di vedersi quei parenti da qualche tempo villanamente dal duca offesi e maltrattati. Per effetto di che Lorenzo Ridolfi, fratello del cardinale, giovane di natali per nobiltĂ di sangue e per ricchezze cospicuo, dubitando che Alesandro fosse di mal animo verso di lui che tenea per una figliuola di Filippo Strozzi, nascosamente di Firenze si allontanò.
Nè molto tempo passò che egli insieme con Bernardo Salviati fratello dellâaltro cardinale, con Piero di Filippo Strozzi ed altri si recarono in Spagna alla corte di Carlo V a perorare la causa della loro patria, e a dolersi con S.M.I.
del tirannico contegno del capo della Repubblica fiorentina. Furono ascoltati da Cesare i reclami dai nobili fuorusciti fiorentini, ai quali promise che dopo fatta lâimpresa di Tunisi, egli tratterebbe di ciò alla sua tornata in Napoli. Allora tutti quelli che trovavansi raccolti in Roma deliberarono di mandare il cardinale deâMedici a Tunisi con altri sette compagni per raccomandarsi allâImperatore quanto mai potessero il piĂš, acciò volesse degnarsi di ordinari in Firenze quel governo che piĂš gli piacesse: solo châegli ne levasse il duca Alessandro.
I fuorusciti dubitando della mente del cardinale, nè fidandosi del tutto di lui, imposero a quei sette di sorvegliarlo. Erasi giĂ consumata in questi maneggi la maggior parte dellâestate del 1535, quando il cardinale Ippolito, ammalatosi in Itri di febbre prodotta da mal aria, o come altri dissero di veleno datogli per conto del duca, ai 10 di agosto si morĂŹ, lasciando in molti grandissimo desiderio di sè, in quantochè egli mostrossi dâindole cortese, di grandâanimo, e amatore dâogni maniera di virtĂš. Frattanto sâintese, che Cesare dopo la presa di Tunisi era sbarcato a Napoli, e che costĂ aveva assai lusinghevolmente accolto un incaricato deâfuorusciti.
I cardinali Ridolfi e Salviati con i principali esuli fiorentini erano giĂ partiti per quella cittĂ , onde assistere al processo che colĂ agitar dovevasi davanti lo stesso imperatore, mentre dallâaltra parte il cardinale Innocenzo Cybo sollecitava il duca Alessandro a partire da Firenze accompagnato da nobile corteggio e da valenti giureconsulti e oratori, affinchè potesse meglio difendersi dagli addebiti di cui fu accusato.
Lâistorico Guicciardini gli servĂŹ di avvocato, e seppe sĂŹ bene piatire la causa del suo signore, che lâImperatore ritirò la proposizione di rendere il duca Alessandro feudatario di Cesare; dopo convinto, che la cittĂ di Firenze, essendo stata tanto tempo con somma fatica e spesa liberata dal dominio della Camera Aulica, non era cosa giusta nè onorevole di farla soggiacere unâaltra volta sotto quel giogo. Altra cagione indusse Cesare a rimettere la cittĂ e dizione fiorentina sotto il libero dominio di colui, il quale, essendo per divenire genero di Carlo V, doveva considerare come fosse un suo governatore e come se lo Stato fiorentino facesse quasi parte dellâImpero. ContribuĂŹ eziandio a favorire Alessandro la situazione politica dellâItalia, per la morte accaduta del duca di Milano, e per la guerra che andava ad accendersi con la Francia. Dondechè Carlo V si decise di assicurare il trono di Firenze ad Alessandro sollecitando la celebrazione del contratto matrimoniale; per concludere in quale il duca ebbe peraltro a sopportare condizioni molto gravose, onde assicurare le convenienze della sposa, non meno che quelle dellâAngusto di lei genitore.
Il Duca per la vittoria diplomatica riportata sopra i suoi nemici, e per le nozze solennizzate (li 29 febbrajo 1536) con Margherita dâAustria, tornò festeggiante a Firenze, dove accolse fra gli archi trionfali, e in mezzo a sontuose feste e spettacoli il piĂš potente monarca dellâEuropa nel suo Augusto suocero.
Dâallora in poi Alessandro non ebbe piĂš ritegno onde mostrare ogni severitĂ contro i malcontenti, imporre forti gravezze ai nuovi sudditi, e soddisfare liberamente allâeffrenata sua libidine verso le vergini e le matrone; sino a che Lorenzino di Pierfrancesco deâMedici, châera il suo piĂš prossimo agnato, ed il ministro piĂš confidente di Alessandro nei piaceri, sperando di ereditarne il trono, piuttosto che di ridonare alla patria la pubblica libertĂ , la notte deâ6 di gennajo 1537, nella propria casa del traditore in Via larga, allorchè il duca stava nel sonno immerso, proditoriamente lo scannò nel trentesimo anno della sua etĂ .
Fu Alessandro deâMedici uomo dâingegno persipicace, di animo irrequieto e insaziabile, desideroso peraltro e capace di altre cose. Aveva complessione robusta, prontezza nel risolvere, caldo fuor di modo nelle passioni, senza rispetto nelle cose divine, come nelle umane.
COSIMO DUCA II, GRANDUCA I La storia dopo un lungo intervallo di tre secoli con pacato animo dai lettori contemplata può esser giudicata forse meglio che da coloro, i quali, benchè coetanei, non furono però tutti concordi nel discorrere delle cause, e dello scopo dellâassassinio del primo duca di Firenze. Quindi è, che niuno dei scrittori di quella etĂ apparisce giudice imparziale a decidere, se Lorenzino fu un vile scellerato assassino, piuttostochè la brutta copia di un Bruto novello.
Conciossiachè anche allâepoca in cui seguĂŹ quella tragica scena, per testimonianza dello storico Varchi, nessuno potè sciogliere quella politica dubbiezza e darne sentenza che fosse senzâappello.
Checchè ne sia, Lorenzino dopo il duchicidio evase dallo Stato come un colpevole di capitale delitto; e il giorno susseguente, non vedendosi a Firenze comparire il principe in luogo veruno, si cominciò dai suoi piÚ intimi a dubitare, e infine a certificare quello che era di lui avvenuto.
Allora il cardinal Innocenzo Cybo, perchè non si levasse tumulto nella cittĂ , procurò che si tenesse occulto il caso avvenuto; e intanto scrisse al generale Alessandro Vitelli, che partisse subito da CittĂ di Castello. Lo stessâordine inviò ai comandanti delle bande di Pisa, e di Mugello, affinchè usassero ogni diligenza e si trasferissero con quanta piĂš gente potevano alla capitale. Quindi nello stesso palazzo deâMedici, dove il cardinale abitava, ragunato per suo ordine il senato deâ48, dopo qualche deliberazione, fu proposto in successore legittimo dellâestinto duca il signor Cosimo figlio di Giovanni delle Bande nere; il quale avvisato dai suoi amici, partĂŹ tosto dalla sua villa del Trebbio nel Mugello per recarsi a Firenze. â La presenza di questo giovanetto in patria, il gran concorso di tanti amici e soldati, vecchi compagni del padre, nel visitarlo, servĂŹ di pungolo al cardinale per esplorare lâanimo di Cosimo. Il quale avendogli date molte buone parole, nel caso che fosse eletto per capo della Repubblica, di osservare con ogni sua possa le condizioni propostegli, Cosimo nel terzo giorno dopo la morte del duca Alessandro, fu nominato dal senato fiorentino al governo della Repubblica, ad eccezione di un senatore, Palla Rucellai, il solo che protestò non volere piĂš in Firenze nè duchi, nè principi, nè signori.
Ma se al suono dellâinaspettata novella della morte del duca Alessandro, i repubblicani fuorusciti si erano rallegrati, e giĂ mossi da Roma per avviarsi armati verso la patria, altrettanto gli alterò e sbigottĂŹ lâannunzio della sollecita elezione fatta di un altro principe di casa Medici nella persona di Cosimo.
FarĂ maraviglia agli uomini spassionati di riscontrare alla testa di due spedizioni militari di faziosi (quella prima di Val di Chiana, e lâaltra di Montemurlo) fra i capi fuorusciti, quel Baccio Valori che fu commissario del pontefice Clemente allâassedio di Firenze e primo campione del governo assoluto di questa cittĂ . Ma il giovinetto Cosimo mostrò senno e sagacitĂ da vecchio fin dallâesordio del suo regnare, poichè i falsi amici e le mire dei nemici espiando, con efficaci misure di difesa a sventare i loro disegni da ogni parte provvedeva e riparava.
Nel tempo stesso lâimperatore col mezzo del conte Sifontes suo ambasciatore, con atto del 21 giugno 1537, dichiarava legittima e valida lâelezione di Cosimo figlio di Giovanni deâMedici, come piĂš prossimo e di maggior etĂ che alcun altro di detta casa; cosicchè il governo della Repubblica dopo esso passar doveva ai suoi discendenti legittimamente nati da lui, siccome lâordinava il Lodo imperiale nel 1530 pronunziato. Per la qual cosa vegendosi i fuorusciti privati dâogni speranza, non restava loro altra via che il tentare quella dellâarmi, animati a ciò anche dalla corte di Francia, che prometteva di assisterli.
Si ragunarono perciò alla Mirandola, oltre un buon numero di esuli fiorentini, intorno a 4000 soldati. Capo dellâimpresa si fece Baccio Valori; comandante della fanteria fu eletto il colonnello Capino da Mantova, e capitano deâfuorusciti mess. Piero di Filippo Strozzi; tutta gente nuova, e piĂš piena di ferocia che di molta esperienza e di virtuose opere. Avvegnachè per la massima parte ciascuno di coloro che comparvero in quella scena ricoperti sotto il mantello della libertĂ , piuttosto allâambizione propria, che al pubblico bene agognavano.
Essendosi pertanto quegli armati mossi verso Bologna, accadde che il Valori, adiratosi per conto di paghe, senza por mente a quello che si faceva, quantunque nel governo degli Stati e degli eserciti uomo intendentissimo egli fosse riputato, insieme con alcuni pochi deâsuoi, montato a cavallo, verso Firenze si mosse, come se in paese amico fosse per entrare, con pensiero di far alto alla sua piĂš che privata villa del Barone situata poco lungi da Montemurlo. Il quale disordinato movimento non piacendo ai capi di quellâimpresa per i mali che ne potevano avvenire, fu pregato Filippo Strozzi che con alcuni cavalleggeri quella piccola colonna raggiungesse e le facesse far alto per via.
Era giĂ il valori arrivato alle Fabbriche in Val di Bure, presso il Montale di Pistoja, quando fu raggiunto dallo Strozzi. Ma questi invece di adempire il consiglio avuto, egli che molte volte aveva detto di non voler in quella guerra intervenire, da Baccio a proseguir oltre si lasciò tirare. Giunti essi ai 26 luglio del 1537 alla villa del Barone con meno di 80 tra soldati a cavallo e a piedi: e trovandosi di fronte a una potenza sostenuta daâsudditi fedeli, da molte forze proprie e da quelle dellâImperatore, viddero bene allora, che non era quella stanza da starvi sicuri; cosicchè deliberarono di ricovrarsi nella fortezza quadrata di Montemurlo, che a ostro-libeccio dal Barone è discosta meno di un miglio.
Quantunque sino dâallora Montemurlo fosse stata ridotta a uso di villa dalla casa Nerli di Firenze, pure per esser posta nella sommitĂ di un poggio isolato, che domina la pianura fra Prato e Pistoja, e per aver un qualche reciuto delle antiche reliquie di quel fortilizio, fu reputata tuttora capace di sostenere un assedio, e a servire di difese.
Intanto Piero Strozzi con 800 fanti incamminavasi da Bologna per la stessa via in appoggio e salvezza del padre e deâcompagni, la qual marcia eseguĂŹ con tanta dilegenza, che aâ28 dello stesso mese arrivò a Montemurlo, dove giĂ si erano raccolti molti contadini armati dai Cancellieri, che in quelle campagne avevano molti resedj e vaste possessioni.
Queste novelle riportate in Firenze, turbarono grandemente il governo e i Palleschi; ma quando sâincominciò a sentire che Baccio Valori avea cavalcato da Montemurlo al Barone, dove quasi in sicurezza attendeva a designare fabbriche, a ordinare colt ivazioni nuove ed a pigliarsi i piaceri della villa; quando seppesi che, non ostante lâarrivo di Piero Strozzi, e il sopraggiungere delle altre genti del paese in loro favore, ogni cosa negligentemente costĂ si governava, incominciò a entrare negli animi del Duca e deâsuoi capitani certa speranza di far quelle genti mal capitare.
Al quale effetto i Palleschi sparsero ad arte voci di paura, figurando di segnare alloggiamenti a di prendere disposizioni di difesa, fintanto che la notte del 31 di luglio 1537, Federigo da Montauto comandante di due compagnie di fanti in Pistoja, chiamati a sè tutti i Panciatichi, si diresse verso Montemurlo; e ciò nel tempo medesimo che Alessandro Vitelli, generale in capo dellâimpresa, erasi avviato da Firenze a Prato con 7000 soldati e 900 cavalleggieri capitanati da Ridolfo Baglioni, ai quali teneva dietro dalla parte di Fiesole Francesco Sarmiento con 1500 Spagnoli e con due compagnie di Tedeschi. Tutta questâoste la mattina allâalba del primo agosto era giĂ nella Terra di Prato pronta ad assalire Montemurlo, quando Federigo da Montauto dal lato opposto aveva digiĂ assaliti i Cancellieri nella badia di Pacciana.
Piero Strozzi, che non sâaspettava addosso tanta piena, erasi di buon mattino spinto innanzi con pochi fucilieri, avendo seco Sandrino da Filicaja giovine animoso, con la mira di far cadere in un agguato i cavalleggieri del capitano Pozzo giĂ di prima postati in Prato. Ma appena furon visti i nemici in grosso numero nel piano fra Montemurlo e Prato, Piero Strozzi trovossi dalla cavalleria del Baglioni assalito, gittato a terra, e fatto prigione; e solo il benefizio delle tenebre, non essendo ancor giorno chiaro, potè salvarlo, col gittarsi da una ripa, e per luoghi coperti in sicuro ricovrandosi.
Era sceso dallâAppennino, e giunto la sera innanzi con tutto il resto delle genti deâfuorusciti alle Fabbriche, Bernardo Salviati comandante dellâesercito deâfuorusciti; ma una tempesta grandissima di pioggia che aveva fatto ingrossare tutti i torrenti, lâaveva a gran forza rattenuto, in guisa che non potè in alcun modo respingere Federigo da Montauto che nella badia di Pacciana e dalla parte di Agliana combatteva i Cancellieri col capitan Mattana da Cutigliano, nè recare ajuto ai capi fuorusciti rinchiusi nel castello di Montemu rlo, dove per asserto di uno storico contemporaneo (Bernardo Segni) non era che un piccolo presidio armato di tre spingarde, e difeso da un antiporto, mezzo rovinato. â Baccio Valori, e Filippo Strozzi dormivano quasi senza alcun pensiero, e lo stesso faceva Anton Francesco degli Albizzi, che la sera innanzi era costĂ arrivato; tutti tre capi di partito contro i Palleschi, dopo essere stati dei Medici caldi fautori ed amici.
Vâerano di piĂš due Filippi Valori, uno figliuolo, e lâaltro nipote di Baccio, e Paolantonio altro suo figliuolo, châera genero di Filippo Strozzi.
Lâimportanza dei prigioneri, e il timore che sopraggiugnesse in loro soccorso il rimanente dellâesercito dei fuorusciti, servĂŹ di stimolo agli assedianti per sollecitamente assalire la casa torrita di Montemurlo, della quale dopo breve ostacolo si resero padroni; ma Filippo Strozzi volle arrendersi unicamente al Vitelli, da cui ebbe parola di salvarlo. Questo avvenimento riempĂŹ di spavento i liberali della cittĂ e i fuorusciti con il restante del loro esercito; il quale, voltando le spalle al nemico, si sbandò al di lĂ dellâAppennino. I prigioni di Montemurlo furono condotti in Firenze in vile equipaggio, per fare un tristo e miserabile spettacolo in faccia a un popolo estatico di rimirare tanti nobili personaggi, stati in governo e come principi di Firenze, menati vilmente su di un cavalluccio con un sudicio sajo in dosso e senza berretta in capo nel declinare di cocente giornata (lĂŹ 2 di agosto) procedendo innanzi il Vitelli trionfante di sĂŹ gran vittoria. Dopo questa umiliante comparsa una gran parte di quei prigioni a quattro per giorno furono condannati a lasciare la testa sopra un palco davanti alla ringhiera del palazzo ducale, o nelle prigioni del bargello. Toccò questâultima sorte a Baccio Valori, il quale fu decapitato insieme con i due Filippi figlio e nipote con Anton Francesco degli Albizzi e Alessandro Rondinelli, nello stesso giorno 20 agosto, in cui Baccio sette anni innanzi colla forza dellâarmi era entrato nel palazzo deâSignori a riformare il governo della sua patria, allorchè da spergiuro ruppe la convenzione firmata dieci giorni innanzi nel campo imperiale sopra Firenze.
Filippo Strozzi e Paolantonio Valori suo genero per allora si rimasero nel castello prigioni, guardati da Alessandro Vitelli a nome e per conto dellâImperatore; sino a che, chiamato dal pontefice Paolo III in capitano del suo esercito, egli consegnò la fortezza coi prigioneri a don Lopes Urtados ministro dellâImperatore, il quale vi destinò castellano don Giovanni di Luna, non senza risentimento dello Strozzi cui il Vitelli aveva mancato di fede, e con dispiacere di Cosimo per non essergli stato consegnato colui, pel quale aveva pagati 18000 scudi di taglia al Vitelli, e i parenti dellâillustre prigione gioje e denari.
Dubitando Cosimo che Filippo, stante i molti e potenti mezzi, non ritornasse in grazia di Carlo V, faceva di tutto, affinchè gli fosse dato nelle mani. Ma lâImperatore che aveva promesso al Papa di campargli la vita, se egli non era colpevole della morte del duca Alessandro, non lasciava intendere altro se non che bisognava venire in chiaro di un tale addebito.
Per questa ragione riescĂŹ al Duca di far esaminare lo Strozzi in fortezza e di ottenere che si affidasse il processo a un cancelliere degli Otto di BalĂŹa. Furono dati alcuni tratti di corda a Filippo, che, di gentilissima complessione comâegli era, penando assai, venne levato dal tormento negando però sempre di non sapere cosa alcuna dellâassassinio ducale. Dopo questo furono messe le mani addosso a Giuliano Gondi suo stretto amico, che venne esaminato a furia di tortura. Compito il processo, si mandò in Spagna allâImperatore; e in seguito di ciò fu dato ordine che lo Strozzi fosse consegnato in mano di Cosimo. SâudĂŹ poi al principio dellâanno 1538, come Filippo da sè stesso sâera ammazzato in prigione per ajuto di una spada stata lasciata nel carcere come dissesi, a caso da uno di quei che lo guardavano. Nella quale occasione si resero noti alcuni suoi scritti, fra i quali quella Virgiliana sentenza vergata (dicesi) col proprio sangue: Exoriatur aliquis nostris ex ossibus ultor.
Il suo corpo peraltro non fu piĂš veduto, nè si seppe mai in che luogo preciso venisse sepolto. â Comecchè fra il volgo si spargesse voce che Filippo si fosse per sè stesso ammazzato, piĂš certa fama in fra pochi fu, châei venisse scannato per ordine del castellano, o del marchese del Vasto, avendo quei due Spagnoli promesso allo Strozzi di non darlo in potere del Duca, sul dubbio che volesse per mano del carnefice farlo giustiziare.
Poichè Cosimo si ebbe levato dinanzi Filippo Strozzi, che considerava come il suo piĂš formidabile rivale; dopo che vide allontanarsi da Firenze il Vitelli e il cardinal Cybo; poichè finalmente la maggior parte di quei fiorentini che furono autori del principato Mediceo, infra poco tempo vide di strazio, di dolore, o di mala contentezza morti, parve a Cosimo dâesser rimasto senza sospetto di nemici, e nel governo della Repubblica piĂš libero del suo valore; sicchè da quellâepoca in poi si applicò a liberarsi da tutti quei vincoli, nei quali lo avevano involto le condizioni politiche che gli ottennero il trono. â Il riguardo dovuto a molti senatori che avevano promossa la sua elezione; la soggezione che glâimponevano i ministri e i generali di Cesare, erano catene troppo pesanti per un giovine fiero e cupo quale fu Cosimo, che mal soffriva di dover partecipare con altri il potere e la gloria. Cominciò pertanto a ristringere la cognizione degli affari fra pochi suoi confidenti, e ad assuefare i magistrati ad una maggior subordinazione ai suoi voleri. A tal effetto pubblicò nel 1549 un motuproprio, col quale ordinava che nessun magistrato potesse adunarsi a deliberare senza il suo assenso; e fu per questo che Giorgio Vasari volendo dipingere il Granduca in presenza dei senatori, prese per simbolo di questi ultimi il silenzio.
Unâimposizione del sette per cento si raccolse per le pubbliche contingenze, e per supplire alle spese onde vigilare alla sicurezza del dominio con lâerezione o restauro di fortezze e di mura castellane in varie cittĂ dello Stato, per munire di bastioni la cittĂ di Firenze dalla parte di Oltrarno e per ridurre a fortilizio il palazzo arcivescovile presso il monastero di S. Minato al Monte.
Dopo la vittoria di Montemurlo Cosimo manifestò il suo piano politico della lega con Carlo V, anteponendo di associare i suoi interessi con chi dominava le Spagne, lâAlemagna, ed era in Italia signore del regno di Napoli e della Lombardia, piuttosto che accomunarli a quelli della Francia, ove regnava Caterina deâMedici, la quale, come ultima erede del ramo di Lorenzo il Magnifico, riguardò per qualche tempo Cosimo quale usurpatore deâsuoi diritti alla signoria di Firenze. Questo politico sistema pertanto impegnò il Duca a prender parte in tutti gli avvenimenti che potevano riguardar glâinteressi dellâImperatore nelle cose dâItalia. Nè potendo egli, siccome ambiva, sposare la vedova del duca Alessandro, per stringere un vincolo di parentado e procacciarsi vieppiĂš la grazia di Carlo V, chiese a scelta di S. M. una sposa, ed ebbe Eleonora secondogenita di don Pietro di Toledo vicerè di Napoli, spettante alle primarie famiglie di Spagna.
Essa fu pomposamente accolta e festeggiata, nel giugno del 1539, nella casa Medici, e un anno dopo nel palazzo giĂ detto deâSignori, riordinato e ridotto a nobile residenza ducale.
In occasione delle nozze di donna Eleonora Cosimo trovossi obbligato a far lavorare gli argenti altrove, perchè in Firenze erano mancati i migliori artisti e i principali manifattori stati dispersi in tempo di assedio, o dopo la caduta della Repubblica dalla patria allontanatisi.
Largo nelle spese domestiche non meno che nel contribuire denaro e gente allâImperatore, dilettandosi specialmente nel murare grandiose fabbriche, e nel tenere in corso diverse galere, Cosimo I consumava infinito peculio, in guisa chè oltre lâentrate ordinarie, oltre i beni confiscati a piĂš di 400 ricchi fuorusciti sentenziati, o condannati in contumacia con pena della vita, egli trovavasi soventi volte forzato a impor gravezze straordinarie alla cittĂ e dominio fiorentino, non che ad insistere presso il pont. Paolo III, per avere lâimportare di due decime esatte in Toscana sopra i beni ecclesiastici, in ricompensa (diceva la bolla del 31 maggio 1538 che le concedeva) delle spese fatte per la difesa dei luoghi marittimi contro il Turco. (Riformagioni di Firenze.) Voleva il Papa tornare a imporre altre decime, ma Cosimo vi si oppose tanto che rese senza effetto le armi spirituali contro esso e contro i suoi sudditi fulminate, rintuzzando anche le armi temporali, che avevano incominciato a invadere il teritorio toscano dalla parte di Cortona.
Per le quali contingenze Cosimo ricorse nel 1541 a un accatto, nel quale furono tassati persino i mercanti fiorentini che abitavano fuori del suo Stato.
Nel 1543 fu ordinata unâaltra maggiore imposizione a tutta perdita onde supplire a una grossa somma di denaro richiesta dallâImperatore prima di consegnare al Granduca le fortezze di Firenze, di Pisa e di Livorno.
Dopo aver chiesto ripetute volte a Carlo V il territorio di Piombino, Cosimo lâottenne nel 1548, ma ben presto per un intrigo di corte gli fu ritolto; nè per questo egli giammai apparentemente fece mostra dâaverne sdegno, nemmeno quando i ministri Cesarei gelosi del favore che egli godeva presso sĂŹ gran monarca, quasi per derisione, in compenso di tanti sacrifizj fatti per la causa imperiale, gli offrivano deâpossessi in America. â Tanta costanza, e una cosĂŹ ferma imperturbabilitĂ spianarono a Cosimo la via onde aggiungere ai suoi dominj la cittĂ e lo Stato di Siena, divenuto dopo la caduta della Repubblica fiorentina il nido deâfuorusciti o di tutti i malcontenti del governo spagnolo in Italia.
Dovè pertanto Siena accettare presidio imperiale, ma quella popolazione non soffrendo che vi si edificasse una fortezza, sollevossi per discacciare la guarnigione, cosicchè nel 1552 sâimpegnò una guerra accanita, nella quale prese parte a favore dei Senesi la Francia, non giĂ per sostenere la causa della libertĂ , ma per menomare la maggioranza che gli Spagnoli avevano acquistata nella Penisola . â Vedere SIENA.
Perduta da Piero Strozzi, gran Maresciallo di Francia, nel 2 di agosto 1554, la battaglia di Marciano in Val di Chiana, le truppe Cesareo-Medicee si recarono intorno a Siena, la quale stretta e combattuta da ogni parte, dovè finalmente aprire le porte ai nemici (25 aprile 1555) dopo essere state distrutte le facoltĂ con un gran numero di quei cittadini, e dopo esser caduto in potere degli imperiali quasi tutto il dominio senese, ad eccezione di pochi paesi meridionali e degli ultimi avanzi della Repubblica, che finalmente si estinse quattrâanni dopo in Montalcino. â Ma il vero conquistatore di Siena fu Cosimo; il quale coi suoi denari e coi suoi talenti, dal palazzo Pitti, riparando a ogni bisogno, aveva dirette e sostenute le operazioni militari di quella campagna.
La difesa peraltro che i Senesi fecero della loro libertà è uno dei periodi piĂš onorevoli dellâistoria italiana, tale da non perdere al confronto con alcuni di quelli di Sparta e di Atene.
Ma la caduta della Repubblica di Siena è altresĂŹ lâepoca la piĂš desolante per quella vasta porzione della Toscana, e forse una delle piĂš funeste allâItalia; poichè lâemigrazioni, le morti e la miseria, in cui si ridussero moltissimi negozianti e possidenti terrieri, isterilirono con lâindustrie e deteriorarono le campagne, gran parte delle quali sino dal 1549 aveva risentiti i danni delle numerose bandite da Cosimo I introdotte nello Stato fiorentino.
Al pari, e forse piĂš dellâagricoltura, era decaduto quel commercio, che aveva formate le grandi fortune e la forza della Repubblica fiorentina prima di Lorenzo il Magnifico, alla di cui etĂ cominciarono molte famiglie mercantili e varie colonie di operai a spatriare per recarsi in Inghilterra, in Francia e in altre parti di Europa, dove stabilirono ragioni bancarie, fondachi di lanificj e drapperie di seta e di oro. Finalmente quelle arti che tanto contribuirono alla grandezza di Firenze, quelle ricche case di commercio che avevano resa cotanto opulenta e forte cotesta cittĂ , si ridussero quasi allâinazione, dopo che Cosimo I risolvè di classare una casta di nobili, collâistituire nel 1561 lâordine cavalleresco di S. Stefano Papa e Martire, per far militare i nuovi crocesegnati sulle galere toscane contro i Turchi; nel tempo che il resto della nobiltĂ si gettava in folla nelle anticamere della corte granducale, o si consacrava alla vita ecclesiastica.
Dopo la conquista di Siena, Cosimo I, memore delle gravi contestazioni avute con Paolo III, cercò di farsi molti amici nel Conclave, sicchè egli contribuĂŹ grandemente, nel 1559, allâelezione di Pio IV. Del quale pontefice Cosimo seppe guadagnarsi lâanimo in guisa che fu sul punto di essere da lui fregiato del titolo di Re. Non ebbe minor favore dal di lui successore Pio V, il quale con solenne cerimonia in Roma nella sala dei Re, il dĂŹ 5 di marzo del 1570, gli pose in capo la corona granducale ad onta delle proteste fatte da ministro Cesareo; sicchè i sovrani della Toscana da quellâanno in appresso goderono delle onorificienze di Granduchi. In ossequio di Pio V Cosimo emanò una legge, con la quale fu ordinato ai giudici e ai notari, che tutti gli atti pubblici fossero intestati col nome del Papa vivente innanzi a quello del Granduca regnate.
La decorazione del toson dâoro che piĂš tardi Carlo V inviò a Cosimo, la conseguenza di un imprestito, o piuttosto di un regalo di 100.000 ducati dâoro.
Stabilito lo Stato vecchio (che cosĂŹ chiamossi dopo il 1559 lâantico dominio fiorentino) e ingrandito con lo Stato nuovo, ossia quello della distrutta Repubblica senese, Cosimo I, assicurato che fu da ogni interno sconvolgimento, pensò a preservare il suo dominio da qualunque violenza esterna che ne potesse mai turbare la quiete. â Dopo avere eretto le fortezze della cittĂ di Arezzo e di Pistoja, procurò una difesa alle frontiere dello Stato col guarnire di torri e di fortilizj le coste, col circondare di mura e fabbricare una rocca dentro la cittĂ di S. Sepolcro in Val Tiberina, collâinnalzare dai fondamenti due piazze dâarmi, una allâestremo confine della Romagna, appellandola Eliopoli (Terra del Sole), lâaltra munita di due fortissimi castelli nellâIsola dâElba, designata un tempo col nome del fondatore (Cosmopoli), piĂš nota però sotto lâantico vocabolo di Porto Ferrajo.
Fece incominciare un porto piĂš ampio a Livorno, costruire nel Mugello sopra S. Pier a Sieve lâampia fortezza di S. Martino, dopo che presso Poggibonsi aveva rifabbricato con solida regolaritĂ il bastione che da Arrigo di Lussemburgo prese il nome di Poggio Imperiale. â Dilettavasi inoltre Cosimo, e spendeva assai in fare mine per cavare argento e altri metalli; perciò a Pietrasanta inviò ingegneri mineristi chiamati dalla Germania, nutrendo molti in simile esercizio senza ritrarne gran frutto, e piuttosto con suo danno, se credere si deve allo storico Bernardo Segni (Stor. Fior. Lib. XI). â Dal bilancio fatto nel 1550 di tutte le entrate ordinarie del dominio fiorentino appariva, che esse ammontavano a lordo a ducati 437,934 per anno, e al netto delle spese ordinarie a ducati 267,903. â Però la sorgente maggiore delle ricchezze di Cosimo I, colle quali suppliva alle straordinarie spese e al fasto della sua corte, traevale non tanto dai beni dei ribelli (molti deâquali assegnò aâluoghi pii, o donò agli amici) quanto anco dal monopolio della mercatura: stantechè egli interessavasi con le ragioni di ricchi negozianti nelle piazze di Anversa, Bruges, Londra, Lisbona, Barcellona, Marsilia, Lione, Venezia, Napoli e Roma.
A qual uopo Cosimo impiegava continuamente due galeoni pel trasporto delle mercanzie del Levante e dellâItalia nei porti di Spagna, di Portogallo e di Fiandra, da dove ritornavano carichi delle merci di quelle contrade.
Anco la granduchessa Eleonora, al pari del marito intenta a un simile esercizio, potè in progresso, sebbene venuta in Toscana con piccola dote, accumulare un ragguardevolissimo peculio.
Per queste ragioni le opere di lanificio e i broccati di seta e oro ripresero in Firenze un qualche favore. Talchè il prodotto dei panni fini (detti del Garbo) e di quelli ordinarj nellâanno 1575, ammontò alla somma di due milioni di ducati: nè in questo calcolo si contemplarono i drappi di seta, nè le piĂš minute manifatture, che ricevevansi in America con aviditĂ .
In conseguenza di ciò Cosimo I divenne il piĂš ricco e denaroso principe dellâItalia, sicchè alla sua morte, stando alle Memorie MSS. del Settimanni, il di lui successore trovò in cassa un avanzo di sei milioni e mezzo di ducati, parte in contanti e parte in verghe di argento e di oro.
Se Cosimo seppe sormontare le difficoltĂ per stabilirsi sul trono collâimitare i primi anni del regno di Augusto a furia di morti, di condanne e di proscrizioni, lo seppe anche emulare nella magnificenza e nel fare piĂš bella la capitale del suo dominio per sontuositĂ di edifizj. Tra i quali giova qui rammentare il primo ingrandimento del palazzo che conserva il nome del suo fondatore (Luca Pitti), divenuto la piĂš magnifica reggia dellâEuropa; il sontuoso fabbricato con portico tutto di pietra concia per servire di residenza a XIII magistrati, detto perciò degli Ufizj; il lungo corridore che cavalca lâArno sul ponte vecchio per unire la reggia nuova deâPitti con quella di Palazzo vecchio; la biblioteca Laurenziana disegnata da Michelangnolo e compita dallâAmmannati, che fu lâautore del sorprendete e leggerissimo ponte di S. Trinita. â Ă opera di Cosimo la edificazione del Ghetto che trovasi collocato nel centro della cittĂ , fra il distrutto Campidoglio, il Foro vecchio e lâArcivescovado. â InstituĂŹ lâArchivio generale sopra la fabbrica isolata di Or San Michele per raccogliervi tutti i pubblici contratti dello Stato vecchio. Col disegno del Vasari fece edificare il loggiato della Pescheria in Mercato vecchio, mentre Bernardo Tasso innalzava piĂš grandiose loggie in Mercato nuovo, sopra le quali, nel 1612, furono collocate le filze degli originali delle pubbliche scritture.
Lo stesso Cosimo ordinò che sâinnalzasse sotto le logge dellâOrgagna la statua del Perseo di Benvenuto Cellini, sulla piazza di S. Lorenzo la base storiata dal Bandinelli per collocarvi sopra la statua di Govanni de Medici di lui padre. Per ordine del sovrano medesimo fu fatto lâacquedotto e la gran fonte di Piazza; fu alzata una colonna di granito delle Terme Antonine di Roma trasportata nella piazza di S. Trinita e messavi sopra la statua di porfido scolpita dal Ferrucci. Una minore colonna di marmo fu posta a S. Felice in Piazza, e quella maggiore di tutte che si ruppe prima di essere collocata nella piazza di S. Marco, poco lungi dal giardino deâSemplici; giardino ordinato dallo stesso Gran Duca un anno dopo quello di Pisa, che è il piĂš antico orto accademico istituito in Italia, cui presedè il primo botanico dâEuropa, il Cesalpino.
Devesi ancora a Cosimo lâistituzione dellâAccademia fiorentina, fondata nellâanno 1542, richiamando cosĂŹ a nuova vita quella aperta in Firenze nel 1485 da Giovanni Mazzuoli detto lo Stradino; dalla quale Accademia nacque lâaltra piĂš famosa del bel parlare, che prese per simbolo il Buratto e il titolo di Crusca. Nacquero a Cosimo I dalla granduchessa Eleonora 7 figliuoli maschi e 3 femmine, oltre una figlia dalla seconda moglie Camilla Martelli, la quale donna però non fece mai riconoscere per granduchessa.
In quanto alle passioni amorose, e alle vicende domestiche attinenti alle vicende del primo Granduca, non avendo esse influenza sulle cose pubbliche, debbono tacersi anzichè propagarsi dallo storico, che non ama confondere lâuomo di stato con lâuomo privato.
FRANCESCO I, GRANDUCA II Morto Cosimo I, li 21 di aprile 1574, nella sua villa di Castello in etĂ di anni 55, gli successe il figlio primogenito Francesco nato nel 1541. Questi sino dal 1564 era stato messo a parte del governo col titolo di reggente senza però che il padre gli cedesse nè la corona nè il maneggio degli affari diplomatici. Ciò avvenne un anno innanzi che Francesco prendesse in sposa Giovanna Arciduchessa dâAustria figlia dellâimp. Ferdinando I.
La congiura di molti giovani attinenti a famiglie nobili di Firenze, dei quali trovavasi alla testa Orazio Pucci, punita con la morte di alcuni di loro e la condanna di ribelli di tutti gli altri, segnalò il primo anno del suo regno. Era tra i principali congiurati Pierino di Lorenzo di Piero Ridolfi, il cui palazzo in via dè Tornabuoni, ricco di statue e di altri oggetti di belle arti, fu da Francesco I con il giardino e case contigue, nel febbrajo del 1576, donato a Marco Scittico cardinale di Altemps per affezionarlo alla sua casa: e da questo, nel maggio 1577, venduto per 13.000 ducati dâoro ad Alessandro deâMedici arcivescovo di Firenze; sino a che i suoi eredi, del ramo deâMedici deâprincipi di Ottajano di Napoli, nel gennajo del 1607, alienarono tutto quel fabbricato per ducati 24.000 a Bardo Corsi di Firenze. (Arch. Dipl. Fior. â Carte del Monte di PietĂ ).
Nel secondo anno, Francesco I fu riconosciuto dallâimperatore Massimiliano col titolo di Granduca di Toscana, e in seguito dal re di Spagna e da tutti gli altri sovrani. In tal guisa fu terminata una clamorosa causa di precedenza fra la casa deâMedici e quella dâEste, stata per 35 anni il passatempo diplomatico di tutti i gabinetti di Europa.
Francesco I, se da un lato superava il padre in dottrina, dallâaltro lato gli era di gran lunga inferiore nei talenti di uomo di stato.
Glâimperatori ed i re, che avevano ambito lâamicizia di Cosimo, consideravano il figlio meramente come un feudatario. Poco attento per natura agli affari, indifferente per la principessa di cui era stato fatto sposo, piĂš di ognâaltra cosa lâoccupavano le feste, i conviti, e alcuni fisico-chimici esperimenti. Ă altresĂŹ vero che Francesco non obliò i grandiosi concetti del padre, come quello di proseguire le fortificazioni di Livorno, di gettare solennemente (28 marzo 1577) la prima pietra della nuova cittĂ , e di destinare assegnamenti opportuni a farne un grande emporio; e per quanto lâincominciata impresa non progredisse a grandi passi, tuttavia fu continuata per fino che durò il suo regno.
Lo stesso Granduca seguitò lâoperazione incominciata da Cosimo I col far rivedere e rinnovare gli statuti municipali, onde metterli in consonanza col governo monarchico, come anche per gli statuti delle arti e mestieri, alle quali corporazioni peraltro tolse i loro patrimonj. â Tutto in somma mirava in lui a compire lâopera paterna, ad estinguere cioè ogni residuo di autoritĂ repubblicana, lasciando solamente le apparenze e i nomi senza potere.
Imperocchè sotto Francesco I il magistrato Supremo, ossia quello dei 4 Consiglieri e del Luogotenente granducale, che doveva raffigurare lâimmagine della Signoria di Firenze, era divenuto un mero tribunale civile: cosĂŹ pure gli altri magistrati, comecchè decretassero in nome proprio, non agivano che in forza di un rescritto sovrano. â La giurisdizione criminale, per quanto fosse esercitata dagli Otto di Guardia, o di Balia, tutta lâautoritĂ riconcentrossi nel loro segretario Lorenzo Corboli da Montevarchi, che divenne uno deâpiĂš terribili e prepotenti ministri di Francesco I.
Alla contabilitĂ delle finanze dello Stato presedeva un ministro col titolo di depositario generale. A lui erano subordinate, non solamente le varie branche dellâamministrazione economica, ma anco quelle del commercio privato del Granduca, per cui Francesco teneva in corso due galeoni destinati a convojari altri legni carichi di produzioni di varie contrade. La mercatura delle gioje era la sola che quel principe esercitasse da per sè stesso, essendo piĂš dâognâaltro intelligente in sĂŹ fatte merci, e vago di averne delle piĂš rare e piĂš preziose.
Se in questa parte superò lo stesso suo padre, non lo imitò peraltro rapporto alla sua spledidezza. Imperocchè, se nei primi tempi Francesco tenne una corte con fasto quasi regio, negli ultimi anni della sua vita comparve al pubblico troppo ristretta e poco decorosa.
Divenuto per vergogna e per rimorso inaccessibile ai sudditi, viveva ritirato nella villa di Pratolino, nella costruzione della quale si racconta che egli impiegasse una somma immensa di denaro, lasciando totalmente in mano dei ministri le redini dello Stato.
Il principato di Francesco I non fu di lunga durata, essendo egli morto in compendio, quasi insieme con la seconda moglie Bianca Cappello, il dĂŹ 19 ottobre 1587 nella villa del Poggio a Cajano, mentre correva lâanno XIV° del suo regno e il XLVII° di sua etĂ .
Francesco fu protettore dei migliori artisti, e a lui si deve la fondazione della sorprendente Galleria di Firenze, stata notabilmente accresciuta da quasi tutti i Granduchi della prima e della seconda dinastia; talchè la numerosa collezione di oggetti di belle arti, di pitture di varie scuole e di varia età , può dirsi la piÚ completa di tutte le Gallerie di Europa.
Fra i piĂš eccellenti architetti da Francesco I nelle maggiori sue fabbriche adoprati furono lâAmmannati e il Buontalenti. Il primo di essi disegnò la costosa villa di Pratolino, per la quale Francesco I spese scudi 782000; ed è opera dello stesso architetto il palazzo delle RR.
Guardie in Via larga denominato il Casino di S. Marco.
Diede pure molte commissioni di pitture ad Alessandro Allori, a Bernardino Poccetti e ad altri; e fu sotto il suo regno quando Gio. Bologna sotto un arco delle logge dellâOrgagna innalzò il sorprendente gruppo delle Sabine.
Le lettere italiane coltivate e incoraggite per istinto della Casa deâMedici, sembra che fissassero a questâepoca la loro sede in Firenze, dove comparve il Tacito italiano, mercè lâopera di Bernardo Davanzati.
FERDINANDO I, GRANDUCA III Essendo il Granduca Francesco mancato senza figliuoli maschi, prese tosto le redini del governo Ferdinando suo fratello minore, il quale può dirsi il piĂš grande principe della dinastia Medicea, e quello che fu dai sudditi realmente amato, e generalmente stimato. Imperocchè, se da porporato aveva dato prove luminose di un gran talento e di un animo nobile, allorchè divenne Granduca si distinse per ogni genere di azioni. â Creato Cardinale a quattordici anni dal pontefice Pio IV, divenuto adulto si recò a Roma (anno 1569) dove dimostrò di buonora la sua indole generosa e lâamore ingenito nella sua famiglia per gli artisti e gli oggetti piĂš rari di belle arti, acquistando a caro prezzo la Venere deâMedici e la famiglia della Niobe, i Lottatori, lâErmafrodito, il cosĂŹ detto Arrotino, e molte altre statue e teste antiche, onde adornare la deliziosa villa Medicea, da esso lui fatta edificare sul colle Pinciano. Egli fu che aprĂŹ in Roma la stamperia di Propaganda con caratteri orientali, affine di agevolare la propagazione della fede nelle parti deglâInfedeli in Oriente.
Con sĂŹ fausti auspicj Ferdinando I, appena salito sul trono della Toscana, vi sviluppò un piano di politica opposta a quello deâsuoi antecessori, perchè mirava a emanciparsi dalla corte di Spagna e a legare al suo sistema i varj principi dâItalia, tutti disgustati dellâorgoglio e della prepotenza di Filippo II.
Ne diede una prima prova il matrimonio contratto nel 1589 con la principessa Cristina figlia di Carlo duca di Lorena, a preferenza di unâArciduchessa dâAustria, e di una figlia del duca di Braganza, che la Spagna voleva dare al Granduca: e a costo delle rimostranze fattegli, che, a forma del trattato della cessione di Siena nel 1557, i matrimonj di casa Medici dovevano stabilirsi a beneplacito della corte di Madrid. Ferdinando intento a strappare il freno spagnuolo offrĂŹ piuttosto al sua mano a una principessa Lorenese propostagli da Caterina regina di Francia sua parente, la quale in occasione di tali nozze cedè ogni sua ragione sui beni di casa Medici, e ogni diritto che poteva aver ereditato sul ducato di Urbino. â Nelle feste eseguite in Firenze per tali nozze si diede il primo saggio deâdrammi musicali e dellâOpera italiana nel nuovo teatro costruito sopra la fabbrica degli Ufizj.
Le piĂš grandi cure di Ferdinando furono dirette a tre oggetti di pubblica economia per la felicitĂ dei suoi sudditi; cioè allâaumento e prosperitĂ del commercio di Livorno, al disseccamento della Val di Chiana, e alla riduzione della Maremma senese.
Pieno il desiderio di porre in esecuzione le idee del padre, ferdinando continuò a richiamare in Pisa i mercanti esteri, procurando loro magazzini e abitazioni, mentre nel 1587 nel porto di Livorno vedeva gettare i fondamenti della fortezza nuova, e dentro il mare piantare le palizzate per fondarvi sopra un muraglione che unire doveva il fanale alla Terraferma; costĂ dove sorgevano numerosi edifizj, costĂ dove accorrevano da ogni contrada commercianti e artisti di qualunque setta o religione, sotto lâegida di un indulto di tolleranza pubblicato nel 1593, incoraggiti da provvedimenti benefici coloro che vi accorrevano, e da utili franchigie per le industrie che vi si esercitavano. â Onde poi avere una comunicazione piĂš diretta e piĂš facile fra Pisa e Livorno, lo stesso principe fece voltare una parte dellâArno col diversorio del canale Naviglio, e ciò dopo aver messo al coperto il littorale dai corsari, dalle frodi di contrabbando e sanitarie mercè le compagnie deâcavalleggeri di costa istituite nel 1592.
Quattrâanni continui di carestie, avendo portati fuori della Toscana piĂš di due milioni di scudi dâoro per comprare vettovaglie, e sviluppate dentro il dominio epidemiche malattie, mortalitĂ straordinarie e sbigottimento universale, suggerirono allâanimo imperturbabile di Ferdinando un mezzo di tirar profitto anche dalle pubbliche calamitĂ . Nella speranza di ritrarre la sussistenza dal proprio Stato, questo Granduca rivolse le sue cure al prosciugamento della Val di Chiana, e alla riduzione della Maremma senese, nel tempo stesso che egli procurava di risanare lâumida Val di Nievole e la bassa pianura di Pistoja.
La grandezza dâanimo di un tal principe fu dâimmenso sollievo ai suoi popoli, a benefizio dei quali egli versava a larga mano i tesori lasciati da Francesco I. Però fra le diverse leggi agrarie da esso pubblicate, ve ne furono di quelle che vincolarono il commercio con la speranza di prevenire le carestie, e che conseguentemente paralizzarono ognâaltra misura tendente ad accrescere la produzione del suolo. InstituĂŹ il magistrato dei Fossi per dirigere con un sistema uniforme le operazioni idrauliche delle provincie di Pisa e di Grosseto.
Il genio di Ferdinando per le grandi imprese marittime e per le sue peculiari speculazioni mercantili in diverse parti di Europa, somministravagli frequenti occasioni di occupare utilmente la toscana marineria in varie spedizioni nellâAmerica, nel Mar rosso e contro i Turchi in Levante. Al qual effetto aumentava egli annualmente il numero dei suoi legni, montati dalle caravane dellâOrdine militare di S. Stefano. Talchè la sua marina era nel mediterraneo la piĂš esercitata e la piĂš formidabile per la pirateria contro i Levantini e gli Affricani.
Fra le piĂš ardite e gloriose imprese della flotta Toscana comandata dallâammiraglio Cavagliere Jacopo Inghirami, fu senza dubbio quella della cittĂ di Bona sulla costa di Barberia (anno 1607), dove si conquistarono 11 insegne, 1500 schiavi, molte armi e projettili da fuoco.
Una si felice spedizione eseguita sotto li nome del figlio primogenito del Granduca, fu appresa in Firenze come un augurio della prospera fortuna di questo principe, allora in etĂ di 17 anni, in tempo appunto che trattavasi il suo matrimonio. â Tali nozze furono infatti celebrate con straordinaria pompa in Firenze nellâanno susseguente, epoca in cui Ferdinando riunĂŹ stabilmente al suo dominio la contea di Pitigliano, acquistata dagli Orsini.
Unâaltra non meno gloriosa vittoria si ottenne dalla flotta del Granduca sopra i Turchi nellâArcipelago, nella quale occasione si fecero 700 prigionieri con una preda che oltrepassò il valore di due milioni di ducati. Questa seconda impresa marittima era per chiudere quellâanno fra le allegrezze e il giubbilo universale, quando la fatalitĂ della sorte volle che tanto giubbilo fosse funestato dalla morte di Ferdinando, accaduta li 3 febbrajo del 1609, col compianto dei Toscani e di tutta lâEuropa.
Avvegnachè Ferdinando I, per quanto egli potè, fece il bene dei suoi sudditi e della sua famiglia siccome avrebbe voluto farlo allâItalia tutta col tentare dâindebolire lâifluenza spagnuola nella bella penisola, al qual fine egli recò soccorso di forze, di denari e di consigli a Enrico IV re di Francia, che fu della corte Spagnuola rivale.
Ferdinando I, riuniva tutte le qualitĂ necessarie dâun ottimo principe; il suo governo non fu soggetto a intrighi di corte, nè egli, nel corso di 23 anni, variò mai i tre principali e fedeli ministri del suo consiglio, Belisario Vinta per gli affari Esteri, Lorenzo Usimbardi per gli affari Interni, e Carlo Antonio del Pozzo arcivescovo di Pisa per gli affari di Giustizia e di Regio Diritto. â Ingenuo ma cauto, saggio ma vigoroso nelle deliberazioni, di animo risoluto ma grande anche nelle disgrazie, di carattere collerico ma che sapeva placarsi e conoscere a sè stesso il suo naturale, per cui egli godeva quando sentiva che i suoi ministri avevano sospeso le risoluzioni date in mezzo a quei trasporti. Lâimpresa del re delle Alpi collo sciame attorno, ed il motto Majestate tantum, che si vede nella base della statua equestre fatta da Gio. Bologna dei metalli rapiti al fiero Trace, ed innalzata nella piazza della Nunziata in Firenze per onorare la memoria di Ferdinando I, denota bastantemente, che in mezzo alle altre virtĂš trionfava in lui la clemenza . â Quanto era frugale ed economo in famiglia, altrettanto Ferdinando mostravasi splendido e generoso nellâoccasioni di pubbliche feste, nelle grandi imprese, nel soccorrere i suoi popoli, nel premiare la virtĂš e i fedeli servigj.
Firenze acquistò, mercè questo principe, due raritĂ che la resero infinitamente piĂš pregevole per i dilettanti del bello; essendo stata arricchita della statua della Venere detta deâMedici, capo dâopera della scultura antica, e della numerosa famiglia marmorea della Niobe, adornamento il piĂš bello della R. Galleria, e ciò per acquisto fatto in Roma da Ferdinando mentre era Cardinale.
Fu pensiero dello stesso principe la fondazione di un nobile e maestoso asilo ai trapassati della famiglia granducale, facendo disegnare dal fratello don Giovanni nato da Cosimo I e da Eleonora degli Albizzi, architetto militare piĂš che civile, il tempio ottagono della cappella deâPrincipi accosto alla R. basilica di S. Lorenzo a Firenze; tempio che fu incominciato nel 1604, proseguito dal figlio e dal nipote di Ferdinando I, e portato presso che al termine di una completa decorazione dal magnanimo Granduca LEOPOLDO II felicemente regnante. â Vedere COMUNITAâ DI FIRENZE.
Col disegno del Buontalenti Ferdinado I edificò nel 1590 la fortezza di Belvedere sul poggio di Boboli, e quindi istituĂŹ lo spedale deâConvalescenti sulla piazza di S.
Maria Novella. â Fondò, sebbene senza effetto, il monte deâVacabili con la mira di rimediare ai danni che risentivano le arti, il commercio e lâagricoltura dal patrimonio eccelesiastico, come quello che assorbiva la maggior parte dei beni della Toscana, nel mentre che monaci, preti e frati negavano di soddisfare le gabelle al principe. â Fece erigere collâopera di Gio. Bologna la statua equestre di Cosimo I suo padre, e sulla coscia del ponte vecchio dalla parte di OltrâArno il gruppo marmoreo della lotta di Ercole col Centauro. Donò allâaltare della SS. Annunziata deâServi il gran dossale di argento, scolpito col disegno di Matteo Nigetti. Impiegò il Buontalenti nellâinnalzare dai fondamenti in brevissimo tempo la villa Ferdinanda, ossia di Artimino, dopo aver costruito presso Montelupo quella dellâAmbrogiana. â Fra le grandi opere fatte in Pisa contasi lâacqedotto magnifico dal suo figlio Cosimo II compito per condurre da Asciano acque copiose e salubri dentro la cittĂ , dove fece restaurare con grandissima spesa il duomo, stato da un incendio nel 1594 rovinato: aprĂŹ il primo museo di storia naturale, ed eresse il collegio Ferdinando per gli alunni di quella UniversitĂ , in tempo che il di lui ministro arcivescovo del Pozzo impiegava le sue ricchezze nella fondazione del collegio Puteano. â In Siena avvivò quella languente UniversitĂ col mettervi non meno di 35 cattedre. A Grosseto compĂŹ la costruzione delle sue mura castellane e della fortezza incominciate da Francesco I.
Il commercio deâFiorentini e le loro manifatture eransi mantenute nellâistesso grado a cui pervennero sotto Cosimo I. â Contasi che si fabbricassero allora annualmente in Firenze per tre milioni di scudi fra drappi di seta, tele dâoro, di argento e rasce. Ă certo che si compravano ognâanno 300,000 scudi di sete greggie nei regni delle due Sicilie; talchè lâestrazione di sĂŹ ragguardevole somma di denaro dallo Stato indusse Ferdinando a promuovere con ognâimpegno la propagazione e coltura dei gelsi in Toscana. Molti Fiorentini in quel tempo viaggiavano allâIndie e in America, riportando in patria nuove e rarissime produzioni da quelle contrade.
Essi furono che insegnarono la mercatura di contrabbando aglâInglesi e agli Olandesi, coi quali allora facevano un commercio attivo i Fiorentini, stati incoraggiti dallâesempio dei loro antenati, Amerigo Vespucci e Giovanni da Verrazzano, due uomini che ispirarono nei Toscani tutti lâardire per lunghe navigazioni.
Ferdinando sino dai primi anni che salÏ sul trono pensò di riunire le arti piÚ belle e di maggior lusso nella R.
Galleria sopra glâUfizj, invitando nel tempo medesimo da ogni parte artefici per eseguirle, onde emancipare i suoi stati dalle manifatture estere.
Lâarte di lavorare e di commettere le pietre dure intradotta da Cosimo e favorita da Francesco, ricevè da Ferdinando maggior perfezione sino al punto di rappresenatare con esse ritratti a guisa di mosaico.
Lasciò Ferdinando otto figli, quattro maschi e altrettante femmine, tutti nati dalla granduchessa Cristina di Lorena, alla quale assegnò un legato annuo di 27000 scudi, oltre il libero governo, sua vita naturale durante, dei capitanati o vicariati di Montepulciano e di Pietrasanta, e ciò a forma deâpatti nuziali.
COSIMO II, GRANDUCA IV SalĂŹ sul trono della Toscana Cosimo II nel giorno in cui morĂŹ il di lui padre che gli servĂŹ di modello, e nelle fresca etĂ di anni 19 non compiti. Il principio del suo governo fu illustrato dalle scoperte astronomiche dellâimmortale Galileo, richiamato da Padova, allorchè questo genio diede il nome di Stelle Medicee ai satelli di Giove.
Concorsero a rendere piĂš splendida la corte di Cosimo unâambasceria del SofĂŹ di Persia e la successiva venuta a Firenze di un Sultano profugo, fratello dellâimperatore Ottomano Acmet; e per ultimo la comparsa dellâEmir di SorĂŹa, profugo egli pure a cagione dellâinvasione dei suoi Stati fatta dai Turchi. Tali avventure facevano meditare ad ogni momento crociate di sacre alleanze e spedizioni in Terra Santa, progettate da Cosimo II senza che sortissero alcun effetto, perchè tutti gli occhi allora erano rivolti alla rivalitĂ tra la Francia e la Spagna, dallâunione delle quali due monarchie dipendeva la pace dellâEuropa. Frattanto gli amici della quiete pubblica promossero tra le due dinastie un doppio parentado, e Cosimo II ebbe la gloria di essere il mediatore e il confidente di sĂŹ importante patto di famiglia, mediante un reciproco matrimonio, che fu conchiuso dopo molti contrasti, nel 1611 fra i figli primogeneti e le figlie dellâuna e dellâaltra dinastia, convalidato da una lega difensiva fra le due corone. Era per compirsi un terzo matrimonio fra Caterina sorella di Cosimo II ed Enrico principe di Galles, figlio di Giacomo re dâInghilterra; il quale monarca per lâampiezza della dote anteponeva una sposa di casa deâMedici a molte altre di famiglie reali, accordando alla futura nuora e alla sua corte lâesercizio libero della religione cattolica, e promettendo anco una modificazione al giuramento di fedeltĂ che dai cattolici si prestava in quel regno. Ma il cardinal Bellarmino sconcertò tutto, e Paolo V negava a Cosimo II la dispensa del parentado con una corte eterodossa tanto che la morte immatura del principe di Galles terminò tutte le questioni.
Cosimo II era tutto per la pace deâsuoi sudditi, e trovava sempre il modo di condurre prudentemente gli affari che avrebbero potuto metterlo in urto con i sovrani di Europa.
Nel suo politico contegno peraltro seguĂŹ le massime di famiglia tendenti ad aderire ai voleri della corte di Madrid; cosicchè, in vigore della capitolazione di Siena del 1557, non potè negare un corpo di milizie in sussidio deâgovernatori spagnuoli in Milano, si allâoccasione delle controversie insorte sulla successione del Monferrato (anno 1613), quando allorchè comparvero, nel 1616, i Francesi in Piemonte. Ebbe Cosimo II molte brighe col ministro di Francia, dopo che a Parigi fu assassinato il maresciallo dâAncre, dal che ne vennero i mali trattamenti fatti da Luigi XIII alla propria madre Maria deâMedici.
Il governo di Cosimo II non presenta unâepoca tanto importante come quella di Ferdinando suo padre; chè anzi sotto un qualche aspetto sino dâallora furono sparsi i semi del futuro decadimento dello Stato.
Egualmente benigno verso i sudditi, non era egli egualmente magnanimo, pronto e intraprendente come il padre. Principe culto, dâindole moderata e di salute cagionosa e fiacca, fu per natura sensibile ai piaceri dellâimmaginazione, alla musica, alla poesia e agli spettacoli cavallereschi. La sua corte fu montata con maggior fasto che non era stato ai tempi del padre e dellâavo; e per accrescere il numero di chi doveva popolarla, si vide sotto di lui introdursi nel palazzo Pitti la societĂ dei nani e dei buffoni; gli mancavano però le ricchezze del padre e dellâavo, per aver abbandonato affatto la mercatura. Moltiplicò le cacce e le pesche riservate nelle RR. bandite, e nel 1619 cominciò a concederle anche ai gentiluomini con grave danno allâagricoltura. â Nel 1620 cambiò un punto importante della legislazione fiorentina, pochè ristrinse, e spogliò in gran parte le femmine del diritto di successione.
AprĂŹ un asilo in Livorno ai Mori cacciati di Spagna, ma fu costretto, stante la loro ferocia, a rimandarli quasi tutti in Barberia. â Sotto la direzione e soprintendenza di don Giovanni deâMedici suo zio costruĂŹ il Molo che porta il nome di Molo di Cosimo , accrebbe abitazioni e comodi alla nuova cittĂ , che andava sempre piĂš prosperando per concorso di merci, di negoziati e di artigiani.
Fiorirono sotto il suo regno, tra gli architetti Matteo Nigetti e Giulio Parigi, ai quali commise la continuazione della grandiosa reggia del palazzo Pitti, della R. cappella di S. Lorenzo e la costruzione della loggia del Grano; tra i pittori il Cigoli, il Passignano, Cristofano Allori ed il Rosselli, châebbero tutti commissioni e lavori dal Granduca; tra glâincisori in rame il Callotta; e tra gli scultori il Francavilla, il Fancelli e Pietro Tacca che divenne il miglior allievo di Gio. Bologna, cui affidò il lavoro del superbo monumento eretto nel Molo di Livorno in onore di Ferdiando I di lui padre, rappresentato in una statua colossale di marmo, alla cui base sono incatenati alcuni schiavi di bronzo di una maravigliosa bellezza.
La massima gloria però e il maggior decoro di Firenze e della Toscana era in questo tempo Galileo, meritamente onorato da Cosimo II; il qual principe, se non veniva rapito da morte immatura, non avrebbe forse sofferto di vedere il piĂš gran genio delle scienze mattematiche lasciato in balĂŹa per opprimersi, come poi lo fu, dalla maldicenza, dallâignoranza e dalla malvagitĂ .
Ma tutto cominciò a declinare da momento in cui Cosimo, nel 1615, afflitto da malattia, e presago di un prossimo fine, credè prevenire le triste conseguenze della sua morte con un testamento che servisse di norma al governo della Reggenza del figlio minore. â In tale occasione egli aumentò alle fanciulle le doti instituite dal padre collâultima sua volontĂ ; assegnò i fondi per il proseguimento delle RR. fabbriche; costituĂŹ ai figli cadetti unâannua entrata di 40,000 scudi per ciascuno, alle principesse le doti, e alla granduchessa sua consorte un annuo legato di 30,000 scudi, oltre al governo delle cittĂ di Colle e di San Miniato con le loro entrate dichiarandola Tutrice e Reggente del figlio insieme con la vedova (ERRATA: lâArciduchessa Maria Maddalena) la Principessa Cristina di lui madre, e trasfondendo in esse, durante la minoritĂ del successore, il pieno esercizio della sovranitĂ , previo il parere di un consiglio di quattro ministri, cui dovevano servire di segretarj il Pichena ed il Cioli.
Chiuse il suo tesoro a chiunque, proibendo imprestiti, operazioni mercantili e spese straordinarie: e volle che solo potesse aprirsi il suo scrignio per dotare le principesse, o per sovvenire alle pubbliche calamitĂ . MorĂŹ Cosimo II li 28 febbrajo 1621, nella freschissima etĂ di 31 anni, lasciando cinque figliuoli maschi e 3 femmine, nati dalla (ERRATA: Granduchessa Cristina) Granduchessa Maria Maddalena dâAustria.
FERDINANDO II, GRANDUCA V Nato nel 1610, ai 14 di luglio, non potè prendere le redini dello Stato, se non che al suo diciottesimâanno. Per tal modo la Toscana restò sei anni e mezzo in balĂŹa della Reggenza instituita da Cosimo II. La qual Reggenza cominciò subito a divenir pesante ai popoli per mezzo dâinopportuni sconvolgimenti e di riforme meno che necessarie, trascurando quelle ordinate dal testatore, lasciando sussistere tutto ciò che serviva al fasto inutile, e sospendendo i lavori delle fabbriche granducali. â Le vedove Granduchesse tutrici si allontanarono talmente dalle massime della pubblica economia, che la Toscana se ne risentĂŹ per lunghissima etĂ . Esse medesime intrapresero per loro conto il commercio dei grani della Maremma senese, con che finirono di rovinare quella provincia sventurata.
La saggia condotta di Ferdinando II apparve sino dal primo anno del suo governo (anno 1628), quando la Toscana fu invasa da mortifera pestilenza, che rapĂŹ a Firenze 9000 abitanti, e che portò la desolazione e un totale sconvolgimento al commercio di Livorno. Di molto cordoglio fu anche pel giovane principe il vedere arrivare con la sua famiglia in Firenze il duca di Lorena suo cugino per cercare un asilo in Toscana, spogliato deâsuoi Stati dai Francesi. Diede occasione a ciò la guerra deâ30 anni, accesa in Europa dai maneggi del cardinal Richelieu, ostinato nel cercare la depressione della casa dâAustria sĂŹ in Germania, come nella Spagna: talchè nel 1635 questâincendio si comunicò anche allâItalia. Il solo duca Odoardo Farnese di Parma si lasciò sedurre dalle pratiche del ministro francese, e benchè Ferdinando II facesse di tutto, per distornarlo dalla sconsigliata determinazione, non per questo vi riuscĂŹ; siccome inutili furono i suoi sforzi per combinare una lega, che tendesse a mantenere la neutralitĂ neâprincipi italiani. La guerra continuò, i Francesi ebbero la peggio, e tocco poi al Granduca di salvare il Farnese suo cognato dallo sdegno degli Austriaci.
Lâoccupazione di Castro e di Ronciglione, fatta dai Barberini nipoti di Urbano VIII a danno del Farnese, i raggiri e i continui dissapori ricevuti dalla corte di Roma a cagione di giurisdizione, mossero e fecero insorgere fra Urbano VIII e Ferdinando II serie contese, che terminarono in una guerra. Per rafforzare lâesercito toscano contro il Papa furono invitati tutti i bravi e tutti i facinorosi dellâItalia: e per sostenere le spese furono accresciute di un terzo le gabelle, dichiarati alcuni oggetti di diritti di regalia, e introdotto lâuso della carta bollata.
Questa guerra ridicola e disastrosa si ridusse poi ad alcuni piccoli fatti dâarmi, e alla battaglia di Mongiovino, seguita li 4 settembre 1643, nella quale non si contarono piĂš di 25 morti sul campo. In tale occasione, volendo profittare della capitolazione di Siena del 1557, a tenore della quale la casa deâMedici doveva prestare soccorso di milizie alla Spagna in ogni contingenza di guerra con patto di reciprocitĂ , il Granduca aveva chiesto per la prima volta sussidio di genti di armi alla Spagna; ma gli fu tosto negato col diplomatico ripiego, che la corte di Madrid avrebbe dovuto prestare egual soccorso al Papa, il quale lo poteva pretendere per lâalto dominio sul regno di Napoli, allora sotto il governo spagnolo.
Nellâanno 1662 lâItalia trovandosi minacciata, e in procinto di essere posta a socquadro da Luigi XIV per un disgustoso accidente occorso al suo ambasciatore in Roma, Ferdinando II sâintromise in tale spinoso affare, facendosi il mediatore di un accomodamento tra il re di Francia e il pontefice Alessandro VII.
Ă reputato questo Granduca tra i migliori della dinastia Medicea, sebbene non migliorasse in alcuna guisa, durante il suo regno, la sorte della Toscana, il di cui stato economico-agrario fu anzichenò oppresso dai vincoli sempre maggiori. Dondechè la coltura della terra si abbandonò e il commercio si affievolĂŹ, nel mentre che le nazioni oltramarine e oltramontane sâimpadronivano di tutti i rami di maggior profitto.
Ferdinando II, cinque anni dopo essersi messo alla testa del suo Stato, erasi unito in matrimonio a Vittoria di Ubaldo della Rovere, principessa ereditaria del ducato di Urbino, come ultimo fiato della sua casa, e da cui ebbe soli due figliuoli.
La prudenza fu la compagna del suo governo; ma essendo questa virtĂš per ordinario scompagnata dal coraggio, cosĂŹ Ferdinando II venne addebitato di non aver saputo far valere le sue ragioni per parte della moglie sul ducato di Urbino, di cui ella era legittima erede; di non avere troppo bene regolata la guerra contro i Barberini, e di avere abbandonato il progetto di erigere un monumento a Galileo, allorchè gli fu fatto sentire, non doversi far lâelogio di un uomo châera stato nelle mani dellâInquisizione.
Ferdinando al pari degli altri Granduchi suoi predecessori protesse coloro che professavano le Belle arti, tra i quali Pietro Tacca scultore, al quale ordinò una copia di bronzo del Cignale di marmo antico di Galleria per porlo davanti alle logge di Mercato nuovo; Giovanni da S. Giovanni, e Pietro da Cortona pittori, e Stefano della Bella incisore.
Ma chi si distinse sopra tutti dalla famiglia Medici nel proteggere i cultori delle scienze esatte, fu il cardinal Leopoldo, uno dei fratelli di Ferdinando II. Divenuto egli stesso dottissimo, prima che vestisse la sacra porpora, fondò nel 19 giugno 1657, la celebre accademia del Cimento, la prima che si dedicasse agli studj della fisica esperimentale e che figurasse in Europa.
Avvi memoria che presso il Gr. D. Ferdinando si tenessero private adunaze scientifiche fino dal 1648, in cui il Viviani preparò una Raccolta di Eperienze senzâordine, dove furono descritti molti strumenti dâinvenzione dello stesso Granduca, riportati in disegno nel Saggio di Naturali Esperienze. Questâaccademia, celebre per i grandi uomini che la componevano, e per lâimportanza delle scoperte che diede alla luce, tenne lâultima sua adunanza scientifica li 5 marzo del 1667.
Due furono i motivi che cospirarono al suo scioglimento, la dissensione tra gli accademici prodotta dallâirrequieto Alfonso Borelli, e la promozione di Leopoldo al cardinalato. Vogliono alcuni, che anche lâInquisizione vi avesse la sua parte, mal contenta del principio di negare quello che non si vedeva.
Fu dono del card. Leopoldo alla Galleria di Firenze la raccolta dei ritratti dei piĂš rinomati pittori, dipinti da loro medesimi, collezione che fu sempre piĂš, e che anche ai nostri giorni viene con cura particolare dei ritratti deâmigliori pittori dellâEuropa aumentata. Cominciò la raccolta dei Cammei, e aumentò quella delle Medaglie di circa 2000 delle piĂš rare, fra le quali 750 in oro. A lui si deve la prima Collezione dei disegni che ivi si conserva dai primi sbozzi deâscolari deâGreci fino ai tempi di Raffaello.
A spese di un altro cardinale (Carlo deâMedici) fratello del granduca Ferdinando II, videsi compita la magnifica chiesa deâSS. Michele e Gaetano nella piazza degli Antinori, cominciata col disegno di don Giovanni deâMedici zio di Ferdinando, proseguita da Matteo Nigetti, e terminata nel 1648 da Gherardo Silvani.
Fu ai tempi di Ferdinando II quando Eleonora Ramirez da Montalvo fondò nel 1647 la Congregazione per lâeducazione delle fanciulle nelle case presso quella del celebre Viviani, in via dellâAmore, attualmente in Ripoli, e nel 1650 il nobile Conservatorio della Quiete presso la R. Villa di Castello.
Ferdinando II nel 1633 aggregò al Granducato la contea di S. Fiora, venduta dalla casa Sforza, e nel 1650 Pontremoli col suo territorio, comprato dalla corte di Spagna. â MorĂŹ nel 1670, ai 23 di maggio, lasciando due figli maschi, Cosimo suo primogenito e Francesco Maria.
COSIMO III, GRANDUCA VI Cosimo nato ai 14 agosto 1642, successe immediatamente al padre nel governo dello Stato, non però nelle qualitĂ di animo e nella nobiltĂ delle idee. Quantunque educato in una corte fiorita dâuomini letterati e di filosofi, pel suo corto talento, e per una certa propensione allâascetticismo e agli scrupoli insinuatigli dalla madre, Cosimo non ricavò alcun utile profitto per sè e molto meno per i suoi sudditi.
La maniera di viaggiare châegli tenne in varie parti di Europa, allâetĂ di 26 anni, dimostrò chiaramente châegli nel visitare le contrade e i gabinetti non andava a cercar sapienza, nè arte di governare tra i costumi delle varie nazioni, ma sivvero a far pompa della sua magnificenza e di una vistosa pietĂ . Non è da maravigliarsi però se il nome che si era fatto in Europa un letterato del suo seguito, il conte Lorenzo Magalotti, stato segretario dellâaccademia del Cimento, offuscasse quello del principe che accompagnava.
Il frutto, che Cosimo III raccolse dalla visita delle corti oltramontane, fu il disprezzo per le cose del proprio paese; talchè la sua casa fu montata in una maniera piĂš magnifica e piĂš dispendiosa, la reggia addobbata di drappi di Francia e dâInghilterra, le genti di servizio per maggior fasto chiamate da remote regioni, e la mensa sontuosamente imbandita coi prodotti piĂš delicati ed esotici.
Il carattere costante di Cosimo III era quello di figurare facoltoso e potente. A tale effetto comprava dallâImperatore per grosse somme di denaro il titolo di Altezza Reale; regalava con profusione tutti i forestieri di distinzione che lo visitavano, faceva lo stesso annualmente con tutti i ministri esteri e con molti monarchi: ma quelli che piĂš dâognâaltro esaurivano i suoi ricchi scrigni erano gli eccelsiastici, i prelati di Roma, e in special modo i Gesuiti; i quali ultimi sino dal fondo dellâAsia strappavano da lui generosi assegnamenti, che il popolo per derisione chiamava pensioni sul Credo, in vista specialmente dei tesori che si profondevano agli eterodossi per convertirli, ai neofiti per alimentarli, ai santuarj per arricchirli, ai missionarj acciocchè trattenessero il popolo in frequenti prediche e processioni.
In conseguenza di queste e di altre consimili prove di ambiziose magnificenze e di pietose dimostrazioni, le avite ricchezze e quelle dello Stato si esaurirono al punto da mancare al granduca talvolta il denaro per le paghe della milizia e dei pubblici impiegati. Arroge a ciò lâesorbitanti somme che cotesto principe, minacciato da unâinvasione militare, dovette contribuire alla Camera aulica per i feudi di Lunigiana; in conto dei quali dal 1706 al 1711, si calcola che pagasse 300,000 doppie dâoro. Per tali angustie trovossi costretto di ricorrere a gravose imposizioni straordinarie, ossia collette, proprie ad alienargli, piuttostochè a conciliargli lâobbedienza e lâaffezione dei sudditi; e ciò non bastando, bisognò che Cosimo III ipotecasse per sino le sue piĂš preziose gioje.
Ma il male ancor piĂš grave era, che la propensione del principe per le persone bigotte induceva molti furbi e ribaldi allâipocrisia, come mezzo sicuro di entrargli in grazia. Che però destava onta e dispetto vedere quei falsi devoti proteggersi scambievolmente e far setta fra loro, come sogliono praticare tante altre congreghe segrete da tutti i governi condannate.
A un sovrano di simil tempra, e che stava rigorosamente sul puntiglio delle cerimonie, a quello cui non si vedeva mai sul labbro un sorriso, sul volto un moto di ilaritĂ , a lui toccò in moglie una brillante principessa (Margherita Luisa dâOrleans) tutta vezzi e tutta grazie, stata giĂ educata alla corte di Luigi XIV colla mira di farne una regina di Francia. Non era appena concluso il trattato di matrimonio, che morĂŹ il ministro Mazzarino, e la madre di lei tentò di annullare il contratto; ma Luigi XIV mise la sposa promessa sul duro bivio, o di andare in Toscana al talamo di Cosimo, o in un convento rinchiusa per fin che viveva; cosicchè alla principessa dâOrleans convenne obbedire, e di mal umore con altra passione in cuore recarsi a marito in Firenze.
Al che si aggiunga la scambievole disistima che, stante la diversitĂ dei caratteri, ben presto nacque fra la suocera Granduchessa vedova e la Granduchessa sposa.
Quindi avvenne che un sĂŹ fatto matrimonio fu pieno di amarezze, vivendo i coniugi in una quasi continua discordia. Dissi quasi continua, mentre nei brevi intervalli di ravvicinamento, che seguirono nel primo decennio, la granduchessa Margherita rimase per tre volte incinta e partorĂŹ, oltre una femmina (Anna Maria Luisa) due figliuoli maschi, cioè, Ferdinando premorto al padre, e Gio. Gastone che fu lâultimo granduca della dinastia Medicea. Quando Cosimo credè di avere in tal guisa assicurata la successione, cominciò a rimirare con occhio severo anzichenò la condotta di sua moglie; rimandò in Francia le donne che lâavevano seguita, ed essa medesima fu rilegata al Poggio a Cajano; dalla qual villa non avendo potuto fuggire, chiese il divorzio. Fu gioco forza nel 1675 di venire ad un componimento, nel quale fu stabilito, che la Granduchessa si ritirasse nel convento di Montmartre a Parigi, di dove, per avere troppo spesso e con poco decoro infranta la clausura, (ERRATA : 1792) nel 1692 fu traslocata nel convento di S. Mendes per starvi a patti piĂš austeri.
Le massime, il bigottismo e il troppo serio contegno di Cosimo III gli avevano pure alienato il figlio primogenito, che senza prole, nel 1713, morÏ consunto dai disordini, benchè fin dal 1688 avesse sposata la virtuosa principessa Violante di Baviera.
Per assicurare la successione della dinastia, Cosimo ammogliò il figlio secondogenito, poi il fratello suo Francesco Maria, che a tal effetto dovè spogliarsi della porpora. Toccarono ad ambedue (nipote e zio) donne stravaganti; la prima di esse non voleva venire in Toscana per essergli stato narrato il tragico fine di tante principesse di casa Medici; lâaltra rifiutavasi di giacere col marito perchè sâera fitta in mente di aver a contrarre qualche malattia contagiosa.
E siccome ai mali della fantasia rare volte si trova rimedio, questo sesto e penultimo granduca Mediceo, condannato a vivere fra i dissapori e le discordie domestiche, ebbe il dolore di vedere in sua vita preparata lâestinzione di una casa che aveva pacificamente regnato per quasi due secoli sulla piĂš bella parte dâItalia.
Pensò allora ai futuri destini della Toscana, ma le potenze di Europa vi provvedevano per esso, e senzâesso.
Il lodo di Carlo V del 1530 aveva escluso dalla successione le femmine e le linee distaccate dai rami Medici del duca di Alessandro, e di quello piĂš propinquo che gli succedè del primo Granduca. Talchè con al morte di Cosimo III e della sua prole mascolina si riputavano consumate le disposizioni imperiali, e Firenze rientrata in diritto dellâantica libertĂ . Questo pensiero svanĂŹ appena posto sul tappeto del Granduca; nè molto piĂš giovò un atto organico disteso dal senato fiorentino, con cui, annullato lâesclusione delle femmine della sovranitĂ , chiamavasi alla successione del trono granducale, in mancanza deâmaschi, Anna Maria Luisa Elettrice Palatina figlia affezionata di Cosimo III.
Con queste norme, morta che fosse lâElettrice, gli eredi al trono della Toscana comparivano i Farnesi di Parma, come quelli châerano nati da una sorella di Ferdinando II, e conseguentemente di Elisabetta ultima di casa Farnese, sposata a Filippo V. Per tal guisa sarebbe venuto ad accumularsi nella famiglia Borbonica di Spagna, oltre il ducato di Parma e Piacenza, anche il granducato di Toscana, lo che teneva in perplessitĂ tutte le potenze di Europa. Finalmente nel 1718 fu convenuto fra lâImperatore, il re di Francia, il re dâInghilterra e gli Stati uniti dellâOlanda, che il primogenito nato da Elisabetta Farnese e da Filippo V sarebbe il successore al Granducato, purchè la Toscana dovesse costituirsi in feudo imperiale mascolino.
Cosimo III si rammaricò di vedere esclusa dalla successione la di lui figlia prediletta, nè gli rimase se non la consolazione dei deboli, quella cioè delle inutili proteste.
MorĂŹ Cosimo nellâetĂ di 81 anni compiti, il dĂŹ 31 ottobre del 1723, dopo aver regnato per piĂš di mezzo secolo (53 anni 5 mesi e 7 giorni) col lasciare il suo trono tra le incertezze, e i sudditi nellâabbattimento, nella confusione e nella miseria.
Fra gli atti della sua amministrazione economica fuvvi un debole tentativo di risanare la Maremma senese, quando chiamò costà una colonia di 800 famiglie di Mainotti, la quale tutta vi perÏ.
Comecchè Cosimo III fosse cotanto intollerante in fatto di opinioni religiose, pure non sdegnò di ammettere nei suoi Stati i predetti greci scismatici, pensando alla riunione della chiesa greca con la latina; nel mentre che nemico acerrimo deâprotestanti egli rifiutossi di accogliere quegli Ugonotti che dopo la revoca dellâeditto di Nantes avevano chiesto di stabilirsi in Pisa e nelle Maremme toscane per potarvi le industrie, delle quali arricchirono invece i Paesi Bassi: e ciò ad onta che essi avessero esibito al Granduca di tentare a loro spese il bonificamento del littorale toscano.
Del restante la miseria aâsuoi tempi crebbe a tale misura da vedere aumentati i furti e i delitti in guisa, che nel 1680 Cosimo III fu costretto a instituire una Ruota criminale per riparare al disbrigo dei molti processi delittusi.
Nel 1700 egli fondò in Firenze la congregazione di S.
Giovanni Battista per fornire lavoro e mezzi di sussistenza ai poveri, mentre si moltiplicavano per la Toscana gli ospizj deâvagabondi e dei mendicanti; nè per questo gli artigiani restavansi dal tumultuare per non trovar esito ai loro lavori, dei quali talvolta lo stesso sovrano videsi costretto addossarsi lo smercio.
Ciò non ostante nel periodo della sua lunga dominazione si pubblicarono due editti importanti: quello del 1717, con cui fu abolita la pena di morte nei delitti di delazione di armi, il che può dirsi a queâtempi cosa straordinaria: ed un altro motuproprio, nel 1719 tendente a facilitare il giro delle proprietĂ col diminuire la tassa della gabella deâcontratti.
Il progresso per altro nelle scienze esatte si arrestò e quasi si spense in Firenze, mancato che fu il fondatore della scuola del Cimento.
La morte del cardinale Leopoldo, accaduta (ERRATA: nel 1765) nel 1665, fece prendere unâaltra direzione agli studj, tornando colĂ donde sono soliti di principiare, alla cultura cioè delle lingue, alla poesia e allâeloquenza.
Al periodo delle scienze succedè quello della letteratura, e perita lâaccademia del Cimento rimasero quelle della Crusca e degli Apatisti, la prima dedicata unicamente alla lingua volgare, lâaltra alle muse. Il Coltellini fu il fondare e il campione di questa; Benedetto Averani, i due Salvini e Orazio Rucellai i capi di quella, seguiti da moltâaltri.
Sebbene gli studj della buona filosofia si rallentassero sempre piĂš sotto il regno di Cosimo III, che fu costante protettore delle dottrine dei Gesuiti, non potè però trascurare affatto un Francesco Redi, un Giuseppe Averani, un Niccolò Gualtieri, un Pier Antonio Micheli, un Gio. Battista Nelli seniore, un padre Grandi e tantâaltri che nelle scienze fisiche, matematiche, mediche e naturali germogliarono in Toscana a quellâetĂ .
In una parola le scienze economiche, morali e filosofiche, ai tempi di Cosimo III non fecero un passo in avanti; e sebbene le varie nazioni Europee, allâoccasione della guerra della Successione, si fossero vicendevolmente comunicate nuove idee, tuttavia i claustrali che frequentavano la corte granducale, gridando alla corruttela, ne impedivano la propagazione. Pure o fosse ambizione di figurare, o piuttosto virtuosa insistenza dellâarchiatro Francesco Redi, Cosimo III si lasciò indurre ad accrescere di oggetti naturali il museo di Pisa, mentre in Firenze arricchiva la Galleria delle Statue di pietre preziose e lavorate della maggior raritĂ .
GIANGASTONE I, GRANDUCA VII Nacque Giovanni Gastone ai 24 maggio dellâanno 1671, ed ebbe in dono dalla natura quelle virtĂš che mancarono a Cosimo III, la giustizia, la clemenza e lâingenuitĂ .
Fornito di un talento svegliato, potè arricchire di buonâora la sua mente dei precetti che ascoltò dai piĂš valenti maestri di quel secolo, Benedetto Bresciani, Enrico Noris, Giuseppe Averani, ed dai familiari congressi ed esercitazioni del geometra Lorenzini, dellâabate Salvini e del celebre Magliabechi, che fu il Varrone della sua etĂ .
Lâindole di un tal principe e tali preludj facevano presagire ai Toscani di avere a possedere in lui un sovrano superiore a quanti lo precedettero. Suo padre stesso lo chiamava il dottore della casa Medici.
Destinato dapprima alla porpora fu poscia indotto al matrimonio per dar successione alla casa regnante; ma la discordia sopraggiunta sino dai primi istanti fra esso e la moglie, fece dileguare le concepite speranze.
Lâindifferenza del padre verso di lui, la reciproca disistima del figlio, la prevista lontananza dal trono per la robusta vecchiezza di chi lâoccupava, e la non piĂš sperata prole, concorsero ad avvilirlo e a disgustarlo.
Era Giangastone di carattere affabile e sensibile, ma i dissapori sofferti influirono sopra di lui sino al punto di cercare nellâindolenza, nella dissipazione e nella scostumatezza un alleviamento alle sue sventure.
Trovavasi in tale stato di abbattimento, quando allâetĂ di 53 anni salĂŹ sul trono, dove gli fu facile trovare in un suo lacchè, fatto ajutante di camera un altro Sejano infame ministro di turpitudini.
Ma il peggio si fu che, reputandosi usufruttuario, piuttosto che vero sovrano della Toscana, Giangastone si fece ben presto conoscere indifferente alla gloria della sua dominazione ed al governo dello Stato; donde ne abbandonava la cura allâarbitrio di pochi, ovvero poco e di malavoglia egli operava.
Difficilissimo sâera reso lâaccesso deâsudditi al suo trono, e le piĂš volte conceduto a prezzo dai favoriti; rarissimi le conferenze con i suoi ministri; talchè in 14 anni di governo si conta che tenesse quel Granduca non piĂš che tre consigli di Stato.
Pare che in materia di politica egli si prefiggesse la massima di Sully, che il mondo cammina da per sè.
Assuefatto da principe a vivere ristretto per lo scarso assegnamento fissatogli dal padre, anche da Granduca conservò contraggenio alle pompe, ricusando ogni apparato di sovrana formalità . Quindi le spese pel suo trattamento erano limitatissime, e le rendite della Toscana non dissipandosi come ai tempi del suo antecessore, le RR. casse rigurgitarono a segno, che potè nei primi anni del suo governo diminuire una gran parte delle straordinarie gravezze per tanti modi da Cosimo III studiate; e potè ridurre i frutti onerosi dei luoghi di Monte dal cinque al tre 1/2 per cento.
Un provvedimento importante, che poi a tanti altri di simil genere servĂŹ di modello, fu quello della Pia casa di Lavoro, cui appellò il motuproprio del 18 maggio 1734, quando Giangastone convertĂŹ lo spedale di Bonifazio sotto il titolo di S. G. Battista in Conservatorio deâpoveri del Granducato per applicarli a quei lavori dei quali potevano esser capaci secondo la loro condizione. Al quale oggetto concorse lâannuenza del pontef. Clemente XII, il quale, con breve del 15 maggio dello stesso anno, riunĂŹ a quel pio stabilimento lâentrate e i possessi di quattro monasteri di donne, stati in tale occasione soppressi.
Frattanto i confidenti ed i familiari di Giangastone, intenti a spogliare quel buon padrone, fecero di tutto per indurlo a dar corso al denaro dello Stato, adombrando la loro venalitĂ col vantaggio che egli in tral guisa avrebbe procurato aâsuoi sudditi. Ebbe tal forza il loro consiglio che Giangastone non solo si diede a comprare manifatture, gioje, pitture e tutto ciò che gli veniva proposto, ma risolvè dâassegnare la provvisione di un ruspo per settimana ad una turba di giovinetti, distinti in seguito con lâepiteto di Ruspanti, e segnalati dai loro concittadini per la grande familiaritĂ col principe e per le loro dissolutezze. Dâonde avvenne che quella popolazione divenuta bigotta sotto Cosimo III (tanto influisce lâesempio deâmaggiori!), si vide in gran parte trasformata in libertina.
Continuandosi in questo frattempo a trattare fra le corti di Europa della successione eventuale al trono di Toscana, arrivò lâanno 1729, quando fu deciso daĂŹ plenipotenziari riuniti in Siviglia: che rimanessero ferme le convenzioni stabilite dal trattato di Londra del dĂŹ 2 agosto 1718 a favore di don Carlo figlio di Filippo V, e che la Spagna inviasse a presidiare con le sue truppe alcune piazze del Granducato.
Giangastone obbligato per ciò ad occuparsi continuamente in un argomento, châera lâannunzio incessante della sua fine, disgustato comâera, dovette altresĂŹ acconsentire e ricevere nella reggia lâInfante don Carlo destinato a succedergli, il quale col titolo di Gran principe ereditario della Toscana nel 1731 sbarcò a Livorno per recarsi quindi nel palazzo Pitti a Firenze.
Due anni dopo, essendo scoppiata in Europa la guerra per la successione di Polonia, videsi strascinare nel vortice delle vicende universali anche la Toscana, la quale per buona di lei ventura, col trattato di Vienna deâ19 novembre 1735 fu ceduta in compenso allâantica casa sovrana della Lorena, nel tempo che il preaccennato Infante riconoscevasi in re delle due Sicilie.
Restando per tal modo annullato il trattato di Siviglia, Giangastone calcolava di poter essere ritornato nella sua libertĂ , tantochè rivolse il pensiero a rimettere in campo un atto, il quale, a insiniuazione di Cosimo III, sino dallâanno 1713 era stato emesso dal senato fiorentino a favore dellâElettrice Palatina sorella di Giangastone; e ciò nella guisa medesima che fu operato nel 1537, allorchè il senato elesse Cosimo in capo della Repub. di Firenze. Ma quel consesso non aveva piĂš autoritĂ , e il Granduca parlava di senatusconsulti, e di prammatiche a chi non lo voleva udire. Vedute però le milizie tedesche sottentrate alle spagnuole nelle piazze della Toscana, Giangastone domandò ai sovrani della quadruplice alleanza che, qualora il Granducato doveva passare alla casa di Lorena, fosse liberato da qualunque vincolo di feudalitĂ , cui la Camera aulica pretendeva assoggettarlo.
Per torre di mezzo ogni aspettativa di regresso allâImpero, avuto il consenso della Dieta germanica, lâimp. Carlo VI con diploma deâ24 gennajo 1737 stabilĂŹ che, dopo la morte del granduca Gianfastone, la piena sovranitĂ , proprietĂ e possessione della Toscana restasse investita nel duca Francesco III di Lorena e nei suoi discendenti maschi per ordine di primogenitura; e che, venendo a mancare la sua discendenza mascolina, si rifondessero li stessi diritti nel principe Carlo di Lorena di lui fratello con il medesimo ordine di successione.
Turbava altersĂŹ lâanimo dei Toscani, che potesse venire il caso, in cui il nuovo granduca Francesco stasse assente dal suo seggio, e che lo Stato come provincia per reggenti si governasse. I ministri dâAustria e di Lorena risposero alle istanze fatte sĂš di tale proposito: che non restando la Toscana compresa nella prammatica sanzione, nè potendo, a forma del trattato di Londra, esser incorporata con gli Stati ereditarj della casa dâAustria, subito che la successione Austriaca si fosse consolidata nel primogenito di Francesco III giĂ unito in matrimonio a Maria Teresa figlia ed erede di Carlo VI, il granducato di Toscana si trasferirebbe nel secondogenito, e in mancanza di esso nel principe Carlo di Lorena e suoi discendenti, i quali per soddisfare ai desiderj del popolo toscano fisserebbero costĂ la loro residenza.
Dopo tali disposizioni diplomatiche si aspettava che la morte venisse a troncare a Giangastone una vita resa ormai nojosa dalle infermitĂ , dagli affanni e dalle sregolatezze. MorĂŹ infatti lâultimo granduca Mediceo nel 1737, ai 9 di luglio; e il principe di Craon investito dei poteri plenipotenziarj prese possesso del Granducato in nome di Francesco III duca di Lorena e re di GERUSALEMME.
STATO DI FIRENZE SOTTO LA DINASTIA LOTARINGIO-AUSTRIACA FELICEMENTE REGNANTE FRANCESCO II, GRANDUCA VIII Sino dalle prime parole di questo lungo articolo diedi a Firenze i titoli di fortunata e felice, oltre quello di bella, che a buon diritto per il suo materiale tutto il mondo le accorda. Avvegnachè, se questa cittĂ sotto lâaspetto storico nelle sue passate vicende si riguarda, le conviene lâepiteto di fortunata,tostochè durante il periodo della Repubblica, ad onta di agitatissime rivoluzioni intestine, di lunghe e rovinose guerre straniere e municipali, di pubbliche calamitĂ , di pestilenze, di carestie, di alluvioni e di altri straordinarj flagelli, la si vedde per fortuna da simili traversie scampata e risorta sempre piĂš prosperosa.
Fu fortunata durante il periodo Mediceo in guisa che, dopo tante proscrizioni, morti, esilj e vendette, in mezzo ai tristi esempj di mal costume, di torpitudini, di violenze, di arbitj, dâipocrisie e di abiezione, fra tanti mali e tante battiture il popolo fiorentino, benchè avvilito, scandalizzato, oppresso, impoverito, per fortuna conservò quellâinnato istinto di filantropica caritĂ , quella dolcezza di costumi, e quelle massime di cristiana pietĂ che lo distinsero in ogni tempo e sotto tutte le forme politiche.
Fu poi felice Firenze, dopo che la speranza di un migliore avvenire, con lâestinzione dâuna famiglia giĂ cittadina, poi fatta dominatrice della sua patria, era per spegnersi nei cuori degli uomini giusti ed onesti, talchè quella generazione, che fu contemporanea del granduca Gio.
Gastone, difficilmente avrebbe immaginato di dover cedere il luogo ad una migliore; e pochi infatti furonvi allora di quelli, i quali per i passati disordini, avendo visto le cose allâultimo esterminio e abbassamento ridotte, di risalire verso il bene e ad unâepoca piĂš felice potessero lusingarsi.
Tali a un dipresso erano le circostanze di Firenze, allorchè essa con tutto il Granducato passò nella casa di Lorena, non restando della stirpe Medicea che lâElettrice Palatina, dichiarata da tanti congressi destituta dâogni diritto a succedere al trono; benchè in seguito venisse trattata da nuovo Granduca con tutti quei riguardi ed onorificenze maggiori che Ella poteva mai desiderare, sino al punto di offrirle la reggenza dello Stato.
Erano a quel tempo le cose della Toscana nel massimo disordine. Abusi moltissimi nella pubblica amministrazione; leggi civili improvvide, intricate, parziali; contese perpetue di giurisdizione; procedura dispendiosa; ingiusti giudizj; pene eccessive e crudeli nel sistema criminale; poca sicurezza personale; asili sacri pieni di malfattori; commercio mal favorito; agricoltura in abbandono; possessioni mal ripartite; fidecommissi inceppati; patrimonio ecclesiastico troppo vasto e troppo immune; una caterva di feudatarj; da ogni parte bandite signoriali o comunitative; coloni troppo poveri; dogane intermedie ad ogni passo; dazj onerosissimi, e un debito pubblico di circa 65 milioni di lire Toscane.
Lo scioglinento di tanti nodi, la liberazione da tanti vincoli oppressivi, furono lâopera pacifica, umana ammirabile della dinastia felicemente regnante in TOSCANA; di questa dinastia che non fondò la libertĂ sulle parole, nè su i contrasti dei poteri, ma ve la stabilĂŹ di proprio istinto sulla base di saggie leggi dettate dalla filosofia, dalla morale, da santissimi principj di cristiana religione, di giustizia e di equitĂ , da chi in una parola non conosceva altra via fuori di quella che traccia la virtĂš e la vera gloria.
Francesco III duca di Lorena e di Bar, poi granduca di Toscana II di questo nome, e I imperatore in Allemagna, nacque da duca di Lorena Giuseppe Carlo e da Elisabetta Carlotta dâOrleans li 8 dicembre dellâanno 1708. Egli discendeva dal pio e valoroso Goffredo di Buglione primo re cristiano di GERUSALEMME, da cui la dinastia Lotaringia ereditĂ il titolo, e ciò che vale piĂš del titolo molte virtĂš di lui e di tanti loro antenati, a partire da Carlo Magno. ââ Sino dallâetĂ di 12 anni Francesco di Lorena fu educato alla corte di Vienna sotto la vigilanza dellâimperatore Carlo VI, che voleva prepere in quel principe il suo genero e successore allâImpero. ââ Gli avvenimenti politici sopraggiunti poco dopo aver preso possesso (anno 1726) della Lorena per la morte del padre, produssero un cambiamento importantissimo nella sorte di Francesco III e della sua casa. Avvegnanchè in compenso dei suoi Stati ereditarj, egli ebbe in sovranitĂ il granducato di Toscana. Egli lo acquistò poco dopo unitosi in matrimonio (12 febbrajo 1736) allâArciduchessa Maria Teresa unica figlia ed erede dellâimp. Carlo VI; per modo che Francesco III di Lorena diventò il fortunato fecondo stipite della Casa Austriaca felicemente regnante.
Principe guerriero, saggio, istruito e religioso, egli diede molte prove di prudenza, di sapere e di valore, si nei campi di battaglia, come neâconsigli dellâaulica sua reggia.
Fra i primi provvedimenti economici, dei quali, appena mancato lâultimo granduca di casa Medici, la Toscana risentisse i buoni effetti, fu quello di estinguere il debito fatto dal suo predecessore per mantenere sei mila spagnuoli che per sei anni (dal 1731 al 1737) avevano presidiato Pisa, Livorno e Portoferrajo. In tale occasione Francesco II con lâannuenza pontificia, obbligò gli eccelsiatici e i luoghi pii a concorrere al pari degli altri sudditi a contribuire la loro quota a ragione di quasi il tre per cento, sulle loro rendite annuali; e fu a tale uopo diretto il motuproprio del 4 novembre 1737, con cui nominò una deputazione laica ad oggetto dâavere esatte informazioni sul patrimonio e stato economico deâluoghi pii, e delle corporazioni si monastiche come secolari.
Dâonde apparĂŹ, che le rendite annue del patrimonio eccelsiastico di tutto il Granducato, detratte le doti congrue delle parrochie, le commende di Malta e i benefizj deâCardinali, ascendevano alla somma di 1,120,827 scudi da lire 7 lâuno; deâquali per 369,324 scudi di rendita spettavano alla diocesi fiorentina; scudi 118,291 a Siena; 76,152 ad Arezzo; 75,797 a Pistoja; 66,985 a Pisa, e 60,965 alla diocesi di Fiesole.
Che la maggior parte delle rendite dello Stato fosse allora assorbita dai creditori del debito pubblico per pagare i frutti annui, lo dichiarò lo stesso monarca, allorchè con due motuproprj, del 3 marzo e 4 aprile 1738, non volendo imporre nuove gravezze, ordinò, prima la vendita dei beni allodiali per estinguere una porzione di luoghi di monte; quindi vedendo che tal progetto non poteva effettuarsi con celeritĂ come si desiderava, limitò la restituzione dei luoghi medesimi a una cifra proporzionata agli avanzi delle pubbliche rendite, riducendo il frutto dei luoghi superstiti dal 3 e 1/2 al 3 per cento: Mentre da una parte il principe tendeva ad alleggerire il debito pubblico, dallâaltra parte si cercava di diminuire il numero eccessivo deglâimpiegati, preferendo piuttosto di dare in affitto, non solo i beni della Corona, ma di appaltare, come ai tempi della Repubblica, le regalie e gabelle anzichè farle amministrare a conto del sovrano.
Fra le numerose regalĂŹe fuvvi quella del gioco del Lotto, che dopo di essere stato piĂš volte proibito, venne finalmente nel 1749 adottato e concesso in appalto.
Lâabuso dei feriati i quali, sospendendo le braccia degli artigiani e lâesercizio di ogni civile giurisdizione, recavano danno incalcolabile al commercio e allâindustria, richiamò lâattenzione di Francesco II, giacchè nel primo anno del suo governo vennero tolti cinque giorni feriati, a principiare dal 19 e 23 novembre, destinati a rammentare lâesaltazione al pontificato e lâincoronazione di Clemente VII distruttore della Repubblica fiorentina; quindi i due primi giorni di agosto stati sino allora festeggiati in memoria della battaglia di Marciano, che decise delle sorte di Siena; e finalmente il giorno 9 di gennajo, in cui soleva solennizzarsi lâanniversario dellâelezione di Cosimo I in duca della repubblica di Firenze.
Dodici anni dopo prestò al principe anche una mano il pontefice Benedetto XIV, vista la molteplicità dei giorni festivi e la necessità di ridurli a un piÚ ristretto numero, e ciò col fine di facilitare ai braccianti il modo di procacciarsi da vivere senza offesa delle leggi divine e umane.
Al principio dellâanno 1739 Francesco II accompagnato dalla sua immortale consorte Maria Teresa e dal principe Carlo di Lorena di lui fratello, arrivò in Toscana; e nel dĂŹ 19 di gennajo fece un festevole e magnifico ingresso nella sua capitale, passando sotto il grandioso arco trionfale presso la porta S. Gallo a tale effetto innalzata col disegno e direzione dellâarchitetto Lorenese Giadod.
Dopo aver beato della loro augusta presenza le cittĂ di Pisa e di Livorno, gli Augusti coniugi alla fine del mese di aprile dellâanno stesso ripartirono per lâAllemagna, lasciando in Firenze un consiglio di Reggenza, al quale dovevano riferire i consiglieri di guerra, e di finanze per rendere piĂš pronta, facile ed esatta lâesecuzione della volontĂ sovrana.
Una dele prime deliberazioni di quella Reggenza fu quella emessa nel 6 di luglio 1739, quando la SocietĂ botanica di Firenze, instituita sino dal 1716 dallâinsigne naturalista Pier Antonio Micheli, fu dichiarata sotto la speciale protezione del granduca Francesco II, che le accordò lâorto deâsemplici presso le RR. scuderie di S. Marco con un annuo assegno di 300 scudi per le spese necessarie alla coltura e conservazione del medesimo, sino a che lo stesso giardino e la SocietĂ botanica, nellâanno 1783, venne incorporata a quella piĂš celebre dellâImperiale e Reale Accademia economico-agraria dei georgofili, la quale ebbe vita sotto il dominio dello stesso Granduca Francesco II nellâanno 1753.
Ma il piÚ evidente vantaggio che abbia tratto il pubblico da quella Società botanica furono i Viaggi per la Toscana del dott. Giovanni Targioni-Tozzetti, opera che fa sommo onore al suo nome, non meno al monarca che la comandò.
Avvegnachè Francesco II sapendo che il miglior mezzo di rendere attivi e utili i corpi scientifici era quello di ordinare dei lavori garndiosi, commis e alla SocietĂ botanica di compilare la Storia Naturale deâpaesi del Granducato. Il qual incarico fu dallâAccademia stessa affidato al sullodato Targioni, affinchè visitando le varie parti della Toscana egli facesse quelle osservazioni fisiche, geologiche, mediche, botaniche, istoriche che il suo gran sapere era capace di riunire.
Tendeva a incoraggiare lâagricoltura sino dal 1738 lâaffitto di tutte le possessioni della Corona, e di quelle spettanti allâordine cavalleresco di S. Stefano. â A questo stesso scopo miravano motupropri dellâanno 1738, del 1750 e del 1762, coi quali Francesco II, per il corso di 34 anni dichiarò libera la tratta dei grani della Maremma senese, anche nei casi di qualunque carestia che fosse per avvenire.
Svincolò da alcuni inceppamenti, il commercio interno fra lo Stato vecchio (dominio fiorentino e pisano) e lo Stato nuovo (ossai senese); alleggerĂŹ le gabelle di estrazione per le manifatture di lino,di quoja e di lana; promosse lâeducazione dei filugelli con moltiplicare la piantagione dei gelsi lungo le strade regie; procurò di migliorare le campagne della Val di Nievole, della piannra pistojese e grossetana mediante opere idrauliche.
Ma il sistema della riforma legislativa cominciò a svilupparsi allorchè fu preso di mira lo svincolamento di molti beni resi fino allora inalienabili.
Mercè la legge dei 22 giugno 1747 fu ristretta e limitata sino al quarto grado dopo quello del fondatore la durata deâfidecommissi; la qual legge adottata ed ampliata dallâAugusto suo figlio, il granduca Pietro Leopoldo, venne sempre piĂš a rallentare i vincoli della proprietĂ , e a moderare i perniciosi effetti dellâinalienabilitĂ dei beni stabili, uno degl ostacoli piĂš nocivi alla prosperitĂ del commercio e dellâagricoltura.
Con le leggi del 21 aprile 1749 e del 15 marzo successivo, sopra i feudi e i feudatarj, lo stesso monarca ebbe in mira di liberare i vassalli dalla prepotenza dei baroni, e di garantire nel tempo medesimo le franchige municipali, riservando ai tribunali ordinarj del Granducato lâappello nelle cause civili e miste, mentre vincolava la giurisdizione criminale dei viacarj feudali a delle riforme salutari. ââ Fu allora che tutti gli elementi della sovranitĂ , come sarebbero i diritti di mero e misto impero, la potestĂ legislativa, la libera scelta delle milizie dello Stato, e tuttociò che trovasi compreso sotto il nome di Regalie, vennero con quelle due leggi riservate al sommo imperante.
Era pure di grandissimo vincolo alla libera commerciabilitĂ deâbeni fondi quellâimmenso patrimonio posseduto dalle corporazioni ecclesiastiche e laicali, da tutte quelle persone immaginarie, che per esistere civilmente hanno bisogno dâessere rappresentate da sindaci, o amministratori.
Le quali mani morte, essendo per loro natura perpetue e indefettibili, ritengono tenacissimamente ciò che hanno una volta acquistato, e che difficilmente sogliono rilasciare al comune commercio degli uomini. â Per evitare appunto questo condensamento eccessivo di beni in simili mani morte, Francesco II, con motuproprio del 1 febbarjo 1751, proibĂŹ il passaggio delle sostanze nei corpi morali, sicchè questi non potessero piĂš ricevere alcuna ereditĂ senza un privilegio sovrano.
Nel 1745, ad oggetto di conoscere esattamente il numero e lo stato deâsuoi sudditi in Toscana, il Granduca ordinò al Rucellai segretario del Regio diritto un prospetto statistico formato sulle note somministrate dai parrochi di cadauna diocesi. La quale statistica doveva registrarsi in altrettanti prospetti stampati a tal uopo forniti, dove alle respettive caselle furono specificati i nomi del luogo, del santo titolare della parrocchia, della comunitĂ cui appartenevano, piĂš il numero delle case, delle famiglie e quello dellâanime, indicando lâetĂ , lo stato, la religione, e distingendo le cifre dagli impuberi dagli adulti, i maschi dalle femmine, quindi il numero deâmaritati, e finalmente degli ecclesiastici ripartiti in chierici, in sacerdoti, in secolari, religiosi, romiti e monache. In ultimo non dovevano trascurarsi gli Ebrei, nè gli altri Eterodossi che vi potessero stanziare, per famiglie, per sesso e per stato.
Frattanto ravvicinandosi il mezzo del cammino del secolo XVIII, venne fuori una legge (20 novembre 1749) che ordinò lâuniformitĂ del computo annuo per tutto il Granducato;cosicchè gli atti pubblici dellâantico dominio pisano che fino allora aveavano seguitato a contar lâanno ab incarnatione, cioè nove mesi e cinque giorni prima dello stile comune, e gli atti pubblici dellâantico contado fiorentino che restavano indietro un anno allo stile pisano, dovettero dal primo di gennajo dellâanno 1750 uniformarsi tutti al comune calendario romano. A memoria di ciò fu posta unâiscrizione in marmo sotto la loggia dellâOrgagna nella piazza granducale, dettata dal celebre Giovanni Lami.
Francesco II diede alla Toscana il primo esempio per far godere agli autori il diritto della loro proprietĂ letteraria, e lâavvocato Carlo Goldoni, benchè non Toscano, fu quello che lo meritò.Imperocchè egli ottenne dal Granduca un privilegio (27 settembre 1753) che gli assicurava per dieci anni la privativa di stampare in Firenze le sue commedie, minacciando pene e perdite di tutti gli esemplari a chi avesse ardito introdurre nel Granducato altre edizioni dallâestero, o contraffare la privilegiata.
Francesco protesse gli studj al pari degli autori, mentre ampliò il collegio dei PP. Scolopj allora posto nelle antiche case dei Cerchj; instituiti nellâospedale di Orbatello la prima cattedra di Ostetricia per servire di scuola alle levatrici; aprĂŹ al pubblico la copiosa biblioteca lasciata dal Magliabechi; accolse sotto la sua protezione lâistituto di scuole pubbliche per lâeducazione delle fanciulle aperto in Livorno, ec.
In generale durante il regno di Francesco II si riordinò la pubblica amministrazione; e se la Toscana non risentĂŹ tutti quei vantaggi che aveva in animo quel sommo regante di procurarle, bisognò attribuirlo alla trista circostanza dei tempi piĂš che allâassenza del principe, cioè alle dispendiose e lunghe guerre che si dovettero sostenere dallâimmortale Maria Teresa sua augusta consorte contro tanti e potenti nemici, dopo châeglino avevano riconosciuto e promesso di non ledere i di Lei diritti sulla estesa ereditĂ lasciatagli dallâimperatore Carlo VI.
Erano in questo stato le cose quando fortunatamente il cielo destinò al governo della Toscana lâArciduca Pietro Leopoldo secondogenito di Cesare, nato il 15 di maggio 1747. Fino dal 1753 erasi convenuto fra Carlo III e lâimp.
Francesco di dare in sposa al prelodato Arciduca lâInfanta Maria Luisa di Spagna, previa la libera cessione a favore dello stesso secondogenito e della sua discendenza, del Granducato, dichiarandolo indipendente e separato dagli Stati Austriaci.
Per lâeffettuazione del quale atto lâArciduca primogenito Giuseppe, come quello che portava in sè col titolo i diritti di Gran principe ereditario della Toscana, rinunziò formalmente ogni ragione a favore del fratello e della di Lui successione.
Le feste di cosĂŹ fausto connubio solennizzato in Inspruck nellâagosto del 1765, furono rattristate dalla morte ivi accaduta dellâimperatore Francesco; e i dĂŹ 3 di settembre del 1765, giunse in Firenze il desiderato sovrano con lâAugusta consorte, primo giorno per la Toscana del suo secolo dâoro.
PIETRO LEOPOLDO I, GRANDUCA IX Che bel nome! Che cara rimembranza per i Toscani è quella di Pietro Leopoldo! La giustizia e prosperitĂ che con le sue umane e saggie leggi ne apportò, tanti vincoli ed aggravj che per il bene delle generazioni viventi e successive Egli infranse e annichilĂŹ, questi soli due titoli servono a innalzare e stabilire Pietro Leopoldo sul trono dellâimmortalitĂ finchè esisterĂ la specie umana, sino a che si farĂ buon diritto alla ragione.
Basta aprire il libro della sua legislazione per vedere con quale ordine, con quale proposito deliberato questo principe disponeva e preparava ai suoi piuttosto figli che sudditi il loro ben essere, correggendo a poco a poco i difetti ed i vizj acquistati dallâabitudine dei privilegj di corporazioni, di famiglie e dâindividui, dallâinefficacia e pregiudizio di provvedimenti assurdi, deplorabili. Volle che lâutile dei suoi popoli fosse condito dalla persuasione di chi lo riceveva; volle dimostrare al mondo la maggiore prosperitĂ di uno Stato, prodotta dalla savezza di un supremo ed unico Legislatore.
Non vi è anno, non vi è mese, non vi è dirò cosĂŹ giorno nel regno di Pietro Leopoldo che non sia fecondo di utili provvedimenti sĂŹ nellâeconomico, quanto nel politico, tanto nel civile, come nel morale.
Al suo arrivo in Toscana tutte le risorse dello Stato, gabelle e regalĂŹe di un ogni genere, latifondi della Corona, quelli della religione di S. Stefano, tutti i proventi della finanza erano fra le mani di avidi appaltatori; le arti e mestieri si trovavano sottoposti a tasse multiformi, a ingiuste privative, a fori parziali; il commercio e lâagricoltura da mille ostacoli, da moltiplici aggravj ed angarie oppressi.
Pietro Leopoldo sino dai primi anni del suo governo prese di mira a liberare dai vincoli la piĂš sacra delle proprietĂ , la individuale, allora quando cominciò a sopprimere le matricole delle arti e mestieri (settembre 1767, febbrajo e maggio 1770) a benefizio dellâinteresse personale, onde far progredire le industrie private. Corollario del medesimo principio fu lâabolizione delle cosĂŹ dette comandate e di altre prestazioni servili che esigevano le comunitĂ dai contadini e dalle loro bestie da lavoro (giugno 1776).
Per la stessa massima volle liberare i suoi popoli dalle vessazioni indivisibili dal sistema degli appalti; che perciò non curando quel Sovrano la diminuzione delle rendite regie, prescrisse (agosto dellâanno 1768) lâabolizione di ogni sorta di privative, dâincette, di monopoli, di esenzioni e dâimmunitĂ dagli oneri sociali, tanto per le proprietĂ dei privati, quanto per quelle del principe, del fisco, e di qualsiasi altro corpo e universitĂ ; onde le pubbliche gravezze riuscissero meno sensibili, e perchè fossero, come la giustizia esigeva, risentite ugualmente da tutti i possessori (marzo del 1770). Fu conseguenza di quel sistema legislativo la libera circolazione e negoziazione deâgeneri di suolo, e loro manifatture, sopprimendo a tale uopo ogni sorta di tasse, di contribuzioni parziali, di gabelle interne e di proventi delle piazze e mercati (agosto, ottobre e dicembre del 1775; marzo 1778; settembre 1784).
Nel mentre si ridonava la vita e il rispetto alla proprietĂ individuale, il magnanimo Legislatore applicava la sua grandâopera allâabolizione dei vincoli che investivano lâintegritĂ del diritto della proprietĂ fondiaria o che ne inceppavano lâuso e la commerciabilitĂ (marzo 1769 e febbrajo 1778).
Risplendè poi nel maggior lume possibile la paterna clemenza di quel sovrano verso i suoi sudditi, allorchè, per risvegliare lâamor proprio neâpossidenti, onde ognuno concorresse alle operazioni dâinteresse comune, da primo creò (22 giugno 1769) la Camera delle comunitĂ , incorporandovi quelle del magistrato deâCapitani di Parte, degli Ufiziali dei fiumi e del tribunale dei Nove Conservatori del dominio fiorentino; quindi organizzò un sistema governativo ed economico per tutte le comunitĂ del Granducato, incominciando dalle cittĂ di Volterra e di Arezzo (settembre e dicembre 1772). â Persuaso (diceva il Legislatore nella parte proemiale) che niuno deve avere maggior zelo e premura per la buona condotta e direzione degli affari comunitativi, quanto quelli che vi hanno tutto lâinteresse; e confidando Noi che la libertĂ che averĂ ciascheduno di esaminare le spese, le distribuzioni delle tasse e delle gravezze, e di dire il proprio sentimento sopra i partiti da prendersi, animerĂ i cittadini a impiegare i loro talenti in servigio della patria, e a contribuire con tutte le loro forze alla pubblica felicitĂ , nella quale essi sono i primi interessati, abbiamo risoluto ec." Donde ne conseguĂŹ, che le magistrature comunitative, presedute da un gonfaloniere, il quale suole corrispondere direttamente con il provveditore, ossia col capo della Camera delle comunitĂ del suo Compartimento, vennero a costituire, rapporto allâeconomico, una rappresentanza civica nel Granducato, onorevole al municipio, utile allo Stato. Con altre misure economico-governative fu tentata da Pietro Leopoldo la laboriosa impresa di migliorare le condizioni della Maremma senese. Al qual effetto, dopo aver formato un sistema di governo e di amministrazione speciale immediatamente dipendente dalla sua sovrana autoritĂ (marzo e dicembre 1766, aprile 1767 e 1788), erogò rilevanti somme di denaro (1,700,500 lire) per lâescavazione di fossi e canali, per la costruzione di nuove strade e acquedotti, per rendere piĂš sicuro e piĂš comodo lâaccesso del porto di Castiglion della Pescaja. Tentò inoltre di migliorare la sorte degli abitanti indigeni, e di accrescerne il numero, allettando gli stranieri a stabilirvi la loro dimora mercè di privilegj personali e di esenzioni commerciali, rimuovendo altresĂŹ ogni ostacolo allâindustria dei particolari e consigliando le comunitĂ della Provincia inferiore dello Stato senese a voler assegnare alle famiglie forestiere che vi si stabilissero una parte dei molti terreni comunitativi che restavano improduttivi e inoperosi, mentre il R. erario si obbligava a pagare il quarto del prezzo delle nuove case a chi le fabbricava.
Tutto sembrava coordinato nel piano legislativo- economico di P. Leopoldo, tanto rapporto alla proprietĂ personale, quanto relativamente alla commerciabilitĂ dei prodotti, dei beni mobili e degli stabili. â La legge diretta a prevenire il condensamento successivo delle proprietĂ nei particolari era stata preceduta da quella sulle mani- morte con il motuproprio del 2 marzo 1769, che servĂŹ di aumento e sviluppo a quello emanato nel 1751 dal Granduca Francesco II suo augusto genitore.
âLa legge sui fidecommissi del 22 giugno dellâanno 1747 (diceva un profondo giureconsulto, figlio vivente di questa bella Firenze) quantunque fosse stata dettata dallo spirito eminente di ristringere lâistituzione deâfidecommissi alla sola classe deânobili, di limitare la qualitĂ e natura dei beni coi quali potevano fondarsene dei nuovi, dâimpedire che la loro istituzione fosse il meno possibile pregiudicevole allâinteresse dei terzi: pure quella modificazione di sistema deâfidecommissi e deâmaggiorati per la gran mente di Pietro Leopodo, che voleva lo svincolamento totale, pienissimo del diritto di proprietĂ fondiaria, era un sistema assurdo nella sua base, una sorgente inesauribile di mali morali ed economici per le sue conseguenze e per i suoi resultati. â â Sapeva Egli, che una nobiltĂ immobile e permanente con delle grandi e costanti ricchezze territoriali era un vecchio pregiudizio, una chimera ideale; e che dâaltronde qualunque grado dâinfluenza politica sulla costituzione dello Stato possa mai attribuirsi a cotesta classe della societĂ , Pietro Leopoldo non poteva, nè voleva comprarla a pregiudizio di tutto lâuniversale. Sapeva in ogni caso, che la nobiltĂ non abbisogna dei fidecommissi per conservarsi, che si rinnovella e si recluta continuamente ogni giorno anche dalle altre classi della civile societĂ , e che le vere sorgenti della ricchezza, lâordine, lâeconomia, lâindustria, il commercio fanno sorgere questa nuova nobiltĂ , questa nuova aristocrazia territoriale per subentrare a quella porzione dellâantica, di cui neppure i fidecommissi in tutto il loro vigore hanno potuto ritardare la decadenza.â (GIR. POGGI, Saggio di un Trattato sul Sistema Livellare T. I. §. 293 e segg.) Frattanto il benefico Legislatore della Toscana con una delle solite leggi foriere delle sue piĂš grandi riforme, dopo avere nel 1782 ordinato la resoluzione di tutti i fidecommissi dividui fatti e da farsi, appena che una porzione qualunque dei loro beni fosse rimasta sciolta dal vincolo fidecommissario per lâesaurito passaggio nei 4 gradi prescritti dalla legge del 1747, Pietro Leopoldo, con motuproprio del 23 febbrajo 1789, comandò il proscioglimento di tutti i fidecommissi stati fatti per il passato, salve alcune modificazioni. Allâoccasione medesima proibĂŹ a chiunque per qualsiasi titolo di erigere nuove fondazioni di simil genere, o a titolo anche di sostituzione, le quali per qualche tempo ancorchè breve, rendessero i beni di qualsiasi specie e natura inalienabili.
Per ciò che riguarda il sistema giudiziario, con legge del 30 settembre del 1772 quel monarca organizzò il Compartimento di giustizia dello Stato fiorentino, collâinvestire della giurisdizione civile i respettivi potestĂ , e riservando la giurisdizione criminale ai vicarj regj, o al magistrato degli Otto di Guardia e BalĂŹa rapporto a Firenze e al suo circondario limitato alle sette potesterie minori. In tale occasione restò annullata la cumulativa giurisdizione, che in vigore della legge dellâanno 1423 i vicarj di Certaldo, di S. Giovanni in Val dâArno e quello di Scarperia nel Mugello ebbero sino allora sopra le sette potesterie suburbane di Fiesole, Sesto, Campi, Lastra a Signa, Galluzzo, San Casciano e Bagno a Ripoli.
Finalmente dopo la riforma di varj tribunali (settembre 1774) fu soppresso (26 maggio 1777) il magistrato degli Otto, allorchè venne creato pel criminale un Tribunale Supremo in Firenze, incaricato a disimpegnare le diverse incombenze del magistrato suddetto, e di tutti gli altri tribunali parziali della capitale e di altre città del Granducato, i quali potessero avere avuta una qualche giurisdizione criminale.
Ma la giustizia unita alla clemenza, e a tutte le altre piĂš belle virtĂš di quel magnanimo Legislatore si manifestano nel motuproprio deâ30 novembre 1786, che costituisce il piĂš sacrosanto codice della procedura criminale. Dopo aver Egli aboliti i privilegj personali, dopo aver pareggiati i diritti civili di qualunque classe di sudditi, dopo avere annullata ogni specie dâimmunitĂ , dopo aver riconosciuta lâantica legislazione criminale troppo crudele e severa e derivata da massime stabilite nei tempi meno felici dellâImpero Romano, o nelle turbolenze dellâanarchia del medio evo, e per conseguenza non adattata al dolce e mansueto carattere della Nazione Toscana , stabilĂŹ, che le querele dovessero darsi per formale istanza, che si restituissero i contumaci allâintegritĂ delle difese, che le pene fossero proporzionate al delitto; non ammise la confisca dei beni, non piĂš il giuramento dei rei, nè lâaccusa contro gli affini; impedĂŹ ogni sorta di tortura, abolĂŹ il delitto di lesa maestĂ , e la pena di morte; destinò lâavanzo delle pene pecuniarie e delle multe a rindennizzare quegli innocenti che il necessario corso della giustizia avesse talvolta potuto sottoporre al carcere e alle molestie di un processo, oppure lo assegnò a sollievo dei danneggiati pei delitti altrui.
Lâeffetto fu conforme alle provvide misure e alle clementi intenzioni del Legislatore; avvegnachè i costumi non solo si raddolcirono e le industrie si accrebbero, ma lâozio, i vizj e i delitti andarono gradatamente a diminuire, sino a che arrivò il momento in cui le prigioni di tutto il Granducato (cosa maravigliosa a dirsi!) si trovarono vuote di delinquenti e di accusati.
Per modo chè la Toscana, guidata da Pietro Leopoldo precorse le altre nazioni anche in questo ramo di civiltĂ ; e fin dâallora potè dimostrare allâEuropa, che la prosperitĂ e la quiete dei popoli desunte da leggi imparziali, giuste, e da una saggia libertĂ , non da moltiplici gravose imposte, possono costituire la vera felicitĂ della nazione, e la costante ricchezza del R. erario.
Dopo tuttociò restava a togliere di mezzo unâaltra specie di vincolo alla libera disposizione della proprietĂ fondiaria, vincolo che rimontava allâepoca della Rep.
fiorentina, continuato sotto la dinastia Medicea, e fortunatamente tolto per sempre dallâImperiale dinastia dominante. Imperocchè spesse volte accadeva, che il libero venditore di uno stabile doveva impegnarsi in faccia al compratore e ai suoi eredi dellâevizione dello stabile venduto, e ciò a cagione dellâinquisitore dellâEretica pravitĂ . La quale responsabilitĂ ad ogni sinistro evento ricadere doveva a svantaggio del venditore, innanzi che restasse abolito in Toscana il temuto tribunale del Santâufizio. ââ Se non che qualche zelante, pervenne ad impegnare Pietro Leopoldo in alcune riforme ecclesiastiche, le quali, essendo state prese in sinistro dal popolo e da Roma, suscitarono tanto rumo re, che ne fu tosto ripiena tutta Europa. Comecchè sia a lode del vero, la rettitudine dei principj di quel monarca risplendè e trionfò anche in cotesta delicata materia, tostochè da imperatore Egli ripristinò i seminarj vescovili e varie altre costumanze ecclesiastiche.
La massima sempre vera, perchè autenticata dallâesperienza, è quella, che allor quando si tratta di amministrazione di giustizia, le immunitĂ , le privative e i privilegi sono, non solo direttamente contrarj al bene generale di una ben ordinata societĂ , ma perniciosi pur anche aglâindividui che ne godono il favore. I quali ultimi sogliono usare di quei privilegj come di altrettanti incentivi per fomentare glâingiusti capricci della prepotenza e dellâanimositĂ , impegnandosi persino a far fronte e a contrastare contro la forza di una non equivoca ragione. Tali giusti motivi obbligarono Pietro Leopoldo a parificare nel Granducato indistintamente i cittadini, per ciò che riguarda lâamministrazione della giustizia, con lâabolizione dei sacri asil i e delle parziali giurisdizioni esercitate dalle curie e tribunali vescovili negli affari secolari, riserbando loro le cause meramente spirituali (luglio 1778, e ottobre 1782). Per la stessa ragione annullò il tribunale della Nunziatura, (settembre 1778) quello dellâInquisizione (luglio 1782) e varie altre prerogative, delle quali fruivano i rappresentanti delle municipali magistrature (giugno 1779) i cavalieri di Santo Stefano (1783) e i feudatarj (febbrajo 1786).
Si ripristinarono perciò nei loro diritti i tribunali e magistrati ordinarj, cui furono date istruzioni opportune e ordini rigorosi sui termini e istanze delle cause, sul modo di spedirle, sulle tasse e spese di liti, sugli onorarj dovuti ai causidici, ai notari e ai cancellieri (dicembre 1771 ottobre 1779) con provvide istruzioni per rendere meno penoso il carcere ai detenuti (novembre 1781).
Sapeva Pietro Leopoldo che tutte queste riforme, che sĂŹ fatte abolizioni di tasse, di appalti, di propine, di fronte a tante pubbliche spese dovevano vistosissimamente diminuire le regie entrate. Lo sapeva e lo diceva, ma piĂš lo moveva il desiderio del bene pubblico che il vantaggio proprio; avvegnachè prevedeva ciò che avvenne, cioè, che una piĂš esatta amministrazione deâbeni, una piĂš attiva circolazione deâgeneri, una piĂš libera, piĂš estesa e migliore manifattura deâprodotti nostrali dovevano supplire a tuttociò che perdeva. E chiaramente lo dimostrò col fatto, tosto che questo stesso Granduca fu in grado, non solamente di soddisfare ai frutti del debito pubblico, ma di erigere stabilimenti nuovi e di estinguere tanti luoghi di monte per la somma di lire 56, 649, 201.
Tra mezzo a tutte queste cose Pietro Leopoldo non tralasciava di ordinare nelle varie parti del Granducato stabilimenti di utilitĂ pubblica, sĂŹ per lâeducazione morale, civile e religiosa, tanto per soccorso dei poveri, come anche per decoro della santa religione che professava.
Non dirò delle moltissime chiese parrocchiali edificate per le campagne, dove, o mancava chi amministrava i sacramenti, o non bastavano i mezzi da mantenere i parrochi, o per vecchiezza cadevano le loro abitazioni.
Nè starò a dire dei canali aperti, dei ponti costruiti, dei paduli bonificati in Maremma e in Val di Nievole, dei laghi prosciugati, delle grandiose terme edificate; nè starò ad enumerare quali, quante, e a chi vistosa somma ascendessero le strade aperte nel Granducato sotto il suo regno. Senza far menzione alcuna delle vecchie vie maestre restaurate, nè di quelle per abbellimento e per comodo di varie terre e cittĂ costruite, basterĂ dare unâocchiata alla seguente nota officiale.
- La strada che dalla cittĂ di Pistoja valicando la montagna guida sulla sommitĂ dellâAppennino ai confini del modenese, costò lire 2, 612,895 - Da Pistoja fino al confine lucchese del Ponte allâAbbate lire 1, 000, 882 - Da Pisa a Livorno lire 263, 181 - Quella R. Lauretana che da Siena per Asciano varca in Val di Chiana lire 273, 888 - La Traversa che dal Borgo a Buggiano conduce a Pisa, e quella che vĂ ad Altopascio lire 346, 603 - La strada che si prolunga per Vico Pisano, Calcinaja e Val di Nievole lire 340, 193 - Quella della Valdichiana per Torrita lire 273, 879 - La strada da Volterra alla Marina di Cecina lire 94, 313 - Quella da Siena a Grosseto lire 227, 082 - La strada da Massa a Follonica lire 140, 000 TOTALE Lire 5, 572, 916 Rimase incompleta la strada aperta al Pontassieve per San Godenzo dovendo varcare lâAlpe di S. Benedetto e traversare la Romagna toscana; la qual via si arrestò a piè della montagna medesima, sino a che essa è stata continuata nella parte piĂš difficile e piĂš alpestre dalla magnanimitĂ del SECONDO LEOPOLDO felicemente regnante.
Non si conosce esattamente il costo di molte altre strade tracciate sotto lo stesso Granduca, come sono quelle dal Pontassieve fino alla Consuma, da Pisa al Fitto della Cecina, il tronco della strada Aretina da Malafrasca ad Arezzo, lâaltro tronco da Palazzone al Bastardo sino in Valdichiana quello dalle Fornacette alla strada di Vicopisano.
Non occorre indagare quanto costassero i Campisanti costruiti lontano dallâabitato, in ordine al motuproprio deâ30 novembre 1775, tosto che quello solo di Trespiano, spettante alla cittĂ di Firenze, importò lire 329511.
Per ordine di Leopoldo un milione di lire erogato negli 83 conservatorj e stabilimenti di lâeducazione per le fanciulle di tutti i ceti, sparsi nel Granducato.
Basta aggiungere, in quanto spetta alla cittĂ di Firenze, che nel tempo medesimo sorgevano scuole pubbliche per ogni classe e per ogni sesso in ciascuno dei quattro quartieri della capitale, nei quali destinò chirurghi ostetrici e levatrici stipendiate. Assegnò premj ai medici e a chiunque avesse liberato dalla morte apparente asfissi ed affogati. RiunĂŹ per un piĂš esatto servizio i molti ospedali della cittĂ nei tre piĂš grandiosi di S. Maria Nuova, deglâInnocenti e di Bonifazio, conservando inoltre quello grandioso dei Benfratelli. Ai quali ospedali non solo aumentò le rendite e il locale, ma fece rialzare dai fondamenti con piĂš ordine e maggiori comodi e simmetria quello di Bonifazio Lupi, destinandone una porzione aglâinvalidi, lâaltra ai dementi dei due sessi.
Nellâarea giĂ occupata da un monastero i donne e dal soppresso spedale di S. Matteo, Pietro Leopoldo fece innalzare un grandioso edifizio per lâaccademia delle Belle arti, fornito di maestri del disegno, dalla pittura alla scagliola, dallâincisione in rame e in camei al commesso delle pietre dure, e assegnando premj agli alunni cui preparò in quel locale, oltre agli accennati soccorsi, una copiosa collezione di modelli in quadri della scuola fiorentina, e in gessi tratti dai capi dâopera di scultura antichi e moderni. Mentre tutto ciò operava a prò delle Belle arti, lo stesso G.D. faceva acquisto del palazzo Torrigiani, prossimo alla sua reggia deâPitti, per convertirlo in un Gabinetto di Fisica e di Storia Naturale con un Osservatorio astronomico, onde offrire alla vista giornaliera del pubblico la piĂš memorabile e rara collezione dâistrumenti fisici dellâAccademia del Cimento, di preparazioni anatomiche in cera e di prodotti dei tre regni della natura raccolti da varie parti del globo, con lâesemplare vivente del regno vegetabile nel contiguo splendidissimo orto botanico.
Gli studj di Pisa e di Siena meglio si ordinarono, nel tempo che a Firenze nuove cattedre di agraria, di giurisprudenza e di medicina sâistituivano; che le librerie della Laurenziana e della Magliabecchiana di codici numerosi e di libri provenienti dalle biblioteche Palatina, Gaddiana e Strozziana si arricchivano; quando la galleria sopra gli Ufizj e la loggia dellâOrgagna di antiche statue si adornavano.
Inoltre instituĂŹ sopra la fabbrica degli Ufizj un monumento alla storia del medio evo nellâArchivio Diplomatico, che quel sovrano ordinò ad oggetto di raccogliervi gli antichi documenti MSS. in cartapecora. â Avendo in veduta (dice il motuproprio del 24 dicembre 1778) li importanti lumi, che tali documenti possono apportare non solo allâerudizione ed allâistoria, quanto ancora ai pubblici e privati diritti, S. A. R. ha determinato di stabilire in Firenze un pubblico Archivio Diplomatico, preseduto da un direttore con due ajuti che travaglieranno sotto di lui per lâordinazione ed illustrazione delle cartapecore; riserbandosi S. A. R. ad accrescere di questi il numero, allorchè si riconoscerĂ , che la quantitĂ dei documenti lo esiga.â Con quale operositĂ , zelo ed intelligenza cotestâArchivio Diplomatico, dallâepoca della sua instituzione sino a oggi abbia progredito, lo diranno tutti quelli che ebbero occasione di visitarlo e di ammirare in quella copiosissima raccolta, di 140000 pergamene, circa 135000 di esse di giĂ spogliate, cronologicamente ordinate, e in gran parte da queglâimpiegati illustrate.
Ma il fatto che piĂš di ogni altro recherĂ stupore alla posteritĂ , e che renderĂ Leopoldo tanto piĂš grande quanto piĂš il mondo invecchierĂ , sarĂ quello di sentire che un principe indipendente, come un Granduca di Toscana, innanzi che fosse chiamato dai destini a succedere al defunto fratello sopra un piĂš alto trono, volle lasciare ai suoi sudditi un pegno prezioso e solenne della sua clemenza e bontĂ col pubblicare un Rendimento di conti esatto e sincero assai piĂš di quello che avrebbe potuto aspettarsi da un amministratore o curatore, anzichè da un padrone assoluto, cui non restava alcuna cosa, eccetto la sua coscienza, da consultare. â Quel magnanimo e sapiente monarca era talmente persuaso, che il piĂš efficace mezzo per sempre piĂš consolidare la fiducia dei popoli verso il governo fosse quello di sottoporre alla cognizione di ciascun individuo le diverse mire e ragioni che avevano servito di fondamento ai provvedimenti prescritti secondo lâesigenza e lâopportunitĂ delle circostanze, volle manifestare senza riserva e colla massima chiarezza lâerogazione dei prodotti delle pubbliche contribuzioni. Che perciò Egli stesso con simili eroiche parole esordiò il suo famoso Rendiconto, allorchè fece dare alle stampe il dettaglio ragionato, non tanto di ciò che riguardava lâamministrazione della finanza, dal suo avvenimento al trono della Toscana fino a tutto lâanno 1789, ma di quanto ancora potesse mai aver rapporto alle principali operazioni e regolamenti di pubblica economia agraria, industriale e di commercio, alle leggi civili e criminali, alla pubblica morale e disciplina ecclesiastica, alli stabilimenti di caritĂ e dâistruzione. Premessa una sincera esposizione dello stato politico ed economico della Toscana, quel Sovrano diede un dimostrativo discarico della totalitĂ delle RR. rendite, e della loro erogazione. Dalla quale dimostrazione appariva: che nellâanno 1765, ultimo del governo di Francesco II, gli Assegnamenti ed Entrate diverse dello Stato ascendevano a lire 8, 958, 685. 17. 4, quando le Spese ed Aggravj, tanto orinarj come straordinarj, assorbivano la somma di lire 8, 448, 892. 1. 10. â Avanzo netto lire 509, 193 15 6.
Altronde il prospetto generale dellâEntrata e Uscita, desunto dai resultati dellâanno 1789, diede di prodotto, a Entrate lire 9, 199, 121. 1. 9; e a Uscite lire 8, 405, 056.
8. 4. Cosicchè restarono superiori lâEntrate di lire 784, 064. 8.4.
Per la quale generosa e spontanea dimostrazione Pietro Leopoldo, con una sorprendente chiarezza, con documenti e prove di fatto, volle a chiunque dimostrare non solamente il resultato della percezione, ma anche lâerogazione delle rendite deâsuoi stati per il corso di 24 anni del suo felice governo, onde far conoscere il suo massimo disinteresse e la costante premura con cui Egli aveva impiegate le pubbliche risorse nel migliorare lâamministrazione economica, sgravando progressivamente lo Stato dal debito che lo affliggeva, nel tempo che a favore dei suoi sudditi il Granduca rinunziava a molti assegnamenti, a tante gabelle, tanti appalti, tante regalĂŹe, tasse e privilegj percepiti dai sovrani che prima di lui avevano retto i destini della Toscana.
Non aveva appena cominciato il suo corso lâanno 1790, quando giunse a Firenze la trista nuova della immatura morte dellâimperatore Giuseppe II nella fresca etĂ di 49 anni, caso tanto piĂš dolente per i Toscani, in quanto che doveva allontanare da essi lâAugusta persona del benefico sovrano che con sommo amore e filantropia per 25 anni gli aveva diretti, corretti, visitati e beneficati.
Infatti lâimperatore Leopoldo, nel dĂŹ 1 marzo del 1790, lasciò Firenze dopo aver nominato un consiglio di Reggenza con facoltĂ di spedire tutti gli affari a tenore delle istruzioni e ordini che riceverebbe da S. M. R. e Imperiale nella sua qualitĂ di Granduca di Toscana.
Nel settembre dellâanno medesimo 1790 furono celebrati in Vienna i ben augurati sponsali dellâArciduca Ferdinando secondogenito dellâImperatore con lâInfanta Luisa Maria Amalia figlia di Ferdinando IV re di Napoli.
La quale celebrazione fu preceduta dallâatto solenne fatto in Vienna, li 21 di luglio 1790, da S. M. R. e Apostolica a favore dello stesso Ferdinando suo figlio, cui rinunziò la libera sovranitĂ del Granducato di Toscana.
Infatti il nuovo Granduca fu annunziato e proclamato in Firenze con editto della Reggenza del 7 marzo dellâanno 1791, in seguito da un dispaccio dellâimperatore.
Il motuproprio dei 22 febbrajo 1792, col quale Pietro Leopoldo annunziò ai Toscani la cessazione del suo governo, costituisce un monumento storico glorioso per quel Monarca, per la Nazione che resse, per lâAugusto figlio che gli succedè. Ecco con quali memorande parole quel generoso Sovrano si congedava dai Toscani. â Terminando il mio governo dal giorno della pubblicazione dellâatto stipulato in Vienna il dĂŹ 21 luglio 1790, ho creduto di dovere ed insieme di giustizia, di dare al militare, alla nobiltĂ , alla cittadinanza, al ceto deglâimpiegati, ai capi di dipartimento e specialmente della Reggenza, come anche a tutta intiera la nazione e popolo toscano un pubblico contrassegno del mio particolare gradimento, riconoscenza e gratitudine per lâattaccamento che hanno dimostrato alla mia persona, quanto ancora per lo zelo, premura e buona volontĂ , con cui è stato daglâimpiegati e da tutto il pubblico concorso costantemente contribuito alla buona riuscita di quanto è stato operato nel tempo del mio governo. Con questa persuasione mi lusingo ancora, che dagli effetti ognuno sarĂ rimasto persuaso, che ben lungi dallâaver avuto fini secondarj, ed oggetti particolari, tutte le pene che mi sono dato sono state sempre dirette al pubblico vantaggio ed allâadempimento dei miei doveri. Ă vero che sono state le mie cure largamente ricompensate dallo zelo e premura del ministero e del pubblico, il quale si è interessato alla felice riuscita delle mie operazioni; ma questo appunto mi porge tutto il motivo e speranza che il mio Figlio, al quale non ho tralasciato dâinculcare li stessi sentimenti, troverĂ pure in ogni ceto quellâattaccamento, affetto e docilitĂ , che formano il carattere della Nazione.â Beato quel principe, fortunato quel popolo che ha tanta contentezza da poter dire di lasciare la generazione che gli succede cresciuta e stabilita nei precetti della virtĂš, nellâesperienza del ben operare e nel possesso della comune felicitĂ ! Tale quale Cesare lo predisse fu lâottimo principe Ferdinando III, che il suo popolo amò dalle fasce, e che fatto Granduca con effusione sincera di affetto e di rispetto accolse ed acclamò nel giorno di 8 aprile dellâanno 1791, giorno in cui Egli giunse con lâAugusta Sposa nella sua capitale.
FERDINANDO III, GRANDUCA X Non vi fu forse nei tempi trapassati un sovrano, il quale, trovandosi in mezzo alle piĂš difficili circostanze politiche, senza eserciti da farsi ragione e con un piccolo Stato da governare, sapesse al pari di Ferdinando III felicitare i sudditi mediante la dolcezza del suo dominio.
Non aveva la Toscana in sessanta anni di governo della dinastia Lotaringio-Austriaca assaggiate per anco le leggi amarissime della necessitĂ . I primi suoi colpi e lâire prime della fortuna aspettarono che fosse salito sul trono il figlio del Gran Leopoldo, affinchè le piĂš intricate difficoltĂ nellâarte di regnare servissero di tirocinio allâottimo principe.
Erano la mente e lâanimo di Ferdinando rivolti a completare alcune disposizioni economiche, giudiciarie e governative, incominciate dallâaugustissimo suo Genitore.
Tale fu la legge del 18 ottobre 1791, sullâimportante oggetto delle dogane, cui appellava lâeditto del 30 agosto 1781 per stabilire una gabella unica e una tariffa generale.
Tale lâopera utilissima che tanto lâAvo come il Genitore eransi proposta per la compilazione di un Codice toscano, della quale importantissima impresa, con dispaccio del 21 maggio 1792, Ferdinando III affidò lâincarico allâinsigne giureconsulto G. Maria Lampredi, invitando a concorrervi coi loro lumi tutti i magistrati del Granducato. Tale ancora lâidea che dettò la legge del 26 settembre 1794 sulla revoca dellâaffrancazione della Tassa di Redenzione alle ComunitĂ per lâestinzione dei luoghi di Monte, nella veduta di preparare i mezzi alla rettificazione del Catasto, cui si opponeva direttamente lâoperazione dello scioglimento del Debito pubblico, ordinata con le leggi del primo e del 7 marzo 1788, che doveva convertire in un debito privato la respettiva tangente della Tassa prenominata. Mosso il Granduca dal desiderio di provvedere ai bisogni in tempi di carestia, pubblicò la legge del 9 ottobre 1792, colla quale venne proibita lâestrazione dei generi frumentarj indigeni del Granducato, e si ristabilivano gli ufiziali dellâAnnona e della Grascia.
Ma le sublimi qualitĂ , e la dolcezza del carattere di Ferdinando III rapporto agli affari politici si svilupparono sino da quando prese fuoco la rivoluzione francese; e fu Ferdinando III il primo tra i regnanti, il quale, penetrato dal sentimento della sua posizione, consentisse di trattare mediante un suo ministro col Comitato di Salute pubblica.
Il trattato del 5 febbrajo 1794, che stabiliva la neutralitĂ fra la Toscana e la Francia, fu intavolato e sottoscritto dal Granduca nel desiderio di liberare i suoi popoli dalle sciagure, e se stesso da quei pericoli, ai quali però ben presto sudditi e sovrano si trovarono esposti. Imperocchè appena le armate della Repubblica francese ebbero superate le Alpi (anno 1796), quel Direttorio dopo avere ottenuto che si allontanassero tutti gli emigrati rifugiati in Toscana, comandò, che una divisione dellâesercito di Bonaparte penetrasse nel Granducato, (26 giugno 1796) sotto pretesto che la bandiera repubblicana era stata insultata daglâInglesi nel porto di Livorno, che le proprietĂ dei negozianti francesi vi fossero state violate.
Intanto che il vincitore di Montenotte faceva eseguire in Livorno il sequestro di tutti i capitali del commercio inglese, e di ogni sorta di mercanzie che potevasi scuoprire di proprietĂ loro, o dei sudditi delle potenze belligeranti; intanto che, per colmo di arbitrio, si arrestava il governatore di Livorno inviandolo con dei lamenti a Firenze; frattanto che le carpite merci si vendevano con molte fraudi; nel mentre che si mugnevano i negozianti tutti di quel porto con cinque milioni di lire di riscatto, sovrastava al Granduca il pericolo di vedersi togliere lo Stato, siccome tale era lâintenzione di Bonaparte.
Allâepoca di questa prima invasione francese nella Toscana Firenze vide spogliarsi di molti capi dâopera di belle arti, fra i quali la famosa Venere deâMedici, ritornati tutti nel 1815.
Intanto che i Francesi maltrattavano Livorno, glâInglesi non portavano maggior rispetto a Porto Ferrajo, dove nel dĂŹ 9 di luglio si presentarono minacciosi con grossa flottiglia e con truppe da sbarco. La perdita istantanea della Corsica, obbligò glâInglesi a lasciare quel porto, dopo averlo per breve tempo occupato; e ciò poco dopo che, previo lo sborso di due milioni di lire le truppe francesi avevano evacuato Livorno (maggio 1797) impegnando il Granduca a dovere chiudere aglâInglesi i porti del littorale. â Ma non per questo il direttorio rinunziava alle sue mire tendenti alla conquista definitiva della Toscana.
Lâarmistizio di Campo Formio, e quindi la pace di Udine sospese, ma non distornò il Direttorio dal meditato progetto. Avvegnachè si ebbe ricorso ad altri mezzi con sollecitare indirettamente i meno cauti, o i piĂš esaltati a tentare di sollevare gli animi dei Toscani per natura loro propensi alla pace, e fedeli allâottimo loro monarca.
GiĂ da qualche temp o sâintroducevano da varj punti in Toscana uomini senza carattere e forse col solo scopo di preparare dei fautori alla Francia, e di staccare i sudditi dalla soggezione e affetto verso il sovrano. Fu una questa delle ragioni che obbligò Ferdinando a emanare la legge del 30 agosto 1795, con la quale deviò in qualche parte dalle massime che costituiscono la magna carta deâ30 novembre 1786 del Codice criminale toscano.
â Convinto da una trista e dolorosa esperienza (diceva lâaugusto Figlio di Pietro Leopoldo) che un sistema piĂš dolce nella procedura, piĂš mite nelle pene, per quanto era confacente al carattere mansueto della nazione toscana, poteva per altro richiamare dai paesi circonvicini dei soggetti facinorosi con grave discapito della quiete e sicurezza dello Stato e dei sudditi, si trovò Egli perciò costretto a richiamare un maggior rigore nei giudizj, e ad aggravare il gastigo, onde atterrire i mali intenzionati, e specialmente coloro che avessero tentato di sovvertire lâordine pubblico.â Al principio del 1798 il Direttorio esecutivo fece dichiarare al Granduca che bisognava scegliere, o unâalleanza attiva, o unâostilitĂ dichiarata. Mentre però Ferdinando si lusingava di veder compiti i suoi voti per il ristabilimento della pace, specialmente in Italia, Egli sentiva presso alle porte dei suoi Stati movimenti di armate, e misure di guerra minaccianti la sicurezza e tranquillitĂ sua e dei suoi sudditi. Quindi, vide la necessitĂ di prendere delle precauzioni per la comune difesa, con un appello ai suoi buoni Toscani, fatto nel 30 novembre 1798, allorchè invocava la divina Provvidenza, affinchè volesse preservare da ogni disastro questo innocente paese, il quale non aveva se non che deâdiritti alla riconoscenza di tutte le Nazioni.
Si formarono pertanto varj corpi di volontarj da arruolarsi neâbattaglioni di Bande, dipendenti dagli ufiziali della truppa regolata, onde provvedere alla difesa della comune patria.
Ma il Governo francese che aveva penetrato la politica del Granduca, e la Rep. Cisalpina che erasi accorta della vigilanza che si praticava in Toscana sopra glâindividui provenienti dalla Lombardia, ebbero ricorso ad un nuovo pretesto, come quello dâaver favorita e permessa alle truppe napoletane lâoccupazione di Livorno, nel gennajo dellâanno 1799. Dietro a sĂŹ fatto reclamo si vide entrare minacciosa nel Granducato una divisione dellâarmata francese, per rimuovere la quale il Principe pagò rilevanti somme onde facilitare ai Napoletani lâevacuazione di Livorno e la ritirata deâRepubblicani dal Granducato.
Ma poco dopo (marzo 1799) rottasi la pace tra la Repubblica francese e lâImperatore, anche la Toscana fu compresa nella dichiarazione di guerra; cosicchè i Francesi penetrarono da tre punti nel territorio Granducale, e il ventisette di marzo, giorno di lutto universale, Ferdinando III con lâAugusta famiglia dovè lasciare la sua reggia, e con dolore abbandonare i suoi desolati sudditi dopo averli esortati ad adattarsi con rassegnazione alla sorta.
STATO DI FIRENZE DURANTE LâASSENZA FORZATA DI FERDINANDO III Gli avvenimenti politici, di cui molti tra noi fummo testimoni, e il desiderio di attraversare sollecitamente cotesta tempestosa laguna per rientrare al piĂš presto nel porto, renderĂ piĂš rapido il discorso sulle vicende politiche che chiusero con molte lacrime il secolo XVIII, e che in mezzo a tumultuose sevizie diedero principio al secolo XIX.
Centundici giorni Firenze e una gran parte della Toscana ubbidĂŹ sommessa e taciturna agli ordini di chi subentrò al governo di Ferdinando III, in guisa chè un generale di divisione (Gaultier) e un commissario di guerra (Reinhard) reggendo la somma delle cose, nel 5 aprile annunziavano ai Fiorentini, che il giorno 18 germinale, anno VII Repubblicano, farebbe epoca nei loro annali, dopo il voto legalmente espresso dai rappresentanti della cittĂ . Stantechè quel giorno era stato destinato alla festa patriottica dellâerezione dellâalbero della libertĂ , davanti al vecchio palazzo del popolo fiorentino.
Era appena scorso un mese da che le truppe francesi occupavano la Toscana, quando gli abitanti delle cittĂ di Cortona e di Arezzo pieni di furore e di vendetta, innalzando lâinsegna della rivolta, e gridando Viva Maria, distruggevano gli alberi della libertĂ , e facevano man bassa sopra chiunque fosse stato di francesismo sospetto.
Mentre tali faccende mettevano in gran pericolo la Toscana, in vista che le forze deâRepubblicani erano ancora considerevoli in Italia, mentre era per attraversarla un numeroso esercito reduce dallâinvasione di Napoli, il duumvirato di Reinhard e di Gaultier con proclami atterriva (5 maggio 1799) tutte le comunitĂ della Toscana, nelle quali si fossero formati attruppamenti sediziosi.
E quasi che la nazione toscana avesse di proprio intuito chiesto di essere rigenerata allâuso di quel governo, veniva rimproverato dai duumviri con queste ridevoli parole chi era avvezzo a vivere sotto le leggi Leopoldine: âŚâŚVoi che atterrate gli alberi della libertĂ , dovevate nel giorno in cui essi furono piantati eslamare: noi vogliamo rimanere schiavi; la ragione non è fatta per noi: ci dichiariamo indegni di esercitare i diritti dellâuomo!!!âŚ..
Per buona sorte degli Aretini, verso il finir di maggio lâarmata di Macdonald passava da Siena, donde questo maresciallo fulminava bando di esterminio, se Arezzo e Cortona ben tosto non si sottomettevano. Ma gli Aretini e i Cortonesi non si sbigottirono; e la tempesta attraversò senza toccare il loro territorio. Quindi le tre sanguinose giornate della Trebbia (18 19 20 giugno) avendo deciso delle sorti in Italia, liberossi la Toscana dai Francesi; i quali senza attendere alcuna truppa regolata dellâesercito vincitore, nella notte del 4 al 5 luglio, lasciarono Firenze vuota di presidio, e di ogni sorta di pubblico denaro.
La loro taciturna ritirata da una popolosa cittĂ mise a cimento il buon ordine e la quiete pubblica in guisa, che ad onta delle esortazioni dei magistrati provvisorj Firenze videsi involta fra persecuzioni di cittadini e di contadini, i quali senzâordine e senza legge a furia di spaventevoli grida e dâinsulti imprigionavano, saccheggiavano e inveivano tumultuariamente contro coloro che avevano servito o in qualche modo aderito al governo francese. â Per buona sorte lâanarchia non fu di lunga durata, cui successe un governo provvisorio, che nellâassenza tanto deplorata del legittimo sovrano sostenne lâamministrazione dello Stato. In questo modo terminò lâanno 1799, ed era giĂ a mezzo il corso il 1800, quando arrivò a Firenze la novella della battaglia di Marengo, (14 giugno) che ripose i destini dellâItalia e dellâEuropa in mano di Napoleone.
Allora pur anche la Toscana dovette di nuovo piegare il collo al giogo francese, e nel 15 ottobre di detto anno i generali Dupont e Miollis entravano in Firenze, 4 giorni innanzi che Mounier e Cara Saint Cyr sâimpadronissero a viva forza di Arezzo e la ponessero a sacco. Intanto un triumvirato di parte francese era succeduto alla reggenza che aveva governato pel legittimo principe questa provincia; quando pel trattato di Luneville (9 febbrajo 1801) il primo Console Napoleone cedè a Lodovico di Borbone, figlio dellâInfante duca di Parma, il Granducato sotto il titolo di Regno di Etruria ; regno pagato a caro prezzo dalla Spagna con la cessione della Luigiana, col dono di cinque vascelli e con lo sborso di piĂš milioni di contante. Si prometteva poi nel suddetto trattato una indennitĂ piena ed intera al Granduca Ferdinando III in Alemagna, dei suoi stati aviti dâItalia.
Nè è da tacersi la fedeltĂ degli Elbani verso questo amatissimo principe; poichè Portoferrajo resistè alle forze di terra e di mare spedite dalla Francia per conquistare lâIsola; nè fu capitolato se non dopo il trattato dâAmiens fra la Francia e lâInghilterra, e lâannuenza richiesta dal legittimo principe, pel quale combattevano; e fu dâallora in poi che la Francia si ritenne tutta lâIsola. Frattanto fu ricevuto dal general Murat nel 12 agosto in Firenze il re Lodovico, il quale, per quanto disbrigar si volesse delle truppe francesi stanziate in Livorno, non riescĂŹ che tardi nellâintento. ââEgli con decreto del 2 giugno dellâanno 1802 associò la Regina sua consorte al consiglio e alla direzione delle pubbliche cose. Ma infermiccio di salute comâegli era, dopo il ritorno da un viaggio in Ispagna, morĂŹ nel 29 maggio 1803, lasciando il trono al piccolo figlio Carlo Lodovico, assistito dalla vedova Maria Luisa, come Regina reggente.
Avvenivano tali cose in Toscana, quando con passi di gigante Napoleone Bonaparte da un Senatus Consulto nel 18 maggio del 1803, veniva dichiarato imperatore deâFrancesi, e nel 2 del successivo dicembre dallâimmortale Pio VII nella metropoli della Francia incoronato.
Quindi nel 26 maggio del 1805 cinse in Milano il diadema come re dâItalia; e forse credutosi piĂš che mortale non conobbe piĂš freno alle ambizioni. Nè abbandonollo la volubil fortuna, finchè non lo spinse allâapice della grandezza con la vittoria di Austerlitz (nel 2 dicembre 1805, anniversario della sua vittoria morale sulla democrazia francese), e col celebre trattato di Presburgo (26 dicembre detto), in cui novelli regni creava, altri ne distruggeva e permutava, facendo dinastica la sua casata.
Mercè i capitoli di quel trattato, Ferdinando III, che fino dal 1803 reggeva Salisburgo col titolo di Elettore, ebbe nuova sede e granducato in Wurtzburgo, ove nel 1807 Egli creava lâordine del merito sotto il titolo di S.
Giuseppe. Frattanto la Regina reggente di Etruria non dimenticava i disegni deâprincipi Austriaci a favor delle lettere, consacrando col motuproprio del 20 febbrajo dello stesso anno il R. Museo alla pubblica istruzione.
Ma agitando sempre nella sua mente lâimperator deâFrancesi prepotenti concetti, convenne con Carlo IV re di Spagna, mediante il trattato di Fontainebleau (27 ottobre del 1807) che sâincorporasse la Toscana alla Francia, e che Carlo Lodovico re di Etruria a titolo dâindennitĂ avesse il regno della Lusitania settentrionale, mentre si destinavano le province degli Algarvi in sovranitĂ al principe della Pace, e il rimanente del Portogallo allâImpero francese; decorando col titolo dâImperatore delle due Americhe il mentovato Carlo IV re di Spagna. Per questi politici divisamenti la Regina reggente si trovò costretta a licenziarsi nel 10 dicembre 1807 coâsuoi popoli in cotal guisa: âAvendoci lâimperatore dei Francesi e re dâItalia reso noto,che per un trattato concluso con S. M. Cattolica vengono a noi destinati altri Stati in compenso del regno di Etruria,dichiariamo da questo giorno cessato il nostro governo e sciogliamo la Nazione da qualunque vincolo di sudditanza ec.â âDifatti in quello stesso giorno entrarono in Firenze le soldatesche francesi, tenendo il superiore comando Reille e Miollis, fino a tanto che, pubblicato il codice Napoleone nel 25 maggio 1808, una Giunta di governo da Menou preseduta, nel 9 luglio dellâanno suddetto, non ne prese lâassoluta direzione. Divisa la Toscana in tre dipartimenti, dellâArno, dellâOmbrone e del Mediterraneo, ottenne dallâImperator deâFrancesi di etrusca origine due gran privilegj, cioè lâuso del patrio idioma nel foro e nei pubblici affari, e lo splendor dâuna corte, dichiarandone Granduchessa (6 marzo 1809)la sua sorella maggiore. Ma per quanto proseguisse la volubil fortuna a decorare Napoleone di allori nelle giornate di Eylau, di Fryedland, di Eckmul e di Wagram, pure lâingiusta guerra da lui mossa al re di Spagna per usurpargli la corona, e lâaltra ardimentosissima contro la Russia, furon cagione che tutta Europa si collegasse in cotal modo per la sua ruina, che nel dĂŹ 14 aprile 1814 dura necessitĂ lo astrinse a rinunziare allâimpero. âRisentĂŹ la Toscana, come ogni altra provincia, lâeffetto delle strepitose vicende, e nel 1 febbrajo di quellâanno era giĂ partita di Firenze la granduchessa francese, e nel giorno 6 entrarono nella cittĂ milizie napoletane addivenute amiche e collegate collâAustria. Ma spuntò finalmente il ridente giorno del 19 aprile, in cui ne fu preso possesso pel sospirato suo antico Signore Ferdinando III; il quale nel 18 settembre dellâanno stesso fra i trasporti di gioja e le acclamazioni piĂš vive fece lâingresso solenne nella sua metropoli, dopo 15 anni di dolorosa assenza. Fu il governo francese per i Toscani insopportabile e duro, perchè governo assoluto e di reggimenti non proprj al carattere di docile Nazione. Non vi fu famiglia, cui non contristasse la fatal coscrizione; increbbero i diritti riuniti ; pesò il prepotente comando. Pure fra tanti mali fuvvi alcun bene. Si migliorarono le branche amministrative per la precisione, lâordine e il rigore introdottivi; furono moltiplicate ed ampliate le strade in servigio al commercio, eretti ponti, abbellite e illuminate le cittĂ , protetti gli ingegni, incoraggiate le arti e le manifatture collâerigere a incremento di esse il Conservatorio annesso allâAccademia delle Belle Arti con una confacente biblioteca. Piacque la pubblicitĂ dei giudizi, la sollecitudine nelle sentenze, la bontĂ delle leggi civili, la severitĂ nella procedura commerciale, e ciò che piĂš monta, restò esonerato e liberato lo Stato di ogni suo debito per mezzo dei beni e delle soppresse corporazioni morali.
GOVERNO DI FERDINANDO III IN TOSCANA DOPO LA RESTAURAZIONE Ritornato allâavito trono il desideratissimo Ferdinando III, fece tosto risplendere in pienissima luce quella caratteristica virtĂš che seco nacque e lâaccompagnò nel sepolcro, la piĂš squisita bontĂ . Infatti nel novello reggimento egli prese per guida delle sue opere la felicitĂ dello Stato, e non le infiammate passioni deâtempi; nè sentĂŹ brama alcuna di vendetta per le ingiurie e i delitti, onde furono pur troppo brutti e sanguinosi gli ultimi giorni del secolo trapassato. Fra i primi atti del suo animo generoso si fu quello dâinterrogar la sapienza deâtoscani giureconsulti, per dare ai sudditi leggi, quali richiedeva lâetĂ presente e tanta esperienza di cose. Pose adunque mano nel 1814 a riordinare il governo secondo le istituzioni del suo Augusto genitore, nè tampoco trascurò le straniere, che a lui parvero le piĂš utili alla pubblica prosperitĂ dopo unâesperienza dimostrata. Per queste ragioni i tribunali, i magistrati, le ruote si riprodussero secondo lâantico sistema, e in una forma di evidente giustizia; imperciocchè volle che palesi fossero le azioni delle cause si civili, che criminali; palesi le accuse, le difese, le assoluzioni, le condanne. âCon motuproprio deâ13 ottobre 1814 creò la Ruota civile e criminale di Grosseto, che comprendeva nella sua giurisdizione tutto il territorio dellâantica provincia inferiore senese, e nei rapporti di Ruota criminale estendeva la sua giurisdizione anche al Piombinese e allâisola dellâElba. Ma il cielo politico non era ancora sereno; fosche nubi addensaronsi, e minacciarono altra funesta esplosione. Nel 20 marzo 1815 Napoleone, evaso dallâElba, entrava in Parigi, e un esercito di Murat nellâ8 aprile in Firenze; e giĂ pendevan di nuovo i destini dâItalia e di Francia, quando la battaglia di Tolentino (4 maggio) e quella memoranda di Watterloo (18 giugno) spensero affatto ognâincendio di guerra, e ogni speranza di regno e dâimpero nei due vinti cognati.
Se però dileguavansi le temute politiche calamitĂ , due tremendi flagelli ricomparivano ad affliggere la Toscana, la fame ed il tifo. Non è a dirsi con quanto zelo si adoprasse lâottimo Principe per fare argine ai mali, e come tosto cacciasse la prima, procacciando allâindigente un guadagno col promuovere opere pubbliche dâogni maniera e in ogni angolo dello Stato; e come in seguito vincesse lâaltra, erigendo ovunque spedali ed ospizj, ed affidandoli alla cura di zelanti cittadini. Fu grande allora il fervor dei lavori nelle regie fabbriche, e sommo nellâapertura di nuove strade; fra le quali sono da rammentarsi, quella regia della Val Tiberina per render piĂš pronto il commercio fra i due mari; quella per cui comunica Volterra con Siena, e che si lega collâaltra pur nuova che da Siena guida ad Arezzo; quella sul littorale del mare Mediterraneo che unisce Grosseto ad Orbetello, quella che traversa il Casentino, e lâaltra infine che dal Ponte a Sieve piĂš comodamente conduce al Superiore Valdarno, che fu dichiarata R. postale. A tali imprese cento altri consimili benefici provvedimenti andarono uniti: di modo tale che può dirsi, a ragione, di si ottimo Principe, che se non lasciò trascorrere giorno in cui non fosse cortese di qualche privato favore, non passò altresĂŹ mese senza segnalare lâepoca di un qualche suo pubblico benefizio.
Infatti con sovrano motuproprio degli 11 gennajo 1815 stabiliva il collegio Forteguerri di Pistoja, nel luogo della Sapienza cui il benemerito card. Niccolò Forteguerri, sino dal 1473 aveva donati amplissimi fondi per lâistruzione della gioventĂš; e corrispondendo alle benefiche mire di quel porporato, Ferdinando III riunĂŹ in quel collegio tutte le pubbliche scuole della cittĂ di Pistoja. Con altro motuproprio del 21 novembre dellâanno istesso erigeva in Firenze lâospizio della MaternitĂ , e fu nello stesso anno (18 dicembre) che aprivasi in Firenze la Pia Casa di Lavoro, per raccogliervi i questuanti della cittĂ e del suburbio. Neppure il seguente anno (1816) andò scarso di sue grazie; imperocchè col motuproprio del 2 settembre confermò la R. deputazione degli spedali e luoghi pii del Granducato, e la incaricò di riorganizzare e sistemarne i loro patrimonj. Nel 1817 beneficò Siena col pio stabilimento di MendicitĂ , associando i suoi caritatevoli sussidii alle volontarie oblazioni dei benemeriti di quella cittĂ . Nellâanno medesimo, con notificazione del 26 febbrajo, creò in Firenze un Archivio centrale, destinato a raccogliere e conservare le scritture e i documenti spettanti alle soppresse corporazioni religiose, affinchè non si smarrissero cosĂŹ preziose e interessanti memorie; istituzione carissima agli eruditi, utilissima alle amministrazioni. Nel tempo che incoraggiava con sovrana munificienza la giĂ accreditata Accademia delle Belle Arti in Firenze, dava vita in questâanno, con decreto del 23 agosto, ad una sorella di lei nella dotta Alfea, raccomandando ai professori una scrupolosa vigilanza sopra tutti gli oggetti di arte sparsi intorno alle chiese, neâmonasteri, ed in altri pubblici stabilimenti, come anche nelle strade, nelle piazze di Pisa e nei luoghi suburbani, per riunirli allâuopo nel museo dellâantichitĂ patria, qual è il Campo santo di quella cittĂ . Nella stessa Pisa raddoppiava le sue beneficenze col sovrano motuproprio del 28 novembre, mercè cui si soccorrevano molti infelici con la filantropica scuola deâSordi-muti. Giunse pure in questâanno alla sua maturitĂ quel disegno che fin dai primi esordj del suo governo Ferdinando III avea concepito, onde rimuovere le disparitĂ del contributo, mediante lâistituzione della tassa prediale da distribuirsi per tutta la superficie del Granducato con proporzione adeguata al valore dei beni. A tale oggetto, con motuproprio deâ24 novembre 1817 creò la Deputazione per la direzione del nuovo Catasto; per cui non solo incoraggi lâastronomo insigne prof. Giovanni Inghirami a intraprendere una triangolazione per tutta la Toscana, ma volle di piĂš che lâI. e R. Governo se ne addossasse tutto intiero il dispendio sino ad avere da lui una carta geometrica della Toscana ricavata dal vero nella proporzione di 1 a 200000, della piĂš esatta esecuzione.
Questo beneaugurato anno 1817 ottenne infine dalla beneficenza del Principe lâufizio dello Stato civile, dipendente dal Segretario del Regio Diritto, destinato a formare i registri deânati, deâmorti e deâmatrimonj del Granducato. Dai quali registri si hanno non solo i resultamenti statistici si parziali che generali rispetto alla popolazione neâsuoi variati rapporti, ma altresĂŹ le nozioni piĂš precise sulla durata media della vita umana, siccome in Francia fu dato il primoesempio dal boureau delle Longitudini, cui presiedono sommi scienziati. Si conservano inoltre in tale ufizio numerosi campioni statistico-geografici di tutte le localitĂ della Toscana, secondo le diverse loro dipendenze nellâordine politico, giudiciario, economico, civile. Dopo aver provvisto collâistituzione di una deputazione ecclesiastica per lâamministrazione interna della Metropolitana fiorentina e del tempio di S. Giov. Battista, con motuproprio del 22 febbrajo 1818 lo stesso Granduca creò una deputazione secolare sopra lâOpera di S. Maria del Fiore; la quale fornita di sufficienti rendite, non solo ha potuto sostenere i restauri dellâuno e lâaltro tempio, ma è giunta ancora ad inalzare tre vasti ed uniformi palazzi, distruggendo le umili case e lasciando libero spazio allâocchio dello spettatore per contemplare la simetria e lâordine di un edifizio per ogni lato sublime, e tutta la bellezza della maravigliosa torre di Giotto. Fra cosĂŹ varie e molteplici cure per render felice il suo popolo unâaltra pur ne sorgea nella mente del Principe, per cui nel 4 dicembre 1819 stabiliva definitivamente lâorganizzazione della guardia dei Pompieri, non tanto rivestendola di grado e caratteristica militare, quanto col procurarle un numero vistoso di macchine. AbbellĂŹ quindi RR. Ville, e ampliò la reggia del palazzo deâPitti. Amico alle belle arti di pace, non si rimase dallâadunare opere di singolare artificio, dal porgere occasione ad egregii per emular la natura con la mente e con la mano, e dal beneficare i cultori delle scienze e delle lettere. Si dee al suo animo generoso la sanzione dellâannuo premio che per concessione imperiale giĂ decretava la Crusca. ArricchĂŹ poi talmente di preziose opere e di splendide edizioni la sua biblioteca Palatina, che ora può dirsi senza tema di esagerazione una delle piĂš insigni di Europa. Del suo benefico amore verso lâagricoltura apertamente fanno fede la Val di Cecina e la Val di Chiana, e specialmente questâultima che per vastitĂ di colmate, per numerosi viali e per le nuove fabbriche quasi vasto giardino rassembra. Sposò Ferdinando III in seconde nozze nel 6 aprile 1821 Maria Ferdinanda Amalia, figlia di Massimiliano Principe di Sassonia, e secondando Egli le materne sollecitudini del di Lei cuore e quelle della sua pietosa Sorella, nel 24 novembre 1823 decretava che sorgesse il R. Istituto della SS. Annunziata per lâeducazione delle ingenue fanciulle, onde la societĂ non patisse del maggior deâbisogni, quale si è unâottima madre di famiglia. Un vivere cosĂŹ bello e riposato in Toscana persuase potenti stranieri che vennero dâoltremonti e dâoltremare a fermar la dimora sulle rive dellâArno; e chi per la calamitĂ deâtempi si trovò senza patria, quivi una patria rinvenne sotto lâegida della giustizia. Ritornava da un viaggio nelle Chiane lâottimo Ferdinando nel 12 giugno dellâanno 1824, ma ritornava alla capitale col germe del male che a noi voleva barbaramente rapirlo appena arrivato allâundecimo lustro della sua etĂ . I cittadini entrati in sollecitudine per lâimminente pericolo, taciturni erravano per le vie, ingombravano i sacri templi, sogguardavansi, interrogavansi, e penetravano negli atrii stessi e nelle sale del regio palazzo, smarriti, sparuti, affannosi, desolati.
Niunâaltra premura, nessun affare domestico o civile, tutti i passi, tutte le lingue, tutte le orecchie a questo solo erano rivolte, di questo solo occupate! Il pallore di un volto nellâaltro si diffondea: nè potrei agguagliar con parole quel che io stesso vidi, e nellâintimo petto sentii fra il gemito e il tumulto della reggia e del popolo. Suonò lâultimâora, e il 18 giugno 1824 fu giorno di pianto per tutti; e dico per tutti, perchè, anche gli stranieri medesimi che si trovarono presenti a cosĂŹ trista e inusitata scena, rimasero talmente commossi, che proruppero al pari di noi in tristi lamenti ed in sincere lagrime.
LEOPOLDO II, GRANDUCA XI FELICEMENTE REGNANTE Riparava lâamara perdita il benefico figlio di sĂŹ benefico padre, il Granduca Leopoldo II, che or felicemente regge i nostri destini. Lâimprendere a parlare di un sovrano che siede sul trono, sarebbe subbietto di non lieve difficoltĂ , se gli argomenti di evidenza e di fatto non mostrassero vere quelle espressioni di encomio e di lode che gli vengono tributate. Francheggiati per tanto da evidenti e indubitate prove, noi salutiamo il Granduca Leopoldo II, come quel Principe che, prendendo le vie calcate dellâAvo e del Padre, non solo raccolse i frutti da loro preparati, ma di altri ancora affrettò la maturitĂ ; e molti piĂš semi Egli vĂ spargendo per viemaggiormente rendere prosperoso e felice il suo Stato. Era Egli intento ai placidi studii sullâopere del Magnifico e di Galileo, quando, mancato il Genitore, gli fu mestieri nel fiore degli anni dedicarsi alla somma delle pubbliche cose. Il primo atto del suo governo fu un segnalato favore a prò del commercio, sopprimendo la cosĂŹ detta tassa del sigillo delle carni ; allorchè lâI. e R. Consulta con la notificazione del 16 novembre 1824 manifestava in questi termini i sentimenti del novello Signore. âS. A. I. e R. meditando i providi sistemi di governo adottati dallâAugusto dilettissimo suo Genitore, potè apprezzare i progetti di rettificazioni amministrative, e di risparmi giĂ disposti a maturitĂ , onde supplire a qualche diminuzione delle pubbliche imposte.
Non tardò quindi a prenderne di mira una, che oltre al naturale suo peso si distingueva per essere opposta nel tempo stesso agli interessi dei proprietarj e dei consumatori. Era essa in oltre contraria alla legislazione economica stabilita sotto il regno glorioso del suo Avo immortale, onde per lungo esperimento divenne qui evidente quanta pubblica prosperitĂ produca la somma di tutte le industrie individuali eccitate da una libera e leale concorrenza, e quanto danno rechino privilegj e prerogative, che, abbagliando con molto lume in alcuni punti, spargono oblio sopra tutti gli altri lasciati nellâoscuritĂ .
LâI. e R. A. S. egualmente animata da paterna sollecitudine a favore di ogni classe di persone e di ogni parte del Granducato, a benignamente voluto che resti abolita la cosĂŹ detta tassa del sigillo delle carni, e proventi deâmacelli, e felicitandosi di porgere la mano al compimento del pensiero Avito in questo saggio di beneficenza, ordina e comanda quanto appresso, ec. â Con tali benefici sentimenti, e con tale sapienza economica si assideva nel soglio toscano il Granduca Leopoldo II. Il quale, dopo decretata (1 novembre 1825) lâorganizzazione del dipartimento delle acque e strade, pensò ad aprire per tre grandi vie tre gioghi dellâAppennino; cioè, con la strada della Cisa in Lunigiana, con quella di Urbania, concorrendo per questa alla spesa anche al di la del Granducato, e con la strada di Romagna per la Valle del Montone. Le ultime due vie Regie pongono in comunicazione diretta i due mari che circoscrivono la bella Penisola.
Ma erano appena date tali provide disposizioni, che il Principe apriva il suo cuore a grazie piĂš singolari e munifiche col motuproprio del 4 dicembre dellâanno medesimo, di cui è bello il riferire le clementi espressioni.
âSe fu grato al nostro cuore il far godere dal 1 dello scorso maggio ai nostri amatissimi sudditi i vantaggi dellâabolizione di unâantica tassa, dannosa non meno ai consumatori che ai proprietarj ed agli agricoltori, molto piĂš consolante è il potere nel volgere del cadente anno (1825) accordar loro un ulteriore alleviamento ai pubblici aggravj. Portata da Noi la piĂš seria attenzione sulla proprietĂ fondiaria, e dopo esserci assicurati, che quando circostanze impreviste non sopravvengano, lo stato della finanza permette una diminuzione della tassa prediale, abbiamo determinato di ordinare, conforme ordiniamo e vogliamo: Che dal 1 gennajo prossimo avvenire resti diminuita della quarta parte la tassa prediale, la quale, a forma del motuproprio deâ7 ottobre 1817, è imposta e si esige attualmente al profitto del R. erario, ec. â Con universale esultanza incominciava adunque il suo corso il 1826, nè vi fu uomo sensibile che non professasse sincera gratitudine verso tanto benefattore. Nè questo è il tutto; imperciocchè in questâanno approvò ancora lo stabilimento della Banca di sconto (27 settembre) con associarvi il R. Governo, e col munirla delle opportune garanzie e privilegj. âPrescrisse nellâanno 1827 (20 agosto) i regolamenti degli affari riguardanti lâeconomica amministrazione dei patrimonj dei pupilli e sottoposti, e volle che a favore degli interdetti per causa di prodigalitĂ , lâipoteca tacita legale su i beni dei loro curatori sâintendesse infissa nel modo stesso e per gli stessi effetti, per i quali si acquista a favore degli interdetti a cagione di demenza o dâimbecillitĂ , ed a favore deâminori, secondo il sistema ipotecario del Granducato. Intorno al qual sistema, conservato come cosa utilissima da Ferdinando III, altri regolamenti, per renderlo viemaggiormente utile, vennero in appresso da Leopoldo II comandati.
Volgeva lâanno 1828, e sotto i sovrani auspicii si apriva in Siena una scuola pubblica per i Sordi-muti, non tanto sostenuta da spontanee oblazioni, quanto da larghi sussidj della regia Famiglia. Non era però giunto quellâanno fortunato al suo termine, quando comparve quel celebratissimo motuproprio del 27 novembre, come lâannunzio di una delle piĂš grandi operazioni scientifiche ed economiche di questâetĂ , che meritò lâapplauso di Europa, e la perpetua gratitudine del popolo toscano. Per esso si annunziava ai sudditi il grandioso divisamento di risanare e render culta, al pari dellâaltre terre, la provincia grossetana. Non vi fu accademia, non vi fu giornale che non si compiacesse di riferirlo, indicando essere di giĂ spuntato quel giorno, in cui condurre si dovea ad effetto un disegno da tanto tempo concepito, e sempre debolmente tentato. Eccone le magnanime espressioni: â S. A. I. e R. restò profondamente commossa dallo squallore ed insalubritĂ , che desolando tutte le maremme toscane scoraggiavano con lâidea dei tentativi praticati senza conseguirne lo sperato meglioramento.
Volle S. A. I. e R. sullâesempio deâsuoi Augusti predecessori con assidua paterna cura riscontrare ocularmente lâestensione dei mali, e riunĂŹ quanti lumi emergevano dalla storia, dalla teoria e dalla esperienza. â Potè allora convincersi che tutte le risorse della natura e dellâarte non erano esaurite, e fissando intanto la sua sovrana considerazione sopra la pianura di Grosseto, la sottrasse in pochi mesi a quellâelemento dâinfezione che può emanare dalla mescolanza delle acque marine colle pluviali. â Ponendo poi mente alla giacitura di quel terreno, e al pingue limo che trasportano i suoi influenti, trovò condizioni le piĂš favorevoli ad un sistema di colmate fino al presente ivi sconosciuto, dal qual sistema in altre provincie del Granducato si ottennero i piĂš felici risultamenti. âIn sequela pertanto di maturo consiglio S.
A. I. e R. determinò di dare opera ad unâimpresa di manifesto interesse per il territorio grossetano, e di sommo vantaggio per lâintero Granducato, essendo altronde prezioso per il suo cuore il considerare, che questo nuovo benefizio per tutti i suoi amatissimi sudditi non imporrĂ loro veruno aggravio ulteriore.
Avuto riguardo alla natura e vastitĂ dellâimpresa, e alla rapiditĂ necessaria dellâesecuzione, come nei provvedimenti che di tempo in tempo può essere urgente di adottare, S. A. I. e R. non ha giudicato conciliabile di commettere la cura e le operazioni della bonificazione grossetana agli ordinarj mezzi amministrativi e di arte, che offre lâistituzione in quella provincia di una Camera di sopraintendenza comunitativa, e di una ispezione di acque e strade; ed è rimasta allâincontro pienamente convinta, che la condotta delle operazioni idrauliche deve esser libera nella sua azione, ed indipendente dagli ordinarii rapporti, che convengono alle amministrazioni non transitorie, ma permanenti. Quindi dispone ec. ec.â Alle parole successero opere prontissime, fervide, singolari. Popolaronsi quei luoghi palustri e limacciosi, di caravane di lavoranti, ai quali fu imposto ordine e disciplina. Quelle selve non piĂš deserte offrivano lo spettacolo delle rive del Ceilan, e del villaggio di CondactĂŹ, che in tempo della pesca di romite spelonche addivengono borgate popolose e vivaci. Desideroso lâottimo Principe, che senza interruzione progredisse lâimpresa, di continuo dirigevasi neâsuoi viaggi per quella provincia, provvedeva con nuovi consigli a nuovi bisogni, vegliava, incoraggiava, remunerava; talmentechè ottenne finalmente, che nel 26 aprile 1830 in sua presenza e tra i numerosi operanti ed il molto popolo accorso, in pochi istanti fosse tolta ogni separazione che tuttora esisteva fra lâalveo del fiume Ombrone e quello del gran Canale diversivo, stato nei precedenti mesi escavato. Stipulata omai con quel saggio preliminare la garanzia di vedere uno strato immenso di terra vegetabile ricuoprire pestilenti marazzi, e sorger la messe lĂ dove infarcivano sterili piante palustri, grande ed iterato fu il grido di gioja e di conforto. Se fosse questa la sola magnanima azione di Leopoldo II, durante il suo regno, basterebbe a rendere il suo nome memorando, immortale! Di giorno in giorno pertanto vedesi lâetrusca maremma ritornare al florido stato deâprischi tempi, e manifesta la presenza e la cura della mano dellâuomo. La celebre via Emilia di Scauro restaurata, anzi di nuovo costrutta, ampliata e rettificata per mettere in comunicazione il Compartimento di Pisa con quello di Grosseto; il paludoso Prelio, lâisola di Pacuvio sgombrati dâacque limacciose e di mofetico orrore; i diboscati campi, le messi sorgenti, i sentieri, i ponti, le rustiche e padronali abitazioni edificate, tuttociò desta il plauso, lâammirazione e la speranza. Sia lode adunque al sapientissimo Principe che ha tanto in amore lâagricoltura, quellâarte nobilissima, fugatrice dellâozio, dispensiera di ricchezze, vita della vita sociale; arte veramente indigena, arte nostra, di che fummo maestri agli stranieri e che dobbiamo a tutta possa riporre in vigore, non indegni al certo nè per clima, nè per sĂŹ favorevoli auspicii, nè per isvegliato ingegno di possederla. Una nazione divenuta agricola, diventa conseguentemente commerciale; la sovrabbondanza deâsuoi prodotti chiama lâesportazioni; cosĂŹ la povertĂ rustica stata prima impiegata per le campagne ad aumentare i prodotti, bandisce quindi la povertĂ cittadina collâaumento delle manifatture. Quei dotti forestieri, che hanno non ha gnari percorsa lâItalia, non obliarono di celebrare per le stampe la rigenerazione della nostra maremma; (Ved. Viaggi di Alfredo Reummont ec.) e qualunque leggitore non può scorrere quelle pagine senza unirsi ai voti delle popolazioni beneficate verso lâAugusto benefattore.
Ma se Egli col fervore di tante opere rallegrava le classi agricole e commerciali, non pertanto pose in dimenticanza la coltura delle scienze e delle lettere, anzi, siccome ai tempi Medicei, volle che il nome toscano si associasse alle scientifiche glorie di un potentissimo regno. Parlo della spedizione Gallico-Tosca in Egitto, donde ritornati nellâanno 1830 i nostri dotti uomini recarono seco molti capi dâopera, che esposti furono alla pubblica ammirazione, accoppiati a piĂš di 1300 disegni delle cose piĂš singolari della classica terra dei Faraoni.
Acquistò poi lâindigenza un mezzo di aumentare il guadagno nella regia sanzione delle Casse di risparmio; e la pubblica economia ottenne nuovi vantaggi per essere stata anche la manifattura del ferro ridotta al generale sistema di libera concorrenza. Tali erano le liete sorti della patria nostra in questo suddetto anno, il quale destinato a veder compiti molti dei grandi concetti deânostri maggiori, si rese immortale per la solenne inaugurazione del monumento che finalmente fu inalzato al Padre della lingua e della poesia Toscana. CosĂŹ inclinava felicemente per noi al suo tramonto il 1830, quando inaspettate politiche vicende tutta Europa commossero! Ma invano per noi romoreggiò la procella intanto che il R.
Liceo eretto nel Museo di fisica e storia naturale in Firenze otteneva dalla munificenza del Principe celeberrimi professori, sicchè ripresero quivi gli ottimi studii il suo corso, nel tempo che si perfezionava la Specola; e di quanto era dâuopo arricchivasi quellâinsigne stabilimento sede del sapere.
Spettava però allâanno 1835 unâaltra di quelle sovrane risoluzioni che caratterizzano la magnanimitĂ di Leopoldo II, e fu questa lâimpresa della nuova circonvallazione della cittĂ di Livorno, che cresce e giganteggia quasi regina dei mari. Ă cosa mirabile a dirsi, e forse incredibile ai posteri, come appena fu al pubblico annunziato il sovrano volere, mille mani corsero allâopera, come rapidamente crescesse, e come dopo 15 lune quasi tocchi al suo termine un giro di 4 miglia di mura urbane; quando in simili imprese nelle trascorse etĂ furono tentativi non di mesi nè di anni, ma di successive generazioni.
Ed oh! qual funesto nemico in questo tempo appunto venne ad involgere Livorno di lutto, e ad intimorire lâintera Toscana; ed oh! di quali generosi e magnanimi soccorsi, sagge previdenze, e beneficj di ogni genere fu capace il cuore veramente paterno del Granduca Leopoldo II. Senza aggiungere alcun aggravio ai suoi sudditi, versò Egli a larga mano sul costernato popolo di quella cittĂ grazie e favori, eresse spedali, provvide alla nettezza, al disinfettamento, premiò i piĂš operosi e infine riparò a quanto può attendersi da un Principe che tiene per figli i suoi sudditi.
Nè alla marittima cittĂ erano solo rivolte le cure di Lui, ma la capitale ed ogni altro luogo del Granducato affettuosamente gli attestarono la loro riconoscenza. Fu pure effetto del malaugurato Cholera , che non godè la Toscana di una festivitĂ dei natali del Gran principe ereditario, Ferdinando, festa che doveva suggellare una fortunatissima epoca neânostri fasti: imperciocchè in cosĂŹ bella occasione Egli accoglieva nella reggia tutto il suo popolo esultante.
Nel principio di quellâanno medesimo, ultimata la dispendiosa impresa del catasto, instituiva un nuovo dipartimento per la conservazione di quellâestimo medesimo, oltre una direzione per il corpo deglâingegneri di acque e strade incaricata di formare i progetti, e di sorvegliare allâesecuzione dei lavori relativi. Infatti mercè di tali provvedimenti, il Granducato conta oggi tante e sĂŹ buone strade regie, provinciali e comunitative rotabili, che non vi è rimasto quasi angolo della Toscana, cui restino a desiderare strade maestre da comunicare per varie direzioni.
Finalmente, per raccogliere in breve il molto che resterebbe da dire, accennerò, come sotto il felice governo di Leopoldo II si vede condotta a perfezione ogni parte esteriore del regio palazzo, riordinata e fatta come pubblica quella classica galleria che sopravanza ognâaltra di qualunque reggia e metropoli; come da accreditati pennelli fu dipinto il nuovo quartiere nel palazzo deâPitti, oltre la cupola della Cappella deâPrincipi in S. Lorenzo, dove tutto sâappronta per ultimarla; come si abbellisce ognora piĂš la cittĂ , e massimo con la magnifica via S.
Leopoldo, che forma la continuazione della piĂš bella e piĂš ampia delle sue strade; come si sospendono a traverso dellâArno sopra e sotto la cittĂ due ponti di ferro; come si amplia la fabbrica dellâIstituto delle Scuole Pie a benefizio della numerosa scolaresca; come le pitture di Andrea del Sarto nel vestibolo dellâAnnunziata furono restaurate e difese; come intorno alla base dei tre cospicui edifizj sacri di S. Giovanni, della Metropolitana e della Torre di Or San Michele, furono posti stabili e decenti ripari di ferro; come infine, per dir tutto in una parola, si vede condurre verso il suo perfezionamento quanto la grandezza Medicea, la mente dellâAvo, e il cuore del Padre intesero a gloria, a utilitĂ e felicitĂ del toscano popolo di ordinare.
COMUNITAâ DI FIRENZE Il circondario della ComunitĂ di Firenze, a tenore del motuproprio del 20 novembre 1781, fu circoscritto dallo spazio delle mura della cittĂ da quello della fortezza da Basso, che le attraversa, e dal corso dellâArno fra le due pescaje. A questo circondario furono aggiunti nellâanno 1833 alcuni spazii fuori delle mura dalla parte destra dellâArno; cosicchè lâattuale perimetro della ComunitĂ di Firenze è contrassegnato dal giro che fa la strada regia intorno alle mura esterne, dalle quali essa alla destra del fiume in quattro punti per breve spazio si discosta, cioè verso grecale davanti alla porta S. Gallo per abbracciare il parterre e la piazza dellâarco trionfale; davanti alla chiusa porta Guelfa, verso levante sopra alla pescaja della Zecca vecchia; dal lato di maestro lungo la strada nuova che gira intorno alla fortezza da Basso; e dal lato di libeccio sino al pilone destro del nuovo ponte di ferro, rimontando di lĂ la sponda destra dellâArno sino alla pescaja dâOgnissanti.
Tutta la superficie della ComunitĂ di Firenze occupa quadrati 1.556,17 (quasi due miglia toscane quadre), dei quali quadrati 306,47 sono presi da strade e dal letto del fiume Arno; donde avviene, che la superficie imponibile riducesi a quadrati 1249,70. La quale superficie è occupata per circa tre quarti da fabbriche e per il restante da orti e giardini interni, dai campi e dal pomerio della cittĂ . â I suoi abitanti nellâanno 1833 ascendevano a 95927. (Vedere qui appresso il Quadro della popolazione.) VARIE GRANDEZZE DEâSUOI CERCHI Il giro attuale delle mura, comprese le larghezze delle due pescaje che attraversano lâArno sopra e sotto a Firenze, ammonta in tutto a braccia fiorentine 16330, equivalenti a miglia cinque e tre quarti, piĂš braccia 38 e 1/3, siccome apparisce dalle varie sezioni seguenti.
Larghezza della Pescaja dalla porta di S. Niccolò alla Zecca vecchia Br . 403 Giro delle mura della fabbrica della Zecca vecchia Br.
Da questa alla porta alla Croce Br . 816 Di costĂ alla porta a Pinti Br. 1526 Da porta a Pinti a porta S. Gallo Br. 1337 Dalla porta S. Gallo al bastione a levante della fortezza da Basso o di S. Giov. Battista Br. 1466 Giro esterno della fortezza sudd. Br. 1752 Dal bastione a ponente sino alla porta al Prato Br. 1052 Dalla porta al Prato fino alla porticciuola dellâantica Gora Br. 1082 Dalla porticciuola fino alla Pescaja di Ognissanti Br.
Larghezza della Pescaja dâOgnissanti Br . 448 Dalla casa della Guardia sulle mura di Oltrarno sino al torrino della Sardigna Br . 662 Dal torrino alla porta S. Frediano Br. 290 Dalla porta S. Frediano alla porta S. Pier Gattolini o Romana Br. 1130 Da questa porta a quella chiusa di S. Giorgio sulla Costa Br. 2060 Dalla porta di S. Giorgio alla porta S. Miniato Br. 938 Da questa alla porta S. Niccolò Br . 585 Di lĂ sino alla Pescaja Br . 210 TOTALE Br. 16330 Cerchio piĂš antico. â Quando si volesse confrontare il cerchio piĂš antico della cittĂ di Firenze (mancando noi di prove che bastino ad assicurare, quale mai fosse il giro delle sue mu ra al tempo dei Romani) si vedrĂ che lâattuale perimetro, quello cioè decretato dalla Repubblica fiorentina nel 1284, è circa dieci volte maggiore del primo, e quattro volte piĂš esteso del secondo cerchio della stessa cittĂ .
Imperocchè il primo circuito quasi rettangolare era situato intieramente nel lato destro dellâArno presso dove confluiva il fiumicello Mugnone.
Il quale fiumicello, per tre volte dovè variare letto e direzione, mentre nei tempi antichi esso attraversava una parte dellâattuale cittĂ , tostoche allâepoca del primo cerchio le sue acque fluivano dove oggi è la via Larga, presso la quale furono scoperti i piloni di due ponti; uno dei quali dalla chiesa di S. Marco e lâaltro fra il palazzo Panciatichi e la chiesa di S. Giovannino. In seguito fu quel fiumicello di costĂ artatamente volto verso S.
Lorenzo, per girare intorno a questa chiesa, e di lĂ dietro alle mura antiche, di dove sembra che si dirigesse in Arno in vicinanza di S. Trinita.
Un solo ponte detto poi il Ponte vecchio , attraversava allora il fiume Arno fuori della Porta S. Maria, presso lâantica pescheria e il mercato degli erbaggi, mentre dal lato opposto del fiume, accosto alla chiesa di S. Felicita, trovavasi il campo santo o cimitero dei primi Cristiani.
Ma delle mura di Firenze, innanzi che incominciasse il secondo cerchio della città , non restano autorità o indizj tali ove poter fondare un dato sicuro. Certo è che, dal Malespini in poi, quasi tutti gli storici fiorentini concorrono a credere che allora la città non oltrepassasse (a partire dal lato di levante) la strada detta del Proconsole, prolungandosi a destra verso la piazza di S.
Firenze sino al canto del borgo deâGreci, dove sembra che fosse la postierla di quei della Pera, detti in seguito deâPeruzzi. Di lĂ continuando verso scirocco sino al palazzo o castello di Altafronte, poi deâCastellani, sâindirizzava sulla sponda dellâArno. Dalla parte manca, piegando a grecale, proseguiva il giro della via del Proconsolo al canto deâPazzi, dove esisteva la primitiva porta S. Piero; indi continuando per S. Maria in Campo, attraversava il suolo degli attuali fondamenti di S. Maria del Fiore, e volgendo la fronte a settentrione, lasciava dentro la cittĂ il tempio di S. Giovanni, ossia il Duomo; passato il quale trovava la seconda Porta detta del Duomo, dalla quale si entrava nel borgo S. Lorenzo. Con la stessa direzione inoltravasi sino al canto deâCarnesecchi, dove piegava a ponente, a un dipresso per la direzione che tuttora conservano le strade deâRondinelli e deâTornabuoni sino al canto degli Strozzi. CostĂ presso era la terza porta detta di S. Brancazio , di sotto alla quale le mura proseguivano diritto per via deâLegnajuoli sino alla postierla detta porta Rossa. Oltrepassata questa porticciuola, piegando da ponente a ostro, sembra che le mura rasentassero il borgo SS. Apostoli per sboccare alla porta di Por S. Maria presso alle case deglâInfangati. Di costĂ per una linea egualmente incerta, fra la via deâLamberteschi e quella degli Archibusieri, si chiudeva il giro al castello di Altafronte.
Tale era il giro della cittĂ , quando Fiorenza dentro dalla cerchia antica, Ondâella toglie ancora e terza e nona, Si stava in pace sobria e pudica.
Il suddescritto primo cerchio, che può calcolarsi dellâestensione di circa 3500 br., copriva, come ho detto, una superficie di terreno che appena equivaleva alla decima parte del cerchio attuale.
Se non che il fabbricato di quellâantica Firenze, situato tuttora nel centro della cittĂ , era oltremodo compatto con poche e piccole piazze, con si anguste vie, che piuttosto traghetti si chiamerebbero. A render tali vicoli piĂš tetri ed opachi contribuivano altresĂŹ le moltissime torri di pietra grigia,che a guisa di campanili quadrati fra le 60 e la 100 braccia si alzavano.
Ma la fortuna e le ricchezze di Firenze crescendo in ragione opposta a quelle di Fiesole sua madre patria, e la popolazione traboccando da ogni parte, fu gioco forza disfare le antiche porte e abbattere le vecchie mura, per occupare piĂš vasto spazio.
Secondo cerchio di Firenze. â Nellâanno 1078 cominciarono i Fiorentini cotesto secondo e piĂš largo circuito per mettere i borghi in cittĂ . Quindi il borgo deâGreci e quello di S. Pietro dal lato di levante fino alla chiesa di S. Pier Maggiore; dal lato di settentrione il borgo S. Lorenzo; dalla parte di ponente i borghi di S.
Brancazio, deâSS. Apostoli e di Parione, e dal lato di mezzodĂŹ, ossia di Oltrarno, i borghi di Pitiglioso , di S.
Jacopo e di S. Felice in Piazza entrarono in cittĂ .
Giravano queste mura dalla porta S. Piero al canto di via dello Sprone, dove facendo gomito trovavasi una postierla detta degli Albertinelli per una schiatta che era in quel luogo, e di costĂ si usciva per borgo Pinti. Poi seguitando la direzione da scirocco a maestro, correvano le mura per via S. Egidio, S. Maria Nuova e via deâCresci fino a S.
Michele Visdomini. CostĂ trovavasi la porta detta di Balla dalle balle di mercanzie provenienti dal bolognese e dalla Lombardia. Di lĂ continuando per via deâPucci attraversavano la via Larga, presso dove si congiunge con la strada degli Spadaj, ora via deâMartelli; donde proseguivano lungo lâantico alveo del Mugnone, attraversando la piazza di S. Lorenzo, e di lĂ intorno ai moderni fondamenti di questa basilica volgevansi incontro libeccio. Presso piazza Madonna esisteva una porticciuola detta del Mugnone; e poco piĂš giĂš, in via del Giglio, altra postierla che prese il nome da quei del Baschiera. Da via del Giglio il giro delle mura trapassava dalla Croce al Trebbio, e di lĂ al borgo San Brancazio dove sbocca la strada del Muro , detta poi via del Moro . A questo crocicchio fu aperta la porta denominata di San Paolo, perchè lasciava fuori col borgo la chiesa di tal nome. Seguitando la via del Moro arrivavano le mura allâArno, presso cui terminava il borgo antico di Parione, e cominciava quello piĂš moderno, appellato tuttora dâOgnissanti, e costĂ esisteva unâaltra porta della cittĂ , detta della Carraja . Di costĂ rimontava la ripa destra dellâArno sino al ponte di Rubaconte, dove esisteva la postierla di Ruggeri da Quona; quindi piegava verso S.
Jacopo traâFossi, e rasentando il Parlagio tornava a S.
Pier Maggiore.
Tutto il secondo cerchio, posto alla destra dellâArno, fu suddiviso in 5 sestieri, comprendendo nel sesto sestiere il fabbricato situato nellâOltrarno. Il qual sestiere dâOltrarno fu pure lâultimo ad essere circondato di mura; giacchè, nei secoli XI e XII riducevasi a tre borghi, ciascuno deâquali era chiuso da una porta. A capo del borgo S. Jacopo lunghâArno, era una porta sopra le case deâFrescobaldi; il borgo verso mezzodĂŹ da S. Felicita a S. Felice era chiuso dalla porta detta di Piazza; e il terzo borgo da levante abitato da persone piĂš che di bassa mano, detto perciò borgo Pidiglioso , corrispondente alla via deâBardi, aveva a capo di esso la porta detta a Roma, perchè conduceva a quellâalma cittĂ per lâantica via Cassia, che lâimp. Trajano fece costruire da Chiusi sino a Firenze. â Vedere FIRENZE pag. 151 e VIA CASSIA.
Questi tre borghi non avevano altre mura oltre le accennate porte e i dossi delle case, che chiudevano i borghi medesimi con orti e giardini. Comecchè Gio.
Villani asserisca, che le mura dâOltrarno del secondo cerchio cominciavano dalla porta a Roma (presso S. Lucia deâMagnoli), di dove montavano verso S. Giorgio alla Costa per poi riescire a S. Felice in Piazza rinchiudendo il borgo di Piazza , e quello di S. Jacopo, quasi come andavano i detti borghi, egli poscia soggiunge: che si feciono le mura dâOltrarno al poggio piĂš in alto, come sono ora, al tempo che di prima i Ghibellini signoreggiarono la cittĂ di Firenze.
Intorno al qual periodo (dal 1260 al 1266) probabilmente furono alzate le mura dâOltrarno fra la porta di Piazza e il canto della Cuculia: avvegnachè di cotesta porzione di mura è fatta menzione in un istumento del 12 febbrajo 1262 stil. fior. pubblicato dal Manni (Sigilli Antichi. T.
XXVI. 8).
E fu sul canto della Cuculia, di fronte a via deâSerragli, dove nel 1295 per decreto pubblico si edificò la porta di Giano della Bella. (AMMIR. Istor. Fior.) Terzo, e attuale cerchio della cittĂ . â Se dobbiamo prestar fede a Giovanni Villani, rapporto ai fatti accaduti in Firenze alla sua etĂ , fu nel febbrajo del 1284 st. fior., quando la cittĂ essendo cresciuta di popolo e di grandi borghi, cominciaronsi a fondare le nuove porte donde conseguirono le nuove mura; cioè quella di S. Candida di lĂ da S. Ambrogio, altrimenti detta la porta alla Croce in Gorgo; la porta di San Gallo in sul Mugnone, quella del Prato dâOgnissanti, e la porta dâincontro alle donne che si dicono di Faenza ancora in sul Mugnone. Il qual fiume alquanto dinanzi era stato addirizzato; che prima correa avvolto per Cafaggio (poi via delle Lance) e presso alle seconde cerchia, facendosi molesto assai alla cittĂ quando crescea; e fecionvi su i ponti dinanzi alle dette porte e rimase il lavoro delle mura innanzi che fossero allâArcora , per la novella che venne in Firenze della sconfitta di mare, che il re Carlo dâAngiò ricevè da Ruggeri di Loria. (GIO. VILLANI. Cronic. Lib. VII, cap.
99).
Dopo due lustri (nel 1293) per bisogno di moneta, non volendo il Comune crescere imposizioni, si venderono le mura vecchie ed i terreni che vâerano intorno. (ivi lib.
VIII, cap. 2).
Nel dĂŹ 29 novembre del 1299 si cominciarono a fondare le nuove e terze mura della cittĂ , a partire dalla Gora di Ognissanti infino alla porta al Prato; ma per nuove pubbliche avversitĂ stette buontempo che non vi si murò piĂš innanzi, e solamente undici anni dopo per tema della venuta dellâimp. Arrigo VII fu contornata e chiusa daâfossi la cittĂ , dalla porta a S. Gallo a quella alla Croce al Gorgo infino al fiume Arno, e poi dalla porta a S. Gallo infino a quella del Prato. Sâinnalzarono in poco tempo le mura otto braccia, imperciocchè la cittĂ era tutta schiusa e le mura vecchie in gran parte disfatte, e vendute ai possidenti vicini. (ivi lib. IX, cap. 10).
Nel 1324 la Rep. fiorentina deliberò di contornare al di fuori le nuove mura di fossi e far loro addosso i barbacani, e ogni 200 braccia una torre alta 60, e larga 14 braccia.
Giovanni Villani, che ne fa la descrizione (lib. IX, cap.
256) fu uno degli ufiziali del Comune a ciò deputati.
Finalmente nel dĂŹ 22 di gennajo del 1327, stile fiorent., si cominciò a fondare la gran porta Romana, ossia di S. Pier Gattolini; e in quei tempi si edificarono le mura nuove che dalla detta porta salgono verso il poggio di Boboli. â Non è per questo che tutto il terzo cerchio della cittĂ restasse compito in quellâanno stesso, siccome da molti scrittori fu opinato. (AMMIRAT. Istor. fior. liber XI).
Infatti nel 1360 si compivano le mura coi merli tra la porta alla Croce e quella di S. Gallo, mentre il restante del terzo cerchio continuavasi a lavorare anche molto tempo dopo, come ne fanno prova i decreti della repubblica fiorentina, allorchè nel 1368, la Signoria con provvisioni del 25 ottobre, 5 febbrajo, 2, e 16 marzo dellâanno stesso, e di nuovo nel 26 marzo e 20 aprile del 1369, deliberò che si prendesse ad imprestito dallâOpera di S. Reparata del denaro, giĂ destinato a proseguire quella chiesa, per impiegarlo al compimento e fortificazione delle mura della cittĂ di Firenze, che costruivansi di quĂ e di lĂ del fiume Arno presso alla pescaja della porta della Giustizia.
(ARCH. DIPL. Opera di S. M. del Fiore.)âChe il terzo cerchio della cittĂ non fosse ancora compito nel 1388 lo dimostra il legato di lire due, che ogni autor di testamento doveva lasciare, da servire per metĂ nella costruzione dei muri della cittĂ , e per lâaltra metĂ nella fabbrica di S.
Reparata. (ARCH. DIPL. FIOR. Carte del Bigallo.) Sotto il governo del duca Alessandro, fra la torre piantata sui fondamenti del ponte Reale e la porta di S. Francesco, ossia della Giustizia, nel luogo che servĂŹ per breve tempo alle officine della Zecca, detto tuttora la Zecca vecchia, quel principe fece costruire una specie di fortilizio. Il portone di pietra forte, esistente tuttora con lâarme Medicea, restò in gran parte sotterrato dal terreno depositato per le strade di Firenze dalla piena dellâArno nellâanno 1557, e che fu per consiglio dellâAmmannato in seguito dalle vie raccolto e trasportato a ridosso delle mura della cittĂ , a partire dalla porta suddetta fino a quella di S. Gallo.
Porte del terzo ed attuale cerchio della cittĂ . â Questo terzo cerchio ebbe sedici tra porte e postierle; dieci alla destra, e sei alla sinistra dellâArno. Otto di esse furono murate o disfatte al principio del governo Mediceo; cioè, la porta alla Giustizia, la porta Guelfa, la porta deâServi, la porta Faenza e la porta Polverosa , tutte alla destra dellâArno. Alla sinistra dello stesso fiume furono chiuse la postierla di Camaldoli, fra S. Pier Gattolini e S.
Frediano, e piĂš tardi le porte di S. Giorgio sulla Costa, e quella di S. Miniato. Questâultima per altro è stata riaperta nel 1834. Cosicchè attualmente esistono otto porte e una postierla; cioè, Porta la Croce, Pinti, S. Gallo, Prato, Porticciuola della Gora dâOgnissanti, Porta S. Frediano, S. Pier Gattolini, S. Miniato, e S. Niccolò.
Ponti della cittĂ . âFirenze antica non ebbe che un solo ponte fuori del suo primo cerchio, dirimpetto a porta S.
Maria. Su questo solido ponte furono in seguito costruite diverse botteghe per uso di macelli, ma Cosimo I, dopo aver fatto innalzare il corridore che mette in comunicazione la reggia deâPitti col Palazzo vecchio, ordinò che le botteghe del ponte Vecchio si riserbassero unicamente agli orefici e giojellieri. Prese il nome di ponte Vecchio dopo essere stato fatto, nel 1218, il ponte alla Carraja che rovinò nel 1269, e successivamente rifatto e ricaduto due volte, sino a che dopo la piena del 1333 fu solidamente ricostruito di pietra. Nel 1236 fu fabbricato il ponte alle Grazie, detto di Rubaconte dal nome di Rubaconte da Mandello, che allora esercitava in Firenze lâufizio di potestĂ . Nel 1251 fu edificato il ponte a S. Trinita che cadde, ora per intero, ora in parte, nel 1269, nel 1333, nel 1346 e nel 1557. Dopo questâultima epoca fu costruito di forma svelta ed elegante dallâarchitetto Ammannato. Nel 1317 si fondaron le pile del ponte Reale accosto alle mura della Zecca vecchia, ponte che non fu mai terminato.
Dopo la terribile piena del 1333 il Comune di Firenze decretò la demolizione delle pescaje di sotto a Firenze; onde con provvisione del 14 novembre 1340 la Signoria assegnò ai monaci della Badia a Settimo fiorini 600 dâoro per la distruzione di alcune pescaje di sotto a Firenze, ad oggetto di rimettere nel corso naturale le acque del fiume Arno dalla parte delle mura della cittĂ , le quali cagionavano inondazioni alla porta S. Francesco. (ARCH.
DIPL. FIOR. Carte di Cestello.) PRINCIPALI EDIFIZI SACRI DI FIRENZE S. Giovanni, Batistero, giĂ Duomo e Cattedrale. â La sua origine rimonta probabilmente ai tempi del gentilesimo, comecchè taluni congetturassero che fosse edificato dai Longobardi. La forma della sua cupola a guisa del Panteon di Roma, i marmi antichi e le colonne messe piĂš tardi intorno alle interne pareti, la immemorabile sua esistenza, e lâessere questo dichiarato sino dai primi secoli di Firenze cristiana il Duomo e la madre chiesa della diocesi fiorentina sono altrettanti motivi che ci spingono a credere cotesto tempio sorto in unâepoca anteriore alla regina Teodolinda, o allâinvasione deâLongobardi in Toscana.
Nel principio del secolo XIII ne era operajo un tale Arduino; imperocchè a quel maestro dellâOpera del Duomo di S. Giovanni di Firenze, nel 29 maggio 1207, il pont. Innocenzo III diresse da Roma un breve, col quale prese sotto la protezione della Sede Apostolica tutte le possessioni del Duomo di S. Giovanni, confermandogli le decime che giĂ da 50 anni per la chiesa medesima riscuotevansi dai suoi operaj.
Riferisce allo stesso Arduino operajo una sentenza del 25 novembre 1210, data in Firenze nella curia di S. Michele in Orto da Pace giudice dellâimperatore Federigo II per il Comune di Firenze, con la quale decise una controversia tra i monaci della badia fiorentina e Arduino operajo del Duomo di S. Giovanni, per esser lâOpera stessa creditrice della decima di un anno, per ragione di un pezzo di terra comprato dallâabate di detto monastero.
Anche nel 1217 il vescovo di Firenze Giovanni da Velletri, sepolto in S. Giovanni, diresse nel mese di novembre ad Arduino operajo di S. Giovanni un breve, col quale, per favorire le di lui istanze, confermò la pia elargizione fatta dai vescovi suoi antecessori allâOpera del Duomo delle decime spettanti alla mensa vescovile per i soli pivieri però di S. Giovanni, di Ripoli, di Settimo , di S.
Stefano in Pane , di Remole, di Empoli e di Calenzano. Il breve è firmato dal vescovo medesimo e da dieci canonici, comprese le tre dignitĂ del proposto, dellâarcidiacono e dellâarciprete del Duomo. (ARCH.
DIPL. FIOR. Arte di Calimala.) Circa lâanno 1293 fu questo tempio per ordine della Repubblica incrostato di marmi bianchi e neri con la direzione e disegno di Arnolfo capo maestro del Comune, il quale in tale occasione fece lastricare la piazza di S.
Giovanni.
Posava allora il sacro edifizio sopra un giro di scalere, stato rinterrato dopo il rialzamento progressivo del piano della cittĂ ; intorno al qual tempio esistevano le casse di marmo e gli avelli ra mmentati dal Boccaccio. Dalla parte della tribuna attuale quel tempio aveva il vestibolo e lâunico ingresso posto dirimpetto al palazzo di S.
Giovanni, ossia allâEpiscopio, con un solo altare nellâopposta parete voltata a levante. Fra Jacopo da Torrita, Andrea Taffi ed altri in diversi tempi rivestirono la cupola e la tribuna di mosaici. Andrea Pisano gettò, nel 1330, la porta di bronzo dalla parte di mezzodĂŹ; piĂš tardi (anno 1400) fu collocata al posto quella volta a settentrione, opera di Lorenzo Ghiberti, che fu pure lâautore della terza maravigliosa, dirimpetto alla cattedrale verso levante. Finalmente le statue di bronzo sopra i cornicioni delle porte medesime furono eseguite da Vincenzio Danti, da Francesco Rustici e da Andera Contucci da San Savino.
Metropolitana di S. Maria del Fiore, giĂ S. Reparata. â Questo grandioso e solido tempio che abbraccia unâarea di 22118 braccia quadrate, questo portentoso e imponente edifizio che basta da sè solo a dimostrare la magnanimitĂ e lâardire di quei cittadini che lâordinarono, fu decretato dal Comune di Firenze nellâanno 1294, quando commise ad Arnolfo capomaestro della Signoria: di far il disegno della rinnovazione di S. Reparata con quella piĂš alta e sontuosa magnificenza che inventar non si possa nè maggiore, nè piĂš bella dallâindustria e poter degli uomini; secondo che daâpiĂš savj di questa città è stato detto e consigliato in pubblica e privata adunanza, cioè: ânon doversi intraprender le cose del Comune, se il concetto non è di farle corrispondenti ad un cuore, che vien fatto grandissimo perchè composto dellâanimo di piĂš cittadini uniti insieme in un solo volereâ.
Il lungo periodo scorso dalla fondazione fino al compimento della metropolitana, diè luogo alla mutazione di diversi architetti per succedere a quelli che di mano in mano mancavano dopo morto il primo autore Arnolfo di Cambio da Colle.
Nel 1332 subentrò lâeccellente Giotto; ad esso lui Taddeo Gaddi, che fu rimpiazzato da Andrea Orgagna, e questi da Filippo di Ser Brunellesco. Questâultimo, tornato da Roma nellâanno 1407, consigliò gli operaj, che si elevasse la cupola, non giĂ immediatamente sopra gli archi, siccome Arnolfo aveva disegnato, ma sopra un tamburo, onde renderla piĂš svelta e maggiormente illuminata.
Superati da quel sublime artefice tutti i contrasti dei sui rivali, nel corso di 14 anni (dal 1421 al 1435) intraprese e terminò la fabbrica di quella portentosa cupola che niuno si sazia di contemplare. Nel 1437 fu dato principio allâelegantissima lanterna sul disegno dello stesso Brunellesco, la quale restò compita nel 1456, cioè 12 anni dopo la perdita del suo immortale autore, che ordinò si portasse a unâaltezza di braccia 202 compresa la palla e la croce di sopra al pavimento della chiesa.
Questo tempio a croce latina con tre corpi, o navate, è diviso da quattro arditissimi archi a sesto acuto. Ha di larghezza braccia 67 e soldi 2; di lunghezza totale br. 260 e soldi 18. Due tribune compagne a quella di mezzo, con 5 cappelle intorno per ciascuna, formano la croce, la quale ha br. 160 di larghezza. Sopra gli archi dei cappelloni si alza la gran cupola e sotto di essa è situato il coro ottagono rifatto di marmi sotto Cosimo I, e contornato da eccellenti figure in basso rilievo, scolpite da Giovanni dellâOpera, da Vincenzio Rossi, da Baccio Bandinelli e da altri. Il pavimento di marmi bianchi e a differenti colori e stimabile per i varj spartiti disegnati da sommi artisti; mentre quello intorno al coro fu delineato da Michelagnolo Buonarroti, lâaltro della navata di mezzo è di Francesco da San Gallo, ed il rimanente di Giuliano di Baccio dâAgnolo.
Ha sette grandi porte, quattro laterali, e tre nella facciata.
Le esterne pareti del tempio sono tutte incrostate a disegno di marmi bianchi, rossi e neri, sparse di piccole statue e di delicatissimi ornati. La facciata che fu incominciata col disegno di Giotto, venne disfatta nel 1588 con intenzione di ricostruirla piĂš bella. Ricompensa per altro un tal vuoto il contiguo campanile ossia la gran torre di Giotto, opera nel suo genere la piĂš portentosa dellâuniverso, siccome con tale scopo nel 1334 essa fu dalla Signoria di Firenze con queste parole decretata: âSi costruisca un edifizio cosĂŹ magnifico, che per altezza e qualitĂ del lavoro venga a superare tutti quanti in quel genere ne fossero stati fatti daâGreci e daâRomani neâtempi della loro piĂš florida potenza.â Questa torre, che ha 140 braccia di altezza e cento di circonferenza, finisce sormontata da un ballatojo praticabile; al di sopra del quale nel modello era disegnata una cuspide alta braccia 50, tralasciata da Taddeo Gaddi che tirò avanti la fabbrica dopo la morte di Giotto.
Basilica di S. Lorenzo e Regia Cappella dei Principi. â Non vi ha in Firenze tempio dedicato al vero Dio, il quale conti unâepoca, se non la piĂš remota, senza dubbio la meno contrastata, della chiesa di S. Lorenzo; talchè alcuni pontefici la qualificarono col titolo di chiesa principale.
Arroge a ciò che i canonici di questa collegiata vestirono degli abiti canonicali uniformi a quelli dei canonici della cattedrale, sino a che il pont. Eugenio IV, con bolla del 23 dicembre 1432, terminò le dissensioni su tal proposito fra i due capitoli insorte. (ARCH. DIPL. FIOR. Opera di S.
Maria del Fiore.) Fu nella primitiva chiesa di S. Lorenzo dove predicò S.
Ambrogio; fu costĂ dove ebbe il primo sepolcro uno deâpiĂš antichi vescovi fiorentini, S. Zanobi, e dove in seguito trovaron riposo le ceneri di Cosimo padre della patria; per la di cui munificenza la chiesa di S. Lorenzo, bruciata nel 1417, fu costruita di nuovo sopra un piĂš magnifico e grandioso disegno ordinato a Filippo di Ser Brunellesco. â Ă questo tempio a croce latina con tre navate divise da otto colonne per parte dâordine corintio.
Presso i cappelloni a destra e a sinistra havvi lâaccesso alle due sagrestie, vecchia e nuova; lâultima delle quali, disegnata dal Buonarroti, è arricchita dai due depositi maravigliosi di Lorenzo duca di Urbino, e di Giuliano duca di Nemours, lâuno e lâaltro della famiglia deâMedici, e scolpiti entrambi da Michel piĂš che terreno Angel divino . â Un altro piĂš sontuoso edizio è quello situato dietro al gran cappellone di mezzo, destinato ai sepolcri dei Principi Medicei. Ă disegno di don Giovanni dei Medici, continuato dal Nigetti a spese dei Granduchi Ferdinando I, Cosimo II e Ferdinando II che lâarricchirono dâintarsj, di lavori di pietre dure e di depositi con due statue di bronzo fuse da Giovan Bologna e da Pietro Tacca. Ma cotantâopera era restata incompleta sĂŹ nel pavimento, sĂŹ nellâaltare di pietre dure come nella cupola e nella fascia inferiore sino a che il regnante Granduca Leopoldo II con munificenza pari alla grandezza dal suo animo ordinò a valentissimi artisti il compimento di sĂŹ grandioso lavoro. Il quale lavoro è ormai giunto, rispetto alla cupola, con gran meraviglia del pubblico al suo compimento, mercè lâimmortale pennello del cav. Pietro Benvenuti, mentre con incessante attivitĂ sudano gli altri artefici per adempire pienamente ai voti del magnanimo Principe.
Nel chiostro contiguo alla basilica di S. Lorenzo trovasi lâinsigne biblioteca Laurenziana, costruita con disegno del Buonarroti; annessa alla quale va attualmente terminandosi la sala a guisa di rotonda per collocarvi una copiosa raccolta delle principali, piĂš antiche e piĂš rare edizioni, dono generoso lasciato alla patria dal dotto conte Giovanni dâEloi.
Chiesa di S. Croce. â Fu fondata nel 1294 col disegno di Arnolfo architetto del Comune, quando la Repubblica fiorentina decretava opere degne di Roma nella sua maggior potenza.
La chiesa è divisa in tre navate separate da otto arcate a sesto acuto per parte, lunga br. 240 e larga br. 70.
QuĂ Cimabue diede i primi saggi del suo valore nellâarte di dipingere. CostĂ Giotto mostrò la potenza del suo pennello neâgrandi affreschi; e quĂŹ una turba di pittori fecero a gara nel rappresentare storie sui muri, sulle tavole e sulle tele.
Questo tempio sino al 1434 fu il deposito dei trofei fiorentini e dei loro capitani, siccome ora è divenuto il panteon della nazione per collocarvi le ossa e innalzarvi i sepolcri degli uomini piÚ insigni figli naturali o adottivi di Firenze.
QuĂ la scultura emulò la pittura nelle belle statue che adornano i depositi del divino Buonarroti, di Galileo, di Machiavelli, di Alfieri, di Leonardo Bruni, del Marsuppini, del Fantoni e dellâAlighieri.
Chiesa di S. Maria Novella . â Questo ammirabile edifizio dei PP. Domenicani, è opera di tre religiosi laici dello stessâordine, fra Ristoro, fra Giovanni e fra Sisto. Fu fondato nel 1278, e restò quasi compito allâepoca della famosa peste del 1348.
La chiesa è lunga br. 170 a tre corpi con archi a sesto semi -acuto di varia grandezza; gli archi di mezzo sono piĂš larghi di quelli verso la facciata, e questi meno stretti di quelli vicino al presbiterio; contuttociò lâinsieme è di un effetto pieno di armonia. I piĂš valenti artisti gareggiarono gli uni dopo gli altri in adornarla; Cimabue, lâOrgagna, il Ghirlandajo, il Lippi,Santi di Tito, il Vasari, il Bronzino, ed altri distinti pittori, vi lavorarono. La famiglia deâRicci, châera in antico patrona della cappella maggiore, fece pitturare il coro da Andrea Orgagna, che dipinse eziandio nel 1357 gli affreschi del paradiso e delle bolge dellâInferno nel cappellone della crociata presso la sagrestia. Dilavate però ben presto le pitture dallâacque piovane, fu il coro di nuovo dipinto da capo a fondo in sei gran quadri per lato da Domenico del Ghirlandajo a spese di Giovanni Tornabuoni, giĂ Tornaquinci, che vedesi ivi effigiato al naturale con Francesca di Luca Pitti sua moglie, e con molti altri illustri uomini di quellâetĂ . Tutta questa pittura che desta la maraviglia in coloro che gustano il bello, non costò piĂš di mille fiorini. Fu terminata nel 1490, anno in cui fiorĂŹ Lorenzo il Magnifico, in tempo di pace, di abbondanza e di prosperitĂ ; come apparisce dallâiscrizione posta sulla muraglia a cornu Epistolae, la quale dice: Anno MCCCCLXXXX, quo pulcherrima civitas opibus, victoriis, artibus aedificiisque nobilis, copia, salubritate, pace perfruebatur.
Nel chiostro contiguo alla chiesa, eseguito da Fra Giovanni da Camp i, trovasi la famosa cappella del Capitolo, di struttura gotica, fondata circa il 1320 col disegno di un altro converso Domenicano fra Jacopo da Nipozzano. La pittura delle interne pareti fu affidata a due celebri artisti di quellâetĂ , Simone Memmi che dipinse tre facciate, e Taddeo Gaddi che fece lâaffresco della quarta parete dirimpetto allâaltare.
Chiesa di S. Spirito. â Il tempio piĂš vago, piĂš bello e meglio spartito di quanti altri ne potrebbe contare tutto lâorbe cristiano, è lâopera mirabile del piĂš grande architetto del suo secolo, Filippo di Ser Brunellesco. Egli disegnò negli ultimi tempi di sua vita (anno 1440) questo portentoso sacro edifizio a croce latina che sollevasi sopra cinque ordini paralleli di colonne a foggia corintia, con basi, capitelli, architravi e fregj di pietra serena con gran precisione lavorati. Tre ordini isolati percorrono con egual simetria lâambulatorio, la tribuna e i bracci, che costituiscono la croce latina. Tutto lâedifizio è lungo braccia 161, largo nella crociata br. 98 e nel rimanente br.
54. Gli altri due ordini di colonne sono appoggiati alle pareti del tempio, e servono di uniforme e grandiosa divisione alle 38 cappelle, che a guisa di svolte nicchie girano intorno e servono di adornamento al gran tempio.
In mezzo alla crociata si alza la cupola, sotto la quale gira il coro di figura ottagona, tutto di marmi fini, di statue e di balaustri lavorato. Nel centro della chiesa sotto la cupola sorge un vago tempietto, sorretto da colonne di verde antico, con lâaltar maggiore, tutto di pietre dure e preziose commesso, il quale fu dalla nobil famiglia Michelozzi con la spesa di 100,000 scudi nel secolo XVII fatto innalzare.
Molte pitture di eccellenti maestri adornano gli altari di questa chiesa e della contigua sacrestia; la qual ultima è della forma di un bel tempietto ottagono, opera del Cronaca. â Baccio dâAgnolo fu lâautore della svelta torre o campanile; Bartolommeo Ammannato e Alfonso Parigi rimodernarono gli spaziosi chiostri del contiguo convento.
Torre e chiesa di Or San Michele. â Questo eminente edifizio, destinato in origine per lâannona, collocato nel centro di Firenze antica e nella parte piĂš elevata, fu decretato dalla Signoria di Firenze subito dopo che ebbe ordinato a Giotto la piĂš magnifica torre del mondo. Fu nel 1336 châessa ordinò di erigere costĂ un loggiato sostenente una fabbrica che riescisse per tutti i rispetti degna dellâanimo dei Fiorentini, affidandone il disegno a Giotto, o, come altri vogliono, a Taddeo Gaddi, e la cura per lâesecuzione allâUn iversitĂ di Por S. Maria, ossia allâarte della Seta.
Fu benedetta la prima pietra nel 29 luglio 1337 dal vescovo di Firenze alla presenza di tutti i magistrati della cittĂ , gettando nei fondamenti medaglie dâoro e dâargento coniate con lâimpronta del disegnato edifizio, e intorno queste parole: Ut magnificentia Populi Flor. Artiumâ et Artificum ostendatur. Nel rovescio erano lâarmi della Rep.
e del Popolo colla leggenda: Reipub. et Pop. Decus et Honor.
La fabbrica è di pietra concia lunga br. 42, larga 32, alta 80; ha due ordini di finestroni, e termina con degli sporti intagliati a guisa della Loggia di Andrea Orgagna.
Unâimmagine della Madonna, dipinta in tavola da Ugolino Senese, veneravasi appoggiata a uno dei pilastri esterni di questo loggiato. La quale Madonna, nellâanno 1291, avendo fatto molti miracoli, diede origine a una compagnia per ricevere lâelemosine elargite dai fedeli.
Tali elargizioni si accrebbero al punto, che, allâoccasione dellâorribile peste del 1348, piĂš che 35000 fiorini dâoro le furono lasciati in dono dai cittadini colti da quella morĂŹa.
Per tali ragioni i capitani di essa Compagnia, con lâannuenza del Governo risolsero di serrare la giĂ innalzata Loggia; e di piazza destinata alla vendita giornaliera del grano, ridurla ad uso di oratorio per opera dello stesso Orgagna, che fu pure autore dellâelaborato tabernacolo, dove nel 1359 quella immagine venne collocata.
Non era appena compito questo ricco e delicato lavoro, quando i capitani della compagnia medesima deliberavano (14 novembre del 1358) di assegnare allâOpera di S. Reparata per la fabbrica della facciata della cattedrale tutto il danaro che la compagnia della Madonna di Or San Michele teneva nel Monte Comune.
Se non che poco dopo, revocando essi in parte quella deliberazione (28 dicembre 1358) limitarono il dono dellâannua offerta di 250 fiorini dâoro per un quinquennio, onde impiegare il denaro restante allâerezione di una cappella sotto la stessa loggia o chiesa di S. Michele in onore di S. Anna, in memoria del giorno, in cui Firenze fu liberata dalla tirannia del duca di Atene. (ARCH. DIPL.
FIOR.Opera di S. M. del Fiore.) Ci richiama allâepoca della conquista di Pisa (anno 1406) una provvisione della Signoria, con la quale destinò a ciascuno deâcollegj delle arti di Firenze una delle nicchie nelle esterne pareti della Torre di Or San Michele, perchè vi facessero collocare le statue di marmo o di bronzo dei loro santi avvocati con lâinsegna respettiva delle arti, nel modo che tuttora si osserva nella base delle varie statue eseguite da Donatello, da Andrea del Verrocchio, da Lorenzo Ghiberti, da Baccio da Montelupo, da Nanni dâAntonio del Bianco, e da Giovan Bologna. Simone da Fiesole fu autore della statua di marmo rappresentante la B. Vergine col santo Bambino, ordinata per lâarte deâMedici e Speziali, che fu dalla nicchia esterna trasportata in chiesa.
Archivio pubblico nella Torre di Or San Michele. âQuelle sale in origine stabilite aâmagazzini dellâannona, furono destinate da Cosimo I a ricevere i piĂš preziosi titoli della proprietĂ dello Stato e dei privati, quando con decreto dei 14 dicembre 1569 ordinò, che di tutti gli atti rogati dai notari fosse conservata una copia originale nellâarchivio pubblico, e che alla morte dei notari venissero trasmessi costĂ i protocolli. âNel 18 luglio 1572 fu decretata la separazione dei protocolli dagli originali, trasportando questi ultimi nellâarchivio del Proconsolo sotto la cura e custodia dei conservatori dellâarchivio pubblico di Or San Michele.
Essendo stato venduto lo stabile del Proconsolo, e trovandosi le stanze surrogate in quella vece poco comode, venne deliberato dal Granduca (ERRATA : Ferdinando I) Cosimo II, nel 27 maggio 1612, il trasporto sopra le logge di Mercato nuovo di tutte le mandate dei pubblici istrumenti originali.
Finalmente con sovrano rescritto del 26 ottobre 1823 fu creato un posto di archivista per la riordinazione degli atti originali posti nella loggia di Mercato nuovo.
Basilica della SS. Annunziata. â Correva il secolo XIV quando lâimmagine della SS. Annunziata dipinta a fresco allâingresso di questo tempio divenne lâoggetto piĂš sacro della devozione dei Fiorentini.
Nel 1262 uno di casa Falconieri aveva giĂ fatto edificare la prima chiesa, la quale in seguito fu ingrandita e adornata di un coro rotondo con una cupola disegnata da Leon Batista Alberti, e finalmente di un portico fatto davanti la facciata, dal Caccini a spese di Roberto Pucci.
Nel 1461 il Michelozzi per ordine di (ERRATA: Piero deâMedici) Cosimo deâMedici eresse la cappella della Beata Vergine a foggia di padiglione, e in questo tempio nel vestibolo e nei chiostri si immortalarono Andrea del Sarto, il Franciabigio, lâEmpoli, il Rosselli e il Pontormo fra i pittori, Baccio Bandinelli e Giuliano da San Gallo fra gli scultori.
Nellâimmenso numero dellâaltre chiese meritano di essere rammentate quella del Carmine per le pitture principalmente di Masaccio e di Masolino da Panicale, rispettate dallâincendio che distrusse quasi per intiero questa chiesa nel 1771; come pure fu rispettata la ricca cappella di S. Andrea Corsini e il mausoleo destinato a Pier Soderini. âMerita pure di esser considerata la chiesa della SS. TrinitĂ , rifatta sul disegno di Niccolò Pisano, meno la facciata col presbiterio, che sono opera di Bernardo Buontalenti; nella quale chiesa la cappella dei Sassetti è tutta dipinta a fresco da Domenico Ghirlandajo.
Nè è da passare in silenzio la vetusta chiesa dei SS.
Apostoli, quelle della Badia, deâSS. Michele e Gaetano, di S. Giovannino delle Scuole Pie, di S. Marco e di S.
Felicita, per tacere di moltissime altre.
PII ISTITUTI DI BENEFICENZA Compagnia della Misericordia, capo dâopera dellâumana caritĂ . âUna societĂ in mezzo alla societĂ , piĂš utile di questa, piĂš zelante, e piĂš disinteressata sarebbe difficile rintracciarla. âFu il suo principio nellâanno 1244 cagionato dalle frequenti pestilenze di quei tempi, che stimolarono deâzelanti cittadini ad associarsi insieme per soccorrere lâumanitĂ neâcasi dâinfermitĂ , o di accidenti fortuiti, accorrendo al primo invito tanto di notte che di giorno (non eccettuati i casi di pestilenza) per trasportare glâinfermi dalle case e dalle pubbliche strade alli spedali, e nel caso di morte improvvisa alla sepoltura. Il popolo fiorentino applaudĂŹ a questâopera, e vi concorse generosamente col servizio della persona, collâelemosine giornaliere, e coi lasciti testamentarj. Forse questo stesso patrimonio volontario e collettizio fu la cagione per cui la compagnia della Misericordia per decreto della Rep.
fiorentina rimase soppressa nel 1425, allorchè si riunĂŹ il titolo con le sue entrate allâaltra compagnia contigua di S.
Maria del Bigallo. Ma i frequenti sconcerti, che accadevano nella cittĂ , per malati o per morti abbandonati, fece meglio comprendere lâutilitĂ e lâimportanza del pio istituto della Misericordia; ed i suoi statuti antichi, sottoscritti nel 1491, inducono a credere, che la predetta compagnia non rimanesse soppressa che per circa 60 anni. Molti privilegj furono concessi a questa filantropica societĂ , tanto sotto la repubblica, quanto sotto la monarchia; in guisa che la caritĂ di questa numerosa e pia congrega conserva costante quel santo zelo ed ardore che diè origine a sĂŹ umano istituto.
Compagnia del Bigallo. â Ciò che fece la caritĂ per la compagnia della Misericordia venne fatto dalla religione militante per lâistituto del Bigallo. âTerminate le sanguinose battaglie contro gli eretici Paterini, circa il 1290, che bandĂŹ fra Pietro da Verona capo di quella milizia sacra, sorse la compagnia di S. Maria del Bigallo, lĂ dove si dipinsero le glorie dei crocesegnati sopra la loggia di Niccolò Pisano, chiamata della Misericordia vecchia. Furono quindi raccomandati alla pietĂ di questa compagnia molti piccoli spedali (circa 200 di numero) sparsi per il contado fiorentino, onde albergarvi infermi e pellegrini. Lo spedale chiamato del Bigallo , nel popolo di S. Quirico a Ruballa, diede alla compagnia il nome che porta.
Tale istituzione, e tanti ospedaletti durarono sino alla metĂ del secolo XVIII, quando cioè lâospitalitĂ cessò di essere un dovere di religione, ma il Granduca Cosimo I aveva riunito alla compagnia del Bigallo anche lâincarico di accogliere gli orfani abbandonati. Il luogo dove questi infelici si riunirono fu dapprima nello spedale di Bonifazio, dappoi nel convento di S. Caterina degli Abbandonati, trasportati infine nello spedale deglâInnocenti.
S. Martino deâBuonomini. â Questa piccola chiesuola situata fra il monastero della Badia di Firenze e le antiche case dei Cerchi, fu fondata nel 986, per uso di parrocchia sotto il governo deâBenedettini della vicina badia. Tale si manteneva allora quando il religioso domenicano fra Antonino, che fu poi il santo arcivescovo fiorentino, nel 1441, pensò di provvedere i poveri vergognosi, e specialmente i cittadini poveri, che non ardivano questuare.
A tale oggetto scelse dodici cittadini di onesto costume, i quali dopo aver ricevuto dal fondatore le costituzioni, adunaronsi da primo in casa di uno di loro, quindi nella chiesa di San Martino del Vescovo, la di cui cura fu poi soppressa nel 1471.
Fra gli obblighi fondamentali di questâistituto avvi quello di dovere alienare qualsiasi fondo lasciato dai benefattori per erogare il prodotto in sollievo dei poveri.
Congregazione di S. Giovan Battista. â Eretta da pie persone, fu confermata nel 1700 dal Sovrano allora regnante, e quindi protetta e ampliata dai RR. Successori, ed in special modo da Leopoldo II felicemente regnante.
Tende essa pure a prevenire la questua somministrando vesti e letta alle miserabili famiglie della cittĂ .
Fra le caritatevoli istituzioni Firenze conta la casa pia di San Filippo Neri, eretta nel 1659 da Filippo Franci per raccogliere i fanciulli erranti ed oziosi per le vie. CosĂŹ la Pia Casa di Lavoro, grandioso e utilissimo asilo, fu aperta nel 1815 per raccogliervi i questuanti, e togliendoli dallâozio, impiegarli in diversi mestieri.
Tali sono le sale infantili che la filantropia di molti cittadini e dame promuove in Firenze per addestrare dalla piĂš tenera etĂ i figliuoli del povero ai buoni costumi.
Non dirò del grandioso arcispedale di Santa Maria Nuova e delle scuole scientifiche ivi nel 1818 aumentate; tacerò dello Spedale degli Innocenti, e dellâaltro di Bonifazio, giacchè a ognun di loro vi sarebbe dâuopo di un lungo articolo.
Appartiene allo stesso genere lâospizio di Orbatello fondato nel 1372 da Niccolò Alberti per ricevere le vittime della seduzione, onde depositarvi il loro feto.
STABILIMENTI DâISTRUZIONE PUBBLICA La via dello Studio fra la canonica del Duomo e la chiesa dei Ricci, e la via della Sapienza fra le due piazze di S.
Marco e della Nunziata, ci rammentano due antichi stabilimenti di pubblica istruzione, che uno aperto a spese della Rep. lâaltro fondato da un illustre cittadino Niccolò da Uzzano.
Non era ancora cessata la gran moria del 1348, allorchè i Fiorentini, pensando di richiamare gente alla loro città , e dilatarla in fama e in onore, operarono sÏ che costà fosse generale Studio di varie scienze, lettere ed arti; cioè in sacra Teologia ; in diritto Canonico; in Giurisprudenza; in Astrologia e Filosofia; in Medicina; nelle Arti e Letteratura.
Era questo studio ridotto alla sola facoltĂ di Teologia, quando Cosimo I nel 1542 assegnò quelle case allâAccademia fiorentina, sino a che questa nel 1784 cedette il posto al collegio dei chierici Eugeniani della Metropolitana per le loro scuole.
Non ebbe miglior fortuna la casa della Sapienza incominciata a fabbricare verso il 1430 da Niccolò da Uzzano, il quale alla sua morte assegnò un fondo cospicuo per mantenimento di 50 scolari poveri. Se non chè lâedifizio restò incompleto, e gli assegnamenti a quel collegio destinati furono dalla Repubblica convertiti in altri usi. Ripararono in parte a questo vuoto i PP. Gesuiti chiamati in Firenze nel 1551 dalla duchessa Eleonora di Toledo moglie di Cosimo I, e con generosa liberalitĂ da quel sovrano e da molti cittadini assistiti. Cosicchè nel 1559 quei Padri diedero principio al Collegio e chiesa di S. Giovannino col disegno e i mezzi di Bartolommeo Ammannato, il quale fu contato liberale che donò quasi tutto il suo patrimonio a quei religiosi, per cui negli ultimi anni di sua vita si ridusse indigente.
Ma i gesuiti non si curavano molto dâistruire i poveri, a favor dei quali vennero dopo 80 anni i compagni del Calasanzio; e fra questi il P. Clemente Settimj, maestro del ch. Viviani, e il P. Franc. Michelini successore di Galileo nello Studio pisano. Infatti i PP. Scolopj introdussero migliori metodi dâistruzione, sĂŹ in letteratura, che nello studio della fisica e delle matematiche.
Dalle case deâCerchi, dove le Scuole Pie furono in origine collocate, passarono nel 1775 nel Collegio dei soppressi Gesuiti a San Giovannino, dove tuttora con gran plauso e profitto della gioventĂš quei religiosi esercitano il loro filantropico ministero.
Allâistruzione ecclesiastica del clero fiorentino provvedono le scuole delle chiese collegiate, e per le scienze sacre i professori del Seminario fiorentino.
Alla prima istruzione elementare riparano tre pubbliche scuole di reciproco insegnamento, e diversi privati istituti.
Dopo annullata la testamentaria volontà di Niccolò da Uzzano, Firenze non ebbe piÚ stabilimento con convito per i studenti; e sebbene nel 1812 si preparava il vasto monastero di Candeli per riempire un tal vuoto in cosÏ vasta città ; pure non resta oggi che il nome di Liceo a quel locale, senzachè principiasse a servire a tal uso.
PiĂš fortunate furono le fanciulle di ogni classe, le quali, oltre le pubbliche scuole dei Quartieri instituite dal G.D.
Pietro Leopoldo, contano in Firenze otto ben forniti Consevatorj, quello Imp. e R. della SS. Annunziata, quelli di Ripoli, delle Mantellate, di S. Agata, degli Angiolini, delle Salesiane, delle Giovacchine, e lâeducatorio di Fuligno.
PALAZZI REGJ IN FIRENZE Il palazzo Vecchio, giĂ della Signoria, situato nella gran piazza chiamata deâSignori, poi del Granduca, fu disegnato da Arnolfo da Colle. La sua torre posante in parte sulli sporti è alta 150 brac.; il gran salone lungo br.
90 e largo br. 37, fu dipinto dal Vasari. La cappella la secondo piano venne pitturata da Domenico Ghirlandajo.
â In questo palazzo trovansi riuniti tutti gli ufizj delle RR.
Segreterie di Stato; quelli delle RR. Possessioni, la R.
Depositeria, lâufizio deâSindacati, la Guardaroba maggiore e la R. Dogana.
Il palazzo Pitti, una delle piĂš magnifiche reggie, fu incominciato nel 1440, da Luca Pitti col disegno del Brunellesco, e nel 1560 per ordine di Cosimo I fu aggiunto il magnifico cortile dellâAmmanato. In seguito Alfonso Parigi aumentò i fianchi dellâedifizio; e il Paoletti per ordine del G. D. Pietro Leopoldo costruĂŹ il quartiere della Meridiana verso Boboli, e cominciò il Rondò a levante della facciata. Finalmente Ferdinando III e Leopoldo II felicemente regnante commisero al R.
architetto Poccianti nuovi grandiosi annessi tanto interni che esterni per accrescere bellezza e armonia a cotesta imponenete mole. Dalla quale mediante un lungo corridore coperto, fatto nel 1564 dal Vasari, si comunica con la R. fabbrica degli Ufizj, e di lĂ col palazzo Vecchio.
Il R. palazzo della Crocetta fu fatto riedificare e ampliare dal G. D. Pietro Leopoldo col R. Casino di S. Marco, e le RR. Scuderie. Due superbi palazzi vennero recentemente dal Governo acquistati, cioè, il palazzo Riccardi, giĂ di casa deâMedici, opera in gran parte dellâarchitetto Michelozzi; e il palazzo detto Non finito, che fu per Roberto Strozzi disegnato dallo Scamozzi, cui il Buontalenti aggiunse la facciata, e il Cigoli il bel cortile.
Per i tanti nobili palazzi dei privati, i di cui fondatori occupano nella storia un posto distinto, rinvierò alle Guide speciali.
POPOLAZIONE della CittĂ di FIRENZE a tre epoche diverse divisa per QUARTIERI (A) QUARTIERE DI S. GIOVANNI - Titolo della parrocchia: Metropolitana di S. Maria del Fiore, giĂ S. Reparata con gli annessi che seguono (1) popolazione del 1745: 1765 popolazione del 1833: 3421 (con annessi) - Titolo della parrocchia: S. Pietro Celoro (2) Soppressa nel 1448 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Andrea in Mercato vecchio Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 330 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Benedetto dalla Canonica Soppressa nel 1771 popolazione del 1745: 153 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Cristofano degli Adimari dietro il Bigallo Soppressa nel 1786 popolazione del 1745: 226 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Maria Nepotecosa, o S.
Donnino deglâAdimari Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 398 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Maria deglâAlberighi (3) Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 221 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Michele delle Trombe Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 131 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Tommaso in Mercato Vecchio Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 145 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: Basilica e insigne Collegiata di S. Lorenzo popolazione del 1745: 12783 popolazione del 1833: 15837 - Titolo della parrocchia: S. Michele Visdomini popolazione del 1745: 3046 popolazione del 1833: 2497 - Titolo della parrocchia: SS. Annunziata, per una porzione della parrocchia trasportata da S. Pier Maggiore (4) Eretta dopo la rovina di S. Pier Maggiore (1783) popolazione del 1745: 2592 popolazione del 1833: 2736 - Titolo della parrocchia: S. Marco evangelista PP. Domenicani popolazione del 1745: 670 popolazione del 1833: 1152 - TOTALE popolazione del 1551: 25680 - Titolo della parrocchia: S. Egidio in S. Maria Nuova Arcispedale popolazione del 1551: 250 popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 335 - Titolo della parrocchia: S. Maria nello Spedale deglâInnocenti, ossia degli Esposti Con lâannesso di S. Caterina degli Abbandonati popolazione del 1551: 127 popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 73 - Titolo della parrocchia: S. Gio. Battista nello Spedale di Bonifazio Con lâannesso di S. Lucia popolazione del 1551: 178 popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 127 - Titolo della parrocchia: S. Maria in Campo Residenza del vescovo di Fiesole popolazione del 1551: - popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 11 - TOTALE abitanti anno 1551: 26235 - TOTALE abitanti anno 1745: 22131 - TOTALE abitanti anno 1833: 26189 (A) La popolazione del 1551 non trovasi distinta per parrocchie, ma solamente per case e Quartieri.
(1) N. B. Nella cura della Metropolitana è compresa la popolazione del Ghetto di 884 abitanti.
(2) Venne ridotta ad uso della Biblioteca della Cattedrale sino a che nel 1680 si convertĂŹ nellâarchivio e adunanza del Capitolo fiorentino, cui serve tuttora.
(3) Una porzione della cura di S. Maria deglâAlberighi toccò alla parrocchia di S. Margherita (4) Lâaltra porzione della parrocchia di S. Pier Maggiore fu data alla cura di S. Giuseppe.
QUARTIERE DI S. MARIA NOVELLA - Titolo della parrocchia: SS. Apostoli, prioria antica con lâannesso di S. Maria sopra Porta popolazione del 1745: 459 popolazione del 1833: 1287 (con annesso) - Titolo della parrocchia: S. Maria sopra Porta in S.
Biagio, antica Prioria Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 634 popolazione del 1833: annesso ai SS. Apostoli - Titolo della parrocchia: S. Gaetano in S. Michele Bertelde, ossia deglâAntinori con gli annessi che seguono popolazione del 1745: 291 popolazione del 1833: 1926 (con annessi) - Titolo della parrocchia: S. Miniato fra le Torri Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 246 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Maria Ughi Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 224 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Donato deâVecchietti Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 301 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Leone nella Piazza deâBrunelleschi Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 211 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Maria in Campidoglio Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 76 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Piero Buon Consiglio Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 268 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Maria Maggiore, con lâannesso che segue popolazione del 1745: 870 popolazione del 1833: 1033 (con lâannesso dellâantica prioria di S. Ruffillo sulla Piazzetta dellâOlio) - Titolo della parrocchia: antica prioria di S. Ruffillo sulla Piazzetta dellâOlio Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 70 popolazione del 1833: annesso a S. Maria Maggiore - Titolo della parrocchia: S. Maria Novella PP. Domenicani popolazione del 1745: 2502 popolazione del 1833: 3153 - Titolo della parrocchia: SS. TrinitĂ con lâannesso che segue PP. Vallombrosani popolazione del 1745: 1216 popolazione del 1833: 2955 (con lâannesso di S.
Pancrazio) - Titolo della parrocchia: S. Pancrazio Soppressa nel 1809 popolazione del 1745: 1520 popolazione del 1833: annesso alla SS. TrinitĂ - Titolo della parrocchia: S. Salvadore in Ognissanti (con lâannesso di S. Paolo dei PP. Teresiani, giĂ prioria - soppressa nel 1619) Eretta nel 1619 PP. Francescani popolazione del 1745: 2700 popolazione del 1833: 3115 - Titolo della parrocchia: S. Lucia sul Prato popolazione del 1745: 4644 popolazione del 1833: 5043 - TOTALE popolazione del 155: 10336 - Titolo della parrocchia: S. Giovanni Battista nella Fortezza da Basso Cura di Militari popolazione del 1551: 300 popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 1287 - TOTALE abitanti anno 1551: 10636 - TOTALE abitanti anno 1745: 14231 - TOTALE abitanti anno 1833: 19924 QUARTIERE DI S. SPIRITO - Titolo della parrocchia: S. Frediano in Castello, Collegiata popolazione del 1745: 5302 popolazione del 1833: 10288 (con parte della cura di S.
Maria in Verzaja) (5) - Titolo della parrocchia: S. Maria in Verzaja Soppressa nel 1784 popolazione del 1745: 2160 popolazione del 1833: annesso in parte a S. Frediano in Castello e in parte a S. Maria al Pignone - Titolo della parrocchia: S. Felicita (con lâannesso dellâantica Prioria di S. Jacopo soprâArno â Soppressa nel 1575) popolazione del 1745: 2373 popolazione del 1833: 3645 - Titolo della parrocchia: S. Felice in Piazza popolazione del 1745: 3369 popolazione del 1833: 5085 - Titolo della parrocchia: S. Piero in Gattolino popolazione del 1745: 1214 popolazione del 1833: 1799 - Titolo della parrocchia: S. Niccolò oltrâArno, Prioria popolazione del 1745: 1911 popolazione del 1833: 2253 - Titolo della parrocchia: S. Lucia deâMagnoli con lâannesso che segue popolazione del 1745: 479 popolazione del 1833: 1031 (con lâannesso di S. Maria soprâArno) - Titolo della parrocchia: S. Maria soprâArno Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 240 popolazione del 1833: annesso a S. Lucia deâMagnoli - Titolo della parrocchia: S. Spirito, ossia S. Giorgio sulla Costa popolazione del 1745: 733 popolazione del 1833: 957 - Titolo della parrocchia: S. Maria nella Fortezza di Belvedere Cura di Militari popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 374 - TOTALE abitanti anno 1551: 14680 - TOTALE abitanti anno 1745: 17781 - TOTALE abitanti anno 1833: 25432 (5) La porzione della cura di S. Maria in Verzaja fuori di porta S. Frediano fu data alla parrocchia nuova di S.
Maria al Pignone.
QUARTIERE DI S. CROCE - Titolo della parrocchia: S. Michele in Orto, Prepositura con i due annessi seguenti popolazione del 1745: 750 - Titolo della parrocchia: S. Romolo in Piazza Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 450 - Titolo della parrocchia: S. Bartolommeo in via Caciajoli Soppressa nel 1768 popolazione del 1745: 337 - Totale popolazione di S. Michele in Orto e annessi: - Titolo della parrocchia: S. Stefano al Ponte con i due annessi seguenti popolazione del 1745: 1397 popolazione del 1833: 1201 (con gli annessi di S. Cecilia in Vacchereccia e S. Pietro Scheraggio) - Titolo della parrocchia: S. Cecilia in Vacchereccia Soppressa nel 1783 popolazione del 1745: 163 popolazione del 1833: annesso a S. Stefano al Ponte - Titolo della parrocchia: S. Pietro Scheraggio Soppressa nel 1561 popolazione del 1745: annesso a S. Stefano al Ponte popolazione del 1833: annesso a S. Stefano al Ponte - Titolo della parrocchia: S. Remigio, Prioria antica con lâannesso di S. Firenze popolazione del 1745: 1598 popolazione del 1833: 2520 (con lâannesso di S. Firenze) - Titolo della parrocchia: S. Firenze Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 315 popolazione del 1833: annesso a S. Remigio - Titolo della parrocchia: S. Stefano della Badia con gli annessi di S. Martino del Vescovo in parte (6) e S.
Apollinare PP. Benedettini popolazione del 1833: 929 (con gli annessi) - Titolo della parrocchia: S. Martino del Vescovo Soppressa nel 1471 popolazione del 1745: annesso a S. Stefano della Badia popolazione del 1833: annesso a S. Stefano della Badia - Titolo della parrocchia: S. Apollinare Soppressa nel 1755 popolazione del 1745: 607 popolazione del 1833: annesso a S. Stefano della Badia - Titolo della parrocchia: S. Margherita nella Madonna deâRicci con lâannesso di SS. Proclo e Nicodemo (7) e S.
Maria deglâAlberighi per una porzione (8) Traslocata nellâanno 1834 popolazione del 1745: 215 popolazione del 1833: 1023 (con gli annessi) - Titolo della parrocchia: SS. Proclo e Nicodemo Soppressa nel 1788 popolazione del 1745: 307 popolazione del 1833: annesso a S. Margherita nella Madonna deâRicci - Titolo della parrocchia: S. Maria deglâAlberighi Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 400 popolazione del 1833: annesso a S. Margherita nella Madonna deâRicci - Titolo della parrocchia: S. Simone, Prioria antica popolazione del 1745: 2289 popolazione del 1833: 1875 - Titolo della parrocchia: S. Jacopo tra i Fossi, Prioria antica popolazione del 1745: 1283 popolazione del 1833: 1941 - Titolo della parrocchia: S. Ambrogio, Prioria antica popolazione del 1745: 4771 popolazione del 1833: 6937 - Titolo della parrocchia: S. Giuseppe delle Conce Eretta nel 1784 opolazione del 1745: 4492 popolazione del 1833: 5259 - Titolo della parrocchia: S. Ferdinando nella Pia Casa di Lavoro Eretta nel 1815 opolazione del 1745: - popolazione del 1833: 832 - TOTALE abitanti anno 1551: 9122 - TOTALE abitanti anno 1745: 19374 - TOTALE abitanti anno 1833: 24382 (6) La cura di S. Martino fu aggregata a quella di S.
Procolo, e il suo locale ceduto alla congregazione dei XII Buonomini nel 1471.
(7) La cura di S. Procolo fu data a S. Stefano da Badia.
(8) Altra porzione fu annessa alla Metropolitana.
(9) Instituita con la porzione orientale della distrutta parrocchia e chiesa di S. Pier Maggiore.
RICAPITOLAZIONE di tutta la popolazione della cittĂ di FIRENZE distribuita per QUARTIERI 1° Quartiere di S. Giovanni - abitanti anno 1551: 26235 - abitanti anno 1745: 22131 - abitanti anno 1833: 26189 2° Quartiere di S. Maria Novella - abitanti anno 1551: 10636 - abitanti anno 1745: 14231 - abitanti anno 1833: 19924 3° Quartiere di S. Spirito - abitanti anno 1551: 14680 - abitanti anno 1745: 17781 - abitanti anno 1833: 25432 4° Quartiere di S. Croce - abitanti anno 1551: 9122 - abitanti anno 1745: 19374 - abitanti anno 1833: 24382 - TOTALE abitanti anno 1551: 60773 - TOTALE abitanti anno 1745: 73517 - TOTALE abitanti anno 1833: 95927 MOVIMENTO della Popolazione della CITTAâ di FIRENZE dallâanno 1818 sino a tutto aprile 1836.
-ANNO 1818 POPOLAZIONE: n° 82,739 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1642; femmine n° 1503; totale n° 3145 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1504; femmine n° 1597; totale n° 3101 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 700 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 888 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1819 POPOLAZIONE: n° 82,984 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1759; femmine n° 1777; totale n° 3536 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1609; femmine n° 1677; totale n° 3286 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 791 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 828 CENTENARJ: n° - -ANNO 1820 POPOLAZIONE: n° 83,306 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1856; femmine n° 1800; totale n° 3656 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1493; femmine n° 1472; totale n° 2965 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 763 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 827 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1821 POPOLAZIONE: n° 84,791 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1831; femmine n° 1743; totale n° 3574 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1698; femmine n° 1758; totale n° 3456 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 719 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 753 CENTENARJ: n° - -ANNO 1822 POPOLAZIONE: n° 85,249 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1931; femmine n° 1718; totale n° 3649 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1661; femmine n° 1640; totale n° 3301 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 730 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 800 CENTENARJ: n° - -ANNO 1823 POPOLAZIONE: n° 86,976 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1934; femmine n° 1841; totale n° 3775 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1450; femmine n° 1473; totale n° 2923 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 708 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 858 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1824 POPOLAZIONE: n° 88,088 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1891; femmine n° 1802; totale n° 3693 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1569; femmine n° 1607; totale n° 3176 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 720 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 807 CENTENARJ: n° - -ANNO 1825 POPOLAZIONE: n° 89,373 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1861; femmine n° 1854; totale n° 3715 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1626; femmine n° 1633; totale n° 3259 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 823 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 790 CENTENARJ: n° - -ANNO 1826 POPOLAZIONE: n° 90,423 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1974; femmine n° 1882; totale n° 3856 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1562; femmine n° 1568; totale n° 3130 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 756 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 865 CENTENARJ: n° - -ANNO 1827 POPOLAZIONE: n° 90,930 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1950; femmine n° 1958; totale n° 3908 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1526; femmine n° 1682; totale n° 3208 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 702 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 884 CENTENARJ: n° - -ANNO 1828 POPOLAZIONE: n° 92,362 NUMERO DEI NATI: maschi n° 2017; femmine n° 1789; totale n° 3806 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1826; femmine n° 1715; totale n° 3541 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 736 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 881 CENTENARJ: n° - -ANNO 1829 POPOLAZIONE: n° 92,763 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1856; femmine n° 1765; totale n° 3621 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1591; femmine n° 1589; totale n° 3180 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 685 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 790 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1830 POPOLAZIONE: n° 93,437 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1778; femmine n° 1760; totale n° 3538 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1576; femmine n° 1532; totale n° 3108 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 724 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 772 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1831 POPOLAZIONE: n° 94,156 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1896; femmine n° 1949; totale n° 3845 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1654; femmine n° 1632; totale n° 3286 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 709 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 838 CENTENARJ: n° - -ANNO 1832 POPOLAZIONE: n° 94,519 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1847; femmine n° 1842; totale n° 3689 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1720; femmine n° 1692; totale n° 3412 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 726 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 864 CENTENARJ: n° - -ANNO 1833 POPOLAZIONE: n° 95,927 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1920; femmine n° 1770; totale n° 3690 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 2428; femmine n° 2517; totale n° 4945 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 695 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 862 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1834 POPOLAZIONE: n° 96,240 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1971; femmine n° 1916; totale n° 3887 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1518; femmine n° 1632; totale n° 3150 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 779 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 890 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1835 POPOLAZIONE: n° 97,201 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1872; fe mmine n° 1857; totale n° 3729 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1698; femmine n° 1866; totale n° 3564 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 766 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 901 CENTENARJ: n° - -ANNO 1836 POPOLAZIONE: n° 97,648 (fino al 30 aprile del 1836) NUMERO DEI NATI: maschi n° âŚ; femmine n° âŚ; totale n° ⌠NUMERO DEI MORTI: maschi n° âŚ; femmine n° âŚ; totale n° ⌠NUMERO DEI MATRIMONJ: n° ⌠NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° ⌠CENTENARJ: n° ⌠DIOCESI DI FIRENZE Non essendoci di alcun vescovo fiorentino prima del secolo IV memoria che fermamente chiara e certa si possa dire, ragion vuole che si cominci dal vescovo Felice, il quale nellâanno 313 assistè al Concilio romano adunato per causa dei Donaziani. Essendochè (dirò col Borghini, e con molti altri dotti scrittori della chiesa fiorentina) di quel vescovo Frontino, del quale parlano alcuni come di un discepolo di S. Pietro Apostolo, e da lui specialmente mandato in Toscana con Paolino e con Romolo loro compagni a predicare la fede di GesĂš Cristo, non si trovano scritture nè autoritĂ che sembrino potere con sicurezza affermarlo, onde pigliare il principio della diocesi fiorentina dal primo secolo del Cristianesimo. Il piĂš antico adunque che si trovi tra i vescovi di Firenze, è quel Felice di sopra nominato, dopo del quale per circa 60 anni non sâincontrano notizie sicure di altri vescovi suoi successori sino al glorioso S. Zanobi. Arroge a ciò che il piĂš delle volte nei primi secoli solevano quei gerarchi prendere il titolo del loro vescovado da quello della chiesa matrice o cattedrale in cui sedevano, nel modo che lo usarono in Toscana i prelati di Arezzo, di Lucca, di Fiesole, di Volterra, ec. Uno dei piĂš vetusti esempj a prova di tal vero lo forniscono per la diocesi fiorentina molte pergamene del suo archivio, a partire da quella dellâanno 723, nella quale Specioso si qualifica vescovo dellâepiscopio e chiesa matrice di S. Giovanni. CosĂŹ in due istrumenti, uno del 4 agosto 967 sotto il vesc. Sichelmo, lâaltro del 5 febbrajo 990 sotto il vesc. S. Podio, si rammenta il Duomo di S. Giovanni, ubi Sichelmus (nel primo) et Dominus Podius (nel secondo) tunc erat Episcopus. Unâaltra membrana del settembre 972 nomina Domum Episcopalem Sancti Joannis intra civitatem Florentiae. Per egual modo nella fondazione della badia di S. Miniato al Monte, fatta nel 1013 dal vescovo Ildebrando, quel gerarca si sottoscrisse: Ildebrandus Sancti Jannis servus et indignus Episcopus. Ă altresi vero che la pieve di S. Reparata (ora S. Maria del Fiore) a partire dal secolo XI sembra che acquistasse il privilegio di concattedrale, mentre il vescovo Ildebrando nella carta dellâanno 1013 poco sopra rammentata si qualifica Episcopus Sancti Joannis vel Sanctae Reparatae, nel modo istesso che per atto pubblico del 15 gennajo 1040, rogato in Signa, si offrono terreni alla chiesa e canonica del Duomo di S. Giovanni e di S. Reparata. (LAMI, Monum. Eccles. Flor. passim.) Che veramente la chiesa del Battista fosse la prima sede e la cattedrale dei vescovi di Firenze si può eziandio argomentarlo dallâantica consuetudine che avevano i nuovi eletti di cantare la prima messa in quel tempio, mentre costĂ tamquam in suum stallum entravano a prenderne il possesso (l. c.). In conseguenza di ciò, e a buon diritto, il sommo poeta chiamava ovile di S. Giovanni la cittadinanza fiorentina, e a Firenze la cittĂ del Battista. In cotanta venerazione ed amore era tenuto il nome di S. Giovanni dal popolo fiorentino, che nei primi secoli dopo il mille le terre e le castella, i magnati di contado e altri signori, quando volevano sottomettere essi e le loro sostanze al Comune di Firenze, dichiaravano di farlo, non a favore della cittĂ nè deâsuoi magistrati, ma sivvero a onore di S. Giovanni, cui promettevano lâofferta di un annuo tributo. Cosicchè il santo precursore di G. Cristo scritto consideravasi dai fiorentini nella stessa guisa che per il dominio e cittĂ di Venezia era riguardato il S. Marco. Ma lasciando a parte coteste cose, mi limiterò piuttosto a dire di ciò che piĂš direttamente giova a far conoscere lâantico e moderno perimetro della diocesi in discorso. Quando peraltro dico perimetro antico non intendo giĂ di risalire al primitivo stato, in cui Firenze venne alla fede di Cristo, e nè anche partirmi dalla meno dubbiosa serie dei suoi vescovi, quando cioè la capitale della Toscana contava una diocesi sua propria. Imperocchè, ammessa anche per verisimile lâopinione del sopralodato Borghini, che i termini, cioè, della giurisdizione ecclesiastica di Firenze, fossero i medesimi di quelli del territorio che fu consegnato ai coloni fiorentini sotto i Triumviri, ossia nei primi anni dellâImpero di Ottaviano, pure non conoscendo qual modificazione territoriale posteriormente sia avvenuta fra lâEsarcato di Ravenna e la Toscana, non possiamo tampoco sapere, se a quellâetĂ la diocesi di Firenze oltrepassasse la catena dellâAppennino, e quindi penetrasse, come ora si vede, nelle valli del Senio e del Santerno. Tanto piĂš lo danno a dubitare i documenti di Ravenna, dai quali risulta, che anche dopo lâepoca Longobarda (durante la quale dominazione vennero tolti varii paesi e terreni al greco esarcato e alla metropoli Ravennate) il giogo dellâAppennino, sino almeno al secolo IX avanzato, serviva di limite alla giurisdizione della Romagna; essendo che allora questa continuava a estendere il suo dominio usque ad jugum Alpium finibus Thusciae (FANTUZZI, Mon. Ravenn. Carta degli 8 settembre 896). Comunque sia di quella parte di territorio transappennino, in cui si vede inoltrata la diocesi fiorentina, fatto stĂ che a di lei favore su questo rapporto non si contano, se io non mâinganno, memorie valevoli a contestare unâantichitĂ che risalga piĂš indietro del secolo XI. Poste tali considerazioni, ne consegue che non si può con sicurezza dedurre dai confini piĂš anticamente conosciuti della diocesi di Firenze, quali fossero quelli della fiorentina colonia; e che perciò ognun che non voglia pescare fra le cronache favolose, debba limitarsi piuttosto ai fatti meno controversi, e confacenti a dimostrare il distretto di questa diocesi ecclesiastica innanzi che ad essa venisse tolto il piviere di Poggibonsi per darlo a quella piĂš moderna eretta in Colle, e prima che la nostra fosse stata aumentata di varie chiese transapennine appartenute alla diocesi di Bologna e dâImola. Io non tornerò a far parola del piviere dâEmpoli, che alcuni dissero una volta compreso nella diocesi di Pisa, giacchè ne fu bastantemente discorso allâarticolo di quella Terra del Val dâArno inferiore. CosĂŹ allâarticolo FIESOLE fu accennato, che la cattedrale fiesolana con 22 parrocchie della stessa diocesi trovansi circondate dalla fiorentina in guisa di lasciare il poggio ed i contorni dellâetrusca cittĂ di Fiesole isolati dal restante del suo antico contado e giurisdizione. Premesse tali avvertenze speciali, dico, che la diocesi fiorentina attualmente confina con 9 vescovati; cioè, a levante e scirocco con la diocesi di Fiesole; a ostro con quella di Colle; a ostro libeccio con la diocesi di Volterra ; a libeccio con quella di Samminiato; a ponente e maestro con i vescovati di Pistoja e di Prato; a settentrione con quelli di Bologna e dâImola; e a grecale con la diocesi di Faenza . Verso levante e scirocco la diocesi di Firenze costeggia con quella di Fiesole, a partire dal giogo dellâAppennino di Belforte sopra il Passo delle Scalette, scendendo di lĂ per lo sprone che divide il valloncello di Corella da quello di S. Bavello sino alla confluenza del torrente Dicomano in Sieve, quindi seguitando la corrente di questo fiume sbocca sotto al Pontassieve in Arno, il cui corso seconda sino al fosso di Rosano. CostĂ trapassa alla sinistra dellâArno per salire sui poggi a Luco e dellâIncontro, e di lĂ inoltrasi sino sul dorso di quello di S. Donato in Collina , di dove retrocede piegando da levante a scirocco per dirigersi in Val dâEma alle falde di Cintoja. Di costĂ cavalca in Val di Greve passando questo fiumicello tra Vicomaggio e Citille, quindi penetra in Val di Pesa, il di cui fiume attraversa di contro a Sicelle. QuĂ rimontando il torrente Cerchiajo sale i poggi occidentali del Chianti sino al loro vertice, dove cessa la Valle di Pesa e si apre quella dellâElsa. Su questa sommitĂ cessa la diocesi di Fiesole e subentrano gli antichi confini della diocesi di Siena, ora di Colle, coi quali la fiorentina passa a contatto del piviere di S. Agnese del Chianti. Serve di limite allâuna e allâaltra diocesi il torrente Drove, che penetra nel piviere e comunitĂ di Poggibonsi, staccato dalla diocesi fiorentina sino dallâanno 1592. (Vedere COLLE dioc.) Giunta laddove al fiume Elsa si marita il torrente Avane, la diocesi fior. lascia dal lato dâostro quella di Colle, alla quale sottentra dal lato di libeccio la volterrana; con questa si accompagna lungo lo stesso fiume Elsa sino a che fra le tenute di Meleto e di Canneto entra a confine dal lato di libeccio la diocesi di Sanminiato. Questâultima presso al ponte a Elsa passa alla destra del fiume per abbracciare dentro al suo perimetro i popoli della BastĂŹa e di Marcignana, e vicino al ponte nuovo arriva sullâArno. CostĂ volgendo la faccia da libeccio a maestro rimonta la sponda destra dell'Arno di conserva con la diocesi di Sanminiato che stĂ sulla destra ripa, e la fiorentina alla sinistra, sino di fronte alla confluenza del torrente Strido nell'Arno. Quivi la fiorentina oltrepassa questo fiume per arrivare sulle colline di Petrojo e di Spicchio e di lĂ al villaggio di Limite, confine della moderna diocesi di Sanminiato un tempo di Lucca, e sin dove si estende uno dei lembi della diocesi di Pistoja; la quale ultima arriva sul fiume Arno rimontandolo unitamente a quella di Firenze tra Montelupo e Capraja, di lĂ per la gola della Golfolina giunge per le pendici di Artimino presso a Signa. A questo punto la diocesi di Firenze ripassa alla destra dell'Arno per inoltrarsi dentro terra lungo la strada da Lecore a Mezzana, dove sottentra la diocesi di Prato in continuazione di quella di Pistoja, e con essa, approssimandosi al pomerio orientale della cittĂ di Prato, rimonta il fiume Bisenzio, mercè cui confinano le due diocesi sino presso al Mercatale di Vernio. CostĂ quella fiorentina abbandona a ponente il Bisenzio per salire sulla pendice occidentale del poggio di Mangona, di dove inoltrasi per il vallone della Stura nell'Appennino dello Stale, e di lĂ dietro al Sasso di Castro ove incontra la diocesi di Bologna, con la quale la fiorentina confina dal lato di settentrione fra Monte Beni e Montoggioli , donde si avanza sul giogo della Radicosa sino alla dogana delle Filigare, e di lĂ per i poggi che dividono le acque del fiume Idige da quelle del Sillaro, e la diocesi di Bologna dal vescovado d'Imola. Con quest'ultima diocesi la fiorentina gira intorno all'Appennino di Piancaldoli con la faccia a grecale, e quindi attraversando la valle del Santerno entra in quella superiore del Senio, che percorre sino al monte Gambaraldi. Sulla sommitĂ di questa montagna trova la diocesi Faenza, con la quale la nostra di Firenze, piegando da grecale a levante, retrocede verso la Colla di Casaglia sull'Appennino che separa il Mugello e l'antica Toscana dalla Romagna, dopo esser passata per un contrafforte settentrionale formato dai monti di Pravaligo e di Calzolano, col quale sorpassa la caduta del torrente di Valbura . Dal giogo di Casaglia, seguitando la criniera dell'Appennino nella direzione da maestr. a scirocco cammina insieme con la stessa diocesi Faentina sino al Passo delle Scalette o di Belforte, nella cui pendice meridionale ritrova il vescovato di Fiesole. La diocesi fiorentina negli ultimi secoli non ha sofferto se non che piccole variazioni, mentre nel 1592, se essa perdette il piviere di Poggibonsi per darlo alla diocesi di Colle, nel 1785 acquistò quattro parrocchie transappennine, tre delle quali (Bruscoli, Pietramala e Cavrenno) staccaronsi dalla diocesi di Bologna, e una (Piancaldoli) da quella d'Imola. Finalmente nel 1795 fu fatta una permuta fra Firenze e Fiesole della parrocchia di Trespiano, che la diocesi fiesolana cedè alla fiorentina, ricevendo in cambio la cura di S. Martino a Mensola. Il vescovato in discorso conta attualmente 474 parrocchie, 28 delle quali dentro la cittĂ con due collegiate, oltre la metropolitana. Ha sotto di sè 61 pievi, quattro delle quali sono decorate di collegiate; e sono, Empoli, Castel Fiorentino, San Casciano e l'Impruneta. Si noverano 28 conventi di Regolari, 16 dei quali in cittĂ , 5 nel suburbio, e 7 nel contado. Vi si conservano 19 monasteri di donne in cittĂ , 4 dei quali nei suburbj, oltre 11 Conservatorj che uno di essi è fuori di cittĂ , in tutte 770 monache; a differenza che all'epoca della chiusura del Concilio di Trento si enumerarono dentro Firenze 3823 monache ripartite in 47 monasterj; e per la diocesi, compresi i suburbj della cittĂ , 14 monasteri con 970 monache.
â Vi sono due seminarj, uno dentro la cittĂ , l'altro a Firenzuola di lĂ dall'Appennino.
Nel 1420 la cattedrale fiorentina fu dichiarata metropolitana con bolla del pontefice Martino V, e il vescovo Amerigo di Filippo di Tommaso Corsini, nel 12 dicembre dello stesso anno, stato insignito in Roma del pallio sacro, fu il primo che incominciò la serie degli arcivescovi fiorentini. In seguito vennero destinati per suffragenei del metropolitano fiorentino i vescovi di Fiesole, Pistoja, Prato, San Sepolcro, Colle, e Sanminiato.
Nella serie dei vescovi fiorentini, che sopra gli altri figurassero per santità , prudenza e dottrina, sono da annoverarsi il glorioso San Zanobi secondo patrono della città , San Podio, Giovanni da Velletri, il vescovo Gherardo che fu pont. sotto nome di Niccolò II; frate Angelo Acciajoli e il cardinale dello stesso nome e casato; Pietro Corsini cardinale e politico insigne; il vescovo Antonio d'Orso, che esortò ed animò i Fiorentini alla difesa della patria, quando era minacciata dall'Imperatore Arrigo VII. Nel novero poi degli arcivescovi della stessa diocesi precede tutti gli altri per virtÚ e dottrina il nostro Santo Antonino, per rinomanza Giulio, e Alessandro de'Medici, entrambi i quali salirono sulla cattedra di S.
Pietro, uno col nome di Clemente VII, l'altro di Leone XI, Tommaso de'Conti della Gherardesca, Francesco Maria Incontri, Antonio Martini, oltre a moltissimi altri virtuosi e zelanti prelati che sederono sulla stessa cattedra.
COMPARTIMENTO DI FIRENZE La città di Firenze non ebbe negli antichi tempi un molto vasto contado; giacchè il suo distretto non si può dedurre, siccome è stato qui sopra avvertito, dall'estensione della diocesi ecclesiastica.
Contentandoci adunque di prendere le notizie dai tempi meno oscuri, fa duopo partire dall'epoca in cui la Rep.
fiorentina incominciò a fare registrare regolarmente i suoi decreti, o Riformagioni.
Quando il Comune di Firenze estendeva il suo dominio su i paesi assoggettati per via di armi, oppure mediante capitolazioni, il territorio in tal guisa acquistato faceva parte del distretto fiorentino; il quale distretto trattavasi quasi nel modo istesso che la Rep. Romana usava rispetto ai municipj, cui lasciava il diritto di eleggere i magistrati proprj, e quello di far uso di statuti e leggi loro parziali, variando però nella qualità de'tributi e per altre prerogative di cittadinanza. Altronde gli abitanti del contado fiorentino non erano, come quelli del distretto, capitolati nè conquistati, ma sivvero consideravansi come i cittadini e gli abitanti della capitale con eguali privilegj, diritti ed esenzioni, siccome Roma usava verso le colonie di diritto romano.
La stessa ripartizione materiale della cittĂ di Firenze, divisa prima in Sestieri, poi in Quartieri, venne applicata egualmente al contado fiorentino. La qual divisione servĂŹ sotto la Rep. fior. quasi sempre di norma all'amministrazione della giustizia, quando le cause del contado si portavano e discutevano davanti i giudici assessori o collaterali del potestĂ , e innanzi che s'instituissero i vicariati di S. Giovanni, di Scarperia, e di Certaldo, i quali ultimi, in vigore della legge del 1423, ebbero in certi casi ripartitamente la giurisdizione criminale sopra le comunitĂ del contado fiorentino a partire dalle porte di Firenze.
Per tal guisa spettava al Quartiere di S. Giovanni la porzione del contado posta alla destra dell'Arno sopra Firenze, cominciando dalle chiese suburbane fra la porta S. Gallo e l'Arno. Cosicchè dalla comunitĂ di Fiesole innoltravasi per Pontassieve, e di lĂ per Cascia e Piandiscò nel Val dâArno superiore sino a Terranuova e Loro; mentre nel Valdarno del Casentino non abbracciava che le ComunitĂ di Raggiolo e di Castel S. Niccolò, situate nella cosĂŹ detta Montagna fiorentina .
Il Quartier di S. Croce comprendeva la porzione del contado posta alla sinistra dell'Arno sopra a Firenze, a partire dalle chiese suburbane situate fra la porta Romana e quella di S. Niccolò, e di là rimontando le Valli di Ema e di Greve, e quindi quella della Pesa, giungeva nel Chianti sino sopra Brolio dove varcava in Val d'Ambra per arrivare con quel fiume in Arno sopra Montevarchi.
Il Quartiere di S. Maria Novella comprendeva il contado alla destra dell'Arno sotto a Firenze, a partire dalle cure suburbane fra la porta S. Gallo e porta al Prato, abbracciava i pivieri di S. Stefano in Pane, di Cercina e di Maccioli donde per Monte Senario entrava in Mugello, e oltrepassava il giogo di Scarperia scendendo per l'Alpi cosĂŹ dette fiorentine o di Firenzuola. Da quel punto retrocedeva per lo Stale e per Mangona nella valle del Bisenzio, che attraversava sui confini della comunitĂ di Prato, passando a settentrione di Montemurlo e di lĂ fra Tizzana e la ComunitĂ di Carmignano calava nel Val d'Arno inferiore per il Mont'Albano sino all'Arno presso Fucecchio.
Il contado del Quartiere di S. Spirito comprendeva tutti i popoli suburbani fra la porta Romana e la porta S.
Frediano, rasentando la ripa sinistra dell'Arno sino presso la bocca di Elsa, escluso tutto il territorio distrettuale di Sanminiato. ColĂ rimontando il fiume Elsa, comprendeva alla sua sinistra i Comunelli di Catignano e di Gambassi con tutto il territorio di Montajone e di Barbialla in Val d'Evola, punto il piĂš remoto del contado fiorentino. Di costassĂš ripiegando verso la Val d'Elsa ritornava per il territorio di Castel fiorentino a Certaldo, e di lĂ si estendeva fra le comunitĂ di S. Gimignano e di Colle con quella di Poggibonsi, ultima Terra dell'antico contado fiorentino dal lato d'ostro.
Tutti gli altri paesi terre e cittĂ assoggettate alla Repubblica fiorentina facevano parte del suo distretto, fra le quali le cittĂ di Arezzo col suo contado, di Borgo S.
Sepolcro, di Colle, di Cortona, di Montepulciano, di Prato, di Pistoja, di Pescia e di Volterra, oltre le Terre di Val di Nievole, di San Gimignano, del Casentino e di quelle della Romagna granducale.
Con motuproprio del 22 giugno 1769, allorchè fu eretta la Camera delle ComunitĂ del Granducato, vennero ad essa assegnate molte di quelle attribuzioni, che nei tempi andati erano ripartite fra i Capitani di parte Guelfa , i Nove Conservatori del Dominio fior. e gli Ufiziali dei fiumi. âPosteriormente con il regolamento generale dei 23 maggio 1774 furono organizzate e meglio sistemate le attribuzioni delle comunitĂ comprese nel contado fiorentino; le quali comunitĂ subirono una riforma durante l'occupazione straniera, sino a che il regolamento del 1774 fu ripristinato dalla legge deâ27 giugno 1814; e finalmente comparve il motuproprio del primo novembre 1825, col quale furono staccate 15 comunitĂ dal Compartimento senese, e 40 da quello fiorentino, onde costituire una quinta Camera di soprintendenza comunitativa da risiedere in Arezzo.
Il Compartimento fiorentino attualmente è composto di 90 comunità comprese in 28 cancellerie, e in 14 de'18 circondarj, nei quali è diviso il Granducato rapporto all'ufizio degl'ingegneri delle acque e strade.
La superficie territoriale del Compartimento di Firenze occupa 1,799018,65 quadrati di misura agraria, pari a miglia 2241. La sua popolazione nel 1833 ascendeva a 681083 abitanti, calcolati nella proporzione media di 304 persone per ogni miglio quadrato. Da questa stessa superficie però restano a defalcarsi 67814 quadrati, (circa miglia 84 e 1/3) occupati da corsi di acque e da pubbliche strade, e quindi esenti dall'imposizione fondiaria.
Il suo perimetro attuale abbraccia le valli transappennine del Granducato, a partire da grecale dalla Valle del Savio, o di Bagno, sino alla Valle del Reno, verso maestro. Di quà dall'Appennino comprende il territorio pistojese e la regione del Mugello girando dalla giogana della Falterona sopra i monti della Consuma e di Vallombrosa. Da quella sommità fra Reggello e Pian di Scò scende in Arno che attraversa fra S. Giovanni e Figline per varcare presso al giogo di Monte Scalari in Val di Greve, e indi in quella di Pesa sino a che a S. Donato in Poggio entra in Val d'Elsa, rasentando i confini orientali della Comunità di Barberino di Val d'Elsa e di Certaldo. Colà oltrepassa l'Elsa fra la Comunità di San Gimignano che lascia al Compartimento senese, e quella di Montajone che abbraccia penetrando in Val d'Era lungo i confini settentrionali della Comunità di Volterra. Di là inoltrasi in Val di Cecina fra la Comunità di Pomarance del Compartimento pisano e quella di Montecatini di Val di Cecina, con la quale ritorna in Val d'Era a ritrovare i limiti occidentali delle Comunità di Volterra e di Montajone, di Sanminiato e di Montopoli, per modo che arriva col torrente della Cecinella in Arno.
Da questa confluenza scende lo stesso fiume lungo la destra sponda sino alla Navetta di Calcinaja, che lascia al Compartimento pisano, e Montecalvoli che abbraccia nel suo perimetro insieme con S. Maria in Monte, Monte Carlo, Pescia, e tutte le terre della Val di Nievole, in guisa che per Vellano ritrova sulla montagna di Pistoja i confini del Compartimento fiorentino e nel tempo stesso quelli del Granducato.
PROSPETTO della ComunitĂ del COMPARTIMENTO FIORENTINO distribuito per Cancellerie.
- Capoluogo di CANCELLERIA: 1. BAGNO, Cancell.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del Savio Superficie territoriale in quadrati: 66386,35 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6399 - Capoluogo di Comunità : Sorbano Valle in cui si trova il Capoluogo: Valle del Savio Superficie territoriale in quadrati: 10749,05 Popolazione della Comunità , abitanti n° 1116 - Capoluogo di CANCELLERIA: 2. BORGO S.
LORENZO, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Sieve Superficie territoriale in quadrati: 42301,94 Popolazione della Comunità , abitanti n° 10787 - Capoluogo di Comunità : Vicchio Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Sieve Superficie territoriale in quadrati: 42053,38 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8621 - Capoluogo di Comunità : Dicomano (R) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Sieve Superficie territoriale in quadrati: 17054,49 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4232 - Capoluogo di Comunità : San Godenzo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Sieve Superficie territoriale in quadrati: 28506,68 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2704 - Capoluogo di CANCELLERIA: 3. BUGGIANO, Cancell .
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 12930,74 Popolazione della Comunità , abitanti n° 9135 - Capoluogo di Comunità : Massa e Cozzile Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 4613,24 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2769 - Capoluogo di CANCELLERIA: 4. SAN CASCIANO, Cancell . (A) Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Pesa e Val di Greve Superficie territoriale in quadrati: 30096,07 Popolazione della Comunità , abitanti n° 11097 - Capoluogo di Comunità : Montespertoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Pesa e Val d'Elsa Superficie territoriale in quadrati: 35186,33 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6934 - Capoluogo di Comunità : Barberino di Val d'Elsa Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Elsa Superficie territoriale in quadrati: 35067,19 Popolazione della Comunità , abitanti n° 7869 - Capoluogo di CANCELLERIA: 5. CASTEL FIORENTINO, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Elsa Superficie territoriale in quadrati: 14001,20 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6053 - Capoluogo di Comunità : Certaldo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Elsa Superficie territoriale in quadrati: 21264,87 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5336 - Capoluogo di Comunità : Montajone Valle in cui si trova il Capoluogo: Valli d'Elsa e d'Evola Superficie territoriale in quadrati: 58203,94 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8725 - Capoluogo di CANCELLERIA: 6. CASTELFRANCO DI SOTTO, Cancell.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 10449,56 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4092 - Capoluogo di Comunità : Montecalvoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 1582,52 Popolazione della Comunità , abitanti n° 1140 - Capoluogo di Comunità : Montopoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 4063,89 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2886 - Capoluogo di Comunità : S. Maria in Monte Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 9068,41 Popolazione della Comunità , abitanti n° 3117 - Capoluogo di CANCELLERIA: 7. EMPOLI, Cancell.
Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 17267,39 Popolazione della Comunità , abitanti n° 13095 - Capoluogo di Comunità : Montelupo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 6661,58 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4204 - Capoluogo di Comunità : Capraja Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 7028,02 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2406 - Capoluogo di Comunità : Cerreto (R) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 14095,37 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4905 - Capoluogo di Comunità : Vinci Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 14770,92 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5054 - Capoluogo di CANCELLERIA: 8. FIESOLE, Canc.
Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 14842,97 Popolazione della Comunità , abitanti n° 7888 - Capoluogo di Comunità : Pellegrino Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 5870,36 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5469 - Capoluogo di Comunità : Sesto Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d 'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 14329,48 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8796 - Capoluogo di Comunità : Brozzi Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 4396,94 Popolazione della Comunità , abitanti n° 7816 - Capoluogo di Comunità : Campi (R) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 7904,81 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8918 - Capoluogo di Comunità : Signa Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 4902,46 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5738 - Capoluogo di Comunità : Calenzano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 20903,61 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5307 - Capoluogo di Comunità : Montemurlo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 8579,90 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2350 - Capoluogo di CANCELLERIA: 9. FIGLINE, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno superiore Superficie territoriale in quadrati: 29937,37 Popolazione della Comunità , abitanti n° 15000 - Capoluogo di Comunità : Reggello Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno superiore Superficie territoriale in quadrati: 34274,26 Popolazione della Comunità , abitanti n° 9492 - Capoluogo di Comunità : Greve Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Greve Superficie territoriale in quadrati: 48041,61 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8747 - Capoluogo di CANCELLERIA: 10. FIRENZE, Capitale Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 1556,17 Popolazione della Comunità , abitanti n° 95927 - Capoluogo di CANCELLERIA: 11. FIRENZUOLA, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del Santerno Superficie territoriale in quadrati: 77481,50 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8242 - Capoluogo di CANCELLERIA: 12. FUCECCHIO, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 18090,22 Popolazione della Comunità , abitanti n° 9940 - Capoluogo di Comunità : Santa Croce Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 7749,68 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6450 - Capoluogo di CANCELLERIA: 13. GALEATA, Canc.
(A) Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del Bidente Superficie territoriale in quadrati: 21460,05 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2894 - Capoluogo di Comunità : Santa Sofia Valle in cui si trova il Capoluogo: Valle del Bidente Superficie territoriale in quadrati: 18861,42 Popolazione della Comunità , abitanti n° 1639 - Capoluogo di CANCELLERIA: 14. GALLUZZO, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 20151,27 Popolazione della Comunità , abitanti n° 11729 - Capoluogo di Comunità : Legnaja Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 6805,26 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8162 - Capoluogo di Comunità : Bagno a Ripoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 21942,37 Popolazione della Comunità , abitanti n° 11617 - Capoluogo di Comunità : Rovezzano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 2581,53 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4170 - Capoluogo di Comunità : Casellina e Torri Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 14828,77 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8132 - Capoluogo di Comunità : Lastra a Signa Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 12056,60 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8367 - Capoluogo di CANCELLERIA: 15. S. MARCELLO, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Lima Superficie territoriale in quadrati: 24462,93 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4805 - Capoluogo di Comunità : Cutigliano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Lima Superficie territoriale in quadrati: 18517,03 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2199 - Capoluogo di Comunità : Piteglio Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Lima Superficie territoriale in quadrati: 14309,64 Popolazione della Comunità , abitanti n° 3136 - Capoluogo di CANCELLERIA: 16. MARRADI, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del Lamone Superficie territoriale in quadrati: 44374,19 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6732 - Capoluogo di Comunità : Palazzuolo, Ing.
Valle in cui si trova il Capoluogo: Valle del Senio Superficie territoriale in quadrati: 31317,96 Popolazione della Comunità , abitanti n° 3319 - Capoluogo di CANCELLERIA: 17. SANMINIATO, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 31931,63 Popolazione della Comunità , abitanti n° 13960 - Capoluogo di CANCELLERIA: 18. MODIGLIANA, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del Marzena Superficie territoriale in quadrati: 28844,87 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4810 - Capoluogo di CANCELLERIA: 19. MONTE CATINI di Val di Nievole, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 8562,14 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5340 - Capoluogo di Comunità : Monsummano, e Monte Vettolini, Ing.
Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 9294,08 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5209 - Capoluogo di CANCELLERIA: 20. PESCIA, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 7330,35 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5334 - Capoluogo di Comunità : Monte Carlo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 10166,09 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6472 - Capoluogo di Comunità : Uzzano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 3590,44 Popolazione della Comunità , abitanti n° 3847 - Capoluogo di Comunità : Vellano (R) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 7111,46 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2520 - Capoluogo di CANCELLERIA: 21. PISTOIA Città e Cortine, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 286,60 Popolazione della Comunità , abitanti n° 11101 - Capoluogo di Comunità : Porta al Borgo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 35497,41 Popolazione della Comunità , abitanti n° 13394 - Capoluogo di Comunità : Porta Carratica Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 5980,52 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6738 - Capoluogo di Comunità : Porta Lucchese Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 7368,47 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5504 - Capoluogo di Comunità : Porta S. Marco Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 18494,93 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6696 POTESTERIE DI PISTOIA - Capoluogo di CANCELLERIA: 22. TIZZANA, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 13004,29 Popolazione della Comunità , abitanti n° 7721 - Capoluogo di Comunità : Serravalle Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese e Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 12019,97 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4867 - Capoluogo di Comunità : Lamporecchio Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 13301,52 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6101 - Capoluogo di Comunità : Marliana Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese e Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 11985,17 Popolazione della Comunità , abitanti n° 3345 - Capoluogo di Comunità : Montale (A) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 12393,11 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6718 - Capoluogo di Comunità : Cantagallo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Bisenzio Superficie territoriale in quadrati: 23837,54 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4942 - Capoluogo di Comunità : Sambuca Valle in cui si trova il Capoluogo: Val del Reno bolognese Superficie territoriale in quadrati: 22228,92 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2632 - Capoluogo di CANCELLERIA: 23. PONTASSIEVE, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 32105,94 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8699 - Capoluogo di Comunità : Pelago Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 28386,96 Popolazione della Comunità , abitanti n° 7493 - Capoluogo di Comunità : Londa Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Sieve Superficie territoriale in quadrati: 15356,43Popolazione della Comunità , abitanti n° 2383- Capoluogo di CANCELLERIA: 24. PRATO, Canc. Ing.Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di BisenzioSuperficie territoriale in quadrati: 36885,17Popolazione della Comunità , abitanti n° 30390- Capoluogo di Comunità : CarmignanoValle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojeseSuperficie territoriale in quadrati: 12534,19Popolazione della Comunità , abitanti n° 8495- Capoluogo di CANCELLERIA: 25. ROCCA S.
CASCIANO, Canc.Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del MontoneSuperficie territoriale in quadrati: 15701,17Popolazione della Comunità , abitanti n° 2506- Capoluogo di Comunità : PorticoValle in cui si trova il Capoluogo: Valle del MontoneSuperficie territoriale in quadrati: 17697,09Popolazione della Comunità , abitanti n° 1894 - Capoluogo di Comunità : TredozioValle in cui si trova il Capoluogo: Val del TredozioSuperficie territoriale in quadrati: 17970,96Popolazione della Comunità , abitanti n° 2281 - Capoluogo di Comunità : PremilcuoreValle in cui si trova il Capoluogo: Valle del RabbiSuperficie territoriale in quadrati: 38238,15Popolazione della Comunità , abitanti n° 2872- Capoluogo di Comunità : DovadolaValle in cui si trova il Capoluogo: Valle del MontoneSuperficie territoriale in quadrati: 11000,38Popolazione della Comunità , abitanti n° 1975- Capoluogo di CANCELLERIA: 26. SCARPERIA, Canc.Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di SieveSuperficie territoriale in quadrati: 22846,08Popolazione della Comunità , abitanti n° 5112- Capoluogo di Comunità : S. Piero a SieveValle in cui si trova il Capoluogo: Val di SieveSuperficie territoriale in quadrati: 10349,93Popolazione della Comunità , abitanti n° 2713 - Capoluogo di Comunità : VagliaValle in cui si trova il Capoluogo: Val di SieveSuperficie territoriale in quadrati: 16324,00Popolazione della Comunità , abitanti n° 2656 - Capoluogo di Comunità : Barberino di Mugello (A), Ing.
(R) Canc.Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di SieveSuperficie territoriale in quadrati: 44980,16Popolazione della Comunità , abitanti n° 8771 - Capoluogo di Comunità : VernioValle in cui si trova il Capoluogo: Val di BisenzioSuperficie territoriale in quadrati: 15373,37Popolazione della Comunità , abitanti n° 3617 - Capoluogo di CANCELLERIA: 27. TERRA DEL SOLE, Canc.Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del MontoneSuperficie territoriale in quadrati: 9938,44Popolazione della Comunità , abitanti n° 3309 - Capoluogo di CANCELLERIA: 28. VOLTERRA, Canc. Ing.Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valli d'Era e di CecinaSuperficie territoriale in quadrati: 77789,73Popolazione della Comunità , abitanti n° 40434 - Capoluogo di Comunità : Montecatini di Val di CecinaValle in cui si trova il Capoluogo: Valli d'Era e di CecinaSuperficie territoriale in quadrati: 40377,70Popolazione della Comunità , abitanti n° 2575 - TOTALE superficie territoriale in quadrati: 1,799018,65- TOTALE popolazione: abitanti n° 681083 Nel presente prospetto la lettera (A) indica residenza di un'Ingegnere ajuto; la lettera (R) di un secondo Cancelliere. - N.B. La superficie territoriale è stata rettificata.
STRADE REGIE E PROVINCIALI CHE ATTRAVERSANO IL COMPARTIMENTO DI FIRENZE STRADE REGIE 1. Strada Regia postale Bolognese. Dalla porta S. Gallo di Firenze per la Futa sino al confine delle Filigare.
2. Strada Regia postale Romana. Dalla porta Romana di Firenze sino al confine con il Compartimento di Siena fra il territorio di Barberino di Val dâElsa e quello di Poggibonsi.
3. Strada Regia postale Pisana. Dalla porta San Frediano di Firenze sino al confine con il Compartimento di Pisa sul ponte della Cecinella.
4. Strada Regia postale Aretina. Dalla porta la Croce per Pontassieve e lâIncisa sino al confine con il Compartimento dâArezzo fra San Giovanni e Figline.
5. Strada vecchia, giĂ postale Aretina. Dalla porta San Niccolò di Firenze per San Donato in Collina fino allâIncisa, dove si accomuna alla Regia postale nuova.
6. Strada Regia postale Lucchese. Dalla porta al Prato di Firenze per Prato, Pistoja e Pescia al confine con lo Stato di Lucca alla dogana del Cardino.
7. Strada Regia Pistojese per il poggio a Cajano. Staccasi dalla postale Lucchese alla piazza di Peretola sino alla porta Carratica di Pistoja.
8. Strada traversa Romana. Staccasi dalla Regia postale Pisana allâosteria bianca rimontando la Val dâElsa per Castel fiorentino e Certaldo sino al confine di questa comunitĂ e del Compartimento fiorentino.
9. Strada traversa di Val di Nievole. Staccasi dalla Regia postale Lucchese al borgo a Buggiano, e attraversa la Val di Nievole per Bellavista sino al confine del Compartimento di Pisa al poggio di Santa Colomba, fra la ComunitĂ di S. Maria in Monte e quella di Calcinaja.
10. Strada Regia Modenese. Dalla porta al Borgo della cittĂ di Pistoja fino al confine del Compartimento fiorentino e della Toscana a Bosco lungo.
11. Strada nuova di Romagna. Staccasi dalla Regia postale Aretina al Pontassieve per Dicomano e il Ponticino, varca lâAlpe di S. Godenzo per entrare nella Valle del Montone che percorre passando per S.
Benedetto in Alpe, Portico, Rocca S. Casciano, Dovadola e Terra del Sole sul confine del Compartimento fiorentino e con la ComunitĂ di ForlĂŹ dello Stato Pontificio.
12. Strada traversa dellâAltopascio nella sezione della strada antica Romea. Dal porto dellâAltopascio fino al ponte della Sibolla.
13. Strada Regia del circondario esterno delle mura di Firenze, a partire dalle RR. Cascine sulla testata del nuovo ponte sospeso, e di lĂ girando intorno al pomerio della cittĂ , termina alla porta S. Frediano.
STRADE PROVINCIALI SPETTANTI AL COMPARTIMENTO DI FIRENZE 1. Strada del Mugello. Staccasi dalla strada Regia Bolognese presso Novoli, passa per S. Piero a Sieve, Borgo S. Lorenzo, Vicchio e termina a Dicomano.
2. Strada delle Salajole. Staccasi dalla Regia Bolognese al ponte Rosso presso la porta S. Gallo di Firenze, e rimontando il fiumicello Mugnone passa sotto il poggio di Fiesole, quindi per quello dellâOlmo entra in Val di Sieve e termina al ponte che cavalca il fiume Sieve davanti al Borgo S. Lorenzo.
3. Strada Faentina. Staccasi dal Borgo S. Lorenzo, sale lâAppennino di Casaglia per entrare nella Valle del Lamone passando per Marradi, e termina al confine del Compartimento fiorentino e del Granducato con la ComunitĂ Pontificia di Brisighella al ponte di Marignano sul fiume Lamone.
4. Strada Militare, o Mulattiera di Barberino di Mugello.
Si dirama dalla Regia Bolognese presso la posta di Monte Carelli, e passando per Barberino di Mugello varca il Monte alle Croci per entrare in Val di Marina, indi per Campi sâinnoltra al ponte di Signa, dove si unisce alla Regia Pisana.
5. Strada di Val di Bisenzio. Dalla porta del Serraglio della cittĂ di Prato rimontando il fiume Bisenzio finchè a Vernio sale lâAppennino di Montepiano inoltrandosi da questa dogana verso il rio Rimalpasso sul confine Bolognese.
6. Strada Montallese. Principia dalla porta del Serraglio di Prato passando aâpiè di Montemurlo, e di lĂ per Montale giunge sino alla porta S. Marco della cittĂ di Pistoja.
7. Strada Francesca, piĂš comunemente Valdarnese, o Empolese. Staccasi dalla strada Regia Pistojese al ponte al Nievole, e passando per Monsummano e Stabbia arriva a Fucecchio, di dove proseguendo lungo la ripa destra dellâArno, passa per le Terre e di Santa Croce e di Castel Franco di Sotto, quindi attraversa il canale della Gusciana al porto di S. Maria in Monte, sino a che giunge al confine del Compartimento fiorentino col pisano, che trova alla Navetta sulla strada Regia Pistojese .
8. Strada Lucchese, denominata Romana, o antica Romea.
Staccasi dalla strada Regia Pisana allâOsteria Bianca, passa lâArno dirimpetto a Fucecchio, e di lĂ per il ponte a Cappiano, la Cerbaja e Altopascio giunge al confine Lucchese presso il Turchetto. (N.B. Il tratto dal porto di Altopascio al ponte Sibolla è strada regia).
9. Strada Chiantigiana. Si stacca dallâantica strada postale Aretina alla voltata del Bandino fuori di porta S. Niccolò, e passando per il ponte a Ema, per Greve e per Ponzano, arriva al confine della ComunitĂ di Greve con quello della Castellina, dove prosegue nel Compartimento di Siena.
10. Strada Casentinese. Staccasi dalla Regia postale Aretina passato il Pontassieve, e sale il monte della Consuma sino al confine della ComunitĂ di Monte Mignajo presso lâosteria della Consuma, dove entra nel Compartimento Aretino.
11. Primo ramo della strada Volterrana per la parte di Castelfiorentino. Si stacca dalla Regia Romana sotto al Galluzzo, passa per i poggi della Romola, in Val di Pesa, vĂ a Montespertoli e Castelfiorentino; di lĂ per Gambassi sale il monte del Cornocchio passando pel Castagno, sino a che presso Montemiccioli si congiunge al secondo ramo della strada Volterrana che viene dalla cittĂ di Colle.
12. Secondo ramo della strada Volterrana . Staccasi dal primo ramo della strada medesima sotto il poggio di Montemiccioli sino al confine della Co munitĂ di Colle e del Compartimento senese.
13. Terzo ramo della strada Volterrana. Incomincia da Montemiccioli sul confine della comunitĂ di Volterra con quella di Colle e per Spicchiajuola passa da Volterra, e di lĂ per il territorio di Montecatino giunge al principio della ComunitĂ di Guardistallo, dove sottentra il Compartimento pisano.
14. Strada Maremmana. Questa dalle Moje Leopoldine conduce al guado di Cecina, anzi al nuovo ponte sospeso.
15. Strada provinciale da Firenze a Siena . Si dirama dalla Regia Romana al ponte nuovo sulla Pesa, e passando per la Sambuca e S. Donato in Poggio giunge al confine della ComunitĂ di Barberino di Val dâElsa con quello della Castellina nel Compartimento senese.
16. Proseguimento della strada Urbinese deâSette ponti e Riofi nel Val dâArno superiore. La sezione di questa via compresa nel Compartimento fiorentino, comincia presso la villa di Renaccio, e arriva fino alla nuova strada Regia postale Aretina vicino al ponte dellâIncisa. â Vedere AREZZO. (COMPARTIMENTO DI).
17. Strada provinciale Lucchese, denominata Romana.
Principia dalla Regia Romana al bivio fuori la porta Pisana di Empoli, e conduce sino al nuovo ponte sullâArno sopra la bocca dâElsa.
18. Strada provinciale di San Gimignano. Staccasi dalla Regia Traversa Romana a Certaldo per dirigersi sino a San Gimignano.
19. Strada provinciale, detta la Nuova Volterrana. Questa dalle vicinanze di Rioddi si dirige a Capannoli.
20. Strada provinciale Traversa Romagnola. Staccasi dalla nuova via R. di Romagna presso Dovadola, e passando per Modigliana, S. Reparata e Sessana, giunge allâaltra via provinciale Faentina presso S. Adriano sul fiume Lamone.
La sua posizione geografica, calcolata dall'osservatorio delle Scuole Pie sopra la piazza di S. Lorenzo, (che può dirsi quasi il centro della cittĂ alla destra dellâArno) trovasi fra il grado 28° 55' di longitudine e 43° 46' 41" di latitudine, in un suolo 69 braccia fiorentine sopra il livello del mare Mediterraneo. â Esiste Firenze nel cuore della Toscana, ed ha la cittĂ di Livorno 60 miglia toscane al suo libeccio, Pisa 49 miglia toscane a ponente, Lucca 44 a ponente maestro, Pistoja 20 miglia toscane a maestro, Volterra 44 a ostro libeccio, Siena 40 a ostro, Arezzo 44 miglia toscane a scirocco e appena 3 miglia toscane al suo settentrione-grecale gli avanzi di Fiesole.
Tanti e di tale importanza sono i fatti memorandi relativi alle cose pubbliche di Firenze che un intiero libro, non che un solo articolo, non potrebbe bastare a racchiuderli, ancorchè allo scrivente fosse per fortuna a tal uopo concessa la forza e concisione di Tacito.
Scarso d'ingegno com'io sono, ma costante e geloso di adempire, comunque io possa all'obbligo spaventevole che mi sono imposto, procurerò nel discorrere la storia e gli ordini del governo di Firenze, di attenermi alle parti piÚ prominenti, sul riflesso che in una materia da tanti valenti uomini scritta e conosciuta, è meglio dir poco che diffondersi in molte parole.
Mi è duopo inoltre prevenire il lettore, che all'articolo COMUNITA' di FIRENZE, dove non è molto da dire dello stato fisico del suo territorio, come quello che è quasi tutto rinchiuso fra le civiche mura, mi si offre opportuna occasione per accennare il giro e posizione dei cerchi piÚ angusti e piÚ antichi della città , e i suoi stabilimenti pubblici con i principali tempj e palazzi.
La cittĂ di Firenze, spartita dal fiume Arno che quattro grandiosi ponti di pietra in un sol corpo riuniscono e accomunano, presenta la figura di un pentagono che ha circa cinque miglia di giro, tre lati del quale alla destra e due alla sinistra dellâArno. Ha otto porte e una postierla, dalle quali si sviluppano ampie strade in mezzo a popolatissimi subborghi, superbe case di delizia, amene colline, una fiorente ubertosa e salubre campagna, in guisa che vista dall'alto una immensa cittĂ tutt'insieme con Firenze raffigura.
L'aveva bene contemplata il divino Ariosto, quando nel capitolo XVI delle sue rime scriveva: Se dentro un mur sotto un medesmo nome, Fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi, Non ti sarian da pareggiar due Rome.
Richiamando alla memoria quanto dissi all'articolo Fiesole, senza favoleggiare sull'origine di Firenze, o sull'etimologia del suo nome, che ora dal culto del dio della guerra, ora dal fiore che porta per emblema, dissesi figuratamente città di Marte, e città del Fiore, solamente mi farò lecito di ripetere quÏ un antico prognostico, che a Firenze meglio forse che ad altra città si potrebbe applicare, quando la Sibilla Eritrea, o chiunque fosse, andava vaticinando di un paese di Europa il seguente augurio: " In Europae partibus ex rore nobili descendentium Romuli Romulenes flos quidem floridus candore mirabili liliatus sub Marte nascetur. Sed citra florum morem cum difficultate ac dierum longitudine deducetur in formam. Ante tamen quam areseat sibi multarum gentium subiicet nationes. Et erit fortitudo ejus in rota, et rota dabit partes ejus infimas quasi pares." (BALUZII Miscellan. T. IV) Con frasi poco dissimili si esprimeva la Sibilla Tiburtina, che dicesi coetanea di Ottaviano Augusto, quando cioè Roma stava per scendere dall'apogèo della sua gloria, mentre la città del Fiore era appena sull'apparire di quella nobile rugiada che dava la vita e doveva far sbocciare e fiorire sotto l'influsso del nume tutelare (Marte) quel candido giglio che fu costante emblema di Firenze.
Firenze infatti dai fiesolani (Romulesi) ebbe piccolo e lento principio; dalla colonia cesariana di Augusto acquistò territorio e magistrati; dall'industria mercantile piÚ che dall'agitata indipendenza del medio evo ereditò potenza, fortuna e regno senza che il barbaro Totila abbia avuto il demerito di distruggerla, nè Carlo Magno la gloria di rifabbricarla.
Chi non desÏa dar corpo alle ombre è inutile che vada cercando Firenze o la sua storia fra quelle delle città Etrusche, nè di Roma repubblicana; mentre se non possiamo accertare nè negare, che a quelle remote epoche esistessero presso le sponde dell'Arno, quà dove Firenze siede regina, delle sparse borgate o casali sotto i nomignoli di Villa Arnina, di Camarzo , o di qualsiasi altra maniera si appellassero, altronde non ne consegue, nè alcun documento coevo ci assicura, che sotto nome di Fiorenza una di esse ville sino d'allora venisse intitolata.
Parve bensĂŹ ad alcuni che Firenze fosse giĂ sorta in grandezza molto innanzi che cadesse la Romana repubblica; e che della medesima cittĂ volesse dire Lucio Floro nel libro III delle sue Epitome, lĂ dove accenna, che quattro splendidissimi municipj d'ltalia (Spoleto, Preneste, Interamna e Florentia) furono da Silla venduti all'incanto, quasi nel tempo stesso che il vincitore di Mario faceva spianare la cittĂ di Sulmona, compagna e seguace del Mariano partito potentemente sostenuto dai Sanniti, che in quella contrada dominavano.
Per altro una sola autorità , di fronte al silenzio di tanti classici scrittori, ne in vita di per sè stessa a stare in guardia e mettere in dubbio, non già l'asserto di Floro, ma la svista di chi i suoi libri copiava, potendo aver letto per avventura Florentia invece di Florentinum; paese che corrisponderebbe alla tuttora esistente città di Ferentino, descritta da Strabone sulla via Latina poco lungi dall'Interamna del Liri, preso l'odierno castello d'Isola sul Garigliano. (STRABONE Geogr. lib. V.) à la stessa città della Campania rammentata come illustre municipio, da A. Gellio, e da T. Livio all'anno 569 di Roma; (lib. XXXV.) quando nel suo vasto territorio fu dedotta una colonia Latina.
Avvegnachè non solo è ignoto, che al tempo divisato esistesse, non che, fiorisse la città nostra di Firenze, ma tutti i fatti storici concorrono a far credere, che il Ferentino dei Volsci (detto anche Ferentio nelle Antichità Romane di Dionisi), e non già Firenze dell'Etruria, fosse venduto col suo territorio all'asta pubblica da Silla, dopo aver egli disfatto (anno 82 avanti G. C.) l'esercito dei Sanniti fuori della porta Collina presso Roma, e quello comandato da Mario fra Segni e Ferentino.
Tale fu l'opinione di Coluccio Salutati, abbracciata con molto senno da Vincenzio Borghini nelle sue elaboratissime indagini sull'Origine di Firenze.
Cosicchè senza accettare tutto quello che su di ciò da molti fu dato sicuramente per vero ancorchè alcune cose manifestamente non convengano con la veritĂ dei tempi e delle cose, e senza rifiutare assolutamente per false tutte le opinioni emesse e tutti i racconti dati per genuini, si può dire non ostante, che Firenze sotto l'impero di Cesare Ottaviano avesse un territorio suo proprio tolto (siccome fu giĂ indicato all'articolo FIESOLE) agli antichi coloni fiesolani, per assegnarlo a un numero ignoto di legionarj, a ragione di 200 jugeri per ciascheduno. â Che la colonia militare di Firenze sorgesse ben presto in un qualche splendore, lo fece conoscere Tacito nei suoi Annali, allorchè, nell'anno 16 dell'Era Cristiana, il Tevere fatto gonfio per lunghe piogge portò tanto guasto alle campagne di Roma, che in Senato si discusse: se, a moderare in seguito le inondazioni di cotesto fiume, si dovessero deviare alcuni dei maggiori influenti suoi, fra i quali la Nera e la Chiana.
Furono perciò ascoltate le ambascerie dei municipj e colonie interessate in tale affare, fra le quali si distinse quella de'fiorentini perorando la loro causa; affinchè torta dal corso antico non isboccasse la Chiana in Arno, e i fondi loro inondasse. (TACIT. Annal. lib. I. Cap. 79.) Donde chiaro apparisce che i fiorentini coloni (come i fiesolani ascritti alla tribĂš Scapzia) ottennero sino dai primordj del romano impero col territorio magistrati e legislazione propria: che è quanto dire contado e amministrazione diversa da quella della cittĂ e contado fiesolano. â Vedere FIESOLE.
Sebbene la storia per un lungo periodo di secoli non faccia di Firenze menzione che sia da dirsi di qualche rilievo, pure da altri argomenti si può ragionevolmente dedurre, che essa durante il romano impero crescesse in nobiltĂ di edifizj pubblici; di cui in qualche modo darebbe un'idea la grandezza del suo anfiteatro, che può concepirsi tuttora dalla superstite porzione dell'ambito esteriore, passeggiando fra le piazzette di S. Simone e de'Peruzzi prossime all'ingresso di quella di S. Croce, che trovasi a levante fuori del primo cerchio della cittĂ ; mentre al suo ponente porta sempre il nome di Terma una strada, dove furono i bagni pubblici fra le case deâScali, poi Buondelmonti e la loggia deâCiompi.
Non parlerò del tempio piÚ insigne della città che nel Battista Cangiò il primo padrone, come quello che può dirsi, rapporto all'età , un monumento perpetuo di controversia archeologica, nella stessa guisa che, rapporto al materiale è oggetto di ammirazione per gli artisti, pei curiosi e pei devoti sorpresi e indecisi, se la materia vinca o sia vinta dal lavoro, o se l'edifizio primitivo resti eclissato (come sembra ai piÚ) dai suoi portentosi accessorj.
STATO DI FIRENZE DAL SECONDO AL DECIMO SECOLO A dimostrare che Firenze (principiando dal secolo secondo dell'era volgare) giĂ fosse giunta a un certo splendore, lo provano le premure dell'imp. Adriano, il quale dopo avere governata a nome di Trajano l'Etruria in qualitĂ di pretore, divenuto esso stesso regnante, nell'anno secondo del suo impero (119 dell'E. V.) restaurò la via Cassia guasta dal tempo, prolungandola (a tenore delle espressioni di una superstite colonna miliare) sino a Firenze dai confini di Chiusi. A Clusinorum finibus Florentiam perduxit. â Vedere VIA CASSIA.
Varie lapidi scritte, e qualche torso di statua con pochi altri cimelj trovati in Firenze rammentano il tempo degli Antonini; e forse ci richiama pure all'epoca stessa il testè citato anfiteatro, che sotto nome di Parlagio a'tempi posteriori soleva appellarsi.
Era quello stesso Parlagio, nel quale fu esposto alle fiere coi suoi compagni il fiorentino martire S. Miniato sotto l'impero di Decio persecutore acerrimo dei novelli cristiani. Dei quali Firenze contare doveva un buon numero, tosto che 60 anni dopo quel martirio (313 dell'E.
V.) per testimonianza non dubbia sappiamo che al sinodo adunato in Roma dal pontefice Melchiade intervenne Felice vescovo di Firenze. Lo che avvenne 80 anni prima che S. Ambrogio vescovo di Milano consacrasse la basilica fiorentina di S. Lorenzo fabbricata col denaro di pia donna; e ciò un buon secolo innanzi che accadesse la liberazione della stessa città e di tutta la Toscane dalla spaventosa e repentina irruzione dell'oste sterminata di barbari scesa nel 405 con il loro re Radagasio a devastare l'Italia.
Al quale avvenimento ci richiama la storia di Firenze, stantechè Paolino diacono di S. Ambrogio che scrisse di quel santo la vita, rammenta la seguente particolarità : " che nel tempo in cui Radagasio assediava la città di Firenze, il S. vescovo Ambrogio (passato all'altra vita sino dall'anno 397) apparÏ in sogno ad uno dei suoi cari fiorentini, cui promise nel dÏ seguente la liberazione della patria; la qual visione da lui riferita ai suoi concittadini li riempÏ di coraggio. Infatti nel giorno appresso, arrivato che fu Stilicone generale dell'imperatore Onorio, si riportò vittoria dei nemici. " Tale particolarità supplisce a ciò che non fu avvertito da Paolo Orosio, da S. Agostino e dal cronista Prospero; l'ultimo dei quali scrisse: che l'esercito sterminato di Radagasio, non già sopra Firenze solamente erasi diretto, ma che era diviso in tre parti, per cui fu piÚ facile di superarlo in quella maniera, che secondo tutte le apparenze ebbe del miracoloso.
Avvenne perciò, che i fiorentini poco tempo dopo tale liberazione, per consiglio del loro santo vescovo Zanobi, innalzarono quel tempio che poi divenne cattedrale, sotto l'invocazione di S. Reparata, in memoria del giorno ad essa festivo (8 ottobre) in cui la cittĂ nostra fu liberata dallâcaterminio minacciato dal feroce conduttore degli Unni e dei Sciti.
Ad eternare la quale ricordanza il popolo fiorentino, dopo che era divenuto libero di sè stesso, provvide affinchè nello stesso giorno si corresse ogn'anno un palio, il quale prendeva le mosse alla porta S. Pier Gattolino sino al Vescovado.
Un consimile esempio pare che fosse praticato in Lucca, e in altre città o terre della Toscana, non che della Romagna contigua al Mugello; essendochè alcune di quelle antiche chiese matrici furono dedicate alla stessa vergine e martire Reparata.
Che Firenze infatti sino d'allora fosse circondata da fossi e da un cerchio di muraglie ne abbiamo una conferma in Procopio. Il quale nella storia della guerra gotica, all'anno 542, racconta, che tre capitani di Totila assediarono Firenze, castris circum moenia positis, mentre vi era a custodirla uno dei piĂš valenti capitani di Belisario; cioè, quello stesso duca Giustino, che tre anni innanzi con la sua divisione aveva assediata, presa e forse anche smantellata Fiesole. â Vedere FIESOLE.
Molti scrittori, riportandosi al racconto di alcune croniche, o piuttosto di leggende favolose, diedero come accaduta la distruzione di Firenze per mano di Totila, (che taluni confusero con Attila): comecchè le sue falangi altro danno non sembra che le recassero fuori di quello che potè derivarle da un passeggiero accampamento. Che se la stessa città in seguito dovè aprire le porte e sottomettersi docile al volere dei tre capitani inviati costà da Totila, niun documento ci assicura che da essi, o da chi loro successe, venisse abbattuta e rovinata.
Se ciò realmente fosse accadduto, nè gli autori di quellâetĂ lo avrebbero taciuto, nè la cittĂ di Firenze avrebbe avuta occasione dieci anni dopo (nel 553) d'inviare incontro a Narsete, i suoi rapprentanti, per avere dall'esterminatore dei barbari la promessa di salvare la cittĂ , gli abitanti e i loro beni.
Non verificandosi la distruzione di Firenze ai tempi di Totila, nè trovandosi alcun'altra ragione per attribuire lo stesso supposto ai Longobardi, che in Firenze arrivarono in un tempo in cui il loro furore erasi alquanto contro le cose e le genti romane affievolito, non ebbe per conseguenza motivo Carlo Magno di rifare Firenze piÚ bella che non era; siccome allo stesso fortunato conquistatore mancò l'occasione d'innalzare la Chiesa de'SS. Apostoli nel borgo occidentale di questa stessa città , che si disse consacrata da Turpino arcivescovo di Rems, presente il capitano Orlando; e tuttociò in tempo che Carlo Magno era le centinaja di miglia lontano dall'Italia, mentre tanto Turpino quanto Orlando non si trovavano piÚ nel numero dei vivi.
Deve bensÏ Firenze a Carlo Magno la ripristinazione del primo magistrato politico e militare, sotto il titolo di duca, cui venne in seguito sostituito quello di conte con altre subalterne dignità di Giudici, Scabini, Vicarj, Vicedomini, Avvocati e Centenarj. I quali ufiziali minori, a forma del Capitolare Carolingio dell'anno 809 (§. XXI.) dovevansi eleggere e stabilire, non dal re, ma dal conte e dal popolo.
In conseguenza di ciò non si dovrebbe durare gran fatica a credere, che sino da quei tempi fosse stata in Firenze al pari che nelle altre città del regno Longobardo una tal quale forma di civico regime, e di pubblica amministrazione, senza dubbio ultimo residuo di quella istituzione municipale lasciata dai Romani, e che può dirsi il principio piÚ remoto di quella civica libertà che sorse sotto il patrocinio degl'imperatori Sassoni, e che ingigantÏ durante il dominio degl'imperatori Svevi in Italia.
STATO DI FIRENZE NEI PRIMI TRE SECOLI DOPO IL MILLE Il partito preso nel secolo XI dalla contessa Beatrice a favore della chiesa e dei papi, e caldamente sostenuto dalla sua figlia Matilde, aprÏ un largo campo a Firenze e a tutti i popoli della Toscana, per emanciparsi dal supremo dominio degl'imperatori e dei loro vicarj. Cosicchè in tali politiche agitazioni si eresse, e quindi sopra larga e solida base fu stabilito un governo municipale retto, da primo dai consoli e anziani, quindi dai priori (i signori) delle varie corporazioni d'arti e mestieri, preseduti da un Gonfaloniere, e serviti a breve tempo da tre grandi ufiziali forestieri, Potestà , Capitano del popolo, ed Esecutore degli ordinamenti della giustizia. Il quale regime politico finalmente pervenne a supplire in ogni genere alla sovrana autorità .
Fu verso il 1062, dopo la morte dello zelante pontefice Niccolò II, vescovo di Firenze sotto nome di Gherardo, quando gli subentrò il papa Alessandro II che sedeva sulla cattedra di Lucca; fu allora, io diceva, che si diede il primo esempio di un imperatore fulminato da quella scomunica che seminò il germe delle cittadine discordie sotto nome di Papisti e Imperialisti, di Guelfi e Ghibellini, di Bianchi e di Neri, e sotto altre consimili divise, che tutte le città in genere, ma in special modo questa di Firenze, lungamente agitarono.
Frattanto in simili trambusti politici, in coteste guerre fra il sacerdozio e l'impero prosperando le operazioni mercantili e bancarie dei fiorentini, sparsi nelle principali piazze dell'Affrica, dell'Asia e dell'Europa, si estendevano le corrispondenze, si aprivano nuovi sbocchi all'industria manifatturiera, nel tempo stesso che il territorio della madre patria si ampliava, e che il reggimento del Comune spingeva sempre piĂš lungi il suo potere.
Infatti i nostri primi cronisti pongono all'anno 1078 l'allargamento del secondo cerchio della città , che precedè di 200 anni a un circa la deliberazione e le fondamenta gettate per il terzo e attuale recinto della medesima, sebbene esso non restasse compito che molto tempo dopo.
â Vedere COMUNITA' DI FIRENZE.
Dalla doviziosa suppellettile di tanti compilatori di vicende patrie raccogliendo alcun chè di quanto occorre a ristringere in poche pagine le massime vicende storiche, politiche e amministrative di questa cittĂ , a partire dalla minoritĂ del re dâItalia Arrigo III, si può dire, che la Toscana, e precipuamente Firenze, nel periodo sopra divisato si reggesse in apparenza in nome del re d'Italia, ma in realtĂ ad arbitrio di un di lui vicario o della sua donna sotto il titolo di marchese. â Vi signoreggiava la gran contessa Matilde figlia del marchese Bonifazio, allorquando un altro delegato regio venuto in Toscana con le masnade raccolte dai cattani e conti rurali, nel 1113, moveva contro Firenze. In guisa tale che i cittadini per rintuzzare cotanta baldanza fecero una delle loro prime imprese militari accorrendo ad assalirlo in una bicocca de'conti Cadolingi, qual era quella del castello di Monte Cascioli , o Casiolli, posto 5 in 6 miglia toscane a ponente di Firenze, e poco lungi dall'odierna villa di Castel Pulci, dove restò ucciso Roberto vicario del re . â Vedere CASCIOLI (MONTE) e CASTEL PULCI.
Da un sÏ tenue principio cominciò la grandezza di cotanta città , in un tempo in cui il di lei contado non oltrepassava, al dire del divino Alighieri, Trespiano ed il Galluzzo.
Ma se da un lato la divisione fra il trono e l'altare, da noi poco sopra accennata, fu il segnale di una quasi indipendenza fra i governanti e i governati, fra il principe e i suoi ministri, dall'altra parte si preparava da troppi punti la mina che doveva demolire il mal composto edifizio dello stato; poichè la pravitĂ de'costumi, la poca fede nei giuramenti, la rapina, unâabborrita schiavitĂš, e uomini prepotenti opprimevano la povera umanitĂ . Per tal modo si vide nei primi anni del secolo XII radunarsi in Firenze il secondo concilio generale (anno 1105) precipuamente motivato dal vescovo Ranieri uomo dotto, quanto giusto. Il quale prelato presedè per 42 anni la chiesa fiorentina, siccome apparisce dall'epitaffio che la cittĂ riconoscente pose al suo sepolcro nel tempio che servĂŹ al primo duomo di Firenze.
Ebbe questo buon prelato (e in ciò non fu solo in quella età ) un po' troppa fissa opinione, che fosse vicina la fine del mondo, e l'Anticristo arrivato: mosso a crederlo dalla malvagità dei tempi, e dalle prave ingorde voglie degli uomini, non meno che dai terremoti, dalle inondazioni, dalle apparizioni di comete, da mostruosi avvenimenti e da tanti altri fenomeni della natura che allora in sulla terra abbondarono.
In mezzo a tale stato di cose si trovava Firenze, quando il popolo minuto e grasso cominciò a mettersi in arme per reprimere le oltracotanti schiatte de'Cadolingi, degli Ubaldini, degli Uberti, degli Ubertini di Gaville e di altre famiglie magnatizie. Avvegnachè sino d'allora i reggitori della nascente repubblica presero tale partito da far conoscere alla posterità ch'essi avevano una fondata cognizione intorno l'arti del governo. Quindi a coloro che aderivano volentieri, e che si manteneveno fedeli alla città , usavano molti segni di umanità e di distinzione; al contrario quelli che ricusavano di ubbidire erano puniti con l'esclusione dalla borsa dei signori priori e dalle società delle arti, coll'ammonire ed esiliare i troppo faziosi, coll'espugnare le loro torri, mentre le possessioni di essi s'incorporavano al contado e patrimonio della Repubblica.
Estimavano quei megistrati, che se la sola forza del potente talora basta a vincere e soggiogare il debole, non evvi che la ragione, e un modo piĂš umano di governare che possa affezionare e legare costantemente il vinto al vincitore. CosĂŹ la Signoria di Firenze crebbe in riputazione e grandezza dopo che fece intendere ai contadini: che per liberarli dalle brutali estorsioni di sanguinarj sgherri, e di orgogliosi feudatarj, aveva determinato di riceverli sotto la sua tutela e protezione, ricomprando dagli antichi padroni le loro vite e le loro cose, e spesse volte rindennizzando il signore della perdita dei diritti e ragioni feudali, non che del costo dei loro castelli, torri e resedj pagandoli piĂš di quello che non valevano.
Ognuno che volesse darsi la pena di calcolare le sole provvisioni della Repubblica registrate dagli storiografi fiorentini, relativamente alle somme pagate dalla Signoria di Firenze, (senza dire di quelle che non si conoscono, o di cui manca il valore) facilmente resterebbe convinto che, forse niun contado fu a cosÏ caro prezzo acquistato, quanto quello che nel giro di tre secoli andò formando la Repubblica fiorentina.
Mentre i popoli della campagna accorrevano da ogni parte sotto l'egida della legge, la Signoria di Firenze fabbricava loro nuove terre regolari e munite di mura torrite, perchè servissero di asilo ai refugiati. I quali con la mercè dei privilegi ed esenzioni potentemente alla sua causa affiliava, e ciò nel tempo stesso che di nuovi subborghi e di numerosi edifizj si accresceva dentro e fuori la città capitale.
Altronde questo agitatissimo stato di rivolte, facendo senno dell'uomo plebeo, preparava e promoveva in tanta energia di vita un coraggio animoso, e un'industria sempre crescente in una nazione sommamente perspicace, cui tutt'altro epiteto dare si doveva fuori di quello che di cieca le fu attribuito della malignitĂ di chi disse dei fiorentini, che Vecchia fama nel mondo li chiama orbi.
Già da gran tempo le generazioni meno antiche e meno partigiane hanno deciso, se fu generosità grandissima piuttosto che cecità quella usata dai fiorentini allora quando essi offersero ai Pisani di guardare la loro città dalle interne e anche dalle esterne agitazioni, mentre i cittadini atti alle armi accorrevano all'impresa delle isole Baleari (anno 1114 circa). Se fu cecità , allorchè, in ricompensa della custodia fedelmente prestata, i difensori scelsero fra le spoglie offerte, i due fusti di colonne di porfido, che tuttora davanti alla porta di mezzo del tempio del Battista veggonsi collocate.
Tanto maggiormente lodevole risultare deve cotesto generoso procedere di fronte a coloro che ripensano, come l'abbandono delle proprie case per difendere quelle degli altri, fruttasse ai fiorentini l'incendio materiale della loro patria, e quello piÚ terribile che derivò da alcune opinioni religiose.
Fu in quell'anno stesso del ritorno trionfale da Majorca, o poco dopo, allorchè cessò di vivere la contessa Matilde, la quale chiamando erede della sua casa e del suo podere la Sede Apostolica, lasciò alle generazioni successive un fomite inestinguibile di rivolte, di dispiaceri, di pretensioni e di guerre acerbissime . â Quindi non passò molto tempo che l'imperatore Arrigo V con poderosa oste rientrò in Italia per contrastare al pontefice i possessi della sua corona, gran parte dei quali erano stati sino allora presi e goduti dai marchesi di Toscana, per il governo della quale l'imperatore condusse il marchese Corrado di lui nipote.
Nè lungo tempo passò in mezzo a tali turbolenze che videsi succedere al trono della Germania e dell'ltalia quel Federigo Barbarossa, il quale mise a soqquadro non solo i popoli della Lombardia, ma che promosse in Firenze una delle piÚ feroci commozioni popolari, che fu il funesto segnale di tante altre civiche calamità . Fra le quali disgraziatamente celebre per le conseguenze si rese quella del 1215, promossa dagli Uberti per una donzella nobile fidanzata poi ripudiata da un Buondelmonte.
Ma le prime risse, che cangiaronsi in battaglie di partito, ebbero un tristo preludio fino dall'anno 1177, epoca della caduta di una pila del primo ponte, situato allora fuori della cittĂ , voglio dire, del ponte vecchio. Furono quelli della schiatta degli Uberti, i piĂš possenti e maggiori cittadini di Firenze, che coi loro seguaci nobili e popolani, cominciarono a sopraffare i consoli, nei quali consisteva la prima magistratura eleggibile con certi ordini a corto intervallo; e fu si smoderata guerra, che quasi ogni dĂŹ si combattevano i cittadini insieme in piĂš parti della cittĂ , da contrada a contrada, da torre a torre; le quali torri fino d'allora crebbero per la cittĂ in buon numero all'altezza di 100 e di 120 braccia. (MALESPINI. Cronica fior. cap.
80.) Pertanto non è da dire che, nei tempi posteriori alle due epoche e avvenimenti testè citati, si vivesse in Firenze senza spargimento di sangue cittadino, avvegnachè le sue piazze spesse volte servirono di orribile spettacolo a crudeli esecuzioni.
Io non debbo nè posso quÏ enumerare le molte traversie pubbliche e private della metropoli della Toscana, tosto che da una numerosa schiera di valentissimi storici dell'uno e dell'altro partito furono fatte lunghe e replicate descrizioni piÚ o meno fedeli, piÚ o meno tetre o luminose secondo la loro maniera di vedere e di pensare.
Fu infatti da molti osservato che il Malespini e G. Villani, mostraronsi preoccupati da assurde e insulse leggende tenute da essi in luogo di fatti veri; e non senza ragione fu tracciato il Villani di sentire troppo in favore della parte Guelfa, siccome scriveva con pungente rabbia Ghibellina Dante, il quale sempre indispettito contro i giudici e reggitori che concorsero a sentenziare la sua condanna di esilio, livido nelle sue opere si avventa alla fama di coloro che ai suoi disegni in qualche guisa avversi si dimostrarono.
Alcuni di quegli storici supposero, che i consoli di Firenze fossero una conseguenza o piuttosto reliquia del governo romano, sebbene non siavi piĂš dubbio che cotesta magistratura venisse introdotta nelle cittĂ del medio evo dai collegj delle diverse arti, i membri delle quali convenendo insieme decisero per comune interesse di stare allâobbedienza dei loro maestri, che consoli appellarono.
CosĂŹ senza l'appoggio di documenti del tempo, e scevri di prove legittime, i primi cronisti ebbero anche a credere, che molte illustri e primarie famiglie, nel passaggio di Carlo Magno, altre all'arrivo di Ottone il Grande, venissero d'oltremonti a stabilirsi in Firenze, a Pisa, a Pistoja o nei loro contadi, nei quali ottennero ville e castelli, badie e altre chiese doviziose di beni di suolo.
Fu detto essere di queste ultime arrivate con Ottone I la schiatta dei conti Guidi, mentre essa feudi ed estese possessioni aveva giĂ nella Romagna, nell'Appennino e nelle Valli dell'Arno superiore e inferiore, in quelle dell'Ombrone pistojese, dell'Elsa e della Sieve sino dai tempi dei re Ugo e Lotario, vale a dire molti anni innanzi la venuta di Ottone il Grande in Toscana. â Vedere FAGNO, FARO (VICO), PISTOJA, ec.
Contro questi potenti feudatari la Signoria di Firenze ebbe a rivolgere molte volte e per lunga stagione le sue armi, ora per togliere loro e disfare il castello di Monte di Croce, fra l'Arno e la Sieve, ora per acquistare dai medesimi a caro prezzo Montemurlo, fra Prato e Pistoja.
Cerreto, Vinci, Empoli, Monterappoli e altri molti castelli, nel Val d'Arno inferiore; e finalmente moltissimi altri paesi piĂš tardi in Val d'Ambra, in Mugello, nel Casentino e in Romagna. Operavasi di simile maniera verso i Cadolingi di Capraja, gli Alberti di Mangona, di Certaldo, di Pogna e di Semifonte; nel tempo che eserciti piĂš numerosi si dirigevano verso i contadi di Pisa, di Siena, di Volterra, di Arezzo e di Pistoja, devoti quasi sempre all'impero, quando Firenze era il braccio destro della chiesa e dell'indipendenza Toscana.
Imperocchè poco dopo mancato Federigo II (anno 1250) i fiorentini cavalcarono in Mugello per punire l'audacia degli Ubaldini; corsero a Pistoja per abbattere i Ghibellini, spedirono gente nel Val d'Arno superiore contro gli usciti della città , marciarono a Pontadera, dove restò sconfitto l'esercito Pisano, quando da un'altra parte facevano fronte a'senesi per sostenere l'indipendenza di Montalcino, e tutto ciò si operava nel giro di uno stesso anno.
A buon diritto pertanto i fiorentini celebrarono, come fausto l'anno 1252, il quale chiamarono l'anno delle vittorie.
In questo temp o la città essendo tranquilla e felice, quasi per trofeo dell'acquistata fortuna e per la riconciliazione dei partiti che, vivente Federigo II, l'avevano tenuta divisa, fu coniato il fiorino d'oro della somma purezza di 24 carati e del peso di un ottavo d'oncia, con l'impronta del santo Precursore e del giglio, moneta che per la bontà e bella forma fu imitata da quasi tutte le nazioni di Europa, e conservata con poca variazione di peso e niuna affatto di lega anco ai di nostri, sotto nome di zecchino gigliato. Del quale fiorino è tre volte maggiore l'altro piÚ consueto gigliato, conosciuto in commercio col nome di ruspone.
Due anni prima che tali cose si operassero, Firenze aveva riformato il governo civile e militare affidando quello al consiglio di 12 anziani, questo a due giudici forestieri, potestĂ e capitan del popolo, sotto dei quali militavano i cittadini distribuiti in ischiere con gonfaloni, 20 per la cittĂ e 96 nel contado, quanti erano allora i pivieri.
Che la fortuna non accecasse il popolo fiorentino in mezzo alle sue contentezze, e che l'onore e la probitĂ pubblica e privata non si lasciassero sempre vincere dalla bramosĂŹa del guadagno o dallo spirito di partito, lo provano due fatti storici che occorsero a quel tempo e nell'anno medesimo.
Riporterò col Villani le parole del Malespini, autore contemporaneo, quando i fiorentini, nel 1256, mandarono in ajuto degli Orvietani 500 cavalieri, dei quali feciono capitano il conte Guido Guerra de'conti Guidi.
Giunto questi in Arezzo, senza volontà o mandato del Comune di Firenze, cacciò dal governo e dalla città i Ghibellini che ne tenevano la signorÏa, mentre erano in pace coi fiorentini. Per cui questi ultimi corsero ad oste a Arezzo, e tanto vi stettono, ch'ebbono la terra al loro comandamento e rimisonvi i Ghibellini.
Tale racconto prestasi eziandio a corroborare l'opinione giĂ da me esternata all'articolo CORTONA, rapporto alla sorpresa e assalto dato a questa cittĂ nel febbrajo del 1258 dai Ghibellini allora dominanti in Arezzo piuttosto che dai Guelfi fuorusciti di entrambi i paesi.
L'altro avvenimento che avrebbe immortalato un cittadino dell'antica Grecia o di Roma, se a queste nazioni fosse appartenuto, seguÏ dopo la vittoria riportata nel 1256 al ponte al Serchio dai fiorentini sopra i pisani: per la quale i vinti dovettero comprare la pace a condizioni assai gravose, come era quella, di consegnare la rocca di Motrone presso Pietrasanta. Non potendo con la forza, tentarono i pisani di corrompere segretamente alcuni degli anziani di Firenze, perchè il castello di Motrone fosse piuttosto atterrato.
Era uno di essi Aldobrandino Ottobuoni; il quale nelle precedenti discussioni del senato fiorentino aveva di buona fede consigliato i suoi colleghi, che quel fortilizio si disfacesse piuttosto che mantenervi un dispendioso presidio per conto della Repubblica.
Ma dalla secreta offerta che gli venne esibita di 4000 fiorini d'oro, se a lui riesciva di far prevalere nel giorno della deliberazione la già emessa opinione, senza esitanza si avvide che egli s'ingannava. Tornato pertanto in consiglio con tanta eloquenza perorò, che giunse a far prendere il provvedimento contrario.
Era salita Firenze in breve giro di anni a tanta prosperitĂ e fortezza, che non solamente capo di Toscana divenne, ma tra le prime cittĂ d'ltalia fu annoverata.
I Ghibellini pertanto veggendosi mancare di ogni pubblica autorità , e avendo alla testa Farinata degli Uberti, si raccolsero tutti a Siena, una delle città ch'era tornata di nuovo in guerra coi fiorentini mercè l'ajuto di Manfredi figlio di Federigo II re di Puglia. Il quale regnante nel mese di luglio del 1260 mandò in Toscana a sostegno degl'imperiali 800 cavalieri tedeschi sotto il comando del conte Giordano; capitano in quei tempi assai reputato.
Fu allora che i Ghibellini di Siena assistiti dai pisani e dai fuorusciti di molti altri paesi bandirono oste a Montalcino.
Nè sembrando cosa convenevole ai reggitori di Firenze di abbandonare alle proprie forze i Montalcinesi, senza porre indugio in mezzo, raccolsero e inviarono colà un poderoso esercito. II quale per malizia dei nemici fatto deviare di strada, colla lusinga di consegnargli una delle porte di Siena, diede occasione alla famosa battaglia di Montaperto, che appellare si potrebbe il Waterloo del medio evo.
La strage, per la quale fu vista l'Arbia correre sangue, dopo il segnale del traditore Bocca degli Abati, divenne si orribile che parve agli scrittori fiorentini di poterla paragonare (proporzionando le cose alle nazioni) alla disfatta di Canne; seppure non la superasse nelle conseguenze pubbliche e private.
Sarebbe opera lunga e laboriosa il registrare tanti esilj, tante crudeltà e tante vendette operate in Firenze e nel suo contado contro le persone e le proprietà , senza dire tutto il male che risentÏ la Toscana e gran parte dell'ltalia superiore dai vincitori di Montaperto. Dirò bensÏ essere giunta la irascibilità di questi a tale vituperio, che conculcando ogni legge naturale e civile, inveÏ perfino contro lo sfacellato cadavere del benemerito concittadino Aldobrandino Ottoboni (cui la patria riconoscente aveva eretto un monumento in S. Reparata) scavandolo dalla tomba dove trovavasi già da tre anni sepolto, per gettarlo in una vile cloaca, dopo averlo per tutta la città orribilmente trascinato.
Ville, mobili, poderi e tutte le sostanze de'Guelfi vennero poste a sacco, disperse e messe a comune, i loro resedj, le torri, i palazzi pazzamente atterrati; e per colmo di vendetta al parlamento dei capi della Lega Ghibellina in Empoli fu messo a partito il progetto di disfare da capo a fondo la stessa cittĂ di Firenze: lo che sarebbe indubitatamente accaduto senza l'opposizione decisa del capitano Farinata degli Uberti.
Reggevasi il paese a nome del re Manfredi dal conte Giordano, ma in realtĂ sotto l'influsso di rabbiosi amministratori, che mutarono la faccia alle cose pubbliche e private di tutta la Toscana, ad eccezione di Lucca, l'unica fra tutte le cittĂ che in quei momenti conservasse l'antico regime, e che a molti cittadini esuli offrisse un refugio in tanta calamitĂ .
Poco appresso, dovendo il conte Giordano partire, fu costituito vicario del re in Toscana il Conte Guido Novello di Modigliana, in mano del quale fu riposto anche il governo della giustizia di Firenze.
Una delle prime operazioni del potestĂ Ghibellino fu di cacciare i Guelfi da Lucca e dal suo distretto conducendo l'esercito della Lega, prima nel Val d'Arno inferiore, per occupare le quattro terre dei lucchesi (Fucecchio, S.
Croce, Castel Franco e S. Maria a Monte), poscia nei subborghi di Lucca. Fu allora che i reggitori di essa cittĂ si trovarono costretti a promettere al capitano dei Ghibellini dentro il termine di tre giorni di cacciare i profughi sotto pena della vita; molti dei quali in tale funesta congiuntura furono costretti a prendere il partito di andare oltremonti e oltremare a procurarsi miglior ventura.
Fra questi ed altri posteriori frangenti, ad istanza dei pontefici, entrò in Italia Carlo d'Angiò per cacciare da Napoli Manfredi. Allora i Guelfi usciti di Firenze si esibirono al papa Clemente IV di concorrere all'impresa con i loro cavalieri. Avendo il pontefice accettata l'offerta milizia, consegnò alla medesima una bandiera avente la sua arme, quella stessa che d'allora in poi ritenne sempre il magistrato della Parte Guelfa di Firenze, cioè, un'aquila vermiglia in campo bianco con sotto un serpente verde.
Appena giunse la novella in Firenze della battaglia guadagnata a Benevento con la morte del re Manfredi, l'ultimo giorno di febbrajo 1266, i Guelfi che erano ai confini, ovvero sparsi e nascosti per il contado, appressaronsi alla città , dove il popolo era di animo piÚ guelfo che ghibellino, e misero tale paura nel conte Guido Novello potestà e governatore dei Ghibellini, che egli, nel dÏ 11 novembre 1266, coi caporali e suoi militi fuggÏ alla volta di Prato. Il popolo rimise in Firenze i Guelfi che riformarono il governo, offrendo per dieci anni la signoria al re Carlo d'Angiò; il quale, nel marzo del 1267, vi inviò per suo vicario il conte Guido di Monforte accompagnato da 800 francesi a cavallo. Il suo ingresso in Firenze accadde nella stessa solennità di Pasqua di Resurrezione, nella quale i Ghibellini, 52 anni innanzi, con la morte di Buondelmonte attirarono sopra la loro patria cotante disavventure, talchè parve a G. Villani, che queste fosse giudizio di Dio, poichè i Ghibellini in Firenze non tornarono mai piÚ d'allora in poi in pieno stato. (G.
VILLANI Cronica. lib. VII. c. 15.) Da questo reingresso dei Guelfi, dopo un esilio di sei anni,ebbe origine la seconda riforma politica del governo fiorentino, se si valuta per prima quella del 1250, stata poco sopra accennata. Nel nuovo riordinamento fu deciso di richiamare tutti i cittadini esuli di qualunque partito, e di perdonare ai Ghibellini le passate ingiurie.
Fu allora istituito il magistrato dei capitani di Parte Guelfa, incaricato d'incamerare i beni dei ribelli. Si ordinarono diversi consigli, quello di 12 buonomini, senza dei quali niun progetto, nè alcuna spesa si ammetteva: e perchè le sue deliberazioni avessero effetto, vi era necessario il voto dei gonfalonieri o capitani delle arti maggiori, e dei consiglieri di credenza ch'erano 80, e da questi consigli doveva passare al consiglio generale, ossia dei 300 dove assisteva il podestà .
Ma quanto fu l'anno 1267 avventuroso ai Guelfi di Firenze, altrettanto riescÏ sciagurato il 1269 mediante le alluvioni dell'Arno, che nell'ottobre, traboccando dal suo letto, molta gente, molti alberi, molte case, e perfino i ponti di S. Trinità e della Carraja, trascinò nei torbidi suoi gorghi.
Tacerò del passaggio del re Corradino, che alla parte Guelfa per breve istante tolse il governo di Toscana per favorire i Ghibellini, i quali mediante un tal favore in Firenze occuparono quasi tutti gli ufizj dello stato.
Avvegnachè la sconfitta di Tagliacozzo del 23 agosto 1268 (la quale costò il trono e la vita a Corradino ultimo rampollo degli imperatori Svevi, e a Carlo d'Angiò assicurò il regno) portò anche la costernazione nei Ghibellini di Firenze, costretti a fuggire dalla loro patria, o a umili condizioni accordarsi con la parte contraria che tornava in seggio.
L'anno 1273 fu memorabile per la città di Firenze a motivo della venuta del pontefice Gregorio X con Baldovino imperatore di Costantinopoli e Carlo d'Angiò re di Napoli; e bramando quel papa di rimettervi costà la pace tra il partito dominante e i Ghibellini di fuori, nel dÏ 2 di luglio, tutta quella papale, imperiale e regia comitiva in presenza del popolo si presentò nel greto d'Arno a piè del ponte Rubaconte, dove il pontefice volle che si facesse pace fra le parti avverse; comecchè essa fosse di breve durata. Nè piÚ lunga fu quella che nel 1277 tornò a farsi per opera del cardinale Latino Orsini, delegato a ciò dal pontefice Niccolò III, che tentò di riformare il governo di Firenze, instituendo un magistrato di 14 cittadini, dei quali 8 Guelfi e 6 Ghibellini.
Dopo tutti questi casi, nel 1282, sorse in Firenze una nuova magistratura progettata dai mercanti di Calimala, che rimpiazzò quella dei 14 creati dal cardinale Latino; quella cioè, dei Priori delle Arti, detti piĂš tardi (anno 1458) Priori di LibertĂ . â Erano eletti a breve tempo fra le arti maggiori, (uno per ogni sesto della cittĂ ). I quali in compagnia del capitano del popolo costituivano il potere esecutivo, e tutte le grandi e gravi cose della Repubblica dovevano da essi loro governarsi.
Niuno che fosse stato nobile o grande poteva ottare a tale uffizio, se pure non era ascritto a una delle arti maggiori, a condizione di sostituire all'antico magnatizio un popolare casato.
La storia ha conservato il nome di quei sei priori che, nel 1285, camminando prosperamente gli affari interni ed esterni, deliberarono di ampliare la città con un terzo cerchio di mura, che è quello che tuttora si vede, nel tempo che si dava ordine a lastricare di mattoni le interne vie, cominciando dalla loggia d'Orto S. Michele, dove allora si teneva il mercato del grano.
Le cose dei fiorentini dopo creato il magistrato de'Priori, procedettero cotanto bene, che gli aretini presero il partito d'imitarne l'esempio coll'affidare a uno solo l'autorità concorde di piÚ. Avvenne però, che il priore da essi eletto perseguitando oltremodo i grandi, questi, nel 1287, prestamente lo finirono, cacciando i Guelfi dalla città per affidare le redini del governo al vescovo Guglielmo degli Ubertini, uomo stimato valoroso e grandissimo partigiano dei Ghibellini. Il quale mitrato con l'assalto di Cortona, del 1258, aprÏ la sua carriera politico militare, e nel 1289, la chiuse vittima di ambizione o di coraggio con la battaglla di Campaldino.
Battaglia che fu per lunghi anni celebrata con palio dai fiorentini nel giorno di S. Barnaba, santo che Firenze prese per secondo protettore della cittĂ .
Battaglia famosa non tanto per le conseguenze, quanto per gli uomini celebri che figurarono fra i prodi nelle file dei fiorentini, tra i quali Vieri de'Cerchi e Corso Donati, due personaggi che si fecero in seguito capi di due potenti fazioni; e per avervi militato Dante Alighieri allora Guelfo, mentre 22 anni dopo fu allontanato dalla patria per Ghibellino, nel tempo che sedeva nel magistrato de'Priori Dino Compagni, cronista che succedè immediatamenie a Ricordano Malespini, quando appunto nasceva lo storico piÚ celebre Giovanni Villani.
Era appena corso un anno dalla vittoria di Campaldino, che si credè bene di fare una correzione alli statuti, ristringendo a sei mesi invece di un anno l'ufizio dei potestà di Firenze e di dar effetto a una provvisione che vietava di rieleggere prima di tre anni ogni priore stato di magistrato.
Non ostante che i popolani si fossero ingegnati piÚ volte di porger rimedio con provvedimenti e leggi nuove alle civili discordie, onde tenere in frèno la potenza dei grandi, questi però trovandosi del favore de'parentadi, della reputazione di un'invecchiata nobiltà e della fresca gloria da essi acquistata nelle ultime battaglie, toglievano l'ardire agli offesi di accusarli; nè gli stessi giudici si arrischiavano di castigarli ogni qual volta l'accusa fosse accaduta. Ma quando anche si discorreva nelle società popolari della maniera di provvedere alla salute e libertà comune, veruno mostravasi disposto, e a niuno bastava l'animo di farsene capo.
Il valore e l'industria di un cittadino spedÏ tostamente l'inviluppo di tale negozio. Questi fu Giano della Bella, uomo di condizione popolare, nato però di nobile famiglia, per ricchezze, aderenze e condotta dall'universale apprezzato. Il quale essendo nuovamente eletto de'Priori delle arti, ed entrato in carica li 15 febbrajo del l293, a nativitate, persuase i suoi compagni, che per dare maggior forza al popolo era d'uopo aggiungere all'ufizio dei Priori uno di maggiore autorità degli altri. Questo si chiamò il Gonfaloniere, di giustizia, perchè alla sua custodia fu affidato il gonfalone con l'insegna del popolo, che era la croce rossa nel campo bianco, e una guardia di mille soldati d'infanteria, il cui numero poscia per due volte si raddoppiò.
Quindi si fecero leggi municipali sotto nome di Ordini della giustizia , per punire i potenti che avessero oltraggiati i popolani, e fu deliberato, che qualunque famig lia avesse avuti cavalieri, (erano in tutto 33 casate di messeri) s'intendesse che fossero de'grandi, e che niuno di loro potesse entrare in seggio de'signori, nè diventare gonfaloniere di giustizia, o alcuno de'suoi colleghi.
E a questo ordine di cose legarono tutte le compagnie delle arti o Capitudini, dando ai loro consoli qualche autoritĂ nei consigli generali.
Tali mutazioni di stato promovendo accuse continue e severe punizioni, dovevano sempre piĂš inacerbire per paura e per sdegno i potenti cittadini, i quali non tutti dalla nobiltĂ del sangue, ma per industrie onorevoli, e talvolta per illeciti guadagni eransi fatti grandi, a danno quasi sempre del popolo minuto che volevano piĂš umile; in guisa che essi trovarono finalmente il mezzo di abbattere ques to, costringendo Giano della Bella ad allontanarsi dalla cittĂ (anno 1295), cui tenne dietro il guasto che si diede alle sue abitazioni, e la condanna di tutto il suo lignaggio a un perpetuo esilio.
Il breve periodo del governo fiorentino riformato da Giano della Bella porta tale suggello perenne e glorioso nei monumenti della patria, che ognuno resta ammirato a considerare, che per magnanimo concepimento di quella Signoria fu decretata nell'anno stesso 1294 la costruzione, e gettati i fondamenti di due piÚ grandi chiese di Firenze, cioè, S. Croce, che è il Panteon dei fiorentini, e S.
Reparata, che divenne quella maestosa cattedrale, la quale si vede sempre da tutti con maraviglia: nel mentre che l'arte dei mercanti di Calimala faceva sgomberare d'intorno al battistero di S. Giovanni le arche romane di vecchi sepolcri per rivestire con migliore disegno l'esterne mura di nobili marmi bianchi e neri, invece dei guasti e cadenti macigni.
Nè questi soli furono i monumenti pubblici, ai quali allora si dava opera; imperocchè si ajutavano di denari e di tutti i mezzi i frati Predicatori per l'edificazione della chiesa di S. Maria Novella, e i frati Agostiniani per quella di S.
Spirito, frattanto che s'ingrandiva la piazza contigua dopo comprate le case dei particola ri, e nel tempo stesso che si dava compimento all'acquedotto che dall'Arno entrando per la porta Ghibellina conduceva per uso delle arti copiosa fonte ai lavatoj di S. Simone, e quando infine si apriva una nuova porta del secondo cerchio in Oltrarno al canto della Cuculia, porta che fu chiamata di Giano della Bella.
Chiudevasi questo periodo di magistratura con la morte del primo dotto fiorentino Brunetto Latini, e con la esaltazione al papato di Bonifazio VIII, pontefice di alto ingegno e di grande ardire, quello stesso cui avvenne lo straordinario accidente di trovarsi complimentato da dodici diversi ambasciatori inviati a Roma in nome di altrettanti governi di Europa, i quali tutti interrogati: qual fosse la loro patria? risposero tutti esser nati cittadini di Firenze; per cui Bonifazio ebbe a proferire tale sentenza, che definĂŹ i fiorentini per un quinto elemento.
Innanzi che il secolo XIII spirasse, la Repubblica ordinò l'edificazione di due castelli regolari nel Val d'Arno di sopra, sotto i nomi di S. Giovanni e di Castel Franco; diede principio al maestoso palazzo di residenza della Signoria, (ora il Palazzo vecchio) nel tempo medesimo che fece metter mano ad alzare i fondamenti e le mura del terzo cerchio della cittĂ . â Vedere COMUNITA' DI FIRENZE.
STATO di FIRENZE dal 1300 sino alla CACCIATA del DUCA dâATENE Allora quando uno si fa a considerare la storia di Firenze, fra il declinare del secolo XIII e l'apparire e crescere del susseguente, resta sopraffatto e indeciso se vi sia stata una generazione meno irrequieta di quella, o se vi avesse altra cittĂ , che per copia di virtĂš, per chiari uomini e per private ricchezze di questa maggiormente fiorisse.
Sennonchè cotante doti de'fiorentini, anzichè patrimonio pubblico, essendo parziale corredo d'individui e di famiglie, queste e quelli, sia che fosse troppo vigore, o piuttosto antico livore, ad ogni piccola scintilla si vedevano accendere di sdegno, e convertire le personali discordie in pubbliche micidiali ostilità .
Infatti per cause meramente private da due nobili famiglie consanguinee sorsero in Pistoja col secolo XIV due nuove fazioni, sotto il distintivo di Bianca e di Nera . Ciascuna delle quali fa accolta e presa a proteggere in Firenze, da Donato Corsi la Nera , da Vieri de'Cerchi la Bianca; due schiatte potenti, una piÚ nobile, l'altra piÚ ricca, e sempre fra loro mal d'accordo. Per modo tale che per esse primieramente tornò a mettersi in Firenze tanto scompiglio, che non solo la città , ma tutto il contado si divise e molte volte battagliando o in altra guisa si sacrificò chi per l'una e chi per l'altra parte.
Tutti i Ghibellini tennero co'Cerchi, perchè speravano aver da loro meno offesa; vi si accostarono quelli ch'erano dell'animo di Giano della Bella, dolenti della sua cacciata.
A questi si aggiunsero i parenti e amici de'Cerchi e le persone nemiche di Corso Donati, tra le quali il poeta Guido Cavalcanti, il nipote di Ricordano Malespini, Baschiera Tosinghi, Corso Adimari e Naldo Gherardini.
Colla parte di Corso Donati tennero i grandi, amici e parenti suoi, fra i quali Pino de'Rossi, Geri Spini e loro consorti, Pazzino de'Pazzi, la maggior parte dei Bardi, quelli della Tosa, e molti altri messeri, o cavalieri.
Credendo, o per lo meno figurandosi di provvedere alle discordie interne con lâintervento esterno, la Signoria di Firenze pregò il papa Bonifazio VIII, affinchè mandasse un personaggio di sangue reale, per riformare la discorde cittĂ , che ben presto arrivò, li 4 novembre 1301, e fu molto onorato.
Ognuno sa che Carlo di Valois giunse a disporre del governo fiorentino a seconda dell'arbitrio suo; ognun sa che poco dopo il suo arrivo furono confinati ed espulsi dalla patria Dante Alighieri, il padre del Petrarca e moltissimi altri di parte Bianca, ai quali per giunta vennero confiscati e tolti i loro beni e le loro case disfatte.
Ecco le parole di Dino Compagni, testimone oculare: "L'uno nemico offendeva l'altro; si facevano ruberie; i potenti domandavano denari ai deboli; maritavansi le fanciulle a forza; uccidevansi uomini, e quando una casa ardea forte messer Carlo domandava: che fuoco è quello? gli era risposto ch'era una capanna, quando era un ricco palazzo. " Partito da Firenze Carlo di Valois, e dal mondo Bonifazio VIII, nuove divisioni fra i grandi e i popolani di parte Nera causarono nuove risse, tumulti e battaglie cittadine, tantochè la Signoria ricorse a Benedetto XI appena fatto pontefice, rimettendosi alla sua elezione per avere un buon potestĂ . â Questo aneddoto storico forma l'argomento di una lettera di quel papa, spedita li 10 aprile 1304 da Monte Rosi alla Signoria, nella quale, nomina tre o quattro candidati per cuoprire l'ufizio richiesto, esortando il popolo fiorentino alla concordia e alla pace.
Al quale scopo, egli soggiunge aveva inviato a Firenze il cardinale fr. Niccolò vescovo d'Ostia, descrivendone l'ottimo carattere nel modo simile a quello che ci viene dipinto dallo storico Giovanni Villani, (MANNI Sigilli antichi. Tom. XXV.) Frattanto nè il legato pontificio ottenne l'intento voluto, nè il potestà ricercato potè piÚ comparire a Firenze, involta piÚ che mai fra tumulti, perturbazioni, assalti e rovine.
A simili mali politici se ne aggiunsero due materiali, la caduta del ponte alla Carraja (il dÏ 1 maggio 1304) allora di legname, per troppa calca di popolo accorso a vedere una rappresentazione che si faceva nell'Arno dell'anime dannate nell'Inferno. A tal rovina tenne dietro (10 giugno) un artifiziale incendio che arse e consumò 1700 case, a cominciare dalla piazza del Duomo, Or S. Michele, via di Calimala, Mercato Nuovo e Vacchereccia sino al Ponte vecchio; incendio che portò la miseria in molte famiglie, e che per eccellenza di scelleratezza rese celebre al pari del nome di Erostrato quello di Neri Abati, che di tal maligno artifizio fu addebitato.
Non trascurarono i fuorisciti di trarre profitto da tanta desolazione e spavento, cogliendo il destro, per rientrare con armata mano in Firenze; e già erano in buon numero penetrati nella città , e dato principio al combattimento, se un primo svantaggio non li sbigottiva a segno da ritirarsi dall'azione. In guisa che il loro colpo per poco senno e per viltà andò fallito. Invece di vittoria essi abbandonarono molte vittime al furore della parte irritata; la quale rivolse le armi contro le castella dei magnati di contado che a tali imprese avevano contribuito.
Fu allora dai Neri dopo qualche resistenza preso e disfatto ai nobili de'Cavalcanti canti il castello delle Stinche fra la Pesa e la Greve, e gli abitanti chiusi nelle nuove carceri fabbricate in Firenze sul terreno degli Ubert i, (anno 1305) attualmente convertite in belle ed ariose abitazioni. Nè a questo solo castigo si limitò la Signoria retta dalla parte Guelfa, ma unitasi al governo di Lucca, mosse guerra a Pistoja, i cui cittadini dopo ostinata difesa, per rabbia di fame, dovettero aprire le porte agli assalitori (li 10 d'aprile 1306) e vedere, ad onta della capitolazione, atterrare le mura della città e le case dei grandi mettere a sacco.
La terza impresa fu diretta nel Mugello contro gli Ubaldini, i quali con buon numero di Ghibellini usciti di Firenze, si fecero forti nel castello di Montaccianico; presso il quale la Repubblica fiorentina fece edificare (anno 1306) la regolare terra murata di S. Barnaba, ossia di Scarperia.
Prima che l'anno stesso terminasse il suo giro, sembrando ai popolani di Firenze che i loro grandi avessero presa troppa baldanza, vollero rafforzare il governo coll'istituire l'ufizio dell'Esecutore degli ordinamenti, della giustizia, perchè egli dovesse sorvegliare e procedere contro i grandi che offendessero i popolani e contro i rivoltosiâ ll primo eletto In tale carica fu Matteo de'Ternibili di Amelia, sotto di cui si abbellĂŹ alcuna parte di Firenze, e si rifece la via de'Cavalcanti, oggi detta di Baccano, di che resta ivi tuttora la lapida con lo stemma. Al Ternibili, nel 1309, successe nel medesimo impiego di Esecutore degli ordinamenti della giustizia Albertino Musatto da Padova, il quale tre anni dopo figurò sotto le bandiere dell'imperatore Arrigo VII con la penna e con la spada.
In realtà la comparsa di Arrigo VII in Italia fu per i fiorentini simile a quella di un astro apportatore di nuove procelle, comecchè Firenze dopo Brescia sia stata la città che mostrò maggior cuore, e tale da resistere e render vana ogni sorta di minaccia, anche nel tempo che essa fu da numerosa oste (anno 1313) assediata e le sue belle e popolose campagne dagli assedianti dilapidate.
La morte dell'imperatore rincuorò il governo di Firenze che per un tempo determinato si era messo sotto la protezione di Roberto re di Napoli. Imperocchè da questo coronato s'inviava costà il potestà sotto nome di vicario R., accompagnato da piÚ centinaja di cavalieri e da baroni del regno. Esso sopravvedeva alla giustizia tanto nel civile che nel criminale, e comandava la guerra previo giuramento, di attenersi fedelmente agli statuti della Repubblica.
Frattanto nuovi casi trassero nuova procella dalla parte di Val di Nievole, quando Uguccione della Faggiuola, giunto a Pisa, rianimò i Ghibellini, mesti e avviliti per l'inattesa morte di Arrigo VII, a speranza di vittoria.
Questa infatti l'ottenne ben presto solenne e completa (20 agosto 1315) contro l'oste riunita dei Fiorentini, Senesi, Volterrani, Pistojesi, e di tutte le Terre di parte Guelfa della Toscana, raccolta fra la Pescia maggiore e la Nievole, in guisa che la battaglia di Montecatini fu quasi un altra disfatta di Montaperto.
Dissi, quasi di Montaperto, avvegnachè non giunsero questa volta i vincitori Ghibellini di mettere a soqquadro come allora fecero la Toscana tutta; e se ad alcuni di essi in Firenze riescÏ di riporre il piede, mancò, loro la forza di prendere stato. Al contrario i vincitori inasprirono i vinti, talchè agli usciti prolungarono la pena di esilio, pubblicando i loro beni, e sentenziavano altri, all'ultimo supplizio, fra i quali Dante Alighieri, nel tempo stesso che s'innalzavano le nuove mura, dalla porta al Prato a quella di San Gallo, per mettersi in difesa da quelli di fuori.
Vi fu anche un momento in cui Firenze si rallegrò, quando sentĂŹ avvenuta in un giorno medesimo (10 aprile 1316) lâespulsione di Uguccione dalla Signoria di Pisa e da quella di Lucca, per soverchia tirannĂŹa usata in verso le due cittĂ ; dalle quali i fiorentini con tutti i loro alleati ben presto ottennero i prigioni fatti alla sconfitta di Montecatini.
Sennonchè in luogo di Uguccione sorse in Castruccio un piÚ intraprendente capitano, e di piÚ alta mente di qualsiasi altro di quel secolo; avvegnachè egli diede assai che fare e bene spesso triste lezioni ai fiorentini finchè visse.
Egli adunque senza alcuna provocazione rompendo con Firenze la pace, alla testa dei lucchesi e dei pisani, nella primavera del 1320, e nuovamente nel 1321 e 1323, corse nella Val di Nievole, e di là nel Val d'Arno inferiore recando ogni sorta di danno e saccheggio ai paesi aperti, o difesi da muri e da rocche del contado fiorentino, e ardÏ perfino con l'oste di avvicinarsi a Prato. Lo stesso duce nell'anno 1325 pervenne inaspettatamente a impadronirsi di Pistoja. Quest'ultimo colpo di mano di un destro politico e di un valoroso militare provocò tale ira e vergogna nel governo e popolo fiorentino, che si raccolse in città un esercito piÚ numeroso di quanti altri ne avesse avuti Firenze in proprio, senza contare l'aumento che ricevè dalle milizie a piedi e a cavallo delle città collegate.
Ma una sÏ numerosa oste, che credeva di potere conquistare Lucca non che i paesi tolti da Castruccio, restò vinta con grande strage (li 23 settembre 1325), e in gran parte esangue o prigioniera di piÚ accorto capitano fra le paludi di Bientina e di Fucecchio. La rotta dell'Altopascio, che contasi fra le memorabili sconfitte degli eserciti fiorentini, mosse il vincitore verso Firenze con l'idea di profittare della paura e dello scompiglio del popolo, onde con manovra di mano maestra vedere d'impadronirsi della stessa città . Fu allora che a insulto e scherno dei vinti fece battere moneta a Signa e correre tre palj da Peretola sino al ponte alle Mosse, che è un miglio presso a Firenze, mentre i fiorentini stavansi rinchiusi dentro le nuove mura che procurarono in massima fretta di circondare di fossi e fortificare. Se in quell'occasione non fosse comparsa a salvare la patria un'altra Vetturia nella matrona de'Frescobaldi, la quale per la carità della patria distogliesse il figlio Guido Tarlati vescovo di Arezzo dall'unire il suo esercito a quello di Castruccio, Firenze avrebbe dovuto soccombere a tanta sciagura.
Giunse poco dopo in sussidio Gualtieri duca d'Atene, in qualità di vicario interino di Carlo duca di Calabria con 400 cavalli. Il quale Gualtieri seppe tenere il suo posto saviamente, finchè non arrivò lo stesso duca di Calabria figlio del re Roberto accompagnato da una splendida corte. Ma le pompose feste date dai fiorentini per riconoscere quel principe in quasi assoluto signore della Repubblica, piuttosto che occuparsi di raccogliere gente per tentare di respingere il temuto Castruccio, fecero perdere tanto tempo, che quest'accorto capitano potè porsi in grado da riparare a tutti gli assalti, che dopo gli furono mossi contro da piÚ lati con la croce, con la spada e con le congiure.
Ad aggravare la somma di tante sciagure il commercio di Firenze risentĂŹ contemporaneamente alla disfatta dell'Altopascio un danno immenso pel fallimento di 400,000 fiorini d'oro della societĂ mercantile de'Petri e degli Scali.
Che piÚ! a sostegno di Castruccio stava per muoversi dalla Germania con numeroso seguito Lodovico duca di Baviera, per venire a incoronarsi re a Milano, a Roma imperatore. Ma il capitano lucchese, volendo fare pomposa corte all'intruso coronato, costretto di allontanarsi dai suoi dominj perdè Pistoja per sorpresa dei fiorentini. Comecchè un tale acquisto costasse ben presto lagrime di sangue ai pistojesi obbligati di arrendersi per fame a discrizione del reduce e indispettito Castruccio, che seppe rendere immobile un numeroso esercito fiorentino (3 agosto 1328) inviatogli contro. Dopo tale emergente il re Bavaro si andava avvicinando minaccioso verso Firenze; e già il governo preparavasi a fargli fronte quanto poteva fortificando le mura della città e quelle dei vicini castelli, e provvedendo l'una e gli altri di armi e di vettovaglie, sul timore di dovere sostenere un secondo assedio piÚ formidabile di quello del settimo Arrigo: quando la morte di Castruccio liberò Firenze e il suo contado da tante angoscie.
Assai maggiore fu la paura e il danno che le avvenne nell'autunno del 1333, allorchè seguÏ una delle piÚ strabocchevoli inondazioni dell'Arno, la quale allagò tutta Firenze, colla distruzione di muri, di pescaje e di tre ponti dentro la città , cioè, del ponte Vecchio, del ponte di S.
Trinita, e di quello della Carraja.
Immensa fu la rovina e guastamento della campagna, sicchè Giovanni Villani non trovando numero di moneta che potesse adeguarla, solamente aggiunge che a rifabbricare i ponti, le mura e le vie del Comune di Firenze si spesero piÚ di 150,000 fiorini d'oro.
Sorprenderà il sentire come pochi mesi dopo accaduto tanto flagello, si tornasse a ricostruire, non solamente i ponti, muri e altri edifizi abbattuti, ma si spendessero grandi somme per l'annona, per il magnifico palazzo alzato sopra le logge di Or S. Michele, dopo la provvisione dalla Signoria decretata, nel dÏ 25 settembre dell'anno 1336, mentre si gettavano i fondamenti della torre maravigliosa di Giotto; e tutto ciò nel tempo stesso che si attendeva alla dispendiosa guerra e alla malaugurata compra di Lucca, per la quale i reggitori di Firenze spesero invano una disordinata somma di moneta, non calcolando quella che consumossi nelle guerre di Lombardia contro Mastino della Scala.
Del dominio e della entrata che aveva il Comune di Firenze tra il 1336 e il 1338 ne ragionò lo storico G.
Villani cittadino guelfo, e uno de'mercanti fiorentini, quando la sua patria signoreggiava in Pistoja, in Colle di Val d'Elsa e nei respettivi contadi, quando teneva 18 castella murate del territorio di Lucca, e 46 castella forti del distretto e contado di Firenze, senza le tante rocche e castelletti di proprietĂ dei cittadini oltre una grandissima quantitĂ di terre, borghi e ville non murate.
La somma dell'entrate di Firenze stava si piĂš che altrove nel commercio, che formava la maggior ricchezza dei cittadini; i quali però ebbero poco dopo una fatale scossa nel fallimento delle compagnie deâPeruzzi e dei Bardi, creditori di 1,365,000 fiorini d'oro per somministrazioni fatte a Eduardo III re d'Inghilterra, che non trovossi in grado di soddisfare.
Pareva alla Signoria di Firenze di non potere fra tante avventure sostenere meglio il governo che affidandone l'esecutivo a una specie di dittatore, cui diedero il titolo di Capitano della guardia, o Conservatore del popolo.
Quest'ufiziale creato tre anni dopo la grand'alluvione, senz'obbligo di ubbidire agli ordini della giustizia, nè di render conto ad alcuno fuori che ai Priori delle arti, tenne sÏ aspro e crudele governo che alcune potenti famiglie cercarono di cospirare nella città per abbattere il capitano e abolire quell'ufizio.
Coi Bardi si unirono alcuni de'Frescobaldi, de'Rossi, de'conti Guidi, i Pazzi di Val d'Arno, i Tarlati di Arezzo, gli Ubertini, gli Ubaldini, i Guazzalotti di Prato, i Belforti di Volterra e piĂš altri: i quali doveano levare la cittĂ a rumore per uccidere il capitano della guardia, e rifare in Firenze nuovo stato. E sarebbe loro certamente venuto fatto, se non vi fosse stato chi rivelasse la cogiura, che scoppiò con tristo effetto dei congiurati nel settimo compleanno della disastrosa piena dellâArno, cioè il dĂŹ d'Ognissanti 1340. Era nel numero dei congiurati mess.
Jacopo de'Frescobaldi priore di S. Jacopo Oltrarno, quello stesso che nel 1335 alienò al capitolo fiesolano i terreni posti sul poggio dove fu la rocca di Fiesole, e che a cagion di simil congiura fu condannato come ribelle del governo con la confisca de'suoi averi. â Vedere FIESOLE pagina 113. col I.
Da tale macchinazione nacque una riforma nel regime di Firenze, la quale fruttò, invece di uno, due Conservatori, abusivamente detti, della pace. A questi fu accordata maggiore autorità di prima, ad uno per sorvegliare la città e all'altro il contado; sicchè dal cattivo governo di costoro si venne presto a cadere nelle pessime mani di Gualtieri duca d'Atene, chiamato a coprire lo stesso ufizio di Conservatore della pace, quale altra volta esercitò con plauso e giustizia. Cosicchè poco dopo il popolo si diede di buona voglia in braccio a lui acclamandolo, invece di Conservatore per un anno, Signore di Firenze e Principe a vita con illimitata autorità .
Che però se al duca riescÏ facile di acquistare la città e dietro a essa tutto lo stato di una Repubblica che in libertà non sapeva mantenersi, e la servitÚ patire non poteva, per egual modo Gualtieri vide prestamente strapparsi lo scettro, sbalzandolo dal trono quei grandi e quei popolani medesimi, dai quali era stato onorato, acclamato e posto in palagio.
Le accuse secrete, i tormenti, le condanne in denari, le punizioni a un duro carcere, al taglio della testa, della lingua o della mano, ed altre turpitudini e dissolutezze, furono i flagelli che subentrarono alle esultanti feste di gioja fatte nel dĂŹ 8 settembre 1342 a onore del duca d'Atene. A rendere le quali piĂš solenni vi concorse perfino la persona piĂš rispettabile della cittĂ , quale fu il vescovo fr. Angelo Acciajuoli, che a coronare la festa della Signoria del duca Gualtieri, disse un panegirico per magnificare le credute virtĂš del mascherato principe appresso il popolo.
Ma l'atroce maniera di operare del duca d'Atene e dei suoi satelliti, gli preparò contro in un tempo medesimo tre cospirazioni diverse, di grandi e di popolani, senza che una sapesse nulla dell'altra.
Lo stesso vescovo di Firenze Acciajuoli, pentito di avere ingiustamente lodato il tiranno, si era fatto capo della prima e piÚ forte congiura. Alla testa della seconda si posero i Donati e i Pazzi, mentre della terza era il primo Antonio Adimari. La scoperta di tante e sÏ numerose macchinazioni spaventò, ma non avvilÏ il duca, il quale si preparava a farne vendetta da suo pari, quando tutti i cittadini corsero armati in piazza per assediarlo in palazzo, trucidare i suoi agenti e cacciare via il tiranno dalla residenza dei Signori con perpetuo esilio dallo stato.
I 21 gonfaloni delle arti maggiori e minori, che ogn'anno nel giorno di S. Anna sventolano intorno ai pilastri della chiesa di Or S. Michele, rammentano la festa anniversaria della cacciata del duca d'Atene (26 luglio 1343); il di cui governo non lasciò altra memoria lodevole fuori di quella che per tristezza sua derivò in bene alla città , mercè la riunione di molte famiglie cospicue per odio inveterato fra esse d'animo alienate, e la magnifica strada che al tempo suo fu ampliata da Or S. Michele sino allo sbocco della piazza della Signoria.
STATO DI FIRENZE DAL 1343 alla CAPITOLAZIONE di PISA Posata alquanto la cittĂ dal furore dopo la cacciata del duca d'Atene, 14 cittadini nominati dal popolo sotto la presidenza del vescovo Acciajuoli si occuparono di riformare il governo e le magistrature; e vinse il partito che i magnati fossero a parte degli ufizi per maggior unione dell'universale, in guisa che i grandi entrarono nel magistrato della Signoria per una terza parte, e negli altri ufizi per la metĂ .
Era stata fino allora la cittĂ di Firenze divisa per Sesti, cinque alla destra e uno alla sinistra dell'Arno, questo era nominato di Oltrarno, gli altri si appellavano S. Piero Scheraggio, Borgo (SS. Apostoli), S. Pancrazio, Porta del Duomo e Porta S. Piero ; cosicchè, sei Priori (Signori),uno per Sesto, si erano fatti. Eccetto che per alcune mutazioni giĂ da noi avvertite, talvolta 12 e 13 col gonfaloniere si vennero a creare, ma poco di poi erano tornati a sei. â Parve bene di riformare la cittĂ da Sestieri in Quartieri, sĂŹ per essere i Sesti di Oltrarno e di S. Pier Scheraggio i piĂš imposti degli altri, sĂŹ perchè dei grandi uno per Quartiere elegger si voleva.
Non ostante simili misure governative nè i grandi si acquetarono, nè il popolo si trovò contento di averli per colleghi negl'impieghi maggiori, nè la mediazione del vescovo Acciajoli bastò a contentare gli uni e gli altri.
Contro tali e cosĂŹ frequenti mutazioni sull'ordine del governo, che soggettavano Firenze a continue agitazioni e a sempre nuove riforme, scagliossi non senza ragione la penna dell'esule poeta, quando rivolgendosi verso la patria esclamava: Verso di te che fai tanto sottili Provvederementi, che a mezzo novembre Non giunge quel che tu d'ottobre fili.
(DANTE. Purg. C. VI) Ciascuno infatti avrebbe creduto, cacciato che fu da Firenze il duca d'Atene, che potessero i cittadini vivervi quieti, onorati e felici. Nondimeno tante erano le leggi, tanti gli ordinamenti di giustizia, disponenti per loro natura, piuttosto che a impedire, a promuovere divisione, che Firenze poco tempo ebbe a godere in pace il frutto della riacquistata libertĂ .
Erano corse infatti poche settimane, quando avvennero quei mali, dei quali erasi dubitato, e che mossero la cittĂ a nuovi rumori, battagliando il popolo contro i nobili barricati nelle loro torri, sulle testate dei ponti e nei capi strade: e fu tanto ostinata la zuffa contro i grandi, che questi si trovarono da ogni lato costretti a cedere all'impeto di tutta una popolazione armata, e quindi a lasciare l'ufizio dei Signori totalmente in mano degli artigiani.
Fu allora che dal partito vincitore si ripristinò il Gonfaloniere di giustizia, come al tempo di Giano della Bella, che si ammisero nel consiglio intimo della Signoria 16 gonfalonieri di arti e mestieri: per modochè tutto il regime governativo nell'arbitrio del popolo grasso e minuto si era ridotto.
Il solo benefizio che potesse servire in qualche modo ad acquetare i grandi fu quello d'inscrivere 500 magnati, fra la cittĂ e il contado, nella classe dei popolani, e conseguentemente di abilitare i medesimi agl'impieghi dello Stato.
A quest'epoca (anno 1344) risale l'istituzione delle compagnie de'Vigili, oggi appellati Pompieri, promossa dai molti incendj che ognora per la città accadevano; e fu destinata la campana cha si recò da Vernio, quando s'appigliava il fuoco di notte, a darne il cenno dai merli del palazzo del popolo.
Provvidesi eziandio all'indennità di coloro, i quali avevano prestato al Comune, con iscrivere i loro crediti nei libri del debito pubblico, mercè d'un provvedimento deliberato nel febbrajo 1345. Il qual debito si trovò che ammontava a 570,000 fÏorini d'oro; cui vi erano da aggiugnere quasi altri 100,000 fiorini per ragione della compra di Lucca, pretesi da Mastino della Scala. Pel quale debito la Repubblica accordò ai creditori dello stato il 5 per 100 d'usufrutto; ciò che diede origine al Monte dei 5 intieri (Mons quinqe integrorum), espressione talvolta specificata negli atti posteriori a quell'età .
A rinfrancare i creditori del Monte comune la Signoria di Firenze destinata aveva una parte delle rendite sopra le gabelle comunitative. Quali esse fossero, e a qual somma, all'anno 1338, ascendessero simili proventi e le maggiori risorse della Repubblica Fiorentina, lo lasciò scritto a memoria dei posteri Giovanni Villani nel libro XI della sua Cronica; al capitolo 92 della quale apparisce, che: il Comune di Firenze di sue rendite fisse aveva assai piccola entrata, ma reggevasi in quei tempi per gabelle, e nei casi di bisogno, per prestanze o imposte (balzello) sopra le ricchezze dei suoi cittadini. Le quali gabelle vendevansi annualmente all'incanto e rendevano al governo un anno per l'altro circa 300,000 fiorini d'oro,allorquando questa moneta si spendeva a ragione di lire 3 e soldi 2 a un circa; lo che corrispondeva a 930,000 lire. Allo stesso proposito nota pure il Villani, che nè il re di Napoli nè quello di Sicilia nè quello di Aragona avevano allora tanto d'entrata.
Rendite fisse di Firenze innanzi la peste del 1348 - Rendevano le gabelle delle porte pei generi che entravano, e che uscivano dalla cittĂ , fiorini 90,200 - Quella della vendita del vino a minuto, fiorini 58,300 - Lâestimo del contado; fiorini 30,100 - La rendita del sale; fiorini 14,450 - Totale fiorini 193,050 N. B. Le anzidette 4 maggiori gabelle erano destinate, nel 1338, a far fronte alle spese della guerra diLombardia, che in mesi trentuno e mezzo costò al Comune di Firenze piu di 600,000 fiorini d'oro.
- La gabella sopra i prestatori; fiorini 3,000 - La gabella dei contratti; fiorini 20,000 - La gabella delle bestie e dei macelli della città ; fiorini 15,000 - La gabella dei macelli del contado; fiorini 4,400 - La gabella delle farine e macinature; fiorini 4,250 - La gabella delle pigioni della città ; fiorini 4,150 - La gabella delle pigioni del contado; fiorini 550 - La gabella dei cittadini che andavano di fuori in impiego; fiorini 3,500 - La gabella delle accuse e scuse; fiorini 1,400 - La gabella dei mercati della città per le bestie vive; fiorini 2,000 - La gabella dei mercati del contado; fiorini 2,000 - La gabella del segno dei pesi e misure; fiorini 600 - La gabella della spazzatura delle biade sulla piazza d'Orsanmichele, e nolo delle bigoncie; fiorin i 750 - La gabella degli sporti delle case; fiorini 7,000 - La gabella delle Trecche, e Trecconi; fiorini 450 - La gabella della tassa a mallevadorÏa di portare d'arme, a soldi 20 per ciascuno; fiorini 1,300 - La gabella dei Messi; fiorini 100 - La gabella de foderi del legname che venivano per Arno; fiorini 50 - La gabella dei rischiami dei Cons. dell'Arti per ciò che toccava al Comune; fiorini 300 - La gabella degli approvatori di mallevadorÏe; fiorini 250 - I beni dei beni dei ribelli banditi rendevano, almeno; fiorini 7,000 - Il guadagno della zecca sulla moneta dell'oro valutasi; fiorini 2,300 - Quello sulla moneta dei quattrini e piccioli; fiorini 1,500 - I passaggi dei beni; fiorini 1,600 - Le condannagioni rendevano; fiorini 20,000 - I nobili del contado pagavano fiorini 2000 - L'entrata de'difetti de'soldati a cavallo e de'fanti; fiorini 7,000 - Quella delle prigioni; fiorini 1,000 - Totale fiorini 306,400 Si avverta che varie rendite, come quelle delle gabelle sulle mulina e pescaje, delle possessioni del contado, e altre minori entrate del Comune di Firenze, sono indicate senza darne la somma dallo stesso autore. Il quale dopo aver noverate nel capitolo susseguente (93) le spese dei diversi impiegati civili e militari della città di Firenze, discorre nel capitolo 94 del numero e classe dei suoi abitanti, delle quantità delle parrocchie, conventi, badie, ec. In guisa che stimavasi che fossero allora in Firenze da 25,000 uomini atti a portare arme, dai 15 in fino ai 70 anni, tutti cittadini, tra i quali 1500 nobili della classe dei grandi con 75 cavalieri di corredo.
Si battezzavano in questi tempi in San Giovanni per anno dai 5500 ai 6000 bambini; nel qual numero per altro è da avvertire esservi comprese le parrocchie suburbane dipendenti dalla pieve maggiore di S. Reparata.
Calcolavasi la popolazione totale della città a circa 90,000 bocche dal consumo del pane che bisognava di continuo, sebbene un tal calcolo fosse per riuscire assai fallace, sia perchè la maggior parte de'ricchi nobili e agiati cittadini stavano con le loro famiglie 4 mesi dell'anno, e taluni piÚ, nelle loro ville di contado, sia perchè molti di loro panizzavano per conto proprio.
Entravano in Firenze nel giro di un anno, da 55000 cogni di vino, e in tempi di abbondanza sino a 65000.
Si macellavano per anno i seguenti capi di bestie: Manzi e vitelle, circa N° 4,000 Agnelli, castrati e pecore, circa N° 60,000 Capre e becchi, circa N° 20,000 Majali, circa N° 30,000 Ogni giorno abbisognavano per gli abit. di Firenze grano, moggia N° 140 Entravano nel mese di luglio dalla porta S. Frediano some di poponi 4000, e tutte si distribuivano nella città .
I fanciulli e fanciulle che frequentavano le scuole di leggere erano circa N. 10,000 Quelli che imparavano l'abbaco in sei grandi scuole pubbliche, N. 1,200.
I giovanetti che studiavano grammatica e logica in 4 grandi scuole, N. 600 Le chiese, fra quelle della città e dei subborghi, N° 110 cioè Parrocchie, N° 57 Badie con 80 monaci, N° 5 Priorati, N° 2 Conventi di frati, N° 22 Monasteri con 500 donne, N° 24 Totale N° 110 Preti cappellani, N° 300 Spedali per 1000 poveri e infermi, N° 30 Botteghe dell'arte della Lana, N°200 Queste impannavano da 70 in 80 mila pezze di panni lani, che valevano 1,200,000 fiorini d'oro a un circa, e davano lavoro da vivere a piÚ di 30,000 persone.
I fondachi dell'arte di Calimala, ossia de'mercanti e acconciatori de'panni forestieri, erano intorno a venti. Essi acconciavano ogn'anno piĂš di 10,000 pezze di panni che facevano venire di Francia e da altre parti oltramontane, per la valuta di 300,000 fiorini d'oro, e tutti questi panni eran venduti in Firenze, senza contare quelli che si rinviavano all'estero.
I banchi dei cambisti erano circa 80.
Le botteghe di setajoli, 83 Si coniavano ogn'anno di moneta d'oro fiorini 350,000, e talvolta sino a 400,000. Di moneta d'argento da quattro piccioli l'una se ne batteva circa lire 20,000.
Il collegio de'giudici era di circa N.° 80 Quello dei notari N.° 600 I medici e cerusici circa N.° 60 Le botteghe de'speziali intorno a N.° 100 I forni della città N.° 146 I mercatanti e merciaj erano in gran numero, e da non potersi contare le botteghe delle arti e mestieri minori.
Oltre a ciò non vi era cittadino, popolano o grande, che non avesse già edificato, o che non fosse per costruire in contado una qualche possessione con belli edifizj e molto meglio che in città . "E sÏ magnifica cosa era a vedere, (cito le espressioni dello storico) che i forestieri non usati a Firenze venendo di fuori, i piÚ credevano per le ricche abitazioni e belli palagj che erano d'intorno a tre miglia a Firenze, che tutti fossono della stessa città , senza dire delle case, torri, cortili e giardini murati piÚ da lungi, talchè si stimava che intorno a sei miglia aveva tanti ricchi e nobili abituri che due Firenze non avrebbono tanti. Tale si manteneva lo stato di questa capitale dopo la cacciata del duca d'Atene, quando due piÚ micidiali e invisibil nemici, uno dopo l'altro, vennero ad assalirla, e giunsero quasi a distruggerla; voglio dire la desolatrice carestia del 1346, e 1347, e la memorabile pestilenza del 1348 da Giovanni Boccaccio con tanta eloquenza descritta.
Per i quali due flagelli mancarono in questa città quasi 100,000 persone: se pure non fu esagerato di troppo il novero dato dal Boccaccio; avvegnachè 10 anni innanzi, per asserzione di Giovanni Villani, rimasto vittima di quella pestilenza, la popolazione di Firenze, non compresi gli abit. delle parrocchie suburbane, stimavasi che fosse di circa 90,000 abitanti.
Gli assegnamenti che il Comune aveva accordati per proseguire la grandiosa fabbrica di S. Maria del Fiore in questi anni di traversie furono sospesi, siccome lo manifesta un'istanza degli Operaj di quel tempio presentata al magistrato della Signoria li 12 marzo 1350 stile comune; nella quale fu esposto: come fino dall'anno 1332 era stato ordinato dai Signori Priori, che quelli i quali compravano le gabelle del Comune pagassero agli Operaj della nuova cattedrale due denari per lira dell'incasso che ritraevano per servire alla detta costruzione; e siccome un tal ordine non era stato osservato, e per mancanza di mezzi gli Operai erano sul punto di dover sospendere la fabbrica con disonore del Comune, per ciò domandavano la conferma di tale provvisione. Infatti la Signoria rescrisse per l'esatto adempimento di ciò che fu deliberato nell'anno 1332.
(ARCH. DIPL. FIOR. Carte del Bigallo .) Ad accrescere nuova costernazione alla desolata città si aggiunse, tre anni dopo, la menifesta ostilità d'un potente principe in mess. Giovanni Visconti arcivescovo di Milano. Il quale, impadronitosi di Bologna, inviava per la valle del Reno un numeroso esercito, che, oltrepassato l'Appennino di Pistoja, scorrendo disertò le campagne delle valli dell'Ombrone e del Bisenzio sino quasi alle porte di Firenze. E ciò nel tempo stesso che si scoprivano fautori del Visconti gl'Ubaldini del Mugello, i Pazzi del Val d'Arno, gli Ubertini di Val d'Ambra e i Tarlati di Arezzo.
Finita che fu cotesta dispendiosa guerra con il trattato di Sarzana (anno 1353), Firenze ebbe che fare con le compagnie di avventurieri rimaste senza offerente che le assoldasse. E quasi che ciò non bastasse a tormentare i fiorentini, sopraggiunse altra cagione di scandalo per odio intestino di due potenti famiglie, gli Albizzi e i Ricci; le quali rinnovarono con la ripristinazione dei capitani di Parte Guelfa le tragiche scene dei partiti, e le persecuzioni verso i cittadini tenuti, o accusati per Ghibellini. In apparenza contro questi partitanti, ma in realtà per soddisfare le private vendette, fu data a quel magistrato di terroristi maggiore e piÚ dispotica autorità di prima, essendo in suo arbitrio di ammonire chiunque cittadino reputasse non perfetto Guelfo, privandolo per tal gastigo del diritto di poter concorrere ad esercitare alcun ufizio, o impiego civile nella Repubblica.
Ă avvegnachè un tal modo di procedere dispiacesse a molti, e inclusive a Uguccione dei Ricci che ne fu l'autore, questi essendo entrato uno dei priori (anno 1358), con altra legge provvide, che ai sei capitani di Parte Guelfa tre se ne aggiungessero, dei quali due fossero dei minori artefici, e che non si potesse ammonire un cittadino, se prima una deputazione di 24 Guelfi non confermasse la sentenza dei capitani di Parte, che aveva chiarito, o dichiarato uno come Ghibellino. Nè è da passare sotto silenzio, che in mezzo a simili vicende civili, politiche e naturali, la Signoria di Firenze riparava a forti spese straordinarie, come quella di pagare nel passaggio dellâimp. Carlo IV 100,000 fiorini (anno 1355) per la conferma degli antichi privilegj; di spenderne 35,000 per la costruzione delle mura castellane di S.
Casciano in Val di Pesa; e ciò nel tempo istesso che accerchiavasi la terra di Figline, e che abbellivasi la città col proseguire la sospesa fabbrica della cattedrale, col terminare il cerchio delle mura di Firenze fra porta S.
Gallo e porta la Croce, coll'ampliare la piazza del popolo, e col dar principio alla magnifica loggia dellâOrgagna, appena che questo insigne artista ebbe compito il sontuoso tabernacolo della Madonna d'Orsanmichele, il quale costò la forte somma di 80,000 fiorini d'oro.
A tanta prosperitĂ interna corrispondevano le cose di fuori, sia per l'espulsione della compagnia del conte Lando dal territorio fiorentino, per la quale Firenze accolse con pompa straordinaria e quasi in trionfo il capitano Pandolfo Malatesta condottiere dei suoi eserciti; sia per l'acquisto che si fece poco dopo (anno 1360) de'paesi tolti ai Tarlati agli Ubaldini e ai Belforti, famiglie nemiche della repubblica.
Se non che amareggiava l'animo di molti nobili cittadini la tirannia dei capitani di Parte Guelfa, i quali ad onta della legge del 1359, che doveva tenergli in freno, avevano ricominciato ad ammonire senza riguardo, o pietĂ .
Nè guari andò che alcuni nobili fiorentini, stati esclusi dagli impieghi come ammoniti pensando col danno pubblico vendicarsi delle offese private, trattavano niente meno che di dare Firenze in mano al Visconti di Milano.
Figurava nel numero dei congiurati Bartolommeo de'Medici, uomo ardito e di grande animo, il quale, o per rimorso di carità di patria, o per conoscersi in pericolo, svelò (anno 1360) il segreto a Silvestro, fratello piÚ virtuoso e di natura amantissimo della sua patria, pregandolo di provvedere allo scampo suo ed a quello della repubblica. Infatti i capi della congiura furono arrestati e decapitati, e tutti gli altri condannati all'esilio.
Con l'anno 1361, dopo molte reciproche violazioni di trattati, si venne ad un'aperta rottura tra i fiorentini ed i pisani; i quali erano da cinque anni inaspriti, per aver quelli abbandonato il Porto pisano e stabilito il loro commercio marittimo nella Maremma senese al porto di Talamone.
Nel mentre si viveva nella città con simili travagli, il Comune di Firenze non trascurava le cose politiche all'esterno; fra le quali una delle maggiori che accadessero nel 1361 fu di spedir gente a liberare Volterra dalla tirannia di Bocchino Belforti, mentre a lui porgevano aiuto i pisani. Ciò bastò a inasprire la ferita riaperta nel 1357 a cagione delle antiche franchigie tolte dalla repubblica di Pisa alle mercanzie dei fiorentine che venivano per la via di Porto pisano, e che costrinse il Comune di Firenze a rivolgersi verso Siena per giovarsi di uno dei suoi porti, benchè questo fosse piÚ remo to e assai meno comodo scalo.
Le piccole e indifferenti scaramuccie accadute, dal 1357 al 1361, fra i due popoli non presero l'aria d'un'aperta ostilitĂ se non dopo l'occupazione d'un castelletto sopra Pescia (Pietrabuona); pel quale si accese tale incendio, che diede occasione ad una guerra disastrosissima, tanto per Firenze, quanto per Pisa.
Avvegnachè, se la prima campagna fu quasi sempre nell'esito delle battaglie favorevole ai fiorentini, nella seconda e terza si rivoltò la fortuna dal lato dei pisani; sia per la morte del prode capitano Piero Farnese; sia per la peste che tornò a fare strage in Firenze, dove tolse ai viventi un altro storico in Matteo Villani; sia per l'ajuto di una numerosa compagnia d'avventurieri inglesi che, militando per la repubblica pisana, si diedero a percorrere a man salva e da ogni lato ardere e mettere a sacco il contado fiorentino sino alle mura della capitale.
Ma ogni scorno, se non bastò, a riparare tutti i danni accaduti, fu cancellato dalla sola giornata (ERRATA : del 29 luglio) del 28 luglio 1364, giornata che Firenze tuttora festeggia con la corsa del palio di S. Vittorio, in memoria della segnalata vittoria riportata in quel dÏ fra il paese di Cascina e la badia di S. Savino, dall'esercito fiorentino sopra l'oste pisana. Dopo sÏ decisiva battaglia, per stanchezza di spese, ma non di gare, fu conclusa la pace di Pescia, che tornò le cose allo stato di prima.
Fu allora che la Signoria di Firenze decretò nuovi assegnamenti di denari per compiere il terzo cerchio delle mura , per proseguire la gran torre di Giotto e la fabbrica della chiesa principale ridotta giĂ al chiudersi delle sue volte; e fu nellâanno 1366 che in questo sacro grandioso edifizio ebbe luogo la prima funzione pubblica, allorchè il cav. bresciano Guglielmo de'Pedezzocchi, come potestĂ di Firenze, prestò solenne giuramento nelle mani del Gonfaloniere di giustizia Michele Castellani assistito dai Priori delle arti, da'Collegj e da un immenso popolo.
Non lasciava per altro vivere in pace i fiorentini il sospetto che essi avevano di due grandi potentati, al momento che s'incamminavano verso l'Italia, il papa Urbano V da Avignone per la via di mare, e l'imperatore Carlo IV dall'Alemagna per l'Alpi della Chiarentana (Carniola).
Ma l'oro e la destrezza dei fiorentini bastarono a riparare tutto; talchè ad essi fu affidato il difficile incarico d'intromettersi paciarj tra la nobiltà e il popolo di Siena dopo la sollevazione del 1368, ch'ebbe a costar la vita a Carlo IV in mezzo a una numerosa cavalleria costretta a prendere la fuga; e fu pure opera dei fiorentini quella d'indurre (anno 1369) l'imperatore stesso a rimettere alla testa del governo di Pisa Piero Gambacorti, ch'egli medesimo pochi anni innanzi aveva fatto esiliare dalla sua patria.
Il quale ultimo avvenimento fu di preludio a ristabilire con profitto reciproco fra i pisani e i fiorentini le antiche franchigie delle mercanzie, tornando questi ad approdare con i loro legni al Porto pisano, e abbandonando quello piĂš remoto e meno sicuro della Maremma senese.
In una parola la politica fiorentina pervenne quasi nel tempo stesso a sventare i disegni di Bernabò Visconti sopra la Toscana coll'impedire che si rimettesse in Pisa l'ex doge Agnello suo partitante, col recuperare la Terra di Sanminiato ad onta di un esercito milanese che difendeva i sollevati, col prestarsi generosamente a favore dei lucchesi perchè prendessero cura contro i maneggi della biscia di Milano, coadiuvandoli col denaro, per ridurre il vicario dell'imp. Carlo IV a lasciare Lucca in libertà . Nè in questo mentre la Signoria di Firenze si stava dal richiamare le forze e il pensiero del nemico verso i suoi stati, portando la guerra in Lombardia, sebbene questa riescÏ di corta durata.
Ma per fatalitĂ delle cose umane, se il piĂš delle volte le guerre esterne solevano attemprare e assopire le discordie interne, la pace con le potenze limitrofe era quasi costantemente per Firenze il preludio di sollevazioni domestiche e di battaglie civili.
Per i suoi meriti nella guerra pisana di grande era stato fatto popolano il valoroso difensore di Barga, Benchi de'Buondelmonti, mercè cui egli diveniva abile a poter sedere nel magistrato de'Signori.
Nel tempo che il Benchi aspettava di entrare dei Priori si fece una legge: che niuno de'grandi fatto del popolo potesse esercitare quella magistratura se non dopo un intervallo di anni venti, a meno che la persona graziata non mutasse arme e casato, rifiutando la consorteria e parentela antica.
Il quale maligno divieto mosse a sdegno la persona che piĂš di ciascun'altra era stata presa di mira, sicchè il Benchi, accozzatosi con Piero degli Albizzi dittatore della setta de'Guelfi, indusse il tirannico magistrato della Parte a tornare ad ammonire con piĂš ferocia di prima . â Per le quali sciagure molti probi cittadini mossi dall'amore della patria, dopo varii consigli si recarono nel palazzo del popolo per indurre la Signoria a porre un rimedio a cotanto arbitrario e oppressivo procedere contro il vivere libero in un paese che aveva nome e stemma di libertĂ .
Il provvedimento preso (anno 1372) dai Signori fu di creare i Dieci di LibertĂ , e di affidare a 56 cittadini il difficile incarico di liberare con mezzi opportuni la Repubblica da tali ingiustizie. Tale provvedimento appunto servĂŹ per dimostrare quanto fosse vero l'assioma politico del Machiavelli, quando disse: che gli assai uomini, sono piĂš atti a conservare un ordine buono, che a saperlo per loro medesimi ritrovare. â Infatti i 56 deputati a tanto negozio pensarono piĂš a spegnere le esistenti sette di quello che a tor via le cagioni delle future, nè l'una cosa nè l'altra conseguirono. Imperciocchè essi esclusero per un triennio da tutte le magistrature tre principali individui delle famiglie Albizzi e Ricci, e fra questi Piero degli Albizzi e Uguccione de'Ricci; eccetto che dal potere essere ammessi fra i capitani di Parte, cagione primaria di ogni scandalo. La quale deliberazione, se tolse per eguale misura ai due capi di setta il seggio della Signoria, quello del magistrato de'Guelfi restò aperto a Piero degli Albizzi, dove teneva grandissima autoritĂ ; e se prima egli e i suoi fautori erano all'ammonire caldi, diventarono dopo questa ingiuria ardentissimi. Alla quale mala volontĂ nuovo ardire si aggiunse, dopochè nel 1373, per timore di quel tremendo tribunale, non solo fu rigettato dal senato fiorentino il progetto di una legge il cui scopo era: che nessuna ammonizione avesse effetto per l'avvenire, se prima non fosse approvata dal magistrato de'Signori e dai Collegj, ma appena che escĂŹ di signoria il Petrobuoni, da cui tal riforma venne proposta, fu egli arrestato e, quasi per grazia, condannato all'esilio dai Robespierre della Repubblica fiorentina.
A coteste vendette cittadine si aggiunsero pubbliche afflizioni colla carestia del 1374, e con l'ostile contegno del cardinal di S. Agnolo Legato di Bologna; il quale, anzichè sovvenire i fiorentini di viveri, mentre di questi tutta Romagna abbondava, come apparÏ la primavera del 1375, con grande esercito valicò l'Appennino di Firenzuola nell'animo di affamare e cosÏ di poter impadronirsi di Firenze. La qual impresa sarebbe succeduta secondo i suoi voti, se le truppe mercenarie fossero stale piÚ fedeli al Legato, e se ai fiorentini fosse mancato il rimedio potentissimo, cui sapevano ricorrere nei mali piÚ perigliosi, per corrompere la compagnia inglese, mercè il regalo di 130,000 fiorini d'oro, obbligandola ad abbandonare il cardinale ed a rispettare per 5 anni il dominio fiorentino.
Nè questo bastò alla Signoria intenta a punire l'ambizioso porporato nemico. Imperocchè quella guerra, che non si voleva in casa propria, fu portata nello stato donde era partita. Si creò tosto un magistrato di otto cittadini, chiamati dal popolo gli Otto Santi della guerra, con autorità di poter operare senza appello, e spendere senza darne conto. Si fece lega con Bernabò Visconti, si posero delle tasse sul clero, e si giunse in pochi mesi a far ribellare al pontefice molte città , fra le quali ForlÏ, Gubbio, Città di Castello, Perugia, Todi, Viterbo e Bologna, da dove al legato convenne ritirarsi quasi in fuga. Cosicchè nei tre anni che durò la guerra i fiorentini dimostrarono coi fatti alla Corte romana, come prima suoi amici l'avessero costantemente e validamente difesa, cosÏ suoi nemici la potevano senza timore affliggere e mettere a soqquadro.
Essendo morto il papa Gregorio XI (anno 1378) e rimasta Firenze senza guerra di fuori, tornò a viversi in gran confusione dentro la città , dove i capitani di Parte erano giunti a tanta audacia che, nè ai Signori nè agli Otto di guerra portavano alcuna riverenza, per modo che coll'ammonire divennero gli arbitri del potere e i padroni di escludere dagli ufizj piÚ importanti della repubblica chiunque da loro fosse stato preso di mira.
La prima coraggiosa resistenza a questa tirannia venne da una famiglia di ricchi popolani, che acquistando sempre piÚ credito e fortuna si pose piÚ tardi al timone della repubblica, e finalmente se ne appropriò tutto il carico.
Quel messer Silvestro de'Medici, che pochi anni innanzi aveva svelato alla Signoria la congiura, in cui era implicato il di lui fratello, quello stesso fu il promotore di una legge che l'oligarchia dei capitani di Parte doveva raffrenare, e agli esuli, al pari che agli ammoniti, dare speranza di poter essere alla patria e alle dignitĂ richiamati.
La legge stessa arringata, combattuta e finalmente approvata, richiamò alla piazza dei Signori un immenso popolo che mise a scompiglio tutta la città , e che partorÏ la popolare sedizione, meglio conosciuta sotto nome di tumulto de'Ciompi, e provocata dall'infima plebe, la quale invitò mess. Silvestro de'Medici a farsene capo.
Scoppiò la rivoluzione nel 20 luglio del 1378, e il giorno appresso sedeva in palazzo il gonfaloniere de'Ciompi Michele di Lando. Questo plebeo, di arte scardassiere, deliberò quietare la città e fermare i tumulti con tali ordini di giustizia, che lo dimostrarono cotanto sagace e prudente, da dovere piuttosto alla natura che alla fortuna tenersi obbligato. E per dar principio alla riforma della città egli rinnovò i sindachi delle arti, privò del magistrato i Signori e i Collegj, arse le borse degli ufizj, licenziò gli Otto della guerra, e fece dai nuovi sindachi delle arti creare la Signoria, quattro della plebe minuta, due delle arti maggiori e due delle minori. Dette a Silvestro de'Medici l'entrate delle botteghe del Ponte Vecchio, e a se stesso riservò la potesteria d'Empoli. Ma non trovando la plebe buona la riforma fatta dal suo partigiano, si sollevò contro di lui, che seppe coraggiosamente affrontarla e tenerla a dovere con fermezza, prudenza e valore; sicchè terminato il tempo della magistratura di cui fu onorato, lo accompagnò una grandissima moltitudine dal palazzo alla sua casa privata, preceduto dai donzelli della Signoria con l'arme del popolo, una targa, una lancia e un palafreno ornato magnificamente, in testimonianza delle virtÚ da esso dimostrate.
Spenta la sedizione, rimase un occulto fermento in varie classi di cittadini; il pubblico ben presto si nauseò del puzzo degli uomini di vile mestiere, che in grazia della riforma de'Ciompi erano pervenuti a sedere in palazzo accanto ai nobili popolani. I malcontenti di dentro, dando maggior ansa ai cittadini esuli, tenevano con essi loro strette pratiche per richiamarli in città a costo anche di dare la patria in mano a una qualche potenza nemica.
Il che era cagione che in Firenze con grandissimo sospetto si vivesse, e che si prestasse facilmente fede alle segrete delazioni; cosicchè accusati molti de'grandi, come traditori della patria furono giudicati. Nè a Piero degli Albizzi giovò la grandezza della casa, nè l'antica riputazione sua, per campare la vita.
Ai quali pericoli, oltre l'aggiungere altre leggi e nuove armi soldare in fortificazione e difesa del Comune, con una somma di danari si provvide che il re Carlo di Durazzo, su cui i fuorusciti appoggiavano ogni speranza, nel passaggio dalla Toscana non recasse molestia alcuna alla Repubblica fiorentina.
In mezzo a tanti avvenimenti la tranquillitĂ interna non fu sconvolta, se non quando (anno 1381) la violenza di due popolani tolse ad armata mano dalle carceri del capitano del popolo un falso e vilissimo accusatore d'innocenti e ragguardevoli cittadini, meritamente condannato al supplizio.
Tale violenza scandalizzò la città ; e Giorgio Scali, uno dei suoi promotori, venne arrestato, giudicato e con alcuni dei suoi piÚ stretti amici in mezzo al popolo armato in pubblica piazza decapitato. E perchè Firenze era piena di diversi umori e desiderii, ognuno, innanzi che l'armi si posassero, di conseguirli a seconda della propria passione agognava; tanto che per lo spazio d'un anno si andò per la città tumultuando, ora dal partito dei grandi, ora dai nobili popolani, ed ora dagli artigiani minori e dal popolo minuto. In conclusione, prima che terminasse l'anno 1381, si formò un governo, per il quale alla patria tutti i confinati dal giugno 1378 in poi si restituirono, nel tempo stesso che ripristinossi il magistrato della Parte, e che alle arti infime e alla plebe fu tolto l'onore dai Ciompi accordato di essere ammessa agli ufizj e alle magistrature della Repubblica, riducendo al terzo i Priori delle arti minori, ed escludendo questi dalla dignità di gonfaloniere di giustizia. Fra le molte provvisioni e riforme fu pure ristretto l'abuso di far grandi i popolani, e arcigrandi i grandi o magnati.
Cadde sotto la giustizia del capitano del popolo un seguace del decapitato Giorgio Scali, Ciardo vinattiere plebeo, la di cui taberna nei Camaldoli di S. Lorenzo porta tuttora il nome di Cella di Ciardo . Costui dovè subire la stessa sorte del suo protettore, quando un nuovo tumulto popolare si levò, nel febbrajo del 1382, che produsse l'esilio di un numero grande di cittadini; fra i quali parve sopramodo cosa detestabile che fosse compreso Michele di Lando, dimenticando le singolari sue virtÚ di avere salvato, nel 1378, Firenze dal furore e dalle rapine di un'ebria canaglia.
Fermata finalmente la sommossa con severi castighi, visse Firenze infino al 1393 bastantemente quieta, ma non esente dal vedere i cittadini esiliati e ammoniti; nel tempo che la repubblica al di fuori estendeva il suo territorio con la compra della cittĂ e contado d'Arezzo (anno 1384).
Tale acquisto, che assai rallegrò i fiorentini, fu bentosto amareggiato dagli avvenimenti che accadevano nell'Italia superiore, dopochè Giovanni Galeazzo conte di VirtÚ, impossessatosi della persona di Bernabò suo zio, si era reso di tutta Lombardia principe. Imperocchè Vicenza, Verona e Padova con tutte le terre dei Signori della Scala e dei Carraresi erano cadute in potere del Visconti, quando egli rivolse le armi e gli artifizj verso la Toscana per staccare Pisa, Siena ed Arezzo dall'amicizia de'fiorentini.
Ma i reggitori di Firenze in mezzo a tanti pericoli, a tanti segreti maneggi, a sÏ numerose armate, che sotto le insegne della biscia milanese militavano, non si lasciarono punto nè poco spaventare; e se era piÚ cauto uno dei suoi condottieri di eserciti, il conte Giovanni d'Armagnac, davanti Alessandria della Paglia, (anno 1391) il duca di Milano andava a rischio di perdere il proprio invece d'impossessarsi degli stati altrui.
La reciproca stanchezza, benchè gli odj non fossero scemati, fece prestare orecchia alle proposizioni di pace, la quale si concluse in Genova nel gennajo del 1392; mercè cui ritornarono entrambe le parti nello stato in cui erano prima della guerra, dopo avere sofferto danni scambievoli, immense spese e fatiche. E perchè dagli agenti del nemico si domandava idonea mallevadoria per osservare il convenuto trattato, Guido del Palagio, uno degli ambasciatori fiorentini, a quel congresso con grandezza d'animo rispose: La spada sia quella che sodi, poichè Giovanni Galeazzo ha fatto esperienza delle nostre forze e noi delle sue. (AMMIR. Istor. Fior. lib.
XV.) Attendeva la Repubblica fiorentina a respirare dalle passate molestie, e a provvedere con nuove leggi a riempire la cittĂ di abitazioni, obbligando chiunque veniva fatto cittadino a fabbricare una casa in Firenze, almeno di cento fiorini d'oro, e condannando al doppio coloro che non avessero soddisfatto a tale obbligo imposto con precedente riformagione del 1378. CosĂŹ provvidesi ad accrescere il numero de'cappellani nella nuova cattedrale fiorentina, affinchè si celebrassero i divini ufizj con maestĂ proporzionata al tempio e al carattere di un popolo devoto e dovizioso, e quindi pubblicossi una legge, che per ciascun testamento legato, o codicillo si dovessero pagare soldi venti allâOpera di S. Reparata Nel principio dell'anno 1393, seguitando le cose ad essere quiete, si ridussero le scritture pubbliche nei libri che sino ai nostri giorni portano il nome delle Riformagioni; e questi, conservati nella sala de'grandi del palazzo del popolo, vennero affidati alla diligenza e fede di due probi cittadini.
Vedendo poi, che la moneta del fiorino d'oro per la sua bontĂ era trasportata fuori, dove cambiavasi con guadagno, fu proibito di estrarre dal territorio della Repubblica piĂš di 50 fiorini d'oro per volta, nel tempo stesso che si accrebbe del cinque per cento la valuta del fiorino nuovo in confronto di quello del suggello vecchio.
Cessò la quiete interna della città tostochè prese possesso del gonfalonierato di giustizia (settembre 1393) Maso di Luca degli Albizzi, nipote di Piero a cui nel 1379 fu mozzo il capo. Serbava egli nell'animo fresca la memoria dell'offesa con ferma deliberazione di vendicarsi (quando ne avesse il destro) de'suoi nemici, e in particolare degli Alberti: a uno dei quali (Benedetto) la morte di Piero degli Albizzi fu imputata. Maso colse l'occasione di uno, che sopra certe pratiche tenute coi ribelli fu esaminato, il quale diversi individui degli Alberti fra i complici di quella congiura nominò. Per la qual cosa molti di costoro venendo arrestati, fu deliberato che tutti della stirpe Alberti, salvo Antonio e i fratelli suoi, figli di Niccolao, fossero fatti de'grandi e confinati, nel tempo che molti popolani furono ammoniti o morti. Tante ingiurie e condanne mossero le arti e il popolo minuto a sollevarsi, parendogli che fosse tolto loro l'onore e la vita. Una parte di costoro corse a casa di Vieri de'Medici, il quale dopo la morte di Silvestro suo cugino, era rimasto capo di quella potente famiglia popolana rammentandogli, che come Silvestro aveva salvata la patria dalla tirannia di Piero degli Albizzi, cosÏ da lui il popolo fiorentino sperava che dagli artigli del nuovo gonfaloniere e dei suoi fautori lo liberasse.
Non mancò che la voglia a Vieri di farsi principe della città , nè mancò chi al medesimo suggerisse quello che poteva fare. Ma pensando all'instabilità del favore della plebe, che vede freddamente salire sulla forca chi il giorno innanzi avrebbe posto sul trono, Vieri diede buone parole, andò al palazzo de'Signori per confortargli alla moderazione, e indusse il popolo a posare le armi, promettendogli giustizia. Non per questo il discorso del Medici moderò il contegno del gonfaloniere, nè le condannagioni e gli esilj si videro diminuire, e molto meno revocare.
Fra cotesti ed altri simili tentativi degli esuli e dei malcontenti che avevano in mira di riformare a loro piacere il governo della cittĂ , il duca di Milano non perdeva mai l'occasione di tenere in scatto, ora con artifiziose proteste di pace, ora mediante un'apparente tregua, e ora con guerra aperta, i reggitori del dominio fiorentino.
Infatti non era appena firmato a Genova il trattato del 1392 che il conte di VirtÚ, indispettito di non aver potuto staccare dall'amicizia dei Fiorentini Piero Gambacorti signore di Pisa, si rivolse a corrompere l'ingrato segretario di lui, Jacopo di Appiano, al punto da farne il sicario del proprio padrone, adescato di sottentrare al medesimo nel governo della città ; la quale mercè di tal perfidia serva divenne del potente protettore. A sostenere il nuovo tiranno di Pisa, furono dal duca inviate in Toscana alcune compagnie di avventurieri per allettare Jacopo d'Appiano a cose maggiori non senza lusinga di soggiogare anche Lucca; siccome il Visconti adopravasi nel tempo stesso a togliere ai Fiorentini la Terra di Sanminiato, dando speranza a Benedetto Mangiadori d'essere l'arbitro della sua patria. Se non che un simile attentato per fedeltà dei Sanminiatesi e delle popolazioni limitrofe verso la repubblica fiorentina non sortÏ l'effetto desiderato.
Imperocchè i Sanminiatesi armati in massa assediarono il Mangiadori nel pretorio medesimo, dove egli barbaramente poco innanzi aveva assassinato (20 febbrajo 1397) un inerme senatore fiorentino, Davanzato Davanzati, mentre costà esercitava l'ufizio di vicario.
Se a cotali cose si aggiungano i forti armamenti del duca di Milano, le scorrerie e i danni che si facevano per la Toscana dalle masnade assoldate dallo stesso Visconti, nel tempo che egli tirava nel suo partito i reggitori di Siena ed era giĂ principe di Perugia, non vi è da domandare qual risoluzione dovesse prendere un popolo accorto e potente, che vedeva da ogni intorno inceppate le sue comunicazioni commerciali e torglisi una dopo lâaltra le principali risorse tendenti a conquiderlo, impoverirlo ed abbatterlo.
Fu risoluta la guerra con pieno arbitrio ai Dieci della balĂŹa onde la spingessero con vigore non solo in Toscana, ma la portassero anche in Lombardia, cercando da ogni parte e a qualunque prezzo armi e collegati contro il prepotente tiranno dell'alta Italia.
Questa seconda guerra col duca di Milano ebbe fine, o piuttosto fu sospesa, con la tregua pubblicata nel maggio 1398, poco innanzi che accadesse in Pisa la morte d'Jacopo d'Appiano; al quale succedè nel governo il figlio Gherardo. Ma, non avendo nè il coraggio nè l'accortezza del padre per sostenere la potenza ereditata di fronte a un'apparente protettore che voleva con l'inganno, o con la forza soggiogare e impadronirsi di tutte le repubbliche della Toscana, Gherardo diede ben presto ascolto alle proposizioni di Giovanni Galeazzo, al quale consegnò per il prezzo di 200,000 fiorini d'oro la città e territorio di Pisa, riservando per sè l'assoluto dominio dell'isola d'Elba, del lerritorio di Piombino, e di pochi altri minori castelli fra la Cornia e il padulo di Castiglione.
Fu questo un colpo di fulmine che afflisse i Fiorentini piÚ che se avessero perduta una battaglia campale. Tentò il duca eziandio, per mezzo d'un altro iniquo attentato, d'impossessarsi di Lucca; e ciò col persuadere un fratello ad uccidere l'altro fratello, Lazzaro Guinigi, che aveva la maggioranza nella sua patria. Fu anche per opera dello stesso Visconti, che ebbero ardire di ribellarsi dai Fiorentini molti degli Ubertini ed alcuni dei conti Guidi; nel tempo che i Senesi incantati dal sibilo di quella serpe si lasciavano accerchiare dai suoi avvolgimenti, cedendo alle truppe milanesi la stessa capitale con le principali fortezze della loro repubblica.
A tanto sbigottimento e precipizio delle cose politiche in Toscana si aggiunse nuova sciagura nella pestilenza, la quale percorrendo l'Italia fece una strage orribile in Firenze per rendere ad essa sempre piĂš tristo l'ultimo anno del secolo XIV.
Lo sdegno dei Fiorentini verso il duca milanese andava tanto maggiormente inasprendosi, quanto piĂš si moltiplicavano le offese, e quanto meno queste erano dirette e scoperte onde poterle rintuzzare.
Alle quali cose si aggiunse (anno 1401) il timore che Bologna, caduta sotto la signoria di Giovanni Bentivoglio, non fosse in grado neppure essa di resistere alle astuzie del Visconti; mentre egli non ebbe ribrezzo di maneggiarsi in questo tempo, perchè morisse di veleno l'eletto imp. Roberto di Baviera, col promettere al venale suo medico 40,000 fiorini d'oro. Tale iniquità determinò l'offeso Augusto a scendere sollecitamente in Italia con un'armata di 15,000 uomini a cavallo, ed un buon numero di fanti, nell'intenzione di sbalzare di seggio e di punire il Visconti; alla quale impresa veniva non meno caldamente stimolato dai Fiorentini con la promessa di grandi somme di denaro. Ma per fortuna del duca diMilano, dopo il primo scontro d'armi accaduto verso Brescia con la peggio dei Tedeschi, l'imperatore trovossi abbandonato dalla maggior parte de'principi alemanni che lo avevano accompagnato con le loro milizie in Italia; cosicchè ai Fiorentini aumentarono i pericoli, dopo aver pagati senza alcun vantaggio 200,000 fiorini a Roberto prima che egli ritornasse in Germania.
Intanto lo sforzo della guerra dalle vicinanze di Milano si ridusse intorno a Bologna (anno 1402), alla cui difesa erano accorsi con l'oste fiorentina molti collegati; ma questi, invece di tenersi dentro le mura, vollero azzardare la battaglia tre miglia lungi dalla città , al ponte di Casalecchio, dove restò, sconfitta dai milanesi l'armata della lega, che poco dopo perdè Bologna, ultimo propugnacolo della repubblica fiorentina.
Ma allora quando Giovanni Galeazzo non aveva quasi piÚ ostacoli da superare per impadronirsi di Firenze, cinta per ogni parte dalle sue forze; quando faceva preparare un diadema d'oro per incoronarsi sulle sponde dell'Arno in re d'Italia; mentre fuggiva la peste di Pavia, egli fu colpito improvvisamente dalla morte sulle rive del Lambro (3 settembre 1402); cosicchè per inaspettata fortuna la repubblica fiorentina si trovò fuori di un pericolo che minacciava la sua esistenza politica; e cosÏ ebbe fine una delle guerre piÚ lunghe e piÚ disastrose che contino gli annali di Firenze.
Le grandi turbolenze insorte nello stato milanese e in tutti i paesi dove Galeazzo teneva guardia e signoria, ricondussero ben presto Bologna e Perugia sotto il dominio del Papa, e fecero risolvere poco dopo anche i Senesi a escire di mano ai Visconti di Milano e a rappacificarsi coi fiorentini. Era intanto Pisa toccata a un figlio naturale del conte di VirtÚ (Gabriello Maria), che governava il paese con poca soddisfazione dei suoi abitanti. Dondechè la Signoria di Firenze, sperando di potere occupare Pisa per sorpresa, fece marciare segretamente verso quella città un esercito, che fu non solamente dai Pisani respinto, ma che mosse gelosia nei reggitori della repubblica di Genova, per timore che Firenze dopo la conquista di Pisa, fosse per divenire potenza marittima.
Si maneggiarono quindi i Genovesi con Gabbriello Maria, e col re di Francia, per chè volessero prendere il novello Signor di Pisa sotto la loro accomandigia. Accertata una tale protezione, fu intimato al governo di Firenze di desistere da ogni ostilità contro il protetto pupillo milanese; ma vedendo che i Fiorentini non prestavano orecchie a simili minacce, furono sequestrate le molte merci che essi possedevano in Genova, nel mentre che Buccicaldo maresciallo di Francia e governatore de'Genovesi presidiava di gente e di navigli Livorno e altre fortezze del littorale pisano. Convenne alla Signoria di Firenze cedere all'urgenza e adattarsi a una tregua col Visconti (anno 1404) promossa e intavolata dal Buccicaldo, da quello stesso che un anno dopo offerse segretamente la compra di Pisa ai Fiorentini, cercando di persuadere Gabbriello Maria ad aderirvi stante la difficoltà di poter conservare quella città .
I Pisani avendo potuto trapelare un tale negoziato si sollevarono e dopo fiera zuffa (21 luglio 1405) costrinsero Gabbriello a ricoverarsi colla madre e coi suoi soldati nella cittadella, e di la fuggire a Sarzana. Ciò determinò il Visconti a conchiudere il trattato della vendita di Pisa e del suo territorio con Gino Capponi a tal uopo incaricato dal Comune di Firenze, per modo che la guarnigione lasciata quivi dal Visconti dovette consegnare la cittadella di Pisa con le fortezze di Ripafratta e di S. Maria in Castello ai Fiorentini, obbligandosi questi a pagare al venditore 200,000 fiorini d'oro.
Ma benchè la cittadella di Pisa al pari delle altre due fortezze dalle milizie milanesi venisse consegnata alle truppe fiorentine, non per questo i pisani si lasciarono cosÏ facilmente porre il giogo per ubbidire a de'padroni che da gran tempo odiavano. In guisa che mentre la guarnigione fiorentina prendeva le disposizioni opportune per soggiogare la città di Pisa, avvenne che, per negligenza o vigliaccheria delle sentinelle, il presidio della cittadella fu sorpreso e fatto prigione dai Pisani armati in massa alla presenza di tutto un esercito fiorentino accampato fuori della città .
La novella di questa perdita rattristò Firenze, e quindi mosse a sdegno la Signoria un'ambasciata orgogliosa inviata dai Pisani a richiedere con espressioni quasichè derisorie le fortezze di Ripafratta e di S. Maria in Castello. Cosicchè la guerra fu di comune consentimento deliberata gagliarda per terra e per mare contro i Pisani, i quali dal canto loro si prepararono a sostenerla con il maggior loro sforzo e la piÚ ostinata risoluzione.
Gino Capponi e Maso degli Albizzi furono destinati commissarj dell'esercito in tale impresa ma il Capponi sopra ogni altro si distinse per le provvide disposizioni da esso date nell'esercito, affinchè Pisa restasse per ogni lato circondata da formale assedio, per impedirle di ricevere qualsiasi specie di soccorso.
Quantunque la grande strettezza delle vettovaglie facesse sperare che la cittĂ assediata non potesse lungamente resistere, non ostante la Signoria di Firenze caldamente desiderava di averla sollecitamente per mezzo della forza.
Si credè perciò di far rimpiazzare Gino Capponi e Maso degli Albizzi da due nuovi commissarj, Vieri Guadagni e Jacopo Gianfigliazzi, i quali giunti al campo promisero grandi ricompense ai soldati, se riescivano a penetrare di assalto dentro Pisa. L'esercito fiorentino tentò infatti di notte tempo la scalata dalla parte sinistra dell'Arno, ma i Pisani animosamente vi accorsero armati, ributtando con grave perdita gli assalitori dalle mura della città .
Compresa la difficoltà di guadagnare Pisa per scalata si accerchiò di piÚ stretto assedio,si cambiò il generale e si rinviò al campo Gino Capponi; il quale in un sol giorno (21 giugno 1406) seppe rappacificare con incredibile destrezza gli umori inaspriti dei due coraggiosi capitani dell'esercito fiorentino, rendendoli entrambi nel tempo stesso piÚ utili all'opera. Frattanto gli assediati scarseggiando ognor piÚ di viveri d'ogni specie, si risolsero a cacciar fuori di Pisa le bocche inutili; la qual cosa sembrando che fosse per portare piÚ in lungo la guerra, determinò i commissarj fiorentini a bandire nel campo, che qualunque uomo uscendo dalla città venisse fatto prigione, sarebbe impiccato, le donne bollate in viso e scorciati i loro panni infino sopra il ventre. Tali ed altre non meno aspre misure, come quella di far gettare in Arno un messo del duca di Borgogna, inviato al campo dei Fiorentini per intimare al loro esercito in nome del suo padrone di astenersi dal molestare Pisa, tolsero viepiÚ speranza di salvezza agli assediati. Perlochè Giovanni Gambacorti, che allora reggeva la suddetta città , pensò di fare intendere segretamente alla Signoria di Firenze: che dove egli fosse certo di ottenere alcune oneste condizioni, tratterebbe la resa di Pisa e del suo dominio.
Si diede facoltĂ ai commissarj fiorentini di stipulare la capitolazione, le condizioni della quale furono infatti piĂš vantaggiose al Gambacorti che ai Pisani. â Vedere PISA.
Allora Gino Capponi, la mattina deâ9 ottobre 1406, marciando alla testa dellâesercito, entrò placidamente in Pisa, dopo aver minacciato con bando e con le forche alzate, che sarebbe impiccato chiunque avesse avuto ardire di saccheggiare la troppo afflitta e sparuta cittĂ .
CosÏ cessò la pisana Repubblica; e quella città che per quattro secoli figurò tra le prime potenze marittime dell'Europa, e che fu un tempo si grande magnifica e popolosa, da quel momento in poi vide strapparsi ogni sua ragione di stato, sparire dal novero dei governi della Toscana, per vivere spossata e solinga nell'ozio del suo servaggio.
STATO DI FIRENZE DAL 1406 SINO ALLA CONGIURA DEI PAZZI Comecchè il mantenimento della guerra di Pisa avesse costretto la Signoria di Firenze a creare con nuove imprestanze un nuovo Monte comune, non lasciava in questo mentre di abbellire sempre piÚ la città .
Avvegnachè si provvide a decorare l'esterne pareti della fabbrica d'Orsanmichele con assegnare a ciascuna corporazione delle arti una nicchia o pilastro per collocarvi le statue di marmo o di bronzo dei santi protettori, lavorate dai migliori maestri; e ciò nel tempo che uno di questi, Lorenzo Ghiberti, per commissione dell'arte di Calimala, fondeva le maravigliose porte del Battistero. Fu eziandio dopo finita la guerra pisana che gli operaj di S. Maria del Fiore insieme ai consoli dell'arte della lana decretarono di fare innalzare quella maestosa cupola che mostra il genio del sommo artefice Filippo Brunelleschi.
Non mancarono ciò non ostante ai Fiorentini occupazioni di maggior momento per l'ostinatezza di due papi (Benedetto XIII e Gregorio XII), i quali nel mentre che contrastavansi le chiavi di S. Pietro, tenevano agitata e divisa la cristianità . Le premurose istanze dei reggitori di Firenze, unite a quelle di altri governi italiani, indussero finalmente i padri della chiesa a tenere un concilio in Pisa, dove fu eletto in legittimo pontefice (26 giugno 1409) il cardinale Pietro di Candia, che prese il nome d'AlessandroV, senza peraltro che i due rivali v'intervenissero per deporre, come promettevano, la tiara.
Uno di essi, Gregorio XII, era protetto da Ladislao re di Napoli, il quale dopo essersi impadronito di Roma, inoltravasi con poderosa oste in Toscana, disertando il contado senese, e minacciando cose peggiori ai Fiorentini.
L'arrivo dell'oste napoletana alle porte di Siena, e le mosse che di là prendeva per invadere il territorio della Repubblica fiorentina, guastando e mettendo a ruba quanto incontrava, determinarono la Signoria ad opporvisi con quante maggiori forze poteva. Per tale effetto strinse lega con i Senesi, col cardinal Coscia legato pontificio e con Luigi II d'Angiò rivale a Ladislao nella successione del regno di Napoli, e come tale del pontefice Alessandro V proclamato in Pisa.
L'unica impresa che in quel frattempo riescisse all'esercito napoletano fu d'impadronirsi (30 giugno 1409) per mezzo di pratiche tenute con quei di dentro, della città di Cortona; la quale poscia Ladislao, per rappacificarsi cedè al Comune di Firenze, (gennajo del 1411) mediante il prezzo di 60,000 fiorini d'oro; dopo che la repubblica ne aveva consumati in quelle ostilità piÚ di 600,000.
Trovandosi i Fiorentini stanchi da tante vessazioni e smunti da straordinarie spese, rivolsero l'animo a porre un freno ai suoi governanti, affinchè in avvenire non potessero muover guerra, far leghe, o confederazioni, ne inviare eserciti fuori del dominio, o dove la Repubblica fiorentina non aveva giurisdizione, se prima il progetto non venisse approvato da quattro diversi consigli; cioè 1.° da quello de'200: 2.° dal consiglio de'131; 3.° da quello del Capitano ossia del Popolo: 4.° finalmente dal consiglio del Potestà , ovvero del Comune.
Una delle piĂš importanti deliberazioni di queste quattro Camere fu di convertire in legge dello Stato (anno 1415) la compilazione degli Statuti fiorentini, stata affidata a una commissione composta di cinque esperti cittadini, assistiti da Paolo di Castro e da Bartolommeo Volpi da Soncino, due sommi giureconsulti che allora leggevano nello Studio di Firenze.
In questo medesimo tempo vennero istituiti i vicariati di Mogello e di Val d'Elsa, destinando la residenza loro a Scarperia e a Certaldo, quando già il vicario del Val d'Arno di sopra aveva il pretorio in San. Giovanni; e ciò nel tempo che dichiaravasi Fiesole e l'Impruneta (ora al Galluzzo) residenza di due minori potestà .
Mancando allora nella circolazione la piccola moneta dei piccioli, fu decretato di coniarne una quantitĂ col determinare, che la lega per fabbricarli fosse composta di undici once di rame e di un'oncia di argento purissimo per ogni libbra, della quale la zecca ne dovesse formare mille piccioli, corrispondenti fra tutti al valore di lire 4, 3, 4; quando il fiorino nuovo o di suggello computavasi lire 3, 13, 4.
Per buona fortuna la città di Firenze dopo la pace con Ladislao visse per qualche anno tranquilla dentro e fuori, sicchè nel 1421 si fece dai Genovesi per 100,000 fiorini d'oro l'importante acquisto del porto di Livorno, di quel porto che doveva divenire uno dei piÚ grandi emporii del Mediterraneo, e il centro del commercio marittimo della Toscana.
Una perdita però assai lacrimevole fu fatta in questo anno medesimo (1421) in Gino Capponi cittadino benemerito della sua patria, in servigio della quale egli consacrò tutta la sua vita, scevro di mire indirette, e alieno dalle passioni dei partiti allora dominanti. Questo nuovo Aristide dell'Atene d'Italia, che contribuÏ sopra ogn'altro nella conquista di Pisa, innanzi di morire ebbe la contentezza di sapere, che i Fiorentini con la compra di Livorno avevano assicurato stabilmente l'importante possesso della città e territorio di Pisa, ai di cui diritti eventuali aveva testè rinunziato, con la pace del 1420, Filippo Maria uno dei figli del conte di VirtÚ che riacquistò la maggior parte della Lombardia.
Quest'ultimo duca, per quanto non contasse l'ingegno del padre, ne aveva ereditata tutta la crudeltà e finzione, sicchè non seppe lungamente persistere nella promessa di non impacciarsi delle cose di Toscana e di Romagna.
Quindi non erano decorsi ancora quattro anni, quando Filippo con poderosa oste penetrato nell'Emilia, fraudolentemente assalÏ e si rese padrone d'Imola, di Lugo, di ForlÏ e di Forninpopoli. Un tal disleale procedere del Visconti determinò la Signoria di Firenze a una nuova guerra, nella quale i di lei eserciti furono tre volte sconfitti, innanzi che le riescisse di associare all'impresa i Veneziani con altri alleati, e cosÏ di poter richiamare le principali forze del duca milanese dentro i suoi dominii.
In questo tempo Firenze trovavasi in grande molestia per conto delle gravezze state imposte sopra i grandi, cosicchè uno di loro, Rinaldo di Maso degli Albizzi, davanti a molti de'suoi colleghi adunati nella chiesa di S.
Stefano al ponte, propose fra i provvedimenti da prendersi quello di scemare della metĂ il numero delle arti minori, e cosĂŹ di quattordici ridurle a sette; affinchè la plebe nei consigli della Repubblica avesse meno voti e autoritĂ , mentre si veniva ad accrescere nei parlamenti lâinfluenza dei grandi. Alla proposta dellâAlbizzi, comecchè soddisfacesse il genio di quegli adunati, rispose Niccolò da Uzzano, uno dei cittadini di piĂš invecchiata esperienza, dicendo: che il voler raffrenare la plebe senza opporsi a coloro, i quali ogni volta che vogliono la possono far sollevare, non era altro che il nutrire uno che potesse impadronirsi di tutti; cosicchè egli concludeva, di non doversi cosa alcuna in diminuzione dei diritti della plebe tentar di operare, senza guadagnare prima quei ricchi e potenti popolani, i quali sotto zelo di pietĂ , aiutando i poveri, sollevando i miseri, pagando i debiti altrui, impiegando in diversi mestieri ed esercizi gli artigiani, e facendo il volgo quasi ministro delle loro ricchezze, venivano per tali mezzi a impadronirsi della moltitudine.
Conobbe manifestamente ciascuno che lâUzzano intendeva discorrere di Giovanni di Bicci dei Medici, il quale essendo diventato ricchissimo e di natura benigno e generoso, poteva dirsi anche il primo della sua famiglia che riacquistò grandissima popolaritĂ nella sua patria. Fu dunque di consenso comune incaricato Rinaldo degli Albizzi, che fosse con Giovanni, e il confortasse a entrare con essi loro nella progettata impresa. Ma questi giudicando pericoloso il rimedio proposto, come quello che portare doveva manifesta divisione nella cittĂ a rischio della rovina della repubblica e di chi ne fosse stato autore, il Medici disapprovò il consiglio di Rinaldo e dei nobili suoi colleghi. Conosciuta dal pubblico una tal pratica, non fece essa che accrescere popolaritĂ e reputazione a Giovanni e alla sua casa a scapito del partito contrario.
Ma continuando ciascuno a dolersi di essere oltre misura gravati nelle tasse imposte durante la guerra, fu deliberata la legge del catasto (anno 1427) in modo che ogni possidente dovesse pagare un mezzo fiorino per cento di capitale.
Non volevano i grandi sopportare un simile censimento; ma non trovando strada da disfare la legge che lâordinava, pensarono al modo di farle contro, col procurarle de'malcontenti per avere cosĂŹ piĂš compagni a urtarla.
Mostrarono dunque agli ufiziali deputati a imporre il catasto, come la legge gli obbligava ad accatastare eziandio i beni dei comuni distrettuali, fra i quali Volterra col suo territorio, per vedere se tra quelli vi fossero altri possessi de'Fiorentini.
Il tentativo fu fatto; ma la bisogna andò in una maniera poco favorevole alla quiete della repubblica; giacchè dopo molte doglianze e dispute non volendo i Volterrani ubbidire, seguÏ ribellione per opera di un ardito plebeo (Giusto Landini), che fattosi capo del tumulto trasse la città dalle mani dei Fiorentini, ed egli stesso signore della sua patria si dichiarò, e per sole due settimane vi si mantenne.
Perduta adunque e ritornata quasicchè in un tratto Volterra sotto il dominio fiorentino successe a questa sommossa la guerra di Lucca; la quale città , dopo la ricuperata indipendenza dell'anno 1370, era stata agitata dalle interne fazioni niente meno delle altre repubbliche toscane. La famiglia Guinigi, una delle piÚ potenti e piÚ cospicue prosapie lucchesi, da quell'epoca in poi si acquistò tale ascendente sopra i suoi concittadini, che Francesco, poi Lazzaro suo figlio quindi Paolo Guinigi fratello di quest'ultimo, quasi senza interruzione per mezzo secolo vi governarono come principi.
Somministrò Paolo Guinigi nell'ultima guerra cagione di dolersi alla Repubblica fiorentina per aver mandato il figlio con una mano di armati nell'esercito del duca di Milano; talchè uno dei capitani di compagnie stato al soldo de'Fiorentini, Niccolò Fortebraccio, muovendosi da Fucecchio, ostilmente s'innoltrò nel territorio di Lucca. Lo che diede a dubitare che avesse operato non senza tacita annuenza di qualcuno de'reggitori di Firenze, cui riescÏ poi facile impresa di persuadere i loro colleghi per impegnarli in una guerra, che facevasi credere di breve durata, di sicuro successo e utile quanto giusta. L'esito peraltro dimostrò tutto il contrario; mentre il cimento fu lungo, difficile, dispendiosissimo e totalmente sfavorevole ai Fiorentini; cosicchè, invece di acquistare il territorio di Lucca, la Repubblica fiorentina vide invadersi e disertare una gran parte del proprio. Mentre che questa guerra travagliava Firenze, ribollivano sempre piÚ i maligni umori dei partiti dentro la città , e Cosimo de'Medici, dopo la morte di Giovanni suo padre, con maggior animo nelle cose pubbliche, con maggior studio e solerzia con gli amici che non fece il di lui genitore si governava, nel tempo stesso che intendeva a beneficare e con dimostrazioni frequenti di liberalità a farsi molti partigiani. Dimodochè l'esempio suo aumentando il carico a quelli che governavano, pareva loro che, il lasciar crescere in cotal guisa la potenza di Cosimo, fosse per divenire sempre piÚ opera pericolosa. Ma piÚ pericoloso era il progetto proposto dal contrario partito, di esiliare Cosimo dalla patria, siccome lo fece conoscere Niccolò da Uzzano. Imperocchè interpellato su di ciò, quest'uomo venerando rispose: che coloro, i quali pensavano di cacciare Cosimo di Firenze, dovevano prima che ogni cosa misurare le loro forze e quelle di colui che volevano sbalzare. E dato anche riuscisse fatto di esiliarlo, soggiungeva, essere quasi impossibile, tra tanti suoi amici che vi rimarrebbero, ovviare che presto non rimpatriasse.
Non solo adunque l'Uzzano non volle consigliare, ma altamente disapprovò di pigliare un partito, che per ogni lato egli vedeva dannoso alla città .
Queste ragioni discorse da un uomo di somma riputazione nella repubblica, raffrenarono alquanto l'animo di coloro che bramavano la rovina di Cosimo il vecchio; ma seguita la pace di Ferrara (26 aprile 1433) mercè la quale Lucca col suo territorio restò libera, e non molto dopo mancato di vita Niccolò da Uzzano, la città di Firenze rimase senza guerra,e la fazione dei grandi senza alcun freno; onde Rinaldo degli Albizzi, che di tal partito era principe, impaziente dell'autorità e stima sempre crescente di Cosimo de'Medici, e vedendo che uno dei due di loro doveva ormai soccombere, tenne tal modo con i Signori che gl'indusse a chiamar Cosimo in palazzo, rinchiuderlo in una prigione, e quindi dalla patria esiliarlo.
Rimasta Firenze vedova di un tanto cittadino, erano tutti sorpresi e sbigottiti, vinti e vincitori. Dondechè Rinaldo degli Albizzi dubitando della sua apparecchiata rovina, rampognava quelli del suo partito di essersi lasciati vincere dai preghi e dai denari dei loro nemici, col l'aver lasciato Cosimo in vita e gli amici suoi nella città ; essendochè gli uomini grandi, o non si hanno a toccare, o tocchi che sono debbonsi spegnere affatto.
Ma il consiglio di mess. Rinaldo essendo res tato senza l'effetto da esso lui desiderato, avvenne che prima di un anno dacchè Cosimo era stato confinato a Padova, appena entrati di governo otto Priori e il gonfaloniere, tutti partigiani dell'esule, si verificò il pronostico fatto da Niccolò da Uzzano; Cosimo de'Medici fu richiamato, accolto e acclamato in Firenze quasi come un cittadino che tornasse trionfante da una vittoria, con tanto concorso di gente e dimostrazione di benevolenza, che da ciascuno volontariamente venne salutato benefattore del popolo, e Padre della patria.
Appena rimessi in Firenze dall'esilio tanti ingiuriati cittadini aderenti e seguaci di Cosimo, pensarono questi senz'alcun rispetto di assicurarsi dello Stato e delle prime magistrature, spogliando la cittĂ di nemici e di sospetti, e volgendosi a beneficare nuove genti per fare piĂš gagliarda la parte loro. La famiglia degli Alberti, e qualunque altro esule o ribelle venne restituito coi suoi beni alla patria; tutti i grandi, eccetto pochissimi, nell'ordine popolare furono ascritti; le possessioni dei nemici di Cosimo per piccolo prezzo fra i partigiani di lui si divisero; e se questa proscrizione dal sangue (ancorchè in qualche parte nel sangue restasse tinta) fosse stata accompagnata, avrebbe a quella di Silla e di Ottaviano potuto quasi equipararsi. Oltre di ciò il partito di Cosimo con opportuni provvedimenti, appropriandosi le redini della repubblica e traendo dalle borse degli elettori i nomi deânemici per riempirle di amici, sempre piĂš si fortificava. Fu dato ai sig. Otto di guardia autoritĂ sopra la vita, si proibĂŹ a chicchessia di potere scrivere o ricevere lettere dai ribelli confinati, ed ogni parola, ogni cenno, ogni usanza che a quelli che governavano fosse in alcuna parte dispiaciuta, veniva con pene gravissime gastigata. E perchè alcuni amici dolcemente avvertirono Cosimo, non potersi patire che per tante famiglie ornatissime, per sĂŹ grandi cittadini sbalzati dalla patria, la cittĂ si guastasse, ebbero da lui cotale risposta: esser meglio cittĂ guasta che perduta. Non si affannasero però, giacchè con poche braccia di scarlatto molti cittadini ogni dĂŹ poteva vestire, conoscendo bene egli che a mantenere uno stato nuovo gli abbisognavano uomini nuovi. Per tutta la vita di Cosimo la cittĂ di Firenze restò compressa nella quiete della servitĂš, senza che avesse mai luogo uno di quei movimenti, coi quali una popolazione suol tentare di riacquistare la perduta libertĂ .. â Realmente a partire dall'anno 1434 cominciò la decadenza della Repubblica fiorentina, la quale sino d'allora restò sotto il dominio diretto o indiretto della casa deâMedici. E benchè Firenze avesse in seguito alcuni brevi intervalli di libertĂ essa ricadde ben presto nel primo laccio, sino a che, abolite coi nomi le forme antiche, si convertĂŹ la repubblica in principato.
Poco innanzi che tali mutazioni politiche e proscrizioni cittadine fossero incominciate, si serrò l'occhio della maestosa cupola di S. Maria del Fiore, nel giorno stesso che sbarcò a Livorno il pontefice Eugenio IV, quello medesimo che nel dÏ 25 marzo del 1436 nel giorno della Pasqua di Resurrezione con magnificenza confacente a una grande e ricca città consacrò la mentropolitana fiorentina; nella quale, dopo la sacra funzione, fu creato cavaliere dal pontefice Giuliano di Niccolao di Roberto Davanzati allora gonfaloniere di giustizia e riputatissimo cittadino, cui Eugenio di sua propria mano cinse il fermaglio nel petto.
Nell'anno stesso 1436 il governo di Cosimo diede motivo di alterare la pace col duca di Milano; poichè sentita la sollevazione di Genova, i reggitori di Firenze fecero lega coi Genovesi e coi Veneziani contro quel duca, lo che bastò al Visconti per ricominciare le ostilità senza altra dichiarazione di guerra. A fomentare la finale contribuirono i maneggi dei fuorusciti fiorentini, fra i quali precipuamente si distinse Rinaldo degli Albizzi, che da Trapani rompendo i confini si era recato a Milano.
Accadde la prima battaglia fra i due eserciti sotto Barga con esito favorevole a'Fiorentini, capitanati dal conte Francesco Sforza. Questa prima vittoria persuase e indusse la Signoria a tentare un'altra volta l'impresa di Lucca, difesa virilmente dai suoi abitanti, e quindi liberata per poca costanza del C. Sforza; il quale lusingato dal matrimonio di Bianca figlia del duca di Milano, abbandonò il servigio de'Fiorentini per passare a quello del loro nemico, lo che obbligò a lasciare in pace i Lucchesi e aprire con essi un trattato (28 aprile 1438) che accordò al conte Sforza una parte del territorio conquistato. â Vedere COREGLIA.
Ebbe poco dopo Firenze il maestoso spettacolo del greco imperatore Giovanni Paleologo, del pontefice Eugenio IV, di cardinali, patriarchi, metropolitani, e di un buon numero di prelati greci e latini venuti per riunire nel Concilio ecumenico la chiesa greca con la latina.
Frattanto gli esuli fiorentini non cessavano di sollecitare il duca di Milano a rimetterli in Firenze, dove contavano facilmente di poter entrare con l'ajuto dei fautori che avevano in città . Le loro istanze furono esaudite dal Visconti, il quale affidò la spedizione militare al miglior suo capitano Niccolò Piccinino. Questi inoltratosi con numeroso esercito in Romagna, penetrò nella Toscana per la valle del Lamone, ed estese le sue scorrerie nel Mugello e nel Casentino, di dove trapassò nella valle superiore del Tevere. Costà accorse l'armata fiorentina: e a'29 giugno 1440 conseguÏ sotto Anghiari la vittoria, per la quale Firenze si rallegrò a segno che ogni anno la rammenta con la corsa del palio di S. Pietro. Accrebbe letizia alla città l'acquisto che si fece poco dopo (marzo 1441) della nobil Terra del Borgo S. Sepolcro venduta col suo distretto alla Repubblica fiorentina dal pontefice Eugenio IV per il prezzo di 25,000 ducati d'oro.
Uno dei commissarj dell'esercito fiorentino fu Neri di Gino Capponi, che in questa stessa guerra si era maravigliosamente distinto non tanto per i felici successi mercè sua ottenuti nel Casentino e nella Val Tiberina contro il conte di Poppi e il Piccinino, quanto anche per molti altri importanti servigi che in qualità di legato aveva resi alla sua patria; sicchè egli era riguardato dopo Cosimo de'Medici il principale cittadino di Firenze. SÏ nobili prerogative dovettero dare tale ombra al capo del governo, che fornÏ a molti cagione di sospettare che fosse stato effetto della coperta politica di Cosimo per abbassare la fama e autorità del Capponi, quello di consigliare il Gonfaloniere Orlandini a far trucidare e quindi gettare dalle finestre del palazzo del popolo il capitano Baldaccio di Anghiari, militare sopra ogn'altro eccelentissimo e grandemente al Capponi affezionato.
La morte del duca di Milano (12 agosto 1448) fece restar in tronco le trattative di pace intavolate con le Repubblica di Firenze e di Venezia, quando un nuovo nemico si affacciò nel re Alfonso di Napoli. Il quale, chiamato da Filippo Maria all'eredità dello Stato milanese, veniva avvicinandosi con numerosa oste di cavalli e di fanti nella Toscana. Considerando egli, che per la via del Val d'Arno superiore non poteva far cosa alcuna di gran momento, rivolse il suo esercito verso il territorio di Volterra, di dove penetrò nelle pisane maremme. I Fiorentini veggendo un re potente in casa loro, il quale non soleva cosÏ di leggieri dalle sue imprese desistere, nè potendo conoscere essi dove un simil contegno ostile avesse andare a riuscire, tentarono di aprire con Alfonso una qualche trattativa di amicizia; per aderire alla quale chiedeva quel re, che la Repubblica gli pagasse 50,000 scudi, e non s'impacciasse dei fatti di Piombino.
Concorreva la maggior parte de'cittadini in simile accordo, meno che Neri Capponi, il quale affacciò in consiglio cosĂŹ valide e persuadenti ragioni, che fu concluso, non doversi il governo di Firenze in alcun modo piegare a far pace col re, se il signore di Piombino, che era deâFiorentini raccomandato, non si lasciava dall'Aragonese quieto nel principato.
Intanto il re di Napoli con ogni sforzo per mare e per terra infestava continuamente la Terra di Piombino, sino a che, nel dĂŹ 8 settembre 1448, fu ordinato di prenderla per assalto. Ma il coraggio dei Piombinesi, la fermezza di Rinaldo Orsini loro principe e gli ajuti dei Fiorentini, resero vano ogni sforzo, in guisa che gli assalitori furono costretti di ritirarsi dalla battsglia, e quindi dopo gravi perdite di abbandonare la Maremma o tutta la Toscana.
Nel mentre che l'esercito d'Alfonso ritornava mezzo ed infermo a Napoli, il conte Franc. Sforza, come genero del morto Visconti, adoprava ogni possa da riconquistare per conto proprio il ducato di Milano, contro voglia di quelle popolazioni che si erano sollevate e rimesse in libertĂ ; e ad onta dei Veneziani, le cui armate in ogn'incontro egli sconfisse per terra e per acqua. Fu lo Sforza sovvenuto palesemente dalla Repubblica fiorentina, e privatamente da Cosimo de'Medici, sperando questi di procacciarsi in quello un presidio ai figli e ai nipoti, e agli aderenti della sua casa un valido protettore ed amico.
Quanto fu sentito con giubilo dai reggitori del Comune di Firenze l'ingresso del C. Sforza in Milano acclamato da quei cittadini in loro principe (anno 1450), altrettanto i Veneziani e il re di Napoli si erano adontati con il governo fiorentino, quasichè i suoi soccorsi pecuniarii avessero posto in grado il fortunato figlio del Cutignola di vincere e farsi signore della Lombardia.
Incominciaronsi le ostilità dai due potentati con l'espulsione dei nazionali Fiorentini dai veneti e dai napoletani dominii, tentando eziandio di farli esiliare dagli scali del Levante, a fine di escluderli dal commercio di Candia, di Costantinopoli e di Ragusi. E per nuocere in tutte le maniere alla Signoria di Firenze, i Veneziani fecero lega con la Repubblica di Siena, e procurarono di mutare lo stato di Bologna per distaccarla dall'amicizia de'Fiorentini. Intanto che questi stringevano alleanza col nuovo duca di Milano e preparavansi, alla guerra il re di Napoli, che sentiva ancora la vergogna di essere stato costretto a retrocedere con numerosa oste dalla Toscana, inviava costà il suo figlio Ferdinando con 8000 cavalli, e 4000 fanti. Il qual esercito entrato per la Val di Chiana, si fermò davanti il castello di Fojano, che dopo un pertinace assedio di 43 giorni dovette rendersi a patti (2 settembre 1452). Avuto ch'ebbero i nemici Fojano, vennero nei confini del Chianti, verso Brolio e Cacchiano, combattendoli inutilmente, prima di accamparsi davanti il debole castello di Rencine che l'ebbono in pochi giorni.
Non accadde però lo stesso della Castellina, paese propinquo 10 miglia a Siena; giacchè per quanto il luogo, per arte e per sito, non presentasse grandi ostacoli, pure resistè a quell'esercito, che vi stette inutilmente un mese e mezzo a combatterlo, intanto che una numerosa flottiglia del re, scorrendo lungo la marina pisana, per poca diligenza del castellano occupava la rocca di Vada.
I Fiorentin i, non essendo ancora in forze da misursasi con quelle dell'Aragonese, stavano sulle difese, schivando di venire a battaglia, fino a che i nemici si ridussero ai quartieri d'inverno. Nel qual tempo la Repubblica in varie guise preparavasi a respingere l'oste napoletana, sia con l'indurre Renato d'Angiò a venire dalla Provenza in Italia per contrastare ad Alfonso la successione al regno di Sicilia, sia con l'accomodare al nuovo duca di Milano 80,000 fiorini d'oro, per ricevere da esso una squadra di 2000 soldati di cavalleria, sia con l'assoldare Manuello d'Appiano Signore di Piombino condottiero di 1500 cavalli, con tali ajuti la Repubblica fiorentina riacquistò facilmente (nell'estate del 1453) i paesi tolti dai Napoletani; e ciò nel tempo medesimo che scoprivasi in Romagna un suo ribelle in quel Gherardo di Giovanni Gambacorti, al di cui padre la signoria di Firenze, mercè la capitolazione di Pisa, aveva concesso il dominio del Vicariato di Bagno.
Le ostititĂ del re Alfonso dovettero obbligatamente cessare dopo il trattato conchiuso, nel 9 aprile 1454, fra i Veneziani e il duca di Milano; alla quale pace aderirono volentieri i Fiorentini, piĂš tardi e di male in cuore l'Aragonese, costretto a richiamare dalla Toscana le sue truppe e il di lui figlio Ferdinando, nel mentre questi aspirava a impadronirsi di Siena.
Poco dopo questo tempo sentÏ Firenze come un ristoro ai sofferti mali la notizia della morte di un suo fiero nemico in Alfonso di Aragona, amareggiata però dalla perdita che poco prima la repubblica aveva fatta in un sommo cittadino, Neri di Gino Capponi, mancato in Firenze, li 22 novembre dell'anno 1457, fra i compianti di tutta la città ; la quale riguardò sempre in cotesto integerrimo uomo di stato il fedele seguace delle civili virtÚ ereditate dal padre, seppure non lo sorpassava per maturità nei consigli, per valentia nei mezzi della guerra, e per destrezza nelle ambascerie che sostenne.
Memore dei Ricordi, che per lui distese il genitore, fece egli conoscere all'universale, che il servire la patria è un sacro dovere di cittadino sino al punto, che neppure l'ingratitudine o gli intrighi delle fazioni poterono affievolire in esso tale dovere, e molto meno indurlo in sentimenti contrarii all'interesse e all'onore del suo paese.
In una parola Neri Capponi fu dopo Cosimo il cittadino piĂš rispettato di Firenze, con questa differenza, che Neri si acquistò credito e riputazione somma per vie pubbliche e notorie, in modo che egli aveva assai amici e nessuni, o pochi partigiani; mentre Cosimo, essendosi fatto strada per vie pubbliche e private, aveva piĂš partigiani che amici.. â Fintantochè il Capponi visse, gli aderenti di Cosimo per paura si mantennero uniti e forti; perduto Neri, la cui stima universale serviva ai settarj d'un qualche freno, cominciarono i medesimi a trovarsi meno concordi fra loro, e a desiderare una piĂš assoluta autoritĂ .
Infatti morto che fu appena il Copponi, ebbe luogo in Firenze qualche movimento piÚ di segreti maneggi, che di forza aperta, per tentare di riformare la costituzione del 1434. Avvegnachè dopo il ritorno di Cosimo il governo erasi ristretto nelle mani di pochi individui, i quali non solamente non lasciavano campo alla sorte nell'elezione della Signoria, ma avevano fatto nascere tale provvisione, che toglieva perfino uno dei piÚ preziosi diritti ai cittadini, cioè la libertà di chiamare in giudizio quelli che gli governavano. I partigiani stessi di Cosimo, o fossero fra loro discordi, o si trovassero annojati di questo perpetuo dittatore, o troppo grave cosa gli sembrasse servilmente dipendere dall'arbitrio di coloro che facevano e disfacevano a loro senno leggi e magistrati, raccolti insieme ragionavano, e pubblicamente consigliavano; I.° ch'egli era bene che la dittatoria potestà della Balia, della quale era per terminare il suo tempo, piÚ non si rinnovasse; 2.° che si serrassero le borse dei Priori; 3.° e che quei magistrati, non piÚ a mano, ma a sorte secondo i favori dei passati squittinj si estraessero.
Cosimo che sapeva in ogni modo di non correre alcun rischio nella sua dittatura, condiscese alle preci della malcontenta fazione; conoscendo bene che nelle borse, dalle quali doveva sortire ogni bimestre la prima magistratura, erano stati chiusi i nomi di cittadini di tutti i ceti, la maggior parte nuovi e al Padre della patria per avidità d'impieghi, per interessi di denari, o per ragione di mercatura ligj o ben affetti. Ottenuta tale riforma, parve all'universale di avere acquistata la propria libertà , sebbene l'esito mostrò ben presto tutto il contrario.
Imperciocchè fatti gli squittinj, ed entrati di Signoria gli eletti, questi non operarono mica secondo la voglia di coloro che tal riforma avevano promossa; ma secondo il proprio arbitrio, o quello del loro padrone, la repubblica governavano. Si accorsero ben presto gl'innovatori della loro follia, giacchè non al Medici, ma ad essi stessi avevano preclusa la strada alle cariche e si erano lasciata fuggire di mano la cosa che ambivano di carpire.
Quello però che fece piÚ spaventare i malcontenti, ed a Cosimo dette maggiore occasione a fargli ravvedere, fu allorchè risuscitò il modo di rifare il catasto come nel 1427. Questa legge vinta, e di già creato il magistrato che la doveva eseguire, fece risolvere i grandi a stringersi insieme per scongiurare Cosimo, affinchè volesse ristabilire l'ordine oligarchico da esso stato introdotto fino dall'anno 1434. Il dittatore peraltro non volle cosÏ per fretta dare ascolto a simili lamenti, acciocchè i faziosi sentissero piÚ vivamente il loro errore, e ne portassero piÚ lunga pena. Tentossi nei consigli la legge di far nuova BalÏa, ma non si ottenne; e perchè un gonfaloniere volle senza consentimento adunare il popolo a parlamento, lo fece Cosimo dai Priori di lui colleghi sbeffare in modo, che egli impazzò, e come stupido dal palazzo della Signoria alla casa sua fu rimandato.
Nondimeno perchè un tal contegno aveva fatto crescere l'orgoglio nei nuovi governanti, e nella plebe gli insulti verso i grandi, non parve a Cosimo il lasciare piÚ oltre trascorrere le cose, che le non si potessero poi ritirare a sua posta, dondechè essendo pervenuto al gonfalone della giustizia Luca Pitti, uomo animoso ed audace, si credè costui un istrumento opportuno per governare l'impresa; riservandosi il Medici a favorire il tentativo dietro la scena, acciò, se la riforma non sortiva l'esito desiderato, ogni biasimo a Luca e non a Cosimo fosse imputato.
Volle il Pitti sul principio tentare la mutazione col persuadere i suoi colleghi, che cotesta introdotta libertà di elezione era una licenza sfrenata; al quale erroneo consiglio si opposero i magistrati con tali forti espressioni, che uno di essi come sedizioso venne arrestato e posto alla tortura. Fu allora che Pitti ricorse all'arbitrio; e avendo ripieno di armati il palazzo, chiamò il popolo in piazza, cui per forza fece consentire quello che volontariamente non aveva potuto ottenere, riducendo il governo al regime del 1434, e coronando la sua opera col fare esiliare quattordici cittadini che si erano dichiarati caldamente attaccati alla pubblica libertà . Innanzi che Pitti terminasse la sua magistratura si propose una riformagione, in vigore della quale la magistratura suprema della repubblica, stata fino allora appellata dei Priori delle Arti, dovette prendere il titolo dei Priori di Libertà , quando appunto in Firenze era cessata ogni libera ragione.
Fu Luca Pitti in premio dell'opera sua dalla Signoria fatto cavaliere, e da Cosimo riccamente presentato, nel mentre quasi tutta la città concorreva a offerirgli doni. Cosicchè egli venne in tanta fidanza e superbia da por mano a innalzare due grandiosi edifizj, che uno in Firenze, cangiato poscia nella maestosa reggia, (sebbene di palazzo Pitti conservi tuttora il nome) l'altro a Rusciano sopra a Ricorboli luogo propinquo un miglio alla città . Per condurre a fine i quali edifizj Luca non perdonava ad alcuno straordinario modo; per cui non solo i cittadini lo presentavano, e delle cose necessarie all'edificatoria lo sovvenivano, ma le comunità e le popolazioni del fiorentino distretto gli somministravano ajuti, nel tempo che agli uomini di ogni delitto macchiati Luca offriva asilo, purchè nelle sue case lavorassero.
Gli altri grandi della città , se non edificavano al pari, non erano meno violenti nè meno rapaci del Pitti; in modo che, se allora Firenze non aveva guerre di fuori che la distruggessero, dai suoi cittadini era distrutta.
SeguÏ durante questo tempo la morte di Cosimo (il dÏ 1 di agosto 1464); di quell'uomo ch'ebbe la forza di tenere per 30 anni nelle sue mani il governo della repubblica, e che ne assicurò il dominio nella sua casa. Lasciò di sè grandissimo desiderio nella città e all'estero, in quanto che non solamente egli superò ogni altro, dei tempi suoi, d'autorità , di prudenza e di ricchezze, ma anco di magnificenza e di liberalità . La quale ultima prerogativa si fece conoscere assai visibilmente dopo la morte sua, giacchè non vi era cittadino di alcuna qualità cui Cosimo grossa somma di denari non avesse prestata. E tanto era il credito ch'egli teneva all'estero, che quando i Veneziani, e Alfonso d'Aragona contro la repubblica fiorentina si collegarono, Cosimo col ritirare il suo avere dalle piazze di Napoli e di Venezia, si crede vi lasciasse un vuoto tale di numerario, che i due sopraddetti potentati fossero costretti ad accedere alle proposte condizioni di pace.
Apparve la magnificenza di Cosimo in varj edifizj sacri che in Firenze, nel poggio di Fiesole, e nel contado dai fondamenti fece costruire. Il suo grandioso palazzo in via Larga (poscia de'march. Riccardi) e quattro sontuose ville, a Careggi, a Fiesole, a Cafaggiolo ed a Trebbio non solo edificò, ma di vasi preziosi e di tavole da egregi artisti dipinte adornò, senza dire di altre minori fabbriche, cappelle, altari e ospizj da esso fondati e arricchiti.
Difficilmente si potrebbe indicare nella storia del medio evo un cittadino che al pari di Cosimo sia stato colmato di elogj; talchè a lui, un anno dopo morto, la Signoria di Firenze per decreto pubblico confermò il titolo di Padre della patria. Nondimeno negli ultimi tempi della vita angustiava l'animo del vecchio Medici non aver potuto, nel lungo periodo che egli tenne le redini dello Stato, di un acquisto onorevole accrescere il dominio fiorentino; e tanto piÚ se ne doleva, quanto che gli parve essere stato da Francesco Sforza ingannato; il quale mentre era conte promisegli, appena si fosse insignorito di Milano, di fare per i Fiorentini l'impresa di Lucca, che poi non mantenne.
Lasciò Cosimo erede delle sue ricchezze e del suo potere il figlio Piero, debole e infermiccio, cui commise morendo, che delle sostanze e dello stato secondo il consiglio d'un suo intimo confidente e cittadino riputatissimo (messer Diotisalvi Neroni) si lasciasse governare. Ma la fiducia nell'amico e consigliere non corrisposero nè alle promesse del Neroni, nè alle speranze del Medici. Imperocchè sotto pretesto di rimediare ai disordini del patrimonio, Diotisalvi indusse Piero de'Medici a ritirare dai suoi debitori somme rilevanti di denari, imprestate loro dal padre per acquistarsi nella cittĂ e fuori partigiani ed amici; la quale operazione posta ad effetto cagionò in Firenze grandi fallimenti, per cui molti mormorando, si alienarono dal suo partito. â Visto da messer Neroni, che i suoi consigli ottenevano l'effetto desiderato, si strinse con Luca Pitti, con Agnolo Acciajoli e con Niccolò Soderini, bramosi ognuno per diverso fine, di torre a Piero la reputazione, e lo stato. â Luca Pitti, il piĂš potente cittadino dopo Cosimo, morto lui non voleva essere il secondo. Agnolo Acciajoli, per private cause, nutriva odio con i Medici; mentre Niccolò Soderini, mosso da mire meno ambiziose, bramava che la sua patria piĂš liberamente vivesse, e dai magistrati estratti a sorte si governasse.
Pareva a questi capi di avere la vittoria in mano, perchè la maggior parte del popolo, con cui essi adonestavano la loro impresa, gli seguiva. Si tentò inutilmente da alcuni piÚ pacifici cittadini di acquetare tali dissapori, mentre le inimicizie cominciarono a manifestarsi aperte dopo la morte di Francesco Sforza duca di Milano (8 marzo 1466). Ma non giovando l'eloquenza del Soderini, nè l'orgoglio del Pitti, nè le segrete arti del Neroni a screditare Piero de'Medici, fuvvi chi fra i congiurati propose che si dovesse uccidere quest'altr'idolo della plebe; ricordando quello che a Rinaldo degli Albizzi, a Palla Strozzi, a Ridolfo Peruzzi e a tanti altri grandi della città era intervenuto a cagione di aver lasciato Cosimo in vita prima dell'esilio.
A volere con sicurezza eseguire il meditato disegno, stimarono i faziosi necessario un esterno soccorso d'armati. S'impegnò di coadiuvarli nell'impresa Ercole d'Este fratello di Borso marchese, poi duca di Ferrara; il quale inviò una compagnia di sopra mille cavalli verso l'Appennino di Fiumalbo, intanto che i congiurati designavano il tempo e il luogo di assalire Piero de'Medici nell'andare o nel tornare ch'egli faceva alla città dalla sua villa di Careggi. La destrezza però fino d'allora manifestata dal giovinetto Lorenzo suo figlio, e quindi gli appoggi de'fautori e amici della sua casa, sconcertarono talmente gli avversarj che tenendo questi titubanti e irresoluti, molti di essi crederono bene di venire con Piero a una riconciliazione.
Ma Niccolò Soderini, stimando vano un tal rimedio e troppo grave l'attentato, sebbene non condotto a fine, perchè il Medici volesse dimenticarlo, con energiche parole stimolò Luca Pitti a ritornare con piÚ calore e piÚ fermezza all'esecuzione dell'impresa.
Si raccolsero armi e amici tanto in città che in contado, e si sollecitò il march. Ercole d'Este, affinchè con le sue genti si facesse innanzi da Fiumalbo per la montagna di Pistoja. Questa novella, saputa da Piero, egli ordinò al figlio Lorenzo di essere con Luca Pitti, affinchè con ogni suo ingegno lo persuadesse a desistere da quei movimenti; lo che a meraviglia riescÏ a lui di renderselo mansueto in guisa che tenuti inoperosi i congiurati, venne a terminare il tempo di quella Signoria, nella quale i contrarj al partito Mediceo avevano troppi fautori. Ma entrati di seggio i nuovi priori e gonfaloniere di giustizia, quasi tutti amici della casa Medici, la parte di Piero non istette piÚ sospesa un istante; giacchè non piÚ tardi che nel secondo giorno (2 settembre 1466) chiamato il popolo a parlamento, si crearono quattro giorni appresso gli Otto di balÏa insieme col capitano del popolo; e la prima legge della nuova Signoria fu, che le borse dei priori per dieci anni si tenessero a mano, affinchè non si eleggessero piÚ a sorte.
Poco appresso si pubblicarono i nomi degli esiliati, fra i quali l'Acciajoli coi figli, il Neroni e due fratelli, il Soderini con Geri suo figliuolo, e Gualtieri Panciatichi di Pistoja. Non fu nel numero dei confinati Luca Pitti, il che gli accrebbe biasimo, come se avesse pattuito la salvezza sua col danno degli amici e compagni. Ma ben presto egli conobbe essergli stata predetta la verità da Niccolò Soderini, perciocchè la sua casa non fu piÚ frequentata, ed egli non piÚ veniva salutato da persona che lo incontrasse per via, mentre altri lo sfuggivano,e altri gli mormoravano dietro chiamandolo rapace e crudele, e molti le cose da loro a Luca donate, come imprestate richiedevano; talchè non solo dal suo superbo edificare si rimase, ma il resto della vita che gli sopravanzò finÏ oscuramente.
Alcuni dei principali esuli, fra i quali Neroni e Soderini, si recarono a Venezia, sapendo che l'odio di quei senatori verso la casa dei Medici, che aveva assistito lo Sforza loro nemico, non era ancora spento. Il desiderio pertanto di vendicarsi mosse i reggitori della Repubblica veneziana a dare ascolto ai fuorusciti fiorentini, e sebbene apertamente contro Firenze non si dichiarassero, somministrarono però gente, armi e denari con il migliore condottiere d'eserciti (Bartolommeo Collione), cui in seguito unironsi le forze di altri regoli dell'Emilia e della Romagna.
Intanto dal canto suo il governo di Firenze preparavasi alla difesa raccogliendo denari dai cittadini mediante un balzello di 100,000 fiorini d'oro, sollecitando ajuti all'estero, e collegandosi per 25 anni col duca di Milano e col re di Napoli. Nell'estate del 1467 i due eserciti nemici trovavansi di fronte nel territorio d'Imola, dove successe (25 luglio) la battaglia della Molinella, la quale sortĂŹ un evento indeciso, sebbene da ambe le parti infino a notte si combattesse con gran fermezza e valore.
Però dopo quella giornata non accadde piÚ fra le parti belligeranti cosa alcuna di notabile, sia perchè il generale veneziano con le sue forze si ritirasse alquanto verso la Lombardia, sia per una tregua che, agli 8 di agosto, si fece per intavolare condizioni di pace; intanto che, sopraggiunto l'inverno, ciascuna delle due armate si ridusse alle stanze. Peraltro a Firenze, dove non si contava molto sulla conclusione del trattato, si fecero nuove provvisioni di denari per tre anni successivi mediante imprestanze, le quali produssero al pubblico erario la vistosa somma di 1,200,000 fiorini d'oro.
Infatti, appena entrato il mese di febbrajo del 1468, si seppe a Firenze con poca soddisfazione, come il pontefice Paolo II di nazione veneziano, a guisa di arbitro aveva pubblicata in Roma la pace, a condizione che le parti belligeranti, collegandosi insieme, dovessero pagare un'annua pensione di 100,000 scudi a Bartolommeo Collione per la guerra che si aveva a fare contro i Turchi in Albania, e intanto ordinava che ai Fiorentini il borgo di Dovadola, e al signore d'Imola Mordano e Bagnara si restituissero.
Non piacque alla Signoria di Firenze, nè al duca di Milano, di avere a pascere con i loro denari un capitano di ventura, e fecero sentire al pontefice che si sarebbero appellati di tale arbitrio al futuro Concilio; ma Paolo II volendo persistere nella pronunziata sentenza, procedette all'atto di scomunica contro coloro che da quella dissentivano.
Dopo che la repubblica fiorentina ebbe creato il magistrato dei Dieci della guerra, o che il duca di Milano e i Veneziani ebbero inviato gli eserciti verso la Romagna per ricominciare le ostilità , il pontefice, mitigando la prima sentenza, nel dÏ 25 aprile del 1468 pronunziò migliori condizioni di pace, senza fare piÚ menzione del veneto condottiero.
Nel tempo che tali affari di fuori si maneggiavano, la Signoria di Firenze dava il bando di ribelli al Neroni, al Soderini e all'Acciajoli per avere rotti i confini, e per essere stati la cagione di una guerra dispendiosissima, alle spese della quale dovettero in parte supplire le sostanze dei fuorusciti. â Vedere DONORATICHINO.
Nell'anno medesimo 1468 la repubblica fiorentina acquistò in compra da Lodovico Fregoso per 30,000 fiorini d'oro Sarzana, Sarzanello, Castelnuovo e alcuni altri minori castelli della Lunigiana.
Terminata la guerra e sopite le civili tempeste, Lorenzo dei Medici, uno dei principali attori in tali politiche faccende, volle rallegrare la città con torneamenti ed altre feste spettacolose atte ad affezionare sempre piÚ il popolo alla sua causa. Se non che l'infermità del di lui padre, aggravandosi ognora piÚ, dava campo agli ambiziosi del dominante partito di regolare a loro arbitrio la cosa pubblica. Si vuole da alcuni istorici fiorentini, che un giorno Piero chiamasse a sè i principali cittadini, e parlasse loro in guisa da farli vergognare, rampognandoli d'avere troppo abusato della fiducia che in essi aveva riposta, sia perchè eransi fra loro i beni degli esiliati divisi, sia perchè vendendo a capriccio la giustizia, gl'insolenti esaltavano e gli uomini pacifici con ogni sorta d'ingiuria opprimevano. Ma vedendo che tali rimostranze non giovavano, Piero fece venire celatamente nella villa di Cafaggiolo Agnolo Acciajoli; nè si dubitò punto dal Machiavelli, che se il figlio del Padre della patria non fosse stato dalla morte sopraggiunto, volesse richiamare i fuorusciti per frenare le rapine di coloro, i quali, sotto il manto dell'amicizia e di un falso amore patriottico, si erano impadroniti delle prime magistrature della città .
In tanta angustia di animo, aggravandosi il male della podagra Piero de'Medici, li 2 dicembre 1469, cessò di vivere, senza che Firenze potesse intieramente conoscere le sue virtĂš. Ma tanto era saldamente stabilito il potere della sua casa, che dopo la morte di lui non seguĂŹ movimento alcuno; cosĂŹ che i suoi due figliuoli furono, benchè giovanetti, come capi della repubblica generalmente onorati. Alla quale tranquillitĂ interna contribuĂŹ piĂš di tutti Tommaso Soderini, cittadino di gran prudenza, di somma avvedutezza nelle cose politiche, e sinceramente ai Medici affezionato. Imperocchè lungi egli dall'imitare il fratello Niccolò Soderini, mostrò collâeffetto quanto la sua fede fosse diversa da quella del Neroni, allora quando ragunò uno scelto numero di fiorentini nel convento di S. Antonio presso porta Faenza, dove intervennero Lorenzo e Giuliano deâMedici: e a quell'assemblea con grave eloquenza delle condizioni della cittĂ , di quelle dell'ltalia, e degli umori dei varj principi di essa avendo a lungo discorso, concluse, che se desideravano essi in Firenze si vivesse uniti, e dalle divisioni di dentro come dalle guerre di fuori sicuri, era necessario osservare quei due giovanetti, e loro la buona riputazione ereditata dal padre e dall'avo mantenere. Parlò dopo il Soderini Lorenzo con tanta saviezza e modestia, che a ciascuno egli dette grandi speranze di sè; sicchè prima che di lĂ partissero gli adunati, giurarono tutti di prendere i due pupilli come in figliuoli, e questi viceversa di tenere quei cittadini per altrettanti padri.
Continuava la quiete in Firenze, allorchè nel 1470 occorse in Prato un improvviso tumulto eccitato da un fuoruscito (Bernardo Nardi), il quale, introducendosi di notte tempo con pochi armati nella Terra, volle tentare un colpo da disperato. Ma la debolezza de'mezzi, la scarsità dei fautori e la fedeltà dei Pratesi, non che del cavaliere Giorgio Ginori che arrestò il capo di quella sommossa, fecero pagare caro ai ribelli un simile attentato.
Sul declinare dell'anno 1470 Lorenzo deâMedici ebbe il primo onore pubblico, quando fu eletto sindaco del Comune, affinchè a nome del popolo nella metropolitana fiorentina il gonfaloniere Gianfigliazzi per le sue mani fosse vestito cavaliere.
Nell'anno appresso (1471) con straordinaria pompa i Fiorentini accolsero nelle loro mura il duca e la duchessa di Milano accompagnati da un magnifico corteggio. In tale circostanza si fecero sacre rappresentanze spettacolose, una delle quali cagionò l'incendio dell'antica chiesa di S. Spirito.
Prima che l'anno medesimo terminasse, il sistema governativo di questa città subÏ un'altra riforma a scapito della pubblica libertà , stantechè per ristringere il governo nelle mani di pochi, fu vinto il partito di eleggere una commissione di 40 cittadini, all'arbitrio dei quali fu affidata la nomina del consiglio de'200. A costoro medesimi fu data potestà di fare tutto quello che il popolo fiorentino insieme, (eccetto di levare il catasto) soleva per mezzo delle 4 Camere ordinare, annullando per conseguenza i Consigli del Comune e del Popolo, all'anno 1382 poco sopra rammentati. Fra le varie riformagioni in tale occasione decretate, fu approvata anche quella che ridusse al numero di 12 le 21 corporazioni delle arti e mestieri.
Nel mentre che tali riforme in Firenze preparavansi, cessava di vivere in Roma il pontefice Paolo II, cui poco dopo succedè il cardinale Francesco della Rovere, che prese il nome di Sisto IV; quello stesso Sisto che doveva essere il piÚ animoso persecutore della casa de'Medici, sebbene da principio dasse segni di gran favore a Lorenzo, allorchè fu destinato dalla repubblica fiorentina tra i sei ambasciatori andati a Roma per complimentarlo.
Ă fama che Lorenzo de'Medici avesse avuto animo di fare il fratello Giuliano cardinale, forse per rimanere egli piĂš libero nelle cose del governo della cittĂ , ma che al pontefice non sembrasse bene di aggiungere cotanta riputazione a quella potente famiglia.
In quell'anno stesso 1471, si suscitarono dei dissapori fra i Volterrani e i Fiorentini, a cagione di alcune divergenze insorte per conto delle allumiere di Castelnuovo, state concesse in affitto dal Comune di Volterra a una societĂ composta di negozianti tanto fiorentini che senesi. I Volterraui affidarono la decisione della lite all'arbitrio di Lorenzo de'Medici, sperando di avere in lui un patrono, o almeno un giudice spassionato, ma trovarono invece un loro avversario e tiranno. Avvegnachè per un fatto meramente privato fu dichiarata la guerra, assediata e presa Volterra, e tosto riunita insieme con il suo distretto, al contado della Repubblica fiorentina. â Vedere VOLTERRA.
Per consolare l'afflitta città abbandonata (1472) a un orribile saccheggio, che fu causa della sua desolazione, vi si recò l'arbitro Lorenzo, il quale, nel tempo che spargeva denari per calmare lo sdegno dei vinti, faceva costruire nel punto piÚ prominente della città una fortezza, in mezzo alla quale vide erigersi la bastiglia del Maschio.
Il conte Federigo d'Urbino capitano generale di quell'impresa, fu dalla Signoria di Firenze con grandi onori ricevuto, di preziosi oggetti regalato, e con decreto pubblico dichiarato cittadino. Affinchè poi la cittadinanza non paresse vana, il Comune comprò da Luca Pitti, per donare al conte di Urbino, la possessione magnifica della villa di Rusciano fuori di porta S. Niccolò.
Ma questo generale, con poco decoro suo e punta gratitudine a tante dimostrazioni, abbandonò ben tosto gli stipendj della repubblica fiorentina, per passare al servizio del re di Napoli e del pontefice Sisto IV; il primo de'quali conoscevasi antico e scoperto, l'altro novello e piÚ pericoloso nemico della città di Firenze e de'Medici che la dominavano.
Nè tampoco quei due sovrani della bassa Italia tralasciarono di tentare gli animi de'varj signori di Romagna e dei Senesi per offendere sempre piÚ d'appresso i Fiorentini, nel tempo che papa Sisto lusingava altamente l'ambizione del conte Federigo dichiarandolo duca d'Urbino. Del quale ostile procedere accorgendosi i reggitori della Repubblica, non mancarono essi di prepararsi alla difesa; sicchè essi col duca di Milano, con la Repubblica di Venezia, con i Perugini e con il signore di Faenza si collegarono. In questi sospetti e avversità di umori, fra i principi e le repubbliche dell'Italia, si visse qualche anno innanzi che alcun serio tumulto nascesse. Si mosse questo in Milano, nella chiesa e nel giorno di S. Stefano (anno 1476) da pochi congiurati, i quali trucidarono il duca Galeazzo; lo che fu un tristo preludio di altro non meno sacrilego assassinio, col quale poco dopo si tento in Firenze di spegnere con le persone il già colossale potere della famiglia che vi signoreggiava.
Dopo la vittoria riportata nel 1466 da Piero de'Medici sopra i di lui nemici, si era riformato e ristretto in modo il reggimento della Repubblica fiorentina da ridurre le prime magistrature nelle mani di Lorenzo o dei suoi ministri e seguaci; sicchè a coloro che n'erano malcontenti, o conveniva con pazienza quel modo di vivere comportare, o se pure avessero bramato di liberarsene, era duopo il tentarlo segretamente, e per via di congiure.
Non ignorava però Sisto IV, che Lorenzo de'Medici, in grazia di tanta influenza, formava un obice potentissimo alla sua ambizione, di che esso pontefice già contava piÚ di una prova, sia allorchè voleva comprare per il nipote Girolamo Riario la città d'Imola, sia quando il Medici segretamente ajutava Niccolò Vitelli, signore della Città di Castello, perchè si era opposto alle armi e alle minacce di Sisto, intento a rimettere in quella città i fuorusciti.
Adontato da queste, e fors e da altre cause meno palesi, Sisto IV, appena vacata la sede arcivescovile di Pisa, la conferĂŹ nel (1474) al cardinale Francesco Salviati, che sapeva dei Medici acerrimo nemico; tolse a questi la tesoreria pontificia di Roma per conferirla a Francesco de'Pazzi, stirpe per ricchezze e nobiltĂ in Firenze delle piĂš cospicue, e ai Medici rivale . â Aveva Cosimo de'Medici giĂ da un pezzo la Biauca figlia di Piero con Guglielmo nipote di mess. Jacopo della famiglia de'Pazzi aveva in matrimonio congiunta, sperando che quel parentado levasse via l'inimicizie fra le due case rivali; nondimeno la cosa procedette altrimenti; perchè Lorenzo, volendo esser solo a dominare, vedeva contrario alla sua autoritĂ riunirsi nei cittadini ricchezze e stato. Questo fece che a mess. Jacopo, primo della famiglia Pazzi, ed ai molti nipoti di lui non solamente non furono conceduti quei gradi di onore, che a loro piĂš degli altri cittadini pareva meritare, ma il dispetto e l'inimicizia contro i Medici ognora piĂš in quelli si accrebbe dopo che il magistrato degli Otto di balĂŹa, per una leggera cagione, Francesco de'Pazzi da Roma a Firenze costrinse a ritornare.
Una maggiore onta e danno negl'interessi, per l'influenza di Lorenzo, risentÏ Giovanni de'Pazzi altro fratello di Francesco, allorchè vide carpire alla sua famiglia una ricchissima eredità lasciata da Giovanni Borromeo, e ciò in vigore di una legge retroattiva, che spogliò la moglie sua, unica figlia del Borromeo, per far passare il patrimonio del suocero in Carlo Borromeo di lui nipote.
Non potendo adunque con tanta nobiltà e illustri parentele sopportare sÏ grandi ingiurie, i Pazzi cominciarono a pensare al modo di vendicarsene, e decisero: che solo col sangue di Lorenzo e di Giuliano onte si fatte potevano ripararsi e spegnere odj cotanto intestini e feroci. Dopo varie conferenze intavolate a Roma da Francesco de'Pazzi, il piÚ ardito di sua famiglia, si associò al criminoso progetto il conte Girolamo Riario nipote del Papa, e quindi il cardinale Salviati arcivescovo di Pisa, di poco tempo avanti stato offeso dai Medici; e finalmente si tirò, sebbene non senza fatica, nella volontà dei congiurati il vecchio Jacopo. Furono eziandio concertati i mezzi per ricevere di fuori un pronto ajuto all'impresa che si meditava, tenendo i congiurati a loro disposizione un corpo di cavalleria nei confini della; Romagna, comandato dal generale pontificio Gio. Battista da Montesecco, uno dei pincipali attori in quella orribile scena. Della quale scena si fece teatro la chiesa metropolitana di Firenze piena di popolo, in presenza di un cardinale, in giorno festivo (26 aprile 1478), quando si celebrava la principale messa, e nel punto stesso in cui Tratto dal ciel misteriosamente Dai sussurrati carmi il figliuol Dio Fra le sacerdotali dita scende.
Fatta una simile deliberazione, i congiurati se n'andarono a S. Maria del Fiore, dove, nell'ora e al momento segnalato, quelli apparecchiati ad uccidere Giuliano con tanto studio lo ferirono, che dopo pochi passi cadde estinto; ma gli altri destinati a trucidare il fratello Lorenzo,con sĂŹ poca fermezza all'assunto impegno adempirono, che egli fu in tempo, con l'armi sue di porsi sulle difese, e con l'aiuto degl'amici, che tosto lo attorniarono, di ricovrarsi e mettersi in salvo nella vicina sagrestia. In questo mentre l'arcivescovo Salviati si era mosso con un drappello di congiurati verso il palazzo del popolo per assalire il magistrato della Signoria, ma invece l'arcivescovo stesso e i suoi seguaci, per ordine del gonfaloniere, cui pervenne in tempo la notizia di tanto eccesso, vennero presto disarmati, e quindi, parte alle finestre del palazzo con un laccio alla gola sospesi, e parte gettati nella piazza e dall'accorso popolo fatti a pezzi e trascinati per la cittĂ ; in una parola quanti nelle congiura si scoprirono complici, furono presi e trucidati.
STATO DI FIRENZE DAL 1478 ALL'ULTIMO SUO ASSEDIO Fu in ogni tempo e fra tutte le nazioni costantemente provato essere pur troppo vero il politico assioma dal piÚ scaltro istorico fiorentino tre secoli indietro pronunziato che le congiure generalmente sogliono partorire chi le muove rovina, ed a colui, contro il quale sono mosse, grandezza. Dondechè quasi sempre un principe d'una città da simili macchinazioni assalito, se non è ammazzato (il che raramente interviene) sale in maggior potenza, e molte volte, essendo buono, diventa cattivo. L'importante periodo istorico che abbiamo qui sopra percorso, trovandosi quasi tramezzo a quelli dell'antica e della moderna istoria, ha da poter mostrare alla posterità , sia che rivolga l'occhio verso i remoti avvenimenti della prima, sia alle rivoluzioni della seconda, molti clamorosi esempi confacenti a confermare sempre piÚ l'assioma del Machiavelli.
Infatti l'esilio di Cosimo, seguito ben presto dal suo richiamo, portò nella sua persona autorità e riputazione tale da divenire il regolatore della repubblica fiorentina; la cospirazione del 1466 confermò a Piero di lui figlio le redini dello stato; finalmente la cungiura de'Pazzi fruttò a Lorenzo, detto poi il Magnifico, onoranza maggiore e immenso potere, ai suoi discendenti corone e triregni, a Firenze stragi senza esempio, oppressioni senza freno, e guerre senza frutto.
Dopo che il piano della discorsa congiura andò fallito, senza che nella cittĂ seguisse mutazione del reggimento dai nemici interni e dai potentati di fuora desiderato, il pontefice Sisto IV e Ferdinando re di Napoli risolvettero di eseguire a forza aperta quello che non avevano potuto ottenere di nascosto. Dondechè con grandissima celeritĂ messi i loro eserciti insieme, verso Firenze gli fecero incamminare, preceduti dalla dichiarazione di non volere altro dalla repubblica fiorentina, se non che lâesilio di Lorenzo deâMedici, unico loro nemico.
Intanto incominciarono a far sentire gli effetti della loro ostilitĂ col sequestrare le mercanzie o altre sostanze che i Fiorentini avevano nei dominii di Roma e di Napoli; e perchè, oltre le temporali anche le spirituali ferite Firenze sentisse, si fulminarono maledizioni dâinterdetto dal Vaticano. Fu risposto al Breve di scomunica di papa Sisto con la forza e dignitĂ confacenti a un popolo stato sempre della Cattolica religione e dellâApostolica sede valido sostegno. Si cercò dalla Repubblica fiorentina di raffrenare le forze spirituali fra le mani di cotal pontefice col dare ordini perentorj, affinchè nella metropolitana stessa, dove era seguito il sacrilego attentato, si tenesse un sinodo da tutti i prelati della Toscana soggetti al dominio di Firenze; e costĂ infatti, nel dĂŹ 23 luglio 1478 quei padri della Chiesa discussero e pronunziarono un appello delle ingiurie e dei torti di Sisto IV al futuro Concilio.
Si prepararono quindi con ogni sollecitudine le armi temporali, mettendo insieme truppe e denari in quella somma che i Fiorentini poterono maggiore; mandarono per ajuti al duca di Milano e ai Veneziani, e in faccia a Italia tutta, dando prove non equivoche dellâira, della persecuzione e dellâingiustizia del pontefice, la loro causa con valide ragioni giustificarono.
Non passò molto tempo che lâesercito regio-papalino, penetrando per la Val di Chiana, arrivò sul territorio fiorentino in Chianti, dove si trattenne 40 giorni ad assediare la Castellina; e ciò innansi che la Repubblica avesse messo in ordine forze sufficienti da fargli fronte. â Frattanto essendo sopraggiunto il verno senza che il nemico facesse altro acquisto dâimportanza, se si eccettui il castello di Monte Sansavino, si ridusse agli alloggiamenti nel contado di Siena, il cui governo mostrossi di lui amico.
Al ritorno della primavera i Fiorentini avevano presi tali vigorosi provvedimenti che furono in grado di respingere dalle campagne di Pisa alcune bande di fuorusciti capitanate da valenti condottieri, e poco dopo con una divisione del loro esercito comandata da Roberto Malatesta riportarono una luminosa vittoria sullâarmata papalina al lago Trasimeno; nel tempo stesso che unâaltra divisione, campeggiando fra Colle e Poggibonsi, teneva in scacco lâoste napoletana. Ma i disordini che sopravvennero nel campo deâFiorentini presso Poggibonsi (fosse per aviditĂ di preda fra i soldati, o per discordia fra i loro comandanti) produssero tale sconcerto che essi con ogni qualitĂ di offesa fra loro assalironsi, e quindi uno di quei capi (Ercole duca di Ferrara) ritornossene con le sue genti in Lombardia.
Allora il duce napoletano, profittando delle accadute dissensioni che lâavversario avevano indebolito, mosse coi suoi rapidamente da Siena verso Poggibonsi per assalire il campo deâFiorentini; i quali senza vedere la faccia del nemico si fuggirono abbandonando bagagli, viveri e artiglieria. Convenne perciò in tanta sventura richiamare frettolosamente il Malatesta dallâassedio di Perugina, affinchè cuoprisse Firenze da un colpo di mano, e difendesse il suo contado messo a ruba dallâoste Aragonese che aveva sparso da per tutto spavento e desolazione. â Che se il duca di Calabria avesse profittato della fortuna a lui offerta dalla viltĂ di un esercito prezzolato, la causa di Lorenzo deâMedici, e forse la stessa Firenze era perduta. Ma la dilazione, che fu sempre favorevole agli oppressi, salvò anche questa volta la cittĂ insieme col felice protagonista di quella guerra. Al che si aggiunse lâavvicinamento della fredda stagione, che sospese le ostilitĂ per rinchiudere le truppe, secondo lâuso di quellâetĂ , nei quartieri dâinverno.
Era quasi per finire il suo corso lâanno 1479, quando il papa e il re di Napoli, dopo due campagne, mandarono a offrire per tre mesi una tregua che fu volentieri accettata dai Fiorentini; ai quali un tale riposo servĂŹ per distintamente conoscere i sostenuti affanni, gli ultimi errori nella guerra commessi, le perdite fatte, le spese invano sostenute, le gravezze e i molti disgusti che la repubblica per lâambizione di una sola famiglia ingiustamente sopportava. â Le quali avvertenze,non solo tra i privati, ma nei consigli pubblici animosamente discorse, mossero Lorenzo dei Medici ad una di quelle azioni, che sogliono giudicarsi dal successo, temerarie, se infausto, grandi, se l'evento riesce felice. Risolse Lorenzo di recarsi egli stesso a Napoli, per mettere all'estremo cimento la insinuante eloquenza sua e il carattere del re Ferdinando, comecchè questo per molti esempi lo avesse dato a conoscere atrocissimo.
Imbarcatosi egli a Livorno nel cuor dell'inverno (5 dicembre 1479) con lettere credenziali della Repubblica, giunse a Napoli preceduto da sĂŹ gran fama e riputazione, che non solamente dal re, ma da tutta la cittĂ venne onoratamente e con grande espettazione accolto e corteggiato.
Il trionfo però di Lorenzo fu dopo essersi presentato al trono di Ferdinando, davanti al quale egli con tali persuasive maniere e con sĂŹ grande intelligenza parlò degli affari politici della sua patria, delle condizioni e diversi umori dei principi e popoli d'Italia, di quello che si poteva sperare nella pace e temere nella guerra, che Ferdinando, dopo l'ebbe udito, si maravigliò piĂš della grandezza d'animo di Lorenzo, della finezza d'ingegno e gravitĂ del suo giudizio, di quello che non si era prima maravigliato dell'avere egli solo potuto tante traversie sopportare. Entrò il re di Napoli in tutte le viste dell'ospite giĂ suo nemico, tanto che non solo si fece la pace (6 marzo 1480), ma fra loro nacquero accordi perpetui a conservazione de'comuni Stati. Tornò pertanto Lorenzo in Firenze grandissimo, s'egli se n'era partito grande, e fu dalla cittĂ ricevuto con quella allegrezza, che le sublimi sue qualitĂ e i recenti servigj meritavano. â Quello che arrecò noja a tanto tripudio fu la perdita che la repubblica fiorentina in questo tempo intese della cittĂ di Sarzana, stata inaspettatamente occupata da Agostino Fregoso di Genova contro la fede dei trattati; mentre dalla parte di Siena i Fiorentini miravano non senza inquietudine il duca di Calabria fermo col suo esercito, e dimostrando di esservi ritenuto dalle discordie di quei cittadini, talchè era fatto l'arbitro delle differenze loro al segno, che molti in denari, alcuni con le carceri, altri coll'esilio ed anche alla morte avendo condannati, diede all'universale ragioni da sospettare che di quella cittĂ non fosse per divenire tiranno.
Per buona sorte però de'Senesi e de'Fiorentini nacque un'accidente inaspettato, il quale diede al re di Napoli e al papa maggiori pensieri che quelli della Toscana, allorchè (28 luglio 1480) lo sbarco repentino di 6000 Turchi sulle coste di Taranto, l'assalto e l'uccisione che fecero (4 agosto) di quanta gente essi trovarono in Otranto, costrinsero il re Ferdinando a richiamare con grande premura il figlio e le sue genti dalla Toscana.
Questo medesimo caso obbligò Sisto IV a mutar consiglio; e dove prima non aveva mai voluto ascoltare proposizioni dai Fiorentini, fece loro sentire, che quando si piegassero eglino a domandargli perdono, sarebbe venuto a un accordo. â Non parve alla cittĂ interdetta di lasciar passare una sĂŹ favorevole occasione. Furono inviati a Roma 12 ambasciatori, i quali, dopo alcune pratiche, ricevuti nel portico di S. Pietro, doverono gettarsi ai piedi del papa assiso in trono, circondato da'suoi cardinali e prelati, per iscusarsi dell'accaduto con espressioni servili e con i piĂš grandi segni di umiliazione. Alle quali scuse Sisto rispose con parole piene di superbia e d'ira, rimproverando ai Fiorentini i pretesi delitti e le cattive opere che avevano data cagione s'accendesse una guerra, che fu spenta per la benignitĂ di altri e non per i meriti loro. Lessesi poscia la formula della benedizione e dell'accordo; al quale Sisto IV, oltre le convenute, altre condizioni onerose aggiunse per obbligare i Fiorentini a tenere armata una flottiglia contro il Turco.
Pareva che gli affari politici di Firenze fossero assai bene assestati, ancorachè molti si lamentassero, che il Magnifico coi denari del Comune alle cose sue private piuttosto che a quelle della Repubblica avesse rimediato.
Solo restava da riconquistare Sarzana, che Agostino Fregoso aveva venduta alla società politico-mercantile del banco di S. Giorgio di Genova, la quale a quell'epoca possedeva anche Pietrasanta. Ciò diede impulso a riaccendere contro i Genovesi nuova guerra; e la prima operazione fu diretta ad assalire e conquistare Pietrasanta, nell'anno medesimo in cui morÏ Sisto IV, (1484) e che s'innalzò sulla cattedra di S. Pietro il cardinale Gio.
Battista Cybo col nome di Innocenzo VIII. Mostrò questi un animo piÚ pacifico e un'inclinazione piÚ favorevole ai Fiorentini; lo chè conosciuto ben presto da Lorenzo de'Medici, fu con ogni industria da esso coltivato, cosicchè desiderando il nuovo papa d'invertire di qualche stato, e onorare di amici un figliuolo che teneva, chiamato Franceschetto, non conobbe in Italia con chi lo potesse meglio congiungere che con Maddalena figlia del Magnifico, onde formare un utile non meno che decoroso parentado. Questo infatti si concluse nell'anno medesimo (1487) che i Fiorentini ruppero l'esercito de'Genovesi davanti Sarzana, e riebbero questa città .
Riposò la Repubblica tranquilla nella potenza e nei talenti di Lorenzo de'Medici, il quale essendo rimasto libero dalle interne ed esterne molestie, si volse tutto ai comodi della vita e agli ornamenti della pace, attendendo a fare acquisto di libri rari, di mss. antichi, di oggetti di belle arti, e onorando di ogni maniera scienziati, artisti, filologi e poeti con affetto e generosità tanto maggiore, in quanto che egli conoscevasi nelle lettere assai versato. I piÚ celebri ingegni della sua età erano piuttosto gli amici e i compagni chi i protetti di Lorenzo; sicchè il palazzo veramente regio da esso innalzato nel poggio a Cajano, il pittoresco ritiro di Agnano alle falde del Monte pisano, e le magnifiche ville di Careggi e di Fiesole, ascoltavano spesse volte insieme il linguaggio del filosofo e le rime del poeta fra le geniali opere dell'artista e le generose grazie del mecenate.
Pare che ajutassero a rendere piĂš glorioso il reggimento di Lorenzo alcuni cittadini intente a far piĂš bella la cittĂ coll'edificazione di superbi palazzi; dei quali senza dubbio quello di Filippo di Matteo Strozzi contasi pur oggi per uno dei piĂš nobili e piĂš maestosi d'Italia.
Lorenzo trovavasi al colmo della sua grandezza, quando fu recato a Giovanni suo figliuolo il cappello cardinalizio nella età di 13 anni, per modo che giovane si trovò fatto papa col nome che da esso prese il secolo dei prodigj di Raffaello e di Michelagnolo.
All'alta rinomanza di Lorenzo cooperava non tanto il suo merito letterario, il giudizio finissimo che aveva nelle arti, e l'impulso generoso ch'egli dava agli studj, pei quali Firenze divenne la sede della letteratura e dei sommi artisti di Europa, quanto anche vi concorreva la stima e riputazione in cui egli era tenuto dai monarchi. A lui infatti dovettero gli Estensi la pace che salvò loro lo Stato nel 1484; gli Aragonesi di Napoli il ritorno della tranquillità turbata nel 1486 dalla guerra de'suoi baroni, il pontefice Innocenzo VIII la sommissione di Osimo ribellata da un suo tiranno; infine l'Italia tutta di non avere Lorenzo in veruna maniera acconsentito alla discesa dei Francesi, quando volevano soccorrerlo contro Sisto IV.
In una parola Lorenzo, comecchè guidasse i Fiorentini alle arti e ai piaceri per distoglierli dalle cure politiche dei loro avi, comecchè egli giungesse fino a manomettere il Monte comune per resistere ai di lui nemici, fu altronde tale uomo che seppe compensare con moltissimo bene il male che faceva alla libertà , parola divenuta ormai vuota di senso tra un popolo che da piÚ di mezzo secolo la pubblica libertà aveva perduta, e in un tempo in cui la gente che cresceva aveva succhiato altro latte e si andava nutrendo di principj diversi da quelli delle già estinte generazioni.
Laonde non si avrebbe piĂš a ricercare, dirò col Pignotti, se il Magnifico sia stato lâoppressore della repubblica; ma piuttosto, se il governo repubblicano fosse pei Fiorentini a quellâepoca il piĂš adatto.
MorĂŹ Lorenzo nella villa di Careggi, li 8 aprile del (ERRATA: 1490) 1492, della dolorosa malattia ereditata dal padre, con soli 44 anni di etĂ . In punto di morte volle vedere il padre Savonarola, di cui aveva mendicata lâamicizia per lâambizione di avere un letterato di piĂš e un oratore meno nemico; ma egli voltò le spalle a quel frate Gavotto, quando fu da lui richiesto di restituire a Firenze il libero regime.
Piero primogenito di Lorenzo, non ostante il difetto dellâetĂ , per partito della Signoria (il cui gonfaloniere, come se fosse morto il sovrano di Firenze, aveva preso lâabito di corruccio), e grazie allâintervento dei principi italiani che avevano inviati costĂ i loro ambasciatori per condolersi della morte del Magnifico, Piero, io diceva, qual successore del padre anche nelle cose di stato, fu dichiarato abile a tutti gli onori, magistrature, dignitĂ e privilegj della repubblica. Quanto però a Lorenzo fosse inferiore il figlio, dâingegno e di carattere, lo provò ben presto Firenze e lâItalia tutta.
Mancato con Lorenzo deâMedici il moderatore dei governi di quasi tutta la penisola, e succeduta alla sua perdita quella del pacifico Innocenzo VIII, salĂŹ nel suo posto lo scaltrissimo Rodrigo Borgia, che cambiò il nome in Alessandro VI.
Turbossi ben presto la pace dâItalia con lo svilupparsi fra i due piĂš potenti principi della medesima quei cattivi semi e tenebrosi motivi che la prudenza di Lorenzo e il suo credito avevano saputi tenere in freno e comprimere, se non del tutto estirpare.
Avvegnachè la troppa ambizione di Lodovico Sforza arbitro del duca di Milano, mosse il re di Napoli a richiederlo di liberare dalla tutela il nipote, giunto ormai ai suoi 20 anni. Dissimulò Lodovico; ma poco dopo si ruppe ogni pace. Allora Piero deâMedici che avrebbe potuto tenere la bilancia eguale tra quei due rivali, lasciò travedere qualche propensione verso Ferdinando, al sospettoso Lodovico, il quale per cupidigia di regno meditò di abbattere la casa Aragonese di Napoli col chiamare i Francesi in Italia e col far ritornare in scena il testamento, vero o apocrifo, della regina Giovanna II; la quale, dopo aver diseredato Alfonso re dâAragona, lasciò i suoi diritti a Renato duca dâAngiò.
Intanto Lodovico Sforza, piĂš noto col soprannome di Moro , simulando sempre, per segreti emissarj faceva credere ai principi Italiani, châegli adopravasi con ognâimpegno per stornare il re di Francia dal pensiero che aveva di scendere con numeroso esercito dalle Alpi.
A questâoggetto Lodovico aveva inviato un ambasciatore a Piero deâMedici, il quale credè di aver in mano lâoccasione propizia per convincere Carlo VIII della malafede del suo preteso alleato, onde distorlo dalla meditata impresa. Ma la bisogna andò tutta al contrario: stantechè tale rivelazione non solamente non distornò il re di Francia dallâimminente guerra, ma la condotta di Piero deâMedici, fatta palese al Moro , chiuse tra i due governi ogni strada a qualsiasi riconciliazione.
Arroge a ciò, che lâesito disgraziato di un tale maneggio fu la conseguenza di un altro fatto, il quale portò lâultimo colpo al credito e allâautoritĂ del figlio del Magnifico nella sua patria.
Carlo VIII con forbito esercito era di giĂ nel 1494 penetrato nella Toscana per la Lombardia, valicando lâAppennino della Cisa o di Pontremoli, quando sâintese a Firenze, che i Francesi avevano disertati molti paesi della Lunigiana soggetti o raccomandati della Repubblica, e che giĂ quellâoste era intorno ad assediare Sarzana.
Lâavvicinamento di una formidabile armata, e le atrocitĂ che aveva commesse nella sua marcia, destarono tale indegnazione e spavento nei Fiorentini, che esternando il loro mal umore contro Piero deâMedici, liberamente incolpavano la sua inconsideratezza di non avere nulla preveduto e nulla apparecchiato, onde fare argine a tanta piena, che minacciava lâimminente rovina della cittĂ e della repubblica.
Parve che Piero allora si scuotesse da tanta ignavia; e ricordandosi forse per la prima volta, ma poco a proposito, degli esempj di suo padre, volle copiare quello che fu senza dubbio il piÚ difficile, e che bastò a segnalare le eminenti qualità del Magnifico.
Piero si decise di partire per la Lunigiana alla testa di unâambasceria di ragguardevoli cittadini, che lasciò indietro a Pietrasanta, per recarsi solo a Sarzana davanti a Carlo VIII, nel tempo che i Francesi investivano la fortezza di Sarzanello; ma egli, che non aveva nè il genio nè la destrezza Lorenzo, ritornò carico di accuse a Firenze, ove gli fĂš inibito lâingresso nel palazzo della Signoria, per avere arbitrariamente offerte e cedute ai Francesi le fortezze di Sarzana, di Sarzanello, di Pietrasanta e di Motrone, e perfino quelle di Pisa e di Livorno, membri importantissimi dello stato. Per la qual cosa il popolo fiorentino essendosi contro un tale arbitrio acerbamente irritato, Piero dagli amici suoi sbigottiti lasciato senza consiglio, temendo della vita, con viltĂ pari alla fretta, fuggĂŹ coi fratelli lungi dalla patria.
Per tale sconsigliata partenza piĂš che le arbitrarie concessioni fatte al re di Francia, Pietro, Giuliano e il card. Giovanni Medici, tre figli del Magnifico, furono dichiarati ribelli, e alcuni dei loro palazzi del popolo saccheggiati.
Proseguivano intanto i Francesi la loro marcia per la Toscana, sicchè appena giunti in Pisa vi furono accolti con tanta letizia del popolo, che prese a gridare libertà .
Non poteva Carlo aderirvi senza ledere la sua dignitĂ rompendo le convenzioni stabilite con Piero in Sarzana.
Una deputazione di pisani recossi al palazzo dove Carlo alloggiava, e seppe con sĂŹ flebili espressioni dipingere lâintollerabile giogo deâFiorentini, che quel coronato, alzando la mano, disse: di voler fare ciò che fosse giusto; la quale risposta fu interpretata quanto una concessione di ciò che i Pisani domandavano. Esciti dallâudienza i deputati gridarono al popolo affollato, che gli attendeva, essere stata dal re accordata la grazia. Ciò bastò alla plebe per abbattere tutti gli stemmi della Repubblica fiorentina, e gettare in Arno lâinsegna del Marzocco, (il leone) nella di cui vece fu innalzata la statua del liberatore Carlo VIII.
Questi, non sapendo bene le cose che aveva concesse, volle che restassero in Pisa gli ufiziali deâFiorentini per esercitarvi la solita giurisdizione, non ostante che avesse ceduta la cittadella vecchia ai Pisani, ritenendo le sue genti la nuova. Quindi Carlo con il grosso dellâarmata si diresse a Firenze, dove entrò pomposamente, ai 17 novembre 1494, colla lancia alla coscia; lo che secondo lâuso francese indicava signoria della cittĂ . Andò ad alloggiare nel palazzo deâMedici in Via Larga, e a tutti i suoi militari furono assegnati quartieri dentro la cittĂ . La quale illuminata di notte e addobbata con tappeti di giorno, presentava lâidea di una festa in mezzo ai maggiori pericoli, sperando i Fiorentini di aver in qualche modo a placare il grandissimo sdegno contro di essi concepito da quel re. Nondimeno, per essere provveduti a ogni caso, aveva il governo ordinato ai maggiori cittadini, che empiessero le loro case occultamente di uomini del contado, che vi facessero entrare i condottieri con i loro camerati militari stipendiati dalla repubblica, e che ciascuno, tanto dentro quanto fuori della cittĂ , stasse attento per correre allâarmi al suono della campana maggiore del pubblico palagio.Terminate le prime cerimonie festevoli verso cotanto gravosi ospiti, incominciossi a trattare di accordo. Le prime proposte del re furono esorbitanti, scordatosi, o messa in non cale la convenzione fatta con Piero deâMedici; avvegnachè egli, oltre le domande intollerabili in denari, pretendeva di essere riconosciuto signore di Firenze e del suo dominio; dalla quale richiesta, benchè finalmente si discostasse, voleva nonostante lasciarvi uomini di toga con una qualche regia giurisdizione.
Erano da ogni parte esacerbati gli animi, non volendo Carlo dalle ultime sue pretensioni declinare, nè i Fiorentini a somme troppo gravose di moneta in alcuna guisa obbligarsi, nè giurisdizione e preminenza dâimpero nel loro stato consentirgli, quando in mezzo a tante difficoltĂ quasi insuperabili sviluppossi la virtĂš di Piero Capponi, uno dei quattro cittadini deputati a trattare col re. Era il Capponi uomo dâingegno, come dâanimo grande, e in Firenze stimato per queste qualitĂ , che rendevansi in lui piĂš splendide dallâesser nato di famiglia onorata, e dallâaver egli per avo un Neri e per bisavolo un Gino Capponi, due uomini che bastano a controbilanciare i tristi di un intiero secolo.
Avvenne intanto che Piero Capponi trovandosi un dĂŹ coi suoi colleghi alla presenza di Carlo VIII, e leggendosi da un segretario regio i capitoli immoderati, i quali come ultimatum dal re si proponevano, Piero con gesti impetuosi, tolta di mano del segretario quella scrittura, la stracciò innanzi agli occhi di Carlo VIII, soggiungendo con voce concitata: poichè si domandano cose sĂŹ disoneste, voi sonerete le vostre trombe, e noi soneremo le nostre campane; volendo espressamente inferire, che le differenze si sarebbero decise con lâarmi; e con il medesimo impeto, andandogli dietro i compagni si partĂŹ subito dalla presenza e dalle camere del re deâFrancesi.
Questâazione risoluta ed attiva, che poteva porre in estremo pericolo ognâaltra cittĂ , fu la salvezza di Firenze.
Lâenergia di Pier Capponi davanti a un potente monarca, in mezzo a un esercito tanto piĂš orgoglioso, quanto che non aveva visto ancora in Italia altro che scene di tradimenti, di bassezze e di viltĂ , fece tale e tanta impressione nellâanimo di Carlo e dei suoi cortigiani, che richiamati indietro i deputati della Repubblica fiorentina, e lasciate le domande, alle quali ricusavano di consentire, si convenne insieme in questa sentenza; 1.° Che la cittĂ di Firenze fosse amica, confederata e sotto la protezione perpetua della corona di Francia; 2.° Che le fortezze di Sarzana, Sarzanello, Pietrasanta, Motrone, Pisa e Livorno, cedute da Piero de'Medici, rimenessero in mano deâFrancesi fino a che il re non avesse fatta lâimpresa del regno di Napoli; 3.° Che in questo frattempo la giurisdizione, il governo e l'entrate di quelle terre e cittĂ fossero secondo il solito dei Fiorentini; 4.° Che si restituissero subito tutti gli altri paesi tolti e ribellati alla Repubblica, o li potesse ricuperare con l'arme, in caso che i rivoltosi ricusassero di aderirvi; 5.° Che i Fiorentini pagassero al re per sussidio della sua impresa 120,000 ducati a tutto giugno dellâanno 1495; 6.° Che si perdonasse ai Pisani il delitto di ribellione; 7.° Che fossero liberati dal bando di ribelli Piero de'Medici, il cardinal Giovanni e Giuliano di lui fratelli; ma non potesse il primo accostarsi per cento miglia ai confini del dominio fiorentino, gli altri due a cento miglia dalla cittĂ di Firenze.
Questi furono gli articoli e le condizioni piĂš importanti del trattato fra Carlo Vlll e la repubblica fiorentina, pubblicato e giurato solennemente durante la celebrazione della messa (26 novembre 1494) nella chiesa metropolitana, assistendo alla funzione lo stesso monarca con tutta la corte, la sua truppa in parata e un affollato popolo.
Due giorni dopo il re abbandonò Firenze, dov'era dimorato dieci dÏ, partendo verso Siena accompagnato da due ambasciatori, cioè, da Francesco Soderini vescovo di Volterra, che fu poi cardinale, e da Neri Capponi cugino di Piero.
Contuttociò nè lâesilio della famiglia Medici, nè la partenza dell'esercito francese giovarono a ristabilire in Firenze la tranquillitĂ , oppure a portare un piĂš libero regime, dove giĂ da 60 anni era rimasto poco piĂš che l'apparenza ed il nome di Repubblica.
In tale stato di cose pensò invece la Signoria di accrescer forza al potere esecutivo. Fu convocato il popolo in piazza (2 dicembre 1494) per carpirgli una tumultuaria approvazione onde eleggere una BalÏa, o giunta straordinaria con pieno potere di riformare il governo.
Furono quindi dalla creata BalĂŹa nominati i Venti Accoppiatori, ossia coloro che avevano il diritto di scrutinare e porre nelle borse i nomi di cittadini aventi diritto di potere esercitare lâufizio dei Priori e le primarie magistrature dello Stato. Si elessero i Dieci della guerra che variando titolo furono chiamati i Dieci di libertĂ e pace. Perchè poi non nascesse piĂš il caso di sopraffare l'un l'altro per la via dell'arbitrio fu eletta una deputazione di altri 10 cittadini destinati a sgravare chi fosse stato troppo imposto a far grazia ai debitori vecchi, e a porre sopra i beni stabili unicamente una gravezza, la quale, dal retribuire la decima parte del prodotto sulla rendita totale, fu chiamata lâimposizione della Decima.
Cotali riforme, che ristringevano in mano di pochi il governo, incontrarono una grande opposizione dalla parte di coloro, cui piaceva un piĂš largo e comune regime; sicchè sorsero subito due nuove fazioni. Il fomite delle civili discordie acquistò maggior sviluppo da un religioso entusiasmo, tostochè osò prendervi parte un troppo zelante missionario, (fra Girolamo Savonarola) che salito in gran fama di uomo di Dio, nelle sue predicazioni mescolava alle massime del vangelo le discussioni politiche, declamate in tuono profetico. â La sua voce tuonando dal pergamo fra il partito aristocratico e quello popolare, diè il tratto alla bilancia a favore del secondo, onde questo de'Piagnoni o Frateschi, lâaltro degli Arrabbiati era chiamato. Il primo trionfo deâPiagnoni fu la destituzione dei 20 Accoppiatori i quali uno dopo l'altro volontariamente o costretti si dimessero dal loro ufizio.
Si formò in seguito un Consiglio generale composto di 830 cittadini dellâetĂ di 30 anni compiti, purchè fossero netti di specchio, cioè non inscritti come morosi al libro delle pubbliche gravezze. Da quel Consiglio si eleggevano i diversi magistrati tanto della cittĂ , quanto del contado e dominio fiorentino. Per l'elezione dei priori di cadaun quartiere, traevansi a sorte dalle borse 24 candidati, quindi si eleggevano tra quelli a pluralitĂ di voti i due destinati a entrare di signoria, e quando toccava a quel quartiere la nomina del gonfaloniere di giustizia,vinceva il nome di quello che avesse riunito piĂš voti dei 20 dalle borse levati a sorte.
Per accogliere sÏ grande assemblea di cittadini, che in seguito fu accresciuta circa del doppio, fabbricossi per suggerimento del Savonarola il vasto salone nel palazzo della Signoria, terminato con troppa fretta da Simone del Pollajolo. Che però essendo la sala riuscita bassa e poco luminosa, fu piÚ tardi da Cosimo I fatta rialzare e dipingere da Giorgio Vasari.
Nell'occasione di tale riforma governativa, in segno di giustizia e d'aver oppresso il tiranno, rizzossi sulla ringhiera del palazzo della Signoria, ora sotto un arco della loggia dellâOrgagna, il gruppo di bronzo della Giuditta, opera egregia di Donatello.
Ma nel mentre gli animi dei Fiorentini si agitavano per dare piĂš larga forma al reggimento della CittĂ , i loro negozj esterni non andavano migliorando, sia per la manifesta ribellione dei Pisani, risoluti di non ritornare piĂš sotto il dominio fiorentino, sia perchè il re Carlo, quantunque avesse giĂ compita la conquista di Napoli, non solo avea mancato alla promessa di restituire le fortezze che gli erano state consegnate, ma le sue genti medesime favorivano e aizzavano i Pisani, divenuti aggressori, a impadronirsi di varie castella tolte ai Fiorentini. â Si trattò per mezzo di ambasciatori della restituzione di Pisa davanti al re che l'aveva promessa, e a tal uopo riscossa una somma di denaro. Ai lamenti dei Pisani, e alle accuse di crudeltĂ di leggi, e di eccessive gravezze imposte loro dai Fiorentini (cui faceva eco in Roma Burgundio Leoli celebre giureconsulto pisano), fu risposto in nome della Repubblica dal vesc. Soderini: che i Pisani furono governati colle stesse leggi e condizioni degli altri paesi del dominio di Firenze. La decisione sulla sorte di Pisa veniva altresĂŹ ritardata dai ministri del re, avidi di raccogliere grandi somme di moneta da ambe le parti. Tutto fu dai Fiorentini inutilmente tentato; invano lo zelante fra Girolamo, andato a Poggibonsi incontro a Carlo VIII, che ritornava da Napoli, a nome di Dio gl'intimò lâadempimento delle promesse, riportandone solo parola di restituire le piazze richieste tostochè il re fosse giunto in Asti.
Arrivato costĂ con le sue genti il monarca,dopo essersi col ferro aperta la strada a Fornovo in mezzo a un grandâesercito della lega nemica, ritornò a Firenze inaspettatamente Niccolò Alamanni con lâordine del re, affinchè Livorno e Pisa fossero restituite in grazia delle convenzioni tra esso e i delegati della repubblica stabilite in Torino ai primi di settembre dello stesso anno 1495.
Infatti Livorno si riebbe subito con le sue torri (15 settembre) senza altra difficoltà , che quella dell'ajuto di nuova moneta. Non seguÏ lo stesso delle altre fortezze, e molto meno di Pisa, il di cui generale francese Entragues trovava sempre pretesti di dilazione, benchè replicati ordini ricevesse dal suo sovrano. La passione dell'oro e l'amore per una giovinetta pisana a tal segno prevalse in lui sopra l'obbedienza e fedeltà dovuta al suo principe, che per 12,000 ducati per sè, e 8,000 per distribuire ai soldati, l'Entragues consegnó, nel primo dÏ del 1496, la cittadella ai Pisani, dai quali per suo consiglio fu subito disfatta. Si aggiunse quindi l'altro tradimento per di lui mezzo operato, vendendo Sarzana e Sarzanello per 24,000 scudi ai Genovesi, e poco dopo alienando Pietrasanta e Motrone per 17,000 scudi ai Lucchesi, senza curare gli ordini piÚ pressanti del re di Francia. Ma questi infedeli ministri non erano i soli che facessero contro i Fiorentini, tostochè il duca di Milano, il senato di Venezia e l'imperatore Massimiliano inviavano a Pisa soccorsi d'ogni specie, mossi ognuno di essi da diversi fini.
Stavano le truppe fiorentine campeggiando in Val dâEra, quando per ricuperare il castelletto di Sojana il commissario della Repubblica, nel 21 settembre 1496, animando i suoi all'assalto, rimase colpito a morte; e Firenze ebbe a piangere in quel prode l'intrepido Piero Capponi, quello stesso che strappando i capitoli alla presenza di Carlo VIII con coraggiosa risposta due anni innanzi aveva salvato l'onore e la libertĂ della sua patria.
Crebbero i timori e l'allarme in Firenze per l'avvicinamento dell'imperatore, quando s'intese che a Genova s'imbarcava con animo di fare l'impresa di Livorno. Fu perciò presidiata validamente questa piazza, talchè si trovò in grado di far fronte alle forze che la strinsero di assedio per terra e per mare: e potè anche sostenere la penuria di vettovaglie fino alla comparsa di una flotta dalla Provenza, la quale, passando in mezzo a quella de'nemici, entrò nel porto con soccorso di viveri, di armi e di militari.
La qual cosa ravvivò il coraggio e le forze negli assediati tanto che, rinnovando di frequente le sortite con esito sempre sfavorevole ai nemici, venne costretto lâimperatore a ritirarsi con le sue genti dall'assedio, dopo avere con poca gloria e verun profitto rischiata la vita.
D'allora in poi i Fiorentini ripresero (novembre del 1496) la maggior parte delle terre e castella delle colline pisane, intanto che l'oste imperiale ripiegavasi verso Sarzana, e che l'esercito della lega, per discordia dei capi, gelosia dei gabinetti, mancanza di paghe e di vettovaglie, stavasi nei quartieri inoperoso, e disgustato.
A quest'epoca risale il pio istituto in Firenze del Monte di pietĂ , proposto nelle sue prediche dal Savonarola, e per accatto di elemosine fondato a benefizio dei bisognosi, con la lodevole mira di frenare le strabocchevoli usure.
Si tentò poco dopo una trattativa tra le parti belligeranti, ma i Veneziani capi della lega non solo non vi concorsero, ma apertamente sostenevano Piero dei Medici, il quale cercava per forza di rimpatriare. Favorito in seguito dal duca di Milano e dai Senesi, aveva Piero concertato con i fautori di dentro di levare a rumore Firenze; alle cui porte con ogni diligenza alla testa di 800 cavalli e di 3000 fanti la mattina del 28 aprile 1497 videsi accostare, contando fra i complici suoi aderenti nella cittĂ Bernardo del Nero allora gonfaloniere di giustizia. Ma sconcertati i congiurati appena videro scoperta l'impresa di Piero poco innanzi del suo arrivo alla Porta romana, e avviliti dalle misure di difesa che il governo bentosto ebbe ordinate, quei di dentro stettero inoperosi, e Piero de'Medici con i suoi armati credè bene di ritirarsi frettolosamente per timore che gli venisse tagliata la strada da qualche divis ione dellâesercito fiorentino che poteva richiamarsi in Val dâEIsa dal territorio pisano. I capi della congiura furono condannati a morte senza accordar loro il benefizio dell'appello, lo che inasprĂŹ altamente il partito degli Arrabbiati contro i Frateschi, in guisa che riescĂŹ loro di vendicarsene con altre armi e con tali mezzi, che portarono sul patibolo il frate campione della fior. libertĂ (4 maggio 1498).
La quale luttuosa catastrofe fu preceduta di pochi giorni dalla morte di Carlo VIII; cosĂŹ che se con la perdita del frate predicatore fu tolto al partito Mediceo un pericoloso nemico nella cittĂ , mancò altresĂŹ ad esso una parte di appoggio nelle forze esterne e specialmente in quelle del duca di Milano per rivolgerle a guardare la casa propria, minacciata da Luigi XII pronto a incamminarsi dalla Francia nella Lombardia alla conquista di quel ducato. Per questi accidenti la Repubblica fiorentina avendo creato di nuovo i Dieci di libertĂ , e condotti al suo servizio uomini d'ogni arme e valenti capitani, spingeva con vigore l'impresa dalla parte di Pisa, nel tempo che da un altro lato faceva fronte a nuovi eserciti de'Veneziani che dalla Romagna rimontavano le valli transappennine per scendere con Piero deâMedici nel Casentino e in Val Tiberina.
Riesci quindi ai Fiorentini di stringere amicizia con Luigi XII nella seconda sua discesa in Lombardia (anno 1500) e di ottenere al loro soldo 5000 Svizzeri e 500 lance, onde riavere ad ogni costo Pisa. La quale cittĂ era loro scappata di mano pochi mesi innanzi, all 'occasione che fu atterrata (10 agosto 1499) una parte delle sue mura, assalita ed espugnata la rocca di Stampace. â Vedere PISA.
Ma per avventura anche la posteriore impresa militare deâFrancesi contro Pisa non riuscĂŹ meglio delle altre e fu anzi la piĂš disgraziata delle precedenti pei Fiorentini.
Avvegnachè appena arrivato quell'esercito in Lunigiana, tolse Massa e Carrara al marchese Alberigo Malaspina amico della repubblica; occupò quindi Pietrasanta, e fece accordo coi Lucchesi di non restituir questa Terra ai Fiorentini innanzi che essi riacquistassero Pisa. Giunto finalmente quel corpo di truppe davanti alla preaccennata città , fu incominciato con gran fervore l'assedio, ed era già aperta la breccia in una estensione di 40 braccia, quando per imperizia del capitano, e per disordine nella milizia, o per segrete intelligenze con gli assediati, fu sospeso il colpo tanto che quest'ultimi rianimati da soccorsi quasi inaspettati, tolsero affatto ogni speranza agli assalitori di guadagnare la loro città .
Non ostante che Firenze sentisse la gravezza di tanti mali, erano però questi di gran lunga superati dal timore fortissimo che vi si aggiunse di perdere, non tanto Pisa con le terre e castella del suo antico contado, ma l'indipendenza propria, tosto che si scoprirono le prave voglie del fraudolento duca Valentino. Il quale ajutato di denari, di consigli e di forze dal padre, con lâonorato titolo di voler reintegrare le membra sparse dello Stato pontificio, sotto la protezione del re di Francia, aveva rivolte le mire all'occupazione dell'Emilia, costringendo a fuggire da Imola la contessa Caterina Riario coi figli, togliendo la signoria di Rimini a Pandolfo Malatesta, Pesaro a Giovanni Sforza, e Faenza ad Astorre Manfredi; l'ultimo de'quali contro la fede della capitolazione fatto prigione, a Roma per ordine del duca fu barbaramente strangolato. Questo stesso fior di virtĂš, onde mantenersi l'acquisto di tante belle opere in Romagna, stava apparecchiandosi a dare esecuzione a de'concetti anco piĂš smisurati, impegnando Alessandro VI a collegarsi per interesse proprio coi Veneziani, nell'intenzione di potere rimettere in Firenze l'esule famiglia de'Medici, onde avere per suoi vicini principi nuovi, riconoscenti ed amici.
In questo stato di agitazioni politiche principiò il secolo XVI, quel secolo in cui dovevano spirare una dopo lâaltra le repubbliche di Pisa, di Firenze e di Siena. Per quanto i reggitori dello Stato fiorentino non trascurassero di vegliare e di provvedere alla pubblica salvezza con ogni sorta di mezzi, pure tanta diligenza sembrava insufficiente alla grandezza dei mali che gli si minacciavano.
Cominciò il duca Valentino a mandare a chiedere passo e vettovaglie per i luoghi della Repubblica; le quali cose ottenne a condizione, che le sue genti non dovessero entrare in terra alcuna murata, nè condur seco ribelli o nemici dello Stato. â Appena peraltro il Valentino videsi arrivato con 800 uomini d'arme, e 7000 fanti a Barberino di Mugello, fece intendere alla Signoria di Firenze, che a volerlo tenere amico, conveniva organizzare unâaltra forma di governo; oltre di che domandava che gli venisse accordata una pensione a titolo di capitano di eserciti, e che fosse data qualche soddisfazione ai Vitelli e agli Orsini, e qualora volesse egli intraprendere la conquista di Piombino, non dovesse essere impedito dalla Repubblica, seppure non lo voleva ajutare . â Fuori che in mutare Stato, fu risposto al duca, che si compiacerebbe. Ma accostandosi egli con le sue masnade sempre piĂš vicino a Firenze, riempĂŹ la cittĂ di spavento, non tanto pel numero de'nemici di fuori, quanto per l'intelligenza che dubitavasi esistesse con quelli di dentro.
Intanto, a prevenire ogni tumulto, si presero i necessarj provvedimenti col guarnire i poggi dei contorni e la cittĂ di gente fedele. Essendo giĂ il duca Valentino arrivato a Campi, sei miglia vicino a Firenze, e veggendo egli i cittadini quieti e il governo fermo nel suo proponimento, sopraggiuntigli in questo mentre ordini dal re di Francia che gl'inibivano di molestare la repubblica fiorentina, risolvè accordarsi seco mediante una provvisione di 36,000 ducati per 3 anni, con il solo obbligo di mandare 300 uomini d'arme ad ogni bisogno di guerra: purchè nessuna delle due parti fosse per ajutare i nemici o ribelli dell'âaltra, e che la Repubblica non desse noja al duca nellâimpresa che era per fare di Piombino. Firmate le convenzioni, il Valentino ai 17 maggio 1501 partĂŹ con le sue genti per Empoli e di lĂ per la Val dâElsa, rubando i paesi che attraversava, come se vi passasse un nemico; il quale, innoltratosi in Val di Cecina, non prima del 25 maggio uscĂŹ dal distretto della Repubblica, e per Val di Cornia entrò nel Piombinese.
Frattanto i Fiorentini ripresero con piĂš calore le ostilitĂ contro Pisa, dove le cose sue sarebbero procedute con felice successo, se nuovi tumulti insorti in Val Tiberina e in Val di Chiana, non avessero richiamate al rove le armi della Repubblica. E perchè d'ogni parte le crescessero i pericoli, intorno a questo tempo (giugno 1502) il feroce Valentino tolse lo stato a Guidobaldo duca d'Urbino, e poco dopo, entrato nel dominio di Camerino, con bestiale feritĂ strangolò con i teneri suoi figli Giulio Varano di quel paese Signore, nel tempo quasi medesimo che Arezzo, Cortona, Sansepolcro, Anghiari, Pieve S. Stefano, ed altri castelli limitrofi ribellavansi ai Fiorentini, ed accoglievano fra le loro mura Piero de'Medici, il Cardinale di lui fratello, e Vitellozzo Vitelli. Sennonchè quest'ultimo spaventato dalla crudeltĂ del Valentino; e temendo di esserne preda come il Varano (siccome in realtĂ avvenne), si accordò con le truppe Francesi accorse nel Val dâArno superiore, consegnando ai loro ufiziali la cittĂ di Arezzo, la quale bentosto con gli altri paesi del contado aretino, per ordine di Luigi XII, venne nellâagosto del 1502 ai Fiorentini riconsegnata.
Per quanto quest'ultimo successo recasse un qualche conforto a Firenze, tuttavia continuava nei cittadini ragionevole motivo di temere dell'insidie del fraudolento duca, essendo ormai conosciuto per uomo, che nè ad amici, nè a nemici serbando alcuna fede, procurava di sottomettere ogni cosa alla sua crudelissima libidine.
Laonde in Firenze, per meglio vegghiare sui maneggi di lui, che qual nuovo conte di VirtÚ, mirava niente meno che a insignorirsi di Siena, di Lucca e di Pisa, affinchè poi, circondata dalle sue armi, la repubblica fiorentina venisse a cadergli in seno per forza, fu convocato dalla Signoria il consiglio generale; nel quale fu deciso di creare il primo magistrato della Repubblica, non piÚ ogni due mesi, come fino allora erasi usato, ma un primo console a vita con l'antico titolo di gonfaloniere; cosÏ che per evitare un estremo si andò a rischio di incorrere in un altro piÚ pericoloso del primo. Fortunatamente cadde l'elezione in Piero Soderini, uomo di somma probità , accetto generalmente al popolo quanto un Publicola, e privo di figli da non poter dare ombra di aver a destinare ai suoi discendenti lo stato. Insieme col gonfaloniere a vita (che incominciò col mese di novembre 1502) fu dato principio al tribunale collegiale della Ruota fiorentina nel palazzo del potestà , levato via, non solo l'appello al capitano del popolo, ma questo magistrato medesimo dichiarato soppresso.
Fu cagione di maggior soddisfazione alla cittĂ , ed accrebbe onore alla famiglia Soderini, oltre l'elezione di Piero, la promozione del cardinal Francesco di lui fratello, fatta li 31 maggio 1503, appena tornato dall'ambasceria di Francia. Il novello porporato fu accolto in patria con solenne entratura e con onore grandissimo dai magis trati e da tutti gli ordini dei cittadini, poche settimane innansi che con letizia di tutta Italia giungessero avvisi della morte di papa Alessandro (18 agosto 1503) stimata per molti conti utile ai Fiorentini. SalĂŹ per pochi giorni sulla sedia di S. Pietro il pont. Pio III di casa Piccolomini, nipote di Pio II, per modo che dovette riaprirsi presto il Conclave. Dal quale nel dĂŹ primo di novembre fu proclamato in pontefice il cardinale Giuliano della Rovere, nipote di Sisto IV, che prese il nome di Giulio II, uomo di maravigliosa altezza d'animo, che aveva vigorosamente sostenuta l'inimicizia di Alessandro VI per la ecclesiastica libertĂ , ed erasi familiarizzato nell'arte della politica alla corte di Francia, da esso sino allora costantemente frequentata. â La Signoria di Firenze inviò a Roma ambasciatori, affinchè dopo le consuete cerimonie di obbedienza, mostrassero a Giulio II il sommo pericolo che derivare poteva ad esso lui e ai Fiorentini, nel caso che la Romagna fosse pervenuta in potere dei Veneziani: le cui armate in tempo di sede vacante avevano occupata la cittĂ di Faenza e molti altri paesi dei Malatesta in Val di Lamone, nè erano giovati a nulla i soccorsi mandati da Firenze in favore e a sostegno di quei piccoli principi.
Ricominciarono in quest'anno le ostilità tra i Francesi e gli Spagnoli nel regno di Napoli quando rinforzati quest'ultimi sotto la condotta del famoso Consalvo di Cordova, nelle vicinanze del Garigliano (dicembre 1503) riportarono una completa vittoria sopra i Francesi, fra le cui file trovavasi Piero de'Medici. Questi fuggendo allora sopra una barca alla foce di quel fiume terminò annegato una vita errante dopo 9 anni di esilio dalla patria.
Chi volesse salire al Monte Cassino vedrebbe il bel cenotafio che nel 1550 fece colĂ erigere Cosimo I con la seguente iscrizione: Petro Medici Magni Laurentii filio, Leonis X Pont. Max. fratri, Clementis Vll patrueli; Qui cum Gallorum castra sequeretur, ex adverso praelio ad Livis ostium periit, Anno aetat. XXXIII.
Dopo una vittoria cotanto segnalata, cominciarono gli Spagnoli a rendersi formidabili a tutta Italia; onde il Comune di Firenze, benchè fosse in lega e sotto la protezione del re di Francia, inviò al Gran capitano Consalvo un ambasciatore, acciocchè con ogni studio procacciasse di farlo benevolo ai Fiorentini, nè rivolgesse una parte delle sue genti in soccorso di Pisa; contro la quale cittĂ allâapparire della primavera del 1504 si volevano riprendere con piĂš calore le ostilitĂ . Ma i Pisani disposti a vincere o morire, quasi sempre sventarono tutti i mezzi e tutti gli sforzi del popolo fiorentino, non di rado resi vani dalle potenze oltramontane, per mantenere nella loro dependenza l'una e l'altra cittĂ ; e ciò sino a che, sul declinare dellâanno 1508, il re Cristianissimo, quindi il re Cattolico, mettendo i Pisani a mercato; indussero i Fiorentini, quando volessero senza opposizione dei due coronati, battagliando farsi padroni di Pisa, a pagar loro grosse somme di denaro (100,000 ducati al re di Francia e 50,000 a quello di Spagna); e dopo tutto ciò chiese ed ottenne anche la sua quota (40,000 ducati) Massimiliano imperatore.
Ă altresĂŹ vero che questâultima paga sopra ogni altra fruttò alla Repubblica fiorentina, avendola effettuata dopo le capitolazioni che confermarono al Comune di Firenze tutti i privilegj concessigli dai precedenti imperatori, compresa la cessione a tutte le ragioni, che sopra la cittĂ e distretto fiorentino, compresa Pisa con l'antico contado, potesse mai aver avuto l'Impero (AMMIR. St. Fior.
l.LXXVIII.) Frattanto a volere che i Pisani, stretti da maggiori difficoltĂ , si riducessero piĂš presto alla resa, fu dai Fiorentini assoldata nel 1509 una flottiglia, perchè guardasse la costa sulla foce di Arno, e alla cittĂ per via di mare impedisse ogni soccorso di gente e di vettovaglie; mentre dalla parte di terra Pisa era assediata dall'esercito diviso in tre parti; una delle quali accampossi alla sinistra e le altre due alla destra dellâArno. Tutti gli altri passi essendo chiusi, venne perciò a mancare agli assediati ogni speranza di soccorso, per modo che facendosi sentire la fame con le piĂš lacrimevoli miserie, cominciò il minuto popolo a tumultuare. Simulò il governo pisano di venire ad una trattativa per tener tranquilla la plebe, e nel tempo stesso tentare un colpo di mano sopra l'esercito fiorentino; ma la prima essendo stata scoperta, e il secondo andato fallito, bisognò che i Pisani si piegassero alla resa.
Era sulla fine del maggio 1509, quando si diressero a Firenze otto ambasciatori pisani accompagnati da Alamanno Salviati, uno dei tre commissarj dell'esercito fiorentino, per presentarsi alla Signoria, dalla quale ottennero una onorevolissima capitolazione, con ampio perdono della ribellione e di tante ingiurie e danni fatti alle cose pubbliche e private de'Fiorentini.
Nell'ottavo giorno di giugno i tre commissarj della Repubblica presero il possesso di Pisa, tornata dopo una ribellione di 15 anni sotto il dominio Fiorentino, e per la seconda volta, passato di poco il periodo di un secolo, vinta dalla fame e dall'oro, piĂš che dalle armi soggiogata.
Vi furono rimessi secondo l'antico costume i consueti magistrati, nominati però dalla Signoria di Firenze con l'approvazione de'consigli: e a tempo brevissimo vennero eletti per primi, Alamanno Salviati in Capitano del popolo, ossia Conservatore della pace, e Francesco Taddei in Potestà di Pisa.
Acconce in cotal modo le piĂš importanti cose dello Stato, restava però alla cittĂ di Firenze il dispiacere delle recenti nozze senza consentimento della Repubblica contratte da Filippo Strozzi figlio di quell'altro Filippo che edificò il grandioso palazzo, per aver egli, contro una legge che proibiva le parentele coi ribelli, tolta in moglie Clarice figlia di Piero de'Medici; onde Filippo fu condannato a una multa, e per cinque anni ammonito. â Nè potevasi mai prevedere che la sorella di Leone X col suo marito Filippo Strozzi, come anche i figli che erano per nascere da quel connubio, dovessero essere fieri nemici non meno al duca Alessandro figlio di Lorenzo de'Medici, loro respettivo nipote e cugino, quanto anche al di lui successore duca Cosimo I.
Dopo l'acquisto di Pisa, il governo fiorentino, avendo rivolte le cure alla parte economica, bandĂŹ la moneta dâargento tosata, e fissò un giusto peso per le altre. Fu allora che si aumentarono sino a tre, dove prima erano due, gli ufiziali della zecca, al pari dei Triumviri monetales di Roma; che si coniò, oltre diverse altre monete di minor valore, quella d'argento, di cui ne entravano venti per ogni fiorino dâoro, la quale dal papa allora regnante fu chiamata col nome di Giulio.
Dopo tali provvedimenti il gonfaloniere perpetuo, veggendo essere già finiti 8 anni del suo reggimento, volle dar conto di tutte le pubbliche spese fatte in tempo della sua amministrazione. Ordinò a tal uopo lo spoglio dei libri della Camera, ossia della depositeria dello Stato, e raccolto tutto quello che dai sindachi del Comune era stato saldato, fu trovato essersi spesi in quel periodo di anni per conto della Repubblica 908,300 fiorini d'oro.
Ciò fu notificato ai 22 di dicembre 1510, il giorno innanzi che si scuoprisse una congiura contro il Soderini, ordita in Bologna da un Prinzivalle di Luigi Stufa giovine fiorentino, il quale, immaginando di aver per compagni alcuni suoi concittadini, recossi a Firenze per tentare Filippo Strozzi, che come parente deâMedici e per tale effetto ammonito, credè, pronto a entrare nella cospirazione; ma accortosi della risposta dello Strozzi, che non solo non avrebbe aderito, ma che probabilmente potrebbe svelare al governo il suo reo disegno, si ricovrò prontamente in Siena. Il Soderini che veder doveva in questo attentato con quali nemici aveva a fare, invece di cercare ogni mezzo di riconciliarsi con il pontefice, conscio dell'attentato, lo sdegnò maggiormente coll'accordare ad alcuni cardinali la cittĂ di Pisa per tenervi un concilio. Da ciò ne avvenne che Giulio II richiamò da Firenze il suo Legato, e fulminò sulla cittĂ l'interdetto, che provvisoriamente sospese all'avvicinarsi dellâesercito francese. Ciò accadde poco prima della famosa giornata di Ravenna, (11 aprile 1512) in cui si colmò di gloria il valoroso duca Alfonso d'Este, e nella quale restò prigioniero il cardinale Giovanni de'Medici Legato pontificio. Ma la morte del prode generale di Foix, rimasto nel campo di battaglia, bastò a distruggere tutti i frutti della vittoria dagli alleati de'Fiorentini riportata.
Appena Giulio II vide l'esercito francese ritirarsi dall'Italia, riprese il suo tuono imperioso, stimolato dall'odio contro il gonfaloniere Soderini, non meno che dal desiderio di avere autoritĂ piĂš che spirituale sopra tutta l'Italia. Dondechè Giulio, nel luglio del 1512, intimò ai Fiorentini di rimuovere dal governo il Soderini, premurosamente insistendo, affinchè si rimettessero in patria i fuorusciti, e nella pristina grandezza la famiglia de'Medici. Indi spedĂŹ a Firenze Lorenzo Pucci suo datario, per tentare con lâoratore che vi teneva Don Raimondo di Cardona vicerè di Napoli, allora generale dellâesercito alleato, i Fiorentini a staccarsi dallâamicizia del re di Francia, affinchè si unissero alla lega, cui fu dato il titolo di Sacra .
Frattanto che si perdeva in progetti e in trattative il gonfaloniere della Repubblica fiorentina, tenevasi in Mantova un congresso segreto fra gli ambasciatori della Sacra alleanza, nel quale si determinò, che il ducato di Milano fosse reso a Massimiliano Sforza, che si assalisse repentinamente il territorio fiorentino. Con questa deliberazione il Vicerè alla testa di un esercito spagnolo si mosse da Bologna per l'Appennino di Pietramala, dove lo raggiunse il cardinale Giovanni de Medici con la qualità di Legato pontificio in Toscana, di corto. fuggito verso Milano dalle mani de'Francesi, dei quali era rimasto sino allora prigioniero.
A Firenze, inteso lâavvicinamento degli Spagnoli, sul timore eziandio che da unâaltra parte si avanzassero le truppe pontificie, erano gli abitanti in grandissimo spavento, tanto piĂš che poche erano le genti d'arme, ne alcun capitano di vaglia, cui si potesse il comando affidare. Nondimeno si cercò di provvedere al riparo sollecitamente, quanto la brevitĂ del tempo lo comportava; nè si mancò eziandio di tentare, benchè tardi, la via dell'accordo, mandando ambasciatori al Papa e al Vicerè. Ma se da un lato il primo mostrossi inflessibile alle offerte e alle preghiere, rispondendo non essere questa impresa sua, e farsi senza soldati pontificii; dall'altro lato il Vicerè, che giĂ era disceso col suo esercito dallâAppennino della Futa a Barberino di Mugello, presso 18 miglia a Firenze, rispondeva per un suo messo alla Signoria, non essere intenzione della Sacra lega di alterare il dominio, nè la libertĂ dello Stato, solo che si rimovesse il gonfaloniere Soderini, e che i Medici potessero ritornare a godere la patria. A tali domande esposte nel consiglio generale, il gonfaloniere si mostrò pronto ad aderire per ciò che riguardava la sua persona, col rinunziare la suprema magistratura, nella quale per consentimento pubblico era tanti anni seduto: dichiarando nel tempo stesso, che si attribuirebbe a singolare felicitĂ , se questa domandata rinunzia e il richiamo de'Medici in patria come privati cittadini, e non arbitri delle leggi e dei magistrati, fosse il vero mezzo della salute della patria.
Non era dubbio quello che il consiglio generale avesse a deliberare, per l'inclinazione che aveva quasi tutto il popolo di mantenere il governo libero. Perciò con maraviglioso accordo fu risoluto, che si consentisse al ritorno de'Medici come uomini privati, ma che si rifiutasse la domanda di rimuovere il gonfaloniere Soderini, e con la vita si attendesse a difendere la comune libertĂ . â Però volti tutti i pensieri alla guerra, e fatta provvista di denari, si spedirono 2000 fanti con pochi uomini di cavalleria nella Terra di Prato; la quale si temeva avesse a essere la prima assaltata, siccome infatti lo fu pochi giorni appresso dal Vicerè. Il quale, poichè a Barberino ebbe raccolto l'esercito e le artiglierie, si accostò con 5000 uomini di quella terribile fanteria, che aveva saputo sola far argine a tanto impeto nella giornata di Ravenna; indi a poco cominciò a battere con due cannoni le mura di Prato verso la porta, che ha tuttora il nome del Serraglio; e appena aperta la breccia, s'ordinò l'assalto, non trovando piĂš ostacoli mediante la fuga dei difensori. In guisa che gli Spagnoli, entrati dentro, corsero liberamente la Terra (il dĂŹ 29 agosto dellâanno 1512) dove non era piĂš resistenza ma grida, fuga, violenza, sacco, e uccisioni.
Nè sarebbe stata salvata cosa alcuna dallâavarizia, libidine e crudeltĂ dei vincitori, se il cardinal deâMedici, messe le guardie alla chiesa maggiore, (dove era uno dei tanti suoi benefizj ecclesiastici) non avesse cercato di conservare l'onestĂ delle donne, che quasi tutte vi si erano rifugiate.
I cittadini piĂš facoltosi, salvati alla strage, furono costretti per via di minacce, o dai tormenti straziati, di redimersi a carissimo prezzo dalla prigionia de'Spagnoli.
Il miserabile evento di Prato spaventò tutta Firenze, e piÚ d'ogn'altro il gonfaloniere, il quale retto piuttosto che rettore, irresoluto lasciavasi guidare dalla volontà degli altri; cosicchè furonvi molti giovani nobili, e avidi di cose nuove che divennero piÚ audaci. Contavasi fra questi Anton Francesco degli Albizzi e Paolo Vettori, i quali già eransi con Giulio de'Medici, figlio di Giu liano, occultamente abboccati in una villa del territorio fiorentino dalla parte di Siena. Ora avendo essi comunicato il progetto loro a Bartolommeo Valori, giovine splendido e al pari del Vettori indebitato, decisero insieme di cavar per forza il gonfaloniere dalla residenza della Signoria. Infatti, due giorni dopo la perdita di Prato, entrati essi con pochi compagni in palazzo, e introdottisi nella camera del Soderini, lo minacciarono di torgli la vita, se non si partiva di là , dandogli in tal caso fede di salvarlo. Alla qual cosa per soverchio timore cedendo il gonfaloniere, fu tratto di palazzo e accompagnato alla casa del Valori, donde la notte appresso si condusse fuori di Stato.
RisentÏ particolarmente i tristi effetti di cotale avventura il celebre Niccolò Machiavelli, il quale avendo in questo tempo perduta la carica di segretario della Repubblica, si ridusse a vivere ritirato e meschino nella sua villetta a S.
Andrea in Percussina, maledicendo la dappocaggine di Pier Soderini, resa ormai volgare da quei suoi piccantissimi versi: La notte che morĂŹ Pier Soderini Lâalma nâandò dellâinferno alla bocca; E Pluto le gridò: anima sciocca, Che inferno? Vaâ nel Limbo deâbambini.
Ma lo scritto che dĂ maggiormente a conoscere il carattere del Segretario fiorentino, a me sembra il tenebroso opuscolo da esso lui in detta villa dopo il ritorno de'Medici a Firenze sul subietto del Principato compilato, per indirizzarlo alla magnificenza di Giuliano, sperando, siccome l'autore faceva presentire allâamico Vettori, che quel suo lavoro fosse per essere accetto a un principe, e massime a un principe come lui nuovo; e desideroso che questi Signori Medici cominciassero ad adoprarlo (Niccolò); perchè se poi (cito le sue parole) non me li guadagnassi, io mi dorrei di mè. (LETTERA DEL MACHIAVELLI A FRANCESCO VETTORI.) La fraudolenta cacciata del gonfaloniere perpetuo accaduta nel giorno stesso che dovevano escire di carica i vecchi priori, fu non senza minaccia dei congiurati formalmente acconsentita dalla Signoria che esciva di seggio, e dalle altre magistrature.
Non era appena il Soderini dalla città partito, che i nuovi Signori inviarono al Vicerè legati per trattare di un accordo, il quale per opera del cardinale de'Medici facilmente si compose; obbligandosi il governo di Firenze di restituire alla patria, come privati cittadini tutti gl'individui della famiglia Medici, con facoltà di ricomprare fra certo tempo i loro beni dal fisco alienati; mentre dovè la Signoria aderire, in quanto alle cose politiche di fuori, ad entrare nella Sacra lega , e inoltre ad adempire agli obblighi verso di quella contratti dal cardinale, pagando, cioè, per mercede del ritorno de'Medici 40,000 ducati all'Imperatore; 80,000 al Vicerè per le spese della guerra e per interesse suo proprio altri 20,000 ducati.
Rimossi per tal guisa i pericoli della guerra, i Fiorentini determinarono con nuove leggi, che il gonfaloniere si eleggesse per un anno, sebbene dopo il primo eletto (Gio.
Battista Ridolfi) si ritornasse all'antico sistema bimestrale.
Quindi fu risoluto che, senza alterare il senato, o sia il consiglio degli 80 (con l'autoritĂ del quale si deliberavano le cose piĂš gravi), per dargli maggior vigore gli si aggregassero in perpetuo tutti coloro che nei tempi trascorsi avessero amministrate le prime dignitĂ ; vale a dire, dentro la cittĂ , quegli che fossero stati o gonfalonieri di giustizia, o dei dieci della balĂŹa di guerra; e fuori di Firenze, coloro che, essendo stati nel consiglio degli 80, avessero anche eseguite ambascerie presso qualche potenza, o fossero stati commissarj generali nella guerra.
In quanto al resto rimasero fermi per allora gli ordinamenti antichi.
Ma troppo erano trascorse le cose, e troppo potenti nemici aveva la pubblica libertà . Nel centro del dominio un esercito prepotente e sospetto; dentro la città audacissimi giovani cupidi di opprimerla; dello stesso animo, benchè con le parole dimostrasse il contrario, era il cardinale de'Medici; il quale non reputava premio degno di tante fatiche il ritorno suo e de'suoi come privati cittadini.
La Signoria avendo ratificato il trattato dagli ambasciatori conchiuso col Vicerè, questi nel 14 di settembre entrò in Firenze, accompagnato da molti soldati ufiziali del suo esercito, dal cardinale Giovanni, dal fratello Giuliano e dal loro nipote Lorenzo.
Quindi nel giorno seguente, mentre era congregato nel palazzo del popolo per le cose occorrenti il generale consiglio, comparve costĂ il Vicerè con un numeroso seguito sotto titolo di avere a trattare di un qualche pubblico negozio; quando in poco dâora, sopraggiunta altra gente d'armi, allâimprovviso fu assalita la porta, e occupati tutti i posti della residenza, depredando gli argenti, e ciò che v'era per uso della Signoria. Costretti i Priori dalla forza, dovettero cedere alla proposizione fatta da Giuliano de'Medici, presente a quella scena, di far chiamare subito al suono della campana maggiore il popolo in piazza. Coloro pertanto che vi concorsero, circondati dagli Spagnoli armati, consentirono che fosse data ampia BalĂŹa a 50 cittadini, investendoli per un anno della medesima autoritĂ che aveva presso i Romani la somma dittatura, con autoritĂ di potersi da sè medesimi per un altro anno raffermare. Furono quindi cotesti arbitri scelti tutti fra i dipendenti o amici del cardinale, in guisa che la nuova BalĂŹa, a forza di riformagioni, ridusse il governo alla forma medesima châera innanzi all'anno 1494, col ridonare ai Medici non solo il perduto dominio e grandezza, ma col porli in grado di governare la cittĂ piĂš imperiosamente e con arbitrio piĂš assoluto di quello che soleva fare lo stesso Magnifico. In tal modo fu oppressa quella libertĂ civile che dal probo gonfaloniere Soderini era stata in Firenze rispettata, e per opera di armate straniere questa volta carpita dalla famiglia medesima, cui nei tempi trascorsi era riescito di assorbirla a forza di buone grazie, di munificenze e di oro.
Era da pochi mesi restituito alla patria e agli onori l'espulso ramo Mediceo, quando s'intese la morte di Giulio II, accaduta in Roma la mattina del dĂŹ 21 febbrajo 1513, mentre egli proponevasi di spogliare il prode duca Alfonso del dominio di Ferrara. Nonostante i suoi smisurati concetti, Giulio II lasciò di sè altissima ricordanza per il gigantesco progetto di liberare lâItalia dal domino dei forestieri, che egli a imitazione degli antichi Romani qualificava col titolo di barbari, per lâambizione inesauribile di esaltare col mezzo della guerra e col sangue dei Cristiani l'impero temporale della Chiesa, per l'ardore generosissimo con cui favorĂŹ le arti belle, e i sommi maestri, che allora fiorivano; cosicchè mercè di quel pontefice divenne ammirabile il tempio maggiore dell'orbe Cattolico, e lâimmenso palazzo Vaticano.
Il settimo giorno del conclave (11 marzo), senza discrepanza di alcuno, fu eletto in pontefice il cardinale Giovanni de'Medici, di soli 37 anni, il quale assunse il nome di Leone X . â SentĂŹ di questa elezione quasi tutta la CristianitĂ , e Firenze precipuamente, gioja e piacere grandissimo, per la chiara memoria del valore paterno e per la fama che risuonava per tutto della liberalitĂ , dolcezza e amore di lui verso le arti e i letterati. â La cavalcata solenne del possesso di Leone X, nella quale si vuole che egli prodigasse la somma di 100,000 ducati, riescĂŹ una festa delle piĂš magnifiche, e di tanta pompa, che Roma da molti secoli non aveva visto nè la piĂš decorata nè la piĂš bella; e fece quel giorno piĂš memorabile e di maggiore ammirazione il considerare, che colui che formava l'oggetto di tanto splendore era stato lâanno innanzi, in quel dĂŹ medesimo (11 di aprile) fatto daâFrancesi miserabilmente prigione alla sanguinosa battaglia di Ravenna.
Per tale avvenimento i Fiorentini divennero entusiasti, e tutte le altre cittĂ della Toscana fecero pubbliche feste e allegoriche rappresentazioni, fra le quali si racconta quella eseguita a Siena col cavallo Trojano condotto in cittĂ , con cui pare che simbolicamente si volesse avvertire il popolo del pericolo che minacciava alla sua libertĂ quella stessa famiglia, per un individuo della quale allora si festeggiava.
Fra i dieci ambasciatori fiorentini destinati a recarsi in tal circostanza a Roma fu compreso l'arcivescovo Cosimo deâPazzi, ma sopraggiunto da grave infermitĂ , cessò di vivere nel giorno stesso della gran cavalcata di Leone, il quale poco dopo nominò alla stessa cattedra arcivescovile di Firenze il cavalier gerosolimitano Giulio deâMedici nato da Giuliano suo zio, quello stesso Giulio, che nella festa predetta, armato sopra un grosso corsiere videsi in Roma portare il gonfalone della religione di Rodi, e alla prima promozione nominato cardinale di Santa Chiesa.
Pochi mesi dopo, il pontefice Leone X, fatto arbitro fra i Fiorentini e i Lucchesi a cagione di alcune pretensioni di Stato, pronunziò sentenza che i secondi dovessero restituire ai primi la Terra di Pietrasanta con il suo distretto. â Governavasi pertanto la cittĂ di Firenze a piacere e secondo gli ordini del Papa, il quale indusse il magistrato della BalĂŹa a creare in capitano de'Fiorentini con suprema assoluta potestĂ Lorenzo suo nipote, fig liuolo di quel Piero che cedè le fortezze della Repubblica a Carlo VIII; nel tempo che il fratello Giuliano imbarcava a Livorno con la novella sposa figlia di Filippo duca di Savoja, invitato dal Papa a Roma non senza conforto di farlo salire sopra uno dei troni d'Italia, per quanto il carattere di Giuliano da tali ambizioni si mostrasse alieno anzi che nò.
Appena arrivato in Roma, Giuliano fu nominato capitan generale della Chiesa, e il cardinale Giulio inviato a Bologna Legato apostolico. Giuliano però non tenne che di nome quella carica; avvegnachè essendosi ammalato, fu incaricato del comando delle truppe pontificie il nipote Lorenzo, con ordine di passare in Lombardia per unirsi alle genti dei Collegati destinati a far fronte aâFrancesi che col loro re Francesco I tornavano in Italia.
La vittoriosa giornata da questi ottenuta (13 settembre 1515) a S. Donato presso Marignano decise Leone X a stringere accordo, e quindi a collegarsi col vincitore. Ai 21 di ottobre i plenipotenziarj convennero nei preliminari del trattato di pace, mercè cui il re prese sotto la sua protezione il Pontefice, il fratello e il nipote, a condizione però che la Chiesa restituisse Parma e Piacenza tolta da Giulio II, come membri del ducato di Milano.
Quindi Leone X, avendo fatto invitare Francesco I a un abboccamento in Bologna, si partĂŹ da Roma li 6 novembre 1515, accompagnato da 18 cardinali e da un corrispondente corteggio di prelati, di ambasciatori esteri e di altri illustri personaggi; ed entrando in Toscana per la Val di Chiana, prese la strada di Arezzo, di Montevarchi e dell'Incisa, di dove per S. Donato in Collina si condusse, ai 16 dello stesso mese, all'Impruneta, e nel giorno appresso alla villa Gianfigliazzi a Marignolle. CostĂ si trattenne tre giorni per dar tempo ai Fiorentini di compire i grandiosi preparativi, che si facevano ad oggetto di ricevere il pontefice con pompa non piĂš veduta. Egli vi entrò li 30 novembre passando come un conquistatore per sette archi trionfali tutti ornati di figure allegoriche, oltre quella di Lorenzo padre del pontefice, posta sopra un arco a S. Felice in Piazza con sotto queste parole: Hic est Filius meus dilectus. Altre pompose feste si rinnovarono al ritorno del pontefice da Bologna. â Per altro nè cotanta gioja della cittĂ , nè la presenza di sĂŹ acclamato pontefice bastarono a sollevare il di lui fratello Giuliano dalla infermitĂ che lo affliggeva, e contro la quale riescirono vani tutti i rimedj dellâarte; sicchè poco dopo la partenza del Papa, nella Badia Fiesolana, dove ultimamente era stato condotto, li 17 marzo del 1516 morĂŹ nella fresca etĂ di 37 anni, non lasciando che un figlio naturale, Ippolito, che fu poi cardinale, natogli mentre era esule in Urbino.
Giuliano per le sue lodevoli qualitĂ , per il gusto che nelle lettere e nelle belle arti aveva ereditato, a preferenza di ogni altro della sua casa, portò l'onorevole paterno titolo di Magnifico, trasmesso anche al figlio Ippolito. Egli fu dai Fiorentini sinceramente compianto, tanto piĂš che la sua autoritĂ servĂŹ di freno all'orgoglio del nipote Lorenzo e alle brame smoderate di Leone X di lui fratello, trattenendolo, finchè visse, dal perseguitare il generoso ospite del suo esilio, Francesco Maria della Rovere duca di Urbino. Ma appena mancato ai viventi Giuliano, tormentato (ERRATA: dalla sorella Clarice) dalla cognata Alfonsina Orsini il Papa occupò il ducato dâUrbino con una guerra che costò (dal 1517 al 1518) non meno di 800,000 ducati, la maggior parte cavati dai Fiorentini; guerra poco onorata al primo e poco utile ai secondi, che dovettero contentarsi due anni dopo (luglio 1520) di ricevere in ricompensa di tanta moneta il Vicariato di Sestino con la fortezza di S. Leo, e la regione di Montefeltro. â Vedere SESTINO.
Questa stessa guerra diede chiaramente a conoscere quanto lâaffetto del nipotismo fosse di pregiudizio ai papi, con tutto che dopo il trattato di cessione di quel ducato, Lorenzo deâMedici, riconosciuto in nuovo duca di Urbino, avesse fissato il matrimonio (aprile 1518) con Maddalena di Boulogne, da cui naque la celebre Caterina di Francia, che costò la vita alla madre (28 aprile 1519.) Rimase anche orfana sette giorni dopo del padre (il 5 maggio), nell'anno stesso in cui venne al mondo (11 giugno 1519) il primo Granduca di Toscana.
Non fu la perdita di Lorenzo pianta dai Fiorentini, come quella di Giuliano; che anzi per un rumore divulgatosi, sino da quando tornò di Francia sposo, essere intenzione di lui farsi Signore di Firenze, molti cittadini sentirono contente della sua morte. Infatti tostochè la sorte arrise al duca Lorenzo, questi manifestò un carattere orgoglioso e prepotente a segno che tutti gli affari pubblici si facevano dalle sue creature; di modo che egli considerava lo Stato fiorentino come un patrimonio avito, di cui potesse liberamente disporre; e lo faceva con tale arbitrio, che trascurava perfino quelle formalitĂ e quella decenza che usarono i suoi maggiori, se non altro per far credere al popolo che esso viveva sempre sotto un libero regime. Lo stesso cardinal Giulio di lui zio, recatosi da Roma a visitarlo, ne ripartĂŹ ben presto mal soddisfatto. â Tornò il cardinale a Firenze negli estremi giorni del di lui nipote; estinto il quale, e compite le esequie con le consuete condoglianze, andò il porporato a visitare la Signoria, e con quella moderazione e politica che Lorenzo non conosceva, si trattenne con essa a riordinare le cose del governo, mostrando dispiacere, che la scelta dei magistrati, soliti per antico uso a trarsi dalle borse a sorte, fosse stata fatta ad elezione del duca. E allorchè Leone X destinò quel cardinale arcivescovo di Firenze in preside e governatore della Repubblica, questi seppe con tali prudenti consigli provvedere al reggimento di essa, che si fece ammirare e ben volere dal maggior numero de'Fiorentini, non accortisi ancora dei suoi ambiziosi desiderj, tenuti per tanti anni con incredibile artifizio mascherati e compressi.
Vide Leone X nella morte di Lorenzo mancare il fondamento principale su cui voleva basare un trono per la sua famiglia; e vi fu anche alcuno che in tal'occasione non mancò davanti lo stesso Papa di perorare la causa deâFiorentini; avvegnachè nella persona di lui si andava a spegnere il sangue legittimo dei discendenti del vecchio Cosimo, da cui cotanta grandezza era stata fondata, pregandolo a voler fare opera gloriosa e ben meritata col rimettere la patria in quella libertĂ che aveva prima.
Non era ancora terminato l'anno 1519 quando a Leone fu recapitato l'avviso della morte in Firenze accaduta di Maddalena di lui sorella, madre di Lorenzo Cybo, primo di quella famiglia fra i marchesi di Massa e Carrara, e madre parimente di quel cardinale Innocenzo Cybo che ebbe cotanta parte negli affari politici di Firenze ai tempi del duca Alessandro, e di Cosimo I.
Alla morte della sorella del Papa tenne dietro (7 febbrajo 1520) l'altra della cognata Alfonsina Orsini vedova di Piero deâMedici, quella che sopra tutti con fervorose istanze aveva indotto lo stesso Leone a fare l'impresa d'Urbino, ed alla quale fu dato ad enfiteusi dalla Repubblica fiorentina senza sborso di denari, il padule di Fucecchio.
Con questa rapidità le grandi speranze e le grandi fortune nate e svanite quasi ad un tempo stesso, mostravano in mezzo alle glorie de'Medici la caducità dell'umane grandezze; dondechè Leone da tante morti ammonito, pensò a far costruire la famosa sagrestia nuova di S.
Lorenzo a Firenze per collocarvi le sepolture del fratello Giuliano, e del nipote Lorenzo: per eseguire le quali il Buonarroti, senza saputa dei suoi biografi, nell'aprile del 1521, lo troviamo a Carrara, dove stette qualche tempo a contrattare i marmi delle cave, che appellansi del Polvaccio , per quelle sepolture . â Vedere SERAVEZZA.
Aveva pur cessato di vivere nell'anno 1519 lâimperatore Massimiliano I d'Austria, che lasciò il trono al nipote Carlo V; sulla di cui testa per una mirabile combinazione di circostanze e di ereditate successioni, oltre gli Stati aviti della Germania, si riunirono le corone del Romano impero, dei regni di Spagna, e dell'Indie, dei Paesi Bassi, della Borgogna e della Franca Contea. Ottenne la corona imperiale per elezione, gli altri Stati per diritti paterni, e materni.
Quando perciò si considera quanti furono i colpi della fortuna, che riunirono sotto il comando di quell'Augusto giovinetto sĂŹ vasta porzione dellâEuropa e dellâA merica, non si può fare a meno di non riconoscere ciò che è stato dagli storici chiamato la propizia stella della Casa d'Austria.
Questa nuova e straordinaria potenza diede motivo a Leone X di cambiare sistema alla sua politica, cosicchè staccossi egli dalla lega col re di Francia per stringere alleanza col nuovo imperatore, sotto la di cui protezione pose nel tempo stesso i suoi parenti, la repubblica fiorentina e la S. Sede. Allâincontro i Veneziani e il duca Alfonso di Ferrara si collegarono coi Francesi, i quali ben presto perdettero Milano, e la maggior parte delle cittĂ della Lombardia, occupata dalle truppe Spagnole; e ciò nel tempo che gli Svizzeri al servizio del Papa ricuperavano i ducati di Parma e Piacenza. Poco dopo l'annunzio di questa fortunosa impresa, un'immatura ed improvvisa morte colse Leone X nel 1 dicembre dell'anno 1521, non senza sospetto di propinato veleno, trapassato con il cordoglio di non aver egli riparato a tempo all'esplosione di un'eresia che col pretesto degli abusi di una corte corrotta staccò dal grembo di S. Chiesa una gran parte dell'Alemagna, cosicchè fu pagata da quel pontefice assai cara la gloria di dare il nome al suo secolo.
Alla morte di Leone il cardinale Giulio deâMedici partĂŹ da Firenze per recarsi a Roma al conclave; nel quale dopo 38 giorni di Sede vacante trovossi proclamato in pontefice il cardinale di Utrecht del titolo deâSS. Giovanni e Paolo, che prese il nome di Adriano VI. Terminato il conclave ritornò in patria il cardinale Giulio, sotto i di cui auspicj continuava a governarsi la repubblica fiorentina, tanto nello spirituale quanto nel temporale; piĂš sicuro di prima per aver egli sventati i tentativi del cardinal Soderini suo rivale che avrebbe voluto togliere di mano al Medici le redini dello Stato. Conosceva però Giulio l'amore de'suoi concittadini per la perduta libertĂ , stata sua mercè quasi che spenta dalla forza esterna; quindi lasciava ad essi travedere una qualche speranza di restituirli nel pristino regime. La quale finzione seppe sĂŹ bene rivestire, che giĂ tenevasi in Firenze come un evento talmente sicuro, che disputavasi perfino sulla forma del governo piĂš acconcio alla cittĂ . Vi erano in via della Scala i celebri Orti Oricellarj, cosĂŹ detti da Bernardo Rucellaj letterato distinto, il quale, dopo la morte del suo cognato Lorenzo il Magnifico, ivi accolse la celebre Accademia Platonica.
Ora continuandosi tale riunione, si raccoglievano costĂ molti giovani amanti delle lettere per disputare di subietto politico, e leggervi discorsi liberi e confacenti alla riforma del governo. Questâopinione giunse tant'oltre, che Alessandro de'Pazzi compose un'orazione a nome del popolo fiorentino per ringraziare il cardinal de'Medici di tanto benefizio nel giorno della riforma. Fu lâorazione portata all'arcivescovo porporato, il quale, dopo essere stato piĂš volte interrogato a dirne il suo parere, rispose che, l'orazione gli piaceva, ma non il soggetto .
Probabilmente il trovarsi delusi in tali lusinghe piuttosto che mossi da frivole cagioni private, indusse alcuni di quei letterati a cospirare contro la vita del cardinale; dondechè due di loro furono presi, processati, ed ebbero la testa mozza, mentre altri furono esiliati come cospiratori. Non andò senza macchia di qualche intelligenza con i processati Niccolò Machiavelli che i suoi discorsi sulle Decadi di T. Livio soleva leggere negli Orti Oricellarj; i di cui concorrenti furono in tal circostanza banditi, e dispersi, oppure dal governo sorvegliati.
Frattanto il pontefice Adriano VI arrivava dalla Spagna a Livorno (23 agosto 1522) accompagnato da Paolo Vettori che, in rimunerazione di avere cacciato di seggio il Soderini per rimettervi i Medici, fu fatto da Leone X generale delle galee pontificie. Di lĂ il Papa si recò a Roma, seguitato poco dopo dal cardinale de'Medici, che divenne il consigliere di Adriano, al quale poco dopo la di lui morte successe nel trono del Vaticano (19 novembre 1523) sotto nome di Clemente VII . â Uno dei primi atti di clemenza del nuovo eletto fu la restituzione della patria, dei beni e degli onori alla famiglia Soderini, azione assai lodevole, seppure non fu, come dissero alcuni storici, quella bolla pontificia alla Signoria di Firenze spedita per condizione da esso ricevuta in conclave: o almeno lo fece per mostrare di fuori e col nome quella clemenza e pietĂ , la quale egli, a dir vero, dentro e co'fatti non ebbe. â Il nuovo Papa, dietro l'esempio di Leone X, disegnò subito che la grandezza della casa de'Medici venisse non ne'discendenti legittimi di Lorenzo fratello di Cosimo padre della patria, ma nella persona d'Ippolito figliuolo naturale del magnifico Giuliano, ed in quella di Alessandro figliuolo medesimamente spurio di Lorenzo duca d'Urbino. â I quali due individui, sebbene di tenera etĂ , Clemente VII avrebbe voluto, se non fargli signori assoluti di Firenze, almeno investirli di autoritĂ straordinaria, senza però dimostrare di essere a ciò mosso dal suo arbitrio o volontĂ , ma richiesto e quasi pregato dai Fiorentini tutti per il pubblico bene e salute universale della cittĂ . La cagione perchè egli andava cosĂŹ ritenuto e guardingo era, oltre alla natura sua, il sospetto che aveva di Giovannino deâMedici; cosĂŹ allora appellavasi a distinzione dell'altro Giovanni, poi Papa Leone, quel valoroso capitano delle bande nere, che fu padre di Cosimo I.
Tanto Clemente VII si adoperò affinchè la Signoria di Firenze decretasse lâabilitazione di Ippolito figlio di Giuliano a tutti gli ufizj e dignitĂ della repubblica, non ostante lâetĂ sua di 15 anni, che alla fine dâagosto del 1524 il Magnifico (che con questo titolo volle rinnovarsi in lui la memoria del padre e dellâavo) fu accolto in Firenze senzâaltra cerimonia, affidando Clemente la spedizione del gli affari politici, e la direzione del giovanetto al Legato Silvio Passerini di Cortona. Questo ministro metteva ogni studio nel contentare il Papa in tutte le cose quanto sapeva e poteva il piĂš, non curandosi nè di spogliare troppo il pubblico, nè di aggravare fuori dâogni modo e misura i privati; in guisa che al suo tempo, quantunque fosse di breve durata, oltre due accatti, che si posero ai secolari,e non comprese lâimposizioni che si misero agli ecclesiastici, bisognò ancora che si vendessero dei beni delle corporazioni dâarti e mestieri. Ippolito per tanto era contemplato in quel momento come signore e rappresentante di tutta la casa Medici: nè si poteva alcun affare di Stato dai magistrati della repubblica fiorentina discutere senza consultare questo fanciullo, o il cardinale suo direttore.
Scorrevano per lâItalia in questo tempo due eserciti, lâuno della lega di Carlo V, lâaltro di quella di Francesco I.
Clemente VII, ingannandosi neâsuoi calcoli politici, abbandonò la lega dellâImperatore per tenersi a quella del re deâFrancesi; quindi avvenne che le milizie di Carlo V, dopo la vittoria di Pavia, piombarono per vendetta sullo Stato pontificio e in Toscana, mentre che per unâaltra via varcava lâAppennino del Mugello un corpo di truppe della lega contraria, condotto dal duca dâUrbino, cui il governo fiorentino in grazia di questâalleanza riconsegnò le fortezze di S. Leo e di Majolo avute da Leone X, insieme col distretto di Montefeltro, a riserva di Sestino.
Erasi intorno alla stessa epoca, secondo il disegno del celebre architetto Antonio da SanGallo, posto mano a innalzare alcuni bastioni fuori della porta a San Miniato; i quali infino al poggio di Giramonte arrivavano; mentre per consiglio dei capitani Federigo da Bozzole, e del conte Piero Navarra con infinito dispiacere di chiunque ciò vide, quasi tutte le torri, le quali a guisa di ghirlanda a ogni 200 braccia le mura di Firenze coronavano, vennero gettate a terra o sino al pari delle mura rasate.
Stavano per tanto gli animi dei Fiorentini sollevati, mentre avevano due potentissimi eserciti nel loro territorio, uno come nemico, lâaltro sotto nome dâamico, ma entrambi per manometterlo e saccheggiarlo. Infatti le truppe appena arrivate nei contorni di Arezzo, si dettero a predare la Val di Chiana e il Casentino, avanzandosi sino nel Val dâArno di sopra a Firenze. Quando ai 30 di aprile 1527 alcuni nobili e arditissimi giovani, deâquali si era fatto capo Piero di Alamanno Salviati, profittando dellâimbarazzo dei governanti, e di un pontefice loro nemico, chiesero armi alla Signoria sotto pretesto di difendere la cittĂ contro le soldatesche di Carlo V.
Spaventato il cardinale Passerini da tale domanda, si ritirò dalla cittĂ col pegno a lui affidato per passare al campo del duca dâUrbino, il quale era ormai giunto presso Firenze. â Ma rinfrancato il Passerini dalle esortazioni di Baccio Valori, che al vivo dipinse in quei primi momenti dâinopinata mutazione la titubanza e confusione del governo fiorentino, animato anche dai capitani dellâesercito dei collegati e dal coraggioso Piero Noferi conte di Montedoglio, determinò di lasciarsi ricondurre in Firenze, dove i soldati con le moschetterie forzarono quelli del palazzo a sottomettersi, e dopo una convenzione dallo storico Francesco Guicciardini dettata sopra un banco dâuna bottega in via del Garbo, quindi dal cardinale Silvio e da Ippolito deâMedici sottoscritta, restarono per essa tutti gli atti del magistrato della sollevazione annullati, e a tutti i capi della sommossa accordato il perdono.
In questo mentre Carlo di Borbone alla testa di un esercito sfrenato di Tedeschi, Spagnoli e Italiani, sloggiando da Arezzo attraversò in fretta il territorio senese per arrivare a grandi giornate a Roma. La quale città trovandosi sprovvista e sorpresa fu messa barbaramente a sacco e sangue da quelle masnade, sebbene al Borbone costasse la vita (6 maggio 1527).
Tale orrenda sventura che obbligò Clemente VII a rinchiudersi nel Castel S. Angelo, ridestò coraggio nei Fiorentini, sperando di poter compire con maggior fondamento e piĂš prudenza, che non erasi fatto nel mese innanzi, il disegno di ricuperare lâantica libertĂ .
Ad accrescere il pubblico fermento era giunta in Firenze con Filippo Strozzi Clarice deâMedici sua moglie, entrambi sdegnati contro il Papa; il primo per essere stato dato in ostaggio agli Spagnoli, e quindi lasciato esposto allâindiscretezza dei nemici, lâaltra (châera figlia di Piero deâMedici di cui ereditò tutta lâalterigia) perchè mirava con disdegno due Medici bastardi preferiti alla sua famiglia nel principato di Firenze, e per non averle Clemente VII mantenuta la promessa di fargli cardinale Pietro suo figlio maggiore. Allâarrivo di quei due conjugi a Firenze si tennero segreti consigli, dove intervennero i principali cittadini, i quali indussero la Signoria a far un decreto che riapriva il gran consiglio del popolo, salvo che il numero dei votanti limitossi a 800 invece di mille; e di piĂš obbligarono quei Signori a creare una nuova balĂŹa di 20 buonâuomini, 5 per quartiere, lâautoritĂ della quale per tutto il luglio vegnente durar dovesse. Deliberossi ancora, che si avessero ad eleggere 120 uomin i, (30 per quartiere) di 29 anni compiti, i quali insieme coi Signori, colleghi e balĂŹa, avessero autoritĂ di rinnovare, infino ai 20 di giugno susseguente quegli ufizi che costumavano prima di essere nominati dal consiglio deâsessanta. Allora Filippo Strozzi partecipò al cardinale Passerini e al Medici siffatta provvisione, e nel tempo stesso annunziò al conte Noferi, che la Repubblica non avesse piĂš bisogno di lui, nè delle sue guardie al palazzo.
Vista e letta dal cardinale tal provvisione, prima di firmarla vi fece aggiungere gli articoli seguenti (in data del 17 maggio 1527); cioè, che Ippolito, Alessandro e la duchessina Caterina de'Medici fossero come gli altri cittadini rispettati; che non si potesse procedere contro loro, nè contro il cardinale di Cortona e suoi parenti per cagione di cose seguite dopo il 1512; che fosse loro permesso di stare o di allontanarsi dalla città a loro piacimento ed arbitrio; e che a tutti di Casa Medici fosse conceduta esenzione per cinque anni dalle pubbliche gravezze.
Non credette per altro il cardinale di Cortona che si potesse con sicurezza riprender la vita privata in una città , nella quale si era dominato da principe; dondechè determinò di partirsi con i due giovani, consentendolo il governo, per ordine del quale furono accomiatati, e verso i confini scortati dai fanti del conte Piero Noferi di Montedoglio.
Fu questa la terza ed ultima cacciata deâMedici, i quali stati fuora tre anni a viva forza, nel modo che qui appresso si dirĂ , ricuperarono la patria, della quale si fecero assolutamente signori e padroni, compreso tutto il suo distretto e dominio.
Una qualche riforma si portò in quest'occasione sul sistema civile dal governo, col nominare un Senato di 80 individui, e col portare a un anno la durata della prima magistratura. Concorse la maggior parte deâvoti a eleggere gonfaloniere di giustizia, sino al luglio del 1528, Niccolò Capponi figliuolo di quel Piero, che fu cotanto benemerito della patria, e cognato per via di moglie di Filippo Strozzi testè nominato. Egli erasi acquistata qualche riputazione appresso i suoi cittadini sino da quando fu dei tre commissarj di guerra allâultima impresa di Pisa, dove si era fatto un gran nome Gino suo arcavolo nella prima capitolazione della stessa cittĂ .
Avendo in tal guisa i Fiorentini ricuperata la tanto ambita libertĂ , molte cose nondimeno venivano a turbare questo quasi universale contento. Imperocchè la peste che in questâanno ricomparve con leggieri principj, venne a tale che dal mese di maggio infino al novembre si trovarono esser morte dentro la cittĂ circa 40,000 persone, oltre le molte famiglie fuggite per ripararsi a Prato e nei luoghi meno afflitti; in modo che, non potendosi per le deliberazioni pubbliche riunire nel generale consiglio 800 cittadini, si decretò che per allora servisse la metĂ . Dopo la peste nacque sĂŹ gran carestia che per molti anni non si ricordava in Firenze nè in contado essere stata la maggiore. Ma quello che non meno di coteste sciagure affliggeva i buoni, era il non trovarsi tra i cittadini quellâunione che in tal caso sarebbe stata necessaria; in guisa tale che, appena sâerano i Medici di Firenze partiti, il popolo corse alle lor case per rubarle, e con gran fatica potè il Capponi, con altri buonâuomini difendere le une, e raffrenare l'altro.
Aggiungasi che a molti parve di vedere grandissima parte di coloro, pei quali i Medici restarono cacciati, non cercare punto il vivere libero e lo stato popolare, ma sivvero un governo di pochi; una vera aristocrazia: cui ad altro non voleva riferirsi quel consiglio di ottimati da loro medesimi con sĂŹ grande autoritĂ nominati.
Laonde in mezzo a tanti mali cagionati dalla peste, dalla fame, dalle spese sofferte per guerre esterne, o per interne sollevazioni, la Signoria volse l'animo a opere di devozione, e a ordinare leggi santissime con la mira di poter riformare i guasti, disonesti e viziosi costumi nella cittĂ .
Avvicinandosi il tempo in cui Niccolò Capponi doveva lasciare la prima magistratura, da lui medesimo fu promossa nel consiglio generale una proposizione sopra tutte singolarissima, quella cioè di eleggere GesĂš Cristo per re deâFiorentini. Il progetto fu accolto a prima giunta quasi a pieni suffragi, se si eccettuino 26, che tal decreto non approvarono . â Fu il titolo di questa legge scritto sopra la porta del Palazzo della Signoria in lettere dâoro, attorno al nome di GesĂš che tuttora ivi scolpito si vide; nella quale cosa fu eseguito il pensiero del Savonarola, che, in una predica, aveva proclamato fra la numerosa sua udienza GesĂš Cristo per Re del popolo fiorentino.
Per questo fatto Niccolò Capponi essendosi acquistato maggior favore fra i cittadini avvenne, che nellâelezione imminente del nuovo gonfaloniere egli fu raffermato, avendo avuto neâsecondi favori per emulo in quellâonore mess. Baldassarre Carducci.
Era la cittĂ di Firenze nell'etĂ che queste cose seguivano, aggravata da molti debiti, stante le esorbitanti spese che sâerano fatte per servire piĂš che altro ai politici disegni dei Medici, le quali somme di denaro furono cavate dalle borse dei cittadini, o per via di balzelli a tutta perdita, o per via di accatti che mai o di rado si rendevano. Ed era necessario che in tal modo seguisse, tostochè le usuali entrate del governo fiorentino non oltrepassavano allora i 270,000 scudi in circa, dei quali se ne assorbivano 80,000 nel rendere i frutti e le paghe del Monte comune; e infino a 100,000 scudi si spendevano annualmente nel palazzo dei Signori, nelle paghe deglâimpiegati, nelle guardie ordinarie dello Stato e delle fortezze, nelle muraglie pubbliche di fortificazioni, e in simili altre cose. Quindi non restando che assai poco di avanzo dell'entrate consuete per le altre spese, faceva duopo bene spesso ricorrere a degli accatti. Infatti in questo stesso anno 1528 due imprestanze furono poste; una delle quali di 20,000 fiorini da pagarsi fra 25 giorni da 20 cittadini, a mille fiorini per ciascuno; e lâaltra di fiorini 70,000 da accattarsi fra tutto il popolo dentro il mese di luglio del medesimo anno. Ma tutte queste provvisioni non erano sufficienti a riparare alle urgenze della Repubblica, sicchè poco dopo furono tassati 40 cittadini per ricavare da essi altri 20,000 fiorini.
Fra le colpe apposte al passato governo, la piĂš ragionevole era lâinutile dissipazione del denaro; poichè calcolossi essers i speso nellâacquisto, e poi nella difesa del ducato dâUrbino, per fare un appannaggio al duca Lorenzo, almeno mezzo milione di ducati d'oro; unâegual somma nelle guerre di Leone X contro i Francesi; 300,000 ducati ai capitani imperiali prima dellâelezione di Clemente VII, e nella guerra che incominciò allora ad accendersi, e che terminò quando fu consumata la Repubblica, si distrussero non meno di 600,000 ducati dâoro.
La trista rimembranza di queste e di altre non meno odiose cose spingeva spesse volte una folla di giovani a trascorrere agli insulti verso gli antichi reggitori della cittĂ , e contro tutti quelli che mantenevansi ancora, o che furono amici dei Medici.
Il gonfaloniere Capponi era lâuomo del giusto mezzo di quella etĂ , piĂš Piagnone che Arrabbiato. La sua moderazione sembra che venisse in lui consigliata dai riguardi dovuti a un concittadino Pontefice, col quale i Fiorentini venivano indirettamente ad essere in lega mediante quella che essi avevano col re di Francia . â Peraltro i fanatici della nuova libertĂ , i nemici piĂš arditi de'Medici si diedero a calunniare pubblicamente Niccolò Capponi; dei quali fecesi capo un uomo feroce, Baldassarre Carducci, giĂ professore di diritto nellâuniversitĂ di Padova. Era costui nella mutazione del governo tornato alla patria con gran favore, sicchè tanto alla prima quanto alla seconda elezione del gonfaloniere annuale, era sempre appresso al Capponi, rivale il piĂš prossimo per numero di voti. Dopo la conferma del Capponi nella carica di gonfaloniere, il Carducci fu allontanato dalla cittĂ con lâonorevole veste di ambasciatore della Repubblioa al re di Francia, acciocchè impegnasse quella maestĂ a non intrigarsi con Papa Clemente, e per dimostrarle che Firenze era paratissima ad ogni spesa onde sostenere la sua parte in Italia. â Una mano di giovani nobili, al gonfaloniere avversi, col pretesto di voler formare una compagnia armata per la custodia della cittĂ , sotto la quale si sarebbero poi riuniti tutti i loro fautori, chiesero perciò ai Signori una bandiera col motto Libertas.
Conobbe quel magistrato lâimportanza della domanda e il disegno deâfaziosi, onde in vece di mettere a partito il provvedimento richiesto, la Signoria ricorse allâespediente di armare tutta la cittadinanza indistintamente, dai 18 infino in 36 anni, divisa in 16 compagnie di circa 300 soldati per ciascuna (quattro per Quartiere) militante sotto i soliti antichi 16 stendardi o gonfaloni dei Quartieri della cittĂ . Ragunavansi ogni mese per le rassegne, e per eseguire gli esercizj militari, armati tutti di picche, di corsaletti e di archibusi con sĂŹ belle armi che la rivista di quelle bande recava diletto, fiducia e meraviglia anche ai forestieri.
Tali furono le pubbliche sciagure, tali le molte gare private che a quell'epoca affliggevano la Repubblica fiorentina; mentre in quanto alle cose di fuori non erano per anche in Firenze messe le barbe del nuovo regime popolare, che cominciarono a svellersi da ambizioni segrete, da inimicizie palesi, da opinioni opposte e contraddittorie intorno al reggimento politico della stessa cittĂ .
Una delle quali opposizioni, sostenuta con troppo partito nel generale consiglio, fu d'importantissima conseguenza a Firenze, come quella che segnalò la perdita irrefragabile della sua libertà . Essendochè le truppe imperiali, dopo il saccheggio di Roma, mentre stavano assediando in castello il pont. Clemente VII, mandarono agenti a Firenze perchè facessero intendere ai suoi reggitori, che se volevano collegarsi con loro, promettevano la ratifica di Cesare ad ogni convenzione che fosse per trattarsi a favore e in difesa della repubblica fiorentina e della sua libertà .
Sopra di che fattesi piĂš pratiche, non vi fu modo che i cittadini piĂš influenti e i primi capi del popolo volessero mai dare orecchi a trattativa alcuna, preferendo piuttosto che la cittĂ fosse deâFrancesi alleata. In siffatta opinione concordavano altresĂŹ molti buoni ed onesti cittadini, che tenevano in riverenza le profezie di fra Girolamo Savonarola, il quale allorchè predicava la felicitĂ di Firenze, usava dire Gigli con Gigli dover fiorire. Questa opinione, che fu la piĂš conforme allâumore del popolo, persuase talmente i reggitori della cittĂ , che essi fecero subito una specie di coalizione col re Francesco I contro lâimperatore Carlo V, coalizione che portò seco ben presto con un doloroso e lungo assedio la perdita irreparabile della Repubblica. I Fiorentini rinnovando lâantico trattato di alleanza con la Francia, si trovarono per conseguenza ad essere per singolare contraddizione momentaneamente alleati eziandio con Clemente VII loro peculiare nemico.
Non mai o radissime volte avvenne, che magistrato alcuno deliberasse cosa nessuna la quale interamente soddisfacesse a tutti ed anche non fosse da molti biasimata. Nè è dubbio che a mantenere quel governo, bisognava (a parere dello storico Varchi) lasciata la via di mezzo, o accomunare lo stato anco al minuto popolo, come nella congiura deâCiompi, o seguitando il volere degli Arrabbiati e tirannicamente procedendo, assicurarsi affatto dei capi del popolo; ma gli uomini molte volte o non fanno o non possono nè risolvere nè eseguire ciò che conoscono e quanto vorrebbero. Oltre che in una repubblica non bene ordinata, anzi corrotta, com'era allora questa di Firenze, è del tutto impossibile, o che vi surgano mai uomini buoni e valenti, o che pure insurgendovi, non siano invidiati tanto e perseguitati, che eglino o sdegnati si mutino, o cacciati si partano, o afflitti si muojano.
Scabroso e difficilissimo pertanto era il ben dirigere il timone della Repubblica fiorentina a cui presedeva allora il Capponi, uomo, cui piaceva da un lato la libertĂ , mentre dall'altro lato avrebbe voluto conciliare con la maestĂ del pontificato la fortuna della casa Medici e l'indipendenza della sua patria.
Mentre i nemici del gonfaloniere Capponi erano intenti a spiarne le pratiche e le azioni per ruinarlo nella pubblica opinione, accadde un accidente il piĂš opportuno ai loro disegni. â Siccome egli odiava i modi violenti, dopo l'ultima espulsione deâMedici, aveva posta ogni sua cura in frenare quanto poteva la rabbia dei loro nemici riammettendo aglâimpieghi gli antichi aderenti di quella odiata famiglia, e cercando di non inasprire con misure troppo caustiche Clemente VII. Teneva pure una privata corrispondenza in Roma con Jacopo Salviati familiare e parente del Pontefice. Aveva appunto il Capponi ricevuta una lettera nella quale, benchè si dicesse che il Papa amava la libertĂ di Firenze, nondimeno vi si leggevano alcune espressioni ambigue atte a generare sospetto.
Questa lettera, caduta per negligenza di tasca al gonfaloniere, fu recata a uno dei Signori (Jacopo Gherardi) nemico acerrimo del Capponi; il quale Gherardi trovando in quel foglio un corpo di delitto, chiamò tosto in palazzo i suoi amici armati, fece adunare il consiglio coi suoi colleghi, dai quali sollecitò un precipitoso giudizio, promovendo la sentenza di morte sopra il gonfaloniere. Ma se non restò vinta la proposizione del Gherardi, si vinse però il partito di deporre il Capponi dalla prima magistratura, eleggendo in sua vece per otto mesi (18 aprile 1528) Francesco Carducci di professione mercante. â Credette Niccolò ritornarsene la sera a casa, quando i Signori, di cui era proposto lâaccusatore Jacopo Gherardi, ragunatisi col nuovo gonfaloniere obbligarono il vecchio a restare in palazzo per essere esaminato intorno alla sua condotta da un giurĂŹ di 80 cittadini.
Comparve il Capponi in presenza dei suoi giudici per ben due volte, lâultima delle quali con tanta gravitĂ , moderazione e sicurezza discorse di sè medesimo e del suo operato da sventare in ogni parte lâaccusa e tutti i sospetti cavati da quella lettera; in guisa che quel giuridico consesso, maravigliato della bontĂ , della prudenza, e delle sue virtĂš cittadine, decise che dalla fatta querela fosse assoluto. Dopo di ciò il Capponi fu onorevolmente da alcuni magistrati e da molto popolo alla sua casa accompagnato.
Era di due mesi a un circa entrata la Signoria nuova in palazzo col gonfaloniere Carducci, quando sentissi il primo accordo tra il Papa e lâImperatore, pubblicato in Barcellona aâ29 giugno. Nel quale trattato, perciò che a Firenze apparteneva, era stato convenuto che lâImperatore avrebbe data per moglie Margherita sua figliuola naturale ad Alessandro deâMedici, nipote di Clemente, obbligandosi Cesare di rimettere in Firenze il prefato Alessandro, il magnifico Ippolito, giĂ creato cardinale, e di restituirli entrambi in quella grandezza, in cui erano innanzi la loro cacciata. â Al quale accordo andò dietro quello conchiuso in Cambray li 5 agosto col re di Francia; dal quale, sebbene si comprendessero dal re i suoi collegati d'Italia, lâesperienza nondimeno mostrò che essi soli non raccolsero frutto alcuno con quelle grandi paci dei due piĂš grandi monarchi dellâEuropa. Tali notizie intese dai Fiorentini, ormai accertati che la guerra doveva venire loro addosso fecero tosto diverse pratiche per riconciliarsi collâImperatore e anche col Papa; ma troncata ogni speranza di accomodamento, risolvettero correre la sorte terribile della guerra, disponendo i cittadini e la cittĂ alla piĂš vigorosa resistenza e difesa.
STATO DI FIRENZE DURANTE IL SUO ULTIMO ASSEDIO Per quanto alla storia antica, e alla moderna ancora non manchino esempj di grandissima maraviglia per lâardire, fermezza, ed eroico valore degli abitanti di alcune castella o cittĂ dimostrato nel sostenere orribili assedj; pure questo di Firenze si rese al pari di qualsiasi altro meritevole di trapassare alla memoria degli uomini; non tanto, per i sacrifizj di ogni genere, cui in quel lungo periodo i Fiorentini soggiacquero, ma per ravvisare in quella guerra le cagioni che per le mutazioni dei tempi, per la malafede degli uomini, per la debolezza dei mezzi, per i falsi o irresoluti consigli dei suoi stessi ufiziali e magistrati, nelle maggiori bisogne tutte concorsero a lasciare ad ogni modo, e contro voglia dei piĂš, cadere Firenze vinta ed afflitta ai piedi di un suo ostinatissimo nemico.
Prima che si scoprisse la corrispondenza del Capponi, per diversi altri riscontri eransi i Fiorentini accorti che Papa Clemente, sebbene colle parole dicesse il contrario, non cercava coi fatti altro intento, che o per amore o per forza il dominio di Firenze ricuperare.
Per la qual cosa, sino dal bel principio della espulsione della sua Casa, i reggitori del governo fiorentino pensarono a organizzare le 30 ordinanze, ossia battaglioni delle Leghe del contado, affidandone la condotta per due anni a due valenti uomini di guerra (Babbone da Brisighella, e Francesco deâmarchesi del Monte) con amplissima autoritĂ di poterle comandare, senza però rimuovere gli ufiziali nominati dal magistrato dei Nove della milizia, e di dovere essi stessi stare agli ordini deâcommissarj e governatori generali. Le ordinanze del distretto fiorentino affidate al comando del Brisighella erano queste 16: 1. Pescia; 2. Barga; 3. Fivizzano e Castiglion del Terziere; 4. Pietra Santa; 5. Vico Pisano ; 6. Scarperia e Barberin di Mugello; 7. Borgo S. Lorenzo, Vicchio e Dicomano; 8. Pontassieve e Cassia; 9.
Firenzuola e Piancaldoli; 10. Marradi e Palazzuolo; 11.
Castrocaro e Portico; 12. Modigliana; 13. Galeata; 14.
Val di Bagno; 15. Poppi, Castel S. Niccolò e Pratovecchio; 16. Bibbiena, Castel Focognano e Subbiano. â Le altre 14 ordinanze consegnate a Francesco del Monte furono: 1. San Miniato al Tedesco ; 2. Campiglia; 3. Pomarance; 4. Radda, Greve e Colle; 5.
San Gimignano e Poggibonsi; 6. Terra nuova, Castel Franco, Laterina, Montevarchi e il Bucine; 7. Monte San Savino, Fojano e Civitella; 8. Montepulciano; 9. Cortona ; 10. Castiglion Aretino ; 11. Arezzo; 12. Anghiari, Montedoglio e Monterchi; 13. Borgo a San Sepolcro ; 14.
Pieve San Stefano, Chiusi e Caprese.
Unâaltra provvisione di somma importanza per la pubblica sicurezza era stata vinta nei consigli prima che entrasse lâanno 1529; la quale fu mossa dalla determinazione lâanno innanzi presa, di fortificare la cittĂ di Firenze; e perchè ciò senza grave danno di molti particolari non si poteva eseguire, fu deciso che stesse ai Nove ufiziali della milizia a dichiarare la valuta di tutte le case, monasteri e altri edifizj che per tale cagione bisognasse disfare e gettare a terra; e similmente stimassero essi il valore deâcampi o altre terre, che in fortificando occorresse guastare. Le quali stime e valute dovessero finalmente esser valide quando la Signoria con tutti i collegj dentro il termine di dieci giorni le avessero approvate. Il che fatto, si dovevano i padroni di detti effetti scrivere creditori in un libro particolare del Monte comune, per riceverne glâinteressi a ragione del 5 per cento, infintanto che il Comune non avesse soddisfatto loro il valore del capitale.
Quindi per fornire i confini di gente armata, i Dieci di LibertĂ inviarono commissario di tutte le genti fiorentine ad Arezzo e Cortona Raffaello Girolami; il quale menò seco otto capitani appartenuti alle bande nere cosĂŹ dette, perchè alla morte del valoroso loro duce, Giovanni deâMedici, si monturarono tutte a lutto.
Fu autorizzato il Girolami ad assoldare 5000 fanti e quanti potesse il piĂš di quelli appartenuti alle accennate bande nere.
Lo stesso magistrato dei Dieci elesse per un anno con titolo di governatore sopra le fortificazioni e ripari della città di Firenze il sommo Michelagnolo Buonarroti, che entrò pur anche dei Nove della milizia.
Perchè poi non mancassero denari da pagare le compagnie e i capitani assoldati, furono in uno stesso giorno (6 agosto 1529) proposte e vinte tre provvisioni; la prima di esse relativa a un imprestito di 80,000 fiorini; la seconda fu per tassare un accatto a quelli che non lâavessero avuto nel 1528; e la terza per incamerare tutti i residui dei balzelli e prestanze, o qualsiasi altra imposizione passata e non saldata.
Prima che fosse eletto in ajutante del commissario di guerra ad Arezzo, aveva militato fra le bande nere il capitano Francesco di Niccolò Ferrucci, quellâuomo che da privatissimo cittadino, mentre era potestĂ di Radda (anno 1527) diede prove di valore col ritogliere armata mano la preda ai nemici e respingere i Senesi di lĂ dal Chianti; quindi, passato alla guardia di Empoli, salĂŹ a tanta virtĂš durante la guerra e assedio di Firenze, che a lui, sebbene troppo tardi, fu dal suo governo tanta autoritĂ militare accordata, quanta forse nessun altro cittadino dalle repubbliche italiane del medio evo ottenne giammai.
CosĂŹ il Ferrucci, se in vece di essere inviato a Perugia presso Malatesta Baglioni, fosse restato con le soldatesche in Arezzo, non avrebbe al certo tanto vilmente e senza preciso comando, lasciato questo posto in balia dei nemici; come fece appunto chi in appresso venne al presidio di quella stessa cittĂ .
Avvegnachè lâesercito fiorentino sotto gli ordini del commissario Anton Francesco degli Albizzi, anzichè aspettare quello del nemico comandato dal principe Filiberto dâOranges, ritirossi da Arezzo a Montevarchi e costĂ , unitosi al Malatesta che aveva abbandonato con le sue genti Perugia, si accostò a Firenze con maravigliosa sorpresa dei cittadini e dei magistrati, meno il gonfaloniere Carducci, che senza consultare la Signoria nè i Dieci della guerra aveva scritto allâAlbizzi che si ritirasse con le truppe verso Firenze per maggior difesa della cittĂ . Se poi una tal misura non mostrò nellâAlbizzi troppo timore, diede almeno a travedere una tale quale propensione verso il partito dei Medici, come alcuni non senza ragione dubitarono, rammentandosi che era quel medesimo Albizzi che aveva cavato di palazzo il gonfaloniere Soderini. Comunque sia quella strategica fu sĂŹ mal concepita e di sĂŹ gran danno nei resultamenti, che potè, se non accagionare, almeno sollecitare la rovina e caduta della cittĂ .
In tanta confusione di cose quei medesimi Tedeschi, Spagnoli e Italiani, che con tanta rapacitĂ , libidine e barbarie avevano due anni innanzi stuprata e saccheggiata Roma, arrivarono alla vista di Firenze, prima che eglino sel pensassero.
â Nondimeno i governanti della Repubblica furono solleciti a mettere in armi tutta la gioventĂš di Firenze, la quale memore delle glorie passate mostrossi ardente nel difendere la patria, e ognor pronta a obbedire ai comandamenti e ai capitani che fossero per esserle assegnati.
Fu deposto, e poco meno che vicino a perdere la testa, il commissario Albizzi, rimpiazzato da Raffaello Girolami e da Zanobi Bartolini, nominati entrambi con ampia balĂŹa commissarj di guerra di tutto lâesercito fiorentino.
Era questo formato da circa 8000 soldati forestieri e di 3000 urbani distribuiti come appresso. Col titolo di governatore generale ebbe il primo grado nel comando della guarnigione Malatesta Baglioni,quello stesso che con poco buon preludio aveva aperta la campagna ritirandosi da Perugia. Ebbe il secondo grado Stefano Colonna eletto in capitano sopra tutte le ordinanze civili dei Quartieri della cittĂ e del bastione di San Miniato. Le truppe sparse nel territorio per guardare le terre e cittĂ murate, come Prato, Pistoja, Empoli, Volterra, Pisa, Colle e Montepulciano, ascendevano a circa 7000 fanti con 600 cavalli. La spesa poi di questâesercito montava intorno 70,000 ducati il mese. Cosa maravigliosa a dirsi, se si ha riguardo alla durata di quellâassedio; se si considera, che in quel periodo furono a Firenze serrati tutti gli esercizj, sospeso ogni commercio e lavorio, fuorchè di vivere tutti armati, e intenti giorno e notte in militari ronde e scaramucce.
Nel dĂŹ 24 ottobre del 1529 il generale deânemici postò le sue genti sulle colline di Montici e di Arcetri, nel pian di Giullari, alla torre del Gallo e a Giramonte. Da cotestâultimo punto piĂš prossimo alle mura della cittĂ fece battere inutilmente con 150 colpi di cannone il campanile di San Miniato al Monte, fasciato per consiglio del Buonarroti di coltroni, e sopra il quale era stato collocato un pezzo di artiglieria che danneggiava, senza ricever danno, il campo nemico. Si facevano ogni tanto, ora di notte e ora di giorno, delle sortite dalle bande guidate da Prospero Colonna loro generale, ad onta che molte volte fossero impedite dal troppo cauto comandante supremo Baglioni. Da un altro lato tosto che lâesercito imperiale si avvicinò a Firenze, i Senesi cominciarono a correre e rubare nel territorio fiorentino al loro limitrofo, cacciando armata mano i Ricasoli di Brolio, dove misero fuoco, e mandando gente ad assalire Montepulciano, con tutto che non riescisse per allora dâaverlo . â Aggiungasi che i popoli delle cittĂ e principali terre del distretto fiorentino, come Arezzo, Pistoja, Volterra e San Miniato, non potendo tollerare di vedersi soggetti a guisa di schiavi ad un governo di nome libero, appena potè porgersi loro il destro, sollevaronsi contro i Fiorentini, tenuti da essi anche piĂš nemici dellâesercito invasore. E quasi che ciò non bastasse a congiurare ai danni di Firenze, vi furono molti dei suoi piĂš influenti e ricchi cittadini, i quali appena che videro arrivata sulle colline alla sinistra dellâArno unâarmata imperiale per stringere dâassedio Firenze, nel loro animo gioirono. Avvegnachè, se in apparenza mostravano di amare la patria,in realtĂ essi altro non ambivano che di assicurarsi uno stato, per cui piĂš spesse ai Medici anzichè alla Repubblica, parvero affezionati.
Per le quali ultime ragioni entrato che fu il gonfaloniere di giustizia col gennajo del 1530 Raffaello Girolami (quello fra i 4 ambasciatori inviati a Carlo V, che ritornò solo in patria), si diè bando di ribelli a 28 emigrati delle famiglie primarie di Firenze: fra i quali Jacopo Salviati, Pier Francesco Ridolfi, lo storico Francesco Guicciardini, Alessandro Corsini ec.
A Baccio Valori châera commissario per il Pontefice nel campo nemico, oltre la taglia di mille fiorini dâoro a chi lo dasse vivo come traditore della patria, fu sfregiata e sdrucita una lista della casa sua da capo a piè, secondo una legge antica. Nè potè passare senza traccia di traditore, e pagarne la pena, Lorenzo Suderini, che ragguagliava Baccio Valori nel campo nemico di ciò che di piĂš importante accadeva in Firenze.
La severitĂ dellâenunciato bando fu cagione che molti ritornassero in patria, e tra questi Michelangnolo Buonarroti; il quale poco innanzi con Rinaldo Corsini e Antonio Mini suo creato se nâera uscito di Firenze. La cagione si fu per avere egli, come uomo zelante della salute della sua patria, inutilmente avvertito il gonfaloniere Carducci dal quale fu mal accolto, quando lo prevenne a stare in guardia del Malatesta Baglioni, avendo inteso dire dal suo amico Mario Orsini (uno deâcomandanti dellâesercito fiorentino che lasciò la vita in quellâassedio) che era da temersi fortemente (siccome i fatti ogni giorno piĂš lo confermarono) che Malatesta dovesse far tradimento.
Lâesercito dellâOrange si distese dintorno alle colline sopra Firenze in guisa da circondare con un semicerchio tutta quella parte della cittĂ situata alla sinistra dellâArno, mentre dal lato destro verso il poggio di Fiesole e dalla parte verso il piano di Sesto e di Campi le comunicazioni si mantennero libere sino a che non calarono dallâAppennino di Bologna 8000 Tedeschi mandati dallâImperatore; di modo che non meno di 34000 combattenti congiuravano nel tempo stesso alla rovina di Firenze e del suo stato. â Con tutto ciò le mura delle cittĂ conservavansi tuttora illese, nè i Fiorentini tralasciavano di mostrare ad ogni uopo prontezza, coraggio ed anche valentia nel combattere contro lâesercito il piĂš agguerrito di Europa.
Nè mancavano a tener vivo il coraggio degli assediati, oltre lâamore della libertĂ e la difesa delle cose piĂš care, la prediche di alcuni fervorosi frati Domenicani (fra Benedetto da Fojano e fra Zaccharia da Fivizzano) i quali, a imitazione del loro correligioso fra Girolamo Savoranola, vaticinavano vittoria e felicitĂ per le piazze, per le chiese e persino nel gran salone del palazzo del popolo.
A siffatte prediche tenevano dietro precessioni analoghe per riscaldare sempre piĂš lâanimo deâFiorentini; i quali non contenti di tenersi sulle difese domandavano spesse volte ai loro capi di essere condotti fuori delle mura a combattere gli assedianti. â Fra le diverse azioni, due massimamente meritano di essere qui rammentate; la prima accaduta nella notte piovosissima del 10 novembre 1539, quando il principe di Orange, pensando di ricevere meno offesa dallâartiglierie, o di trovare i Fiorentini, per cagione della festa di S. Martino, sepolti nel sonno e nel vino, con 400 scale, stategli fornite con molti altri arnesi di guerra dai Senesi, sâaccostò a un tempo stesso con tutte le sue genti alle mura e ai bastioni della cittĂ dalla parte dâOltrarno, cioè dalla porta S.Niccolò sino a quella di S.
Frediano. Ma oltre che gli assalitori trovarono le sentinelle e le guardie vigilanti, la milizia nazionale e tutto il popolo sorse allâarme in un attimo; sicchè alle quattro ore di notte era corsa tanta gente armata in tutte le vie conducenti alle porte di Oltrarno, che dalla calca non si poteva passar piĂš oltre. Fu in quella stessa notte veduto un veccho condurre seco per mano un suo figliolino, il quale dallo storico Varchi interrogato, cosa egli far volesse di quel fanciullo, rispose: voglio châegli scampi o muora insieme con meco per la libertĂ della patria.
Lâaltro fatto che fa onore alle milizie fiorentine, fu quando esse impazienti di assalire il nemico si presentarono ai comandanti prontissime ad investirlo nei suoi stessi accampamenti. La qual cosa, essendo contraria ai voti e alle intenzioni di Malatesta Baglioni, cui poco innanzi a nome della repubblica il gonfaloniere Raffaello Girolami aveva consegnato il bastone del comando generale, fu da lui quasi a inganno consentita; giacchè inviò le milizie fiorentine al primo assalto contro la prode fanteria Spagnola, forte non tanto per il sito in cui era postata, quanto per essere la truppa piĂš valorosa di ogni altra; talchè dava minore speranza di essere vinta,e maggior motivo al Baglioni di screditare il suo emulo Stefano Colonna, onesto quanto valoroso comandante di quelle gurdie nazionali. Ordinò dunque il Malatesta, che la mattina del 5 di maggio 1530 dovessero, divise in tre colonne, escir fuora a unâora medesima da tre lati, cioè dalla porta S. Frediano, dalla porta di S. Pier Gattolini, e da quella di S. Giorgio sulla Costa; e ciò dopo avere data istruzione ai comandanti, che investissero a prima giunta e sâimpossessassero del poggio di Colombaja, dove fu il convento di S. Donato a Scopeto, fra la collina di San Gaggio e quella di Bellosguardo.
Il poggio era fortificato e guardato da un reggimento di veterani Spagnoli e da un coraggioso loro colonnello, Baracone da Nava, che vi restò morto dopo un sanguinoso assalto: nel quale assalto le milizie diedero prove non dubbie di coraggio e di destrezza. Nel tempo che da questo lato i Fiorentini attaccavano con intrepidezza gli Spagnoli, unâaltra colonna escita per la porta S. Frediano assaliva i nemici alle spalle, combattendo aspramente contro quelli che guardavano i poggi di MontâOliveto e di Bellosguardo sino a Marignolle. Dondechè lâOrange veggendo tanta gente fuora, e dubitando che volesse assaltare tutto il campo, comandò ai Tedeschi postati alla destra del fiume di mettersi in ordinanza per accorrere in rinforzo agli Spagnoli combattenti nellâopposto lato. La terza colonna, che doveva escire dai bastioni di S. Miniato e dalla porta S. Giorgio, per cooperare di concerto con lâaltre due, non si mosse dai suoi quartieri, avendo in quella mattina medesima perduto il suo capitano, Amico da Venafro, stato ucciso da Stefano Colonna adontato da una di lui ardita e insubordinata risposta. Vacillarono pertanto in quella zuffa le valorose fanterie Spagnole, che furono presso ad esser rotte, se non venivano rinforzate da nuove compagnie; dondechè essendo i nemici superiori di numero, di posizione e di disciplina, convenne alle truppe fiorentine ritirarsi con buon ordine dalle suburbane colline, dopo aver combattuto con sommo valore e bilanciato lâesito di quella giornata, che poteva convertirsi in una gloriosa vittoria, se in quella avesse agito la terza colonna.
Fra i distinti fiorentini che restarono morti in quella sanguinosa fazione fuvvi Piero di Leopoldo deâPazzi capitano del gonfalone della Vipera, e mess. Lodovico di Niccolò Machiavelli châera il porta insegne del capitano Michelagnolo da Parrano.
Ai 16 di maggio, fatta la rassegna generale delle milizie urbane, quelle dai 18 infino a 40 anni si trovarono essere intorno a 3000, e 2000 l'altre da 40 a 55 anni. Fu poi cantata una solenne messa sulla piazza di S. Giovanni, presente la Signoria, i Dieci di LibertĂ e il generale con tutte le bande civiche, alle quali si fece prestare giuramento (toccando ciascuno il libro aperto deâvangeli), che non abbandonerebbe mai l'un l'altro, e finchè avesse spirito ciascuno difenderebbe la libertĂ della patria.
Per cavare denari in tutti quei modi che i Fiorentini potevano,fu fatto un lotto di beni dei ribelli, al quale si metteva un ducato per polizza; e cominciata ai 17 maggio nei modi soliti la pubblica estrazione, se ne cavarono 6600 fiorini dâoro.
Nello stesso mese, dopo essere stata messa a partito undici volte, fu vinta una legge, mediante la quale si raccolsono tutti gli argenti e gli ori non coniati dalle varie classi di abitanti di Firenze, eccetto dai cittadini che allora militavano, e medesimamente furono raccattati gli ori e gli argenti delle chiese, lasciati solamente i necessarj al culto divino, non escluse le gioje d'intorno alla reliquia della S. Croce, e quelle della mitra che Leone X donò al capitolo della cattedrale. Quindi fatte le stime, e accreditatine i respettivi padroni, si mandarono in zecca, e furono coniati per sino a 53000 ducati di una nuova moneta d'argento, alla quale era unito un poco dâoro, del peso di denari 13 e grammi 7 l'una, spendendosi ciascuna di esse per un mezzo ducato (lire 3,10). Coteste monete da una parte avevano il giglio con le parole intorno Senatus Populusque Florentinus; nel rovescio la croce con una corona di spine, e nel contorno Jesus Rex noster et Deus noster.
Nel tempo medesimo che intorno a Firenze ogni giorno bagnava il terreno di sangue per le frequenti scaramucce, nacque un caso che tenne la guarnigione, la cittĂ e i nemici di fuori intenti a un duello, insorto per cagione di amore di donna piĂš che di patria. Furono due nobili fiorentini, Lodovico Martelli che militava a favore della cittĂ , e Giovanni Bandini ribelle nel campo nemico. I quali, dopo essersi con cartello sfidati, chiesero di avere ciascuno un compagno, pure nobile e cittadino, nel duellare. Il Martelli si elesse Dante da Castiglione, ed il Bandini Bertino Aldobrandi. Uscirono i due cavalieri di Firenze con licenza del Malatesta e dell'Orange nelle designate arene in due chiusi steccati, e in presenza dei due eserciti sul poggio deâBaroncelli, ora il Poggio Imperiale. Vennesi al fatto, e nel duello del Martelli contro il Bandini restò Lodovico ferito a morte, mentre nell'altro agone si combattè con diversa fortuna, perchè l'Aldobrandi aveva date cinque ferite a Dante, che stava quasi sulle difese, quando questi menò la spada con tanto impeto contro l'avversario, che lo fece di subito morire; e comecchè dallâuna e dall'altra parte fosse eguale la perdita e la vittoria, ciò nondimeno si rispose a gara dalla cittĂ e dal campo con lo sparo delle artiglierie.
Quanto il pericolo si faceva piĂš grande, tanto piĂš cresceva l'odio contro i traditori. Per la qual cosa furono condannati a morte Jacopo Corsi e il di lui figlio Giovanni accusati di avere tenuto trattato di consegnare al nemico Pisa, châera stata alla loro custodia dalla Repubblica affidata. SubĂŹ la stessa sorte un frate Francescano convinto di aver avuto in mira d'inchiodare le artiglierie; e fu impiccato Lorenzo Soderini, giĂ commissario di guerra a Prato, perchè ragguagliava, come si disse, il nemico di quanto accadeva giornalmente in Firenze.
FarĂ ribrezzo a taluni il sentire che si condannassero alla pena della testa perfino coloro che pronunziavano parole in qualche guisa favorevoli agli antenati degli espulsi Medici, non eccettuato Cosimo il padre della patria e Lorenzo il magnifico. â Reca perciò maraviglia, che in mezzo a tanta sorveglianza contro i cittadini sospetti di tradimento, e fra cotanti pericoli, il governo non rivolgesse una maggiore attenzione verso il generale Malatesta Baglioni, giĂ reso sospetto dalle cose dette da Michelagnolo al gonfaloniere Carducci, e dalle stesse di lui operazioni, senza contare la segreta corrspondenza che egli teneva con il generale nemico e, indirettamente, con papa Clemente: siccome lo provarono poi la cedola trovata in petto dell'Orange, quando fu spogliato il suo corpo in campo di battaglia, e le lettere fatte di pubblico diritto dal Lunig.
In mezzo però a tanti traditori risaltava piĂš splendida la fede e il valore di un sol cittadino che rese lungamente incerto l'esito di sĂŹ potenti e ostinati nemici fino alla battaglia di Gavinana. Mancò allora a Firenze unâaltrâuomo come Francesco Ferrucci a comandere l'esercito durante l'assedio della cittĂ , sicchè la sua virtĂš potesse stancare, e forse anche obbligasse l'esercito nemico a sloggiare di lĂ ; e cosĂŹ rimettere ad altro tempo la conquista e la schiavitĂš di Firenze da Clemente VII ardentemente desiderata.
Fu Ferrucci il solo piloto che mostrasse piĂš capacitĂ e maggior coraggio in mezzo a sĂŹ procellosa tempesta. Da Empoli, dove fu inviato col titolo di commissario di guerra per guardare (ERRATA: tutto il Val dâArno) tutto il piano del Val dâArno inferiore e sovvenire di vettovaglie lâassediata cittĂ , terribile quanto il fulmine egli accorreva, ora a San Miniato scalando le sue mura per cacciarne i nemici, ora con unâardita marcia compariva a Volterra che alla Repubblica si era ribellata, e costĂ , vinti i sollevati, batteva Spagnoli e Italiani accorsi per riavere la cittĂ . â Dopo tal gloriosa azione, il Ferrucci fu con decreto della Signoria innalzato a un grado quasi dittatorio, che lo dichiarò commissario generale degli eserciti della Repubblica. Fu allora che quel prode meditò di eseguire la piĂš ardita impresa che abbia mai tentato fra moltissimi ostacoli e con pochissimi mezzi qualsiasi generale, deciso di perire o di liberare dalla fame e dallâassedio la sua patria. Fatte le necessarie disposizioni per la conservazione e difesa di Volterra, il Ferrucci in tre marcie lungo la Cecina, pel littorale di Rosignan, Val di Fine e Val di Tora si condusse a Pisa con circa 1500 fanti, oltre alcune lance e pochi soldati di cavalleria. Giunto costĂ si ammalò di febbre, per cui fu obbligato a trattenersi 13 giorni; dove accozzatosi con Gianpaolo Orsini e con Bernardo Strozzi, commissarj di guerra in quella cittĂ , si occupò nei preparativi della sua impresa.
Frattanto egli visitò le due cittadelle, prese seco per istatichi coloro, i quali dubitava piĂš capaci di muovere tumulto; riunĂŹ insieme sotto 25 bandiere un esercito di circa 3000 pedoni, e di 600 cavalli; fece preparare un buon numero di trombe artifiziate (quasi gli antichi razzi alla Congreve) che gettavano fuoco lavorato, per distribuirle a ciascuna compagnia, provvidesi di pezzi da campagna, di una buona quantitĂ di scale, di varie qualitĂ di ferramenti di molta munizione da guerra, e delle necessarie vettovaglie, fra le quali una buona dose di biscotto. Appena sentissi libero dalla febbre il Ferrucci, nella notte che precedè il dĂŹ primo agosto, uscĂŹ con il suo esercito di Pisa per la porta di Lucca, il cui territorio attraversò per incamminarsi in Val di Nievole; ma il capitano Maramaldo coâsuoi Calebresi, seguitando dâappresso lâesesrcito del Ferrucci, aveva giĂ barricato il passaggio sulla Pescia minore al ponte di Squarciaboccone; per la qual cosa Ferrucci dovè rivolgere la marcia a settentrione, rimontando la Valle Ariana; talchè la sera arrivò a Medicina castello deâLucchesi, dove pernottò.
La mattina del 2 Agosto, partito a buonissimâora, mostrava di voler condurre lâesercito per la volta dei poggi fra Prato e Pistoja al Montale, per cui fece sembiante di prendere la strada che mena a Pistoja; ma poco stante volse il cammino piĂš in alto verso le sorgenti della Pescia maggiore, sino al castello di Calamecca, dove si fermò la seconda notte. La mattina del 3 agosto, che fu lâultimo giorno della vita del Ferrucci, giunto che fu sulla cresta della montagna, ingannato dalle guide inviate dai Cancellieri, che volevano punire i loro privati nemici, trovossi invece a San Marcello. Il quale castello tenendo dalla parte deâPanciatichi, seguaci dei Medici, fu crudelissimamente arso e quasi disfatto.
Questa marcia del Ferrucci non fu ignota al principe dâOrange, come quello che veniva informato di tutto dal generale deâFiorentini Malatesta Baglioni, il quale aveva promesso di non combattere gli alloggiamenti durante la sua assenza. Arrivato il principe con circa 8000 soldati tra Pistoja e Gavinana, ebbe avviso, come il Ferrucci era con le sue genti comparso a San Marcello; per lo che dopo aver rinfrescato lâesercito, si avviò in fretta verso la terra di Gavinana per essere il primo ad occuparla, mentre il commissario fiorentino con lâistessa mira movendosi in ordinanza da San Marcello, presentossi davanti a quel paese quasi contemporaneamente al capitano nemico Fabbrizio Maramaldo, nel mentre che questi dallâopposta banda per la rottura di un muro stava per entrarvi.
Non dirò le prove di valore che con sproporzionato numero di forze fecero i soldati fiorentini condotti a quel cimento.
Ă nota la buona fortuna che essi ebbero al principio della battaglia, avendo visto cadere estinto lâOrange generale dei nemici; ma ciò non fu che un passeggero segnale di vittoria contrastata da una battaglia sanguinosissima; nella quale i Tedeschi, facendo barriera a chi fuggiva, rinfrescavano con nuove genti il combattimento dentro e fuori di Gavinana.
Benchè il Ferrucci e lâOrsini avessero formata tutta una fila di ufiziali e sostenessero gagliardamente lâimpeto Austro-Ispano-Papale, scagliandosi dovunque vedevano il bisogno maggiore, e incoraggiando i soldati, che al combattimento lasciavansi infilzare dalle picche, o trapassare daglâarchibusi piuttosto che ritirarsi un passo a dietro; pur nòn ostante tanto ardire, quel prode Fiesolano vedendo la piazza di Gavinana ricoperta di cadaveri correre sangue da ogni parte, nè potendo molto adoprare le trombe da fuoco per le grandi piogge in quel dĂŹ cadute, dopo essere rimasti esangui nel campo circa 2500 combattenti, il Ferrucci con i suoi ajutanti trovossi fatto prigione. Ma un sĂŹ bel trionfo non bastava al Maramaldo, il quale contro il diritto delle genti, per vendicarsi dellâonta ricevuta a Volterra, dopo averlo fatto disarmare, trapassò al Ferrucci la gola, togliendo barbaramente di vita il piĂš ardito e valoroso capitano di quellâetĂ , colui che perfino morendo bravava il suo nemico col dirgli: che egli ammazzava un uomo oramai morto.
Allorchè giunse a Firenze il fatale avviso dellâesito di quella giornata, la cittĂ fu piena di spavento e di dolore.
Ad onta però di tanta sventura, il governo resisteva ancora, e ricusava ad ogni modo di aderire alla condizione costantemente richiesta dagli agenti Cesareo-Papali, quella cioè di rimettere i Medici in patria.
CosĂŹ il popolo anzichè capitolare chiedeva di esser condotto a battersi contro gli assedianti prima che fosse di ritorno lâesercito vittorioso dalla montagna di Pistoja. Ma il Baglioni, il quale aveva, come si disse, assicurato lâOrange, che di Firenze non uscirebbe alcuno a nojare il campo durante lâassenza di lui e delle truppe imperiali, ostinatamente si oppose a tale istanza sino al punto di minacciare, che avrebbe lasciato il comando piuttosto che con unâoperazione intempestiva procurare la certa rovina e il sacco della cittĂ .
Quando però la dimissione del Malatesta fu dal governo accettata, vedutosi il perfido deluso, poco mancò che non pugnalasse il commissario Andreolo Niccolini nellâatto che questo gli presentava il congedo. Si sparse per Firenze lâallarme a cagione di un simile attentato; per cui il gonfaloniere Raffaello Girolami mosso a sdegno, risolvè di mettersi alla testa del popolo per andare a combattere, e a viva forza cacciare dalla cittĂ il Baglioni oramai scoperto traditore e nemico. Ma questi aveva giĂ fatto occupare dalla fanteria perugina la porta S. Pier Gattolini, e sbarrate le vie di lĂ dâArno con parecchi pezzi di moschetti piantati sui capistrade.
Firenze era ormai perduta, e alcuna forza umana non poteva a quellâora salvarla dai traditori di dentro e dalle masnade che da lungo tempo la tenevano assediata, avide di aver presto a saziare con le cose piĂš preziose dei Fiorentini la loro inesauribile libidine e aviditĂ .
Cosicchè dopo tanto sangue sparso in undici mesi di assedio, dopo infinite agitazioni intestine, dopo tante privazioni sofferte, di fame, di peste, e di stenti, dopo avere nel periodo di soli tre anni (dallâagosto del 1527 allâagosto del 1530) a forza di contribuzioni straordinarie forniti per le spese di guerra 1,416500 fiorini dâoro, dopo tuttociò Firenze finalmente dovè abbassare la fronte ai suoi interni ed esterni nemici.
Fu in mezzo a tante desolazioni che la Signoria risolvè di inviare, la mattina del 10 agosto, quattro ambasciatori a don Ferrante Gonzaga, luogotenente generale nel campo nemico, per chiedere una capitolazione.
Le trattative furono aperte nella casa dove risedeva Baccio Valori incaricato del papa Clemente, nel poggio di S. Margherita a Montici, alla presenza di Ferrante a nome di Cesare e di Baccio Valori per conto del Pontefice da una, e dallâaltra parte, Bardo Altoviti, Jacopo Morelli, Lorenzo di Filippo Strozzi, e Pier Francesco Portinari, rappresentanti della Repubblica fiorentina. Il giorno appresso vennero i capitoli approvati dai Signori, dai collegj e dal consiglio degli 80 . â Sono troppo note le condizioni di quellâaccordo per non averle qui a riportare; nè giova tampoco rammentare esser stata posta per base della capitolazione: che qualunque fosse la forma del governo da stabilirsi in Firenze da S. M. I. dentro il termine di 4 mesi, sâintendeva sempre che la libertĂ sarebbesi conservata, e tutte le azioni passate tanto pel pubblico che pei privati perdonate e poste in oblĂŹo.
Avvegnachè di tutti i dieci capitoli, non solo non ne fu osservato alcuno, ma di ciascuno di essi fu fatto presso che il contrario.
In quel giorno (20 agosto) in cui Baccio Valori da 4 compagnie di soldati Corsi aveva fatto occupare il palazzo della Signoria, e tutti i capistrade che rimettono nella piazza, in quel giorno stesso al suono del campanone di palazzo fecesi chiamare il popolo a parlamento, perchè si rappresentasse in ringhiera lâultima farsa repubblicana dai Signori. Per ordine dei quali ad alta voce il cancelliere delle Tratte per tre volte allâudienza domandò: se piaceva al popolo si creassero 12 persone che avessero tanta autoritĂ e balia essi soli quanta soleva averne il popolo fiorentino tutto insieme? Fu risposto da quella gente di sĂŹ, col gridare palle, palle, Medici, Medici.
Tra le prime deliberazioni prese dai Dodici riformatori (dei quali fece parte lo stesso Baccio Valori) fu quella di togliere il potere esecutivo alla Signoria, di levare di mezzo i Dieci di LibertĂ , e di cassare gli Otto di Pratica, col crearne deânuovi. Nè gran tempo trascorse, dacchè le promesse recentemente giurate furono scancellate col sangue di molti cittadini giustiziati, con le deportazioni, le confische, le prigioni, ed altre simili atrocitĂ atte ad incutere, piuttosto che amore, paura e terrore al popolo, per dovere meglio accogliere il nuovo principe Alessandro, nipote di Clemente VII, che era per arrivare a Firenze con la bolla di Carlo V e col titolo di Signore della Repubblica fiorentina.
STATO DI FIRENZE DURANTE LA DINASTIA MEDICEA ALESSANDRO I DUCA Speravasi che si avessero a estinguere in Firenze le fazioni, spegnere le ire e distruggere i sospetti con la morte, con le carceri e con lâesportazione deâpiĂš ardenti repubblicani; e ciò tanto piĂš, quanto che molti lusingavansi di un quieto vivere sotto il dominio di quella casa, la quale, potevasi dire, che ormai da un secolo teneva in mano il governo della Repubblica fiorentina.
Con uu sĂŹ fatto apparecchio cominciò lâanno 1531, quando nel mese di aprile si videro appiccare sopra la porta del palazzo deâSignori le armi del Papa, onde incominciare a dare alcun segno, come le cose per lâavvenire avessero a procedere; e poco stette a sentirsi la notizia, che Alessandro deâMedici, giĂ fidanzato di Margherite dâAustria, incamminavasi verso la Toscana.
Giunto con un numeroso seguito a Prato, nel di 5 di luglio, e, secondo l'Ammirato, nel giorno medesimo anniversario della cacciata del duca d'Atene, fece il duca novello la sua entratura in Firenze per la porta a Faenza, incontrato da un drappello di giovani, complimentato dagli ambasciatori esteri e nazionali, corteggiato dalla nobiltĂ e dal popolo accompagnato alla chiesa della Nunziata, e quindi al suo palazzo in Via larga. â La mattina seguente il duca in compagnia del ministro di Carlo V, del nunzio di Clemente VII, e in mezzo a un gran codazzo di cittadini andò al palazzo dei Signori, i quali, preceduti dal gonfaloniere Benedetto Buondelmonti, andarono incontro al principe sino alla scala.
Tosto che il Duca arrivò nel salone messosi in una specie di residenza, il ministro imperiale (châera alla destra del principe) fece leggere la bolla di Carlo V, in vigore della quale Cesare ordinava, che lâillustre famiglia deâMedici, e conseguentemente il signor Alessandro deâMedici duca di Civita di Penna suo dilettissimo genero, dovesse essere ricevuto e accettato nella patria con tutta la sua casa con quella stessa autoritĂ e maggioranza, la quale vi avevano i Medici innanzi che cacciati ne fossero; e che riformandosi lo Stato, e creandosi i magistrati come innanzi al 1527, il duca Alessandro fosse capo e proposto di tal reggimento in tutti gli ufizj,nel modo ch'era stato deliberato per legge manicipale nel dĂŹ 17del mese di febbrajo prossimo passato; e che in tale supremazia si conservasse, finchè durava la vita sua; cosĂŹ dopo la sua morte succedessero nel potere i suoi legittimi figliuoli ed eredi. Venendo poi a mancare la linea di Alessandro, in tal caso S. M. I. ordina e vuole, che nello stesso dominio succeda il piĂš propinquo di detta casa deâMedici della linea di Cosimo il vecchio o di Lorenzo di lui fratello.
Fatta una tale cerimonia, il gonfaloniere, e dopo lui i priori ed i maggiori magistrati ivi presenti, con segni e con parole di umiltĂ e di riverenza, mostrarono di sottoporsi mansueti al volere di Cesare, che ordinava sotto l'imperio de'Medici lâagitata loro patria tornasse a riposarsi.
Parendo dunque che in tal modo fosse ogni cosa acquietata, fu stimato che, come non piÚ necessarie, le armi di ogni sorta fossero dai cittadini fedelmente consegnate. Per conseguenza vennero soppressi i 16 gonfalonieri delle compagnie; fu dato un altro scopo al temuto magistrato dei Capitani di Parte, convertendolo nei Nove ufiziali sopra i bastioni, ponti e strade; fu tolta via la sicurtà che si faceva ai magistrati di non poter esser convenuti davanti ai tribnnali come le persone private; nè molto in là andò, che si volle anche scancellare l'ultima immagine della Repubblica col togliere di mezzo la Signoria. Ciò avvenne nell'aprile del 1532 sotto Gio.
Francesco deâNobili, ultimo Gonfaloniere di giustizia, dopo una serie di 1372 che per il corso di 240 anni avevano tenuto nel Palazzo vecchio il gonfalone della Repubblica fiorentina.
Da quel momento, a tutto rigore, dovrebbe annoverarsi l'epoca del principato del duca Alessandro, quando cioè la Signoria fu autorizzata ad eleggere una commissione di 12 cittadini, oltre il gonfaloniere ultimo, con piena potestĂ di riformare l'amministrazione governativa dello Stato. â La piĂš sollecita operazione fu quella di nominare 48 senatori a vita, per destinarli consiglieri e coadiutori del supremo capo e signore della Repubblica. Fu quindi ringraziata per sempre e licenziata di palazzo la Signoria; dopo che essa era uscita nel dĂŹ 1° maggio con solennitĂ a prendere il duca Alessandro per condurlo nella residenza dei confalonieri di giustizia, come spettavasi a chi era divenuto di Firenze assoluto padrone. Infine per abolire ogni vestigio di libertĂ , fu distrutto il campanone che chiamava il popolo a parlamento.
Il senato, o sia il consiglio deâ48, per poter squittinare gli ufizj e spedire le petizioni private, si aggregò un consiglio di 200 cittadini, che dal numero chiamossi deâ200, e da questo prese nome il salone del palazzo vecchio, dove soleva giĂ riunirsi il gran consiglio del popolo.
Fu dato ordine che ogni tre mesi dei 48 senatori si traessero quattro per formare un magistrato che fu chiamato dei Consiglieri. A uno di essi si diede il titolo di luogotente del Duca, il quale doveva in qualche modo rappresentare l'estinta Signoria e decidere molte cause importanti a quella magistratura riserbate. Dai 48, previa l'approvazione del Duca,si deliberavano le leggi, si vincevano le provvisioni, si proponevano le imposizioni; ed era necessario che in tutti i magistrati della cittĂ presedesse alcuno di quei senatori.
Data e stabilita questa nuova forma di governo, con dispaccio del 12 maggio 1532 ne fu reso partecipe l'Imperatore in termini a un dipresso del tenore seguente: "I Dodici riformatori della Repubblica fiorentina si fanno un dovere di partecipare a S.M.I. la riforma stabilita nel governo della cittĂ , essendo stato cassato il magistrato deâpriori, nel quale avendo potuto per l'addietro aspirare qualunque del popolo, erasi ridotto una sorgente feconda di sedizioni e di tumulti; che perciò hanno trasferita tutta l'autoritĂ della Signoria in 4 consiglieri da scersi fra la nobiltĂ e il fiore della cittadinanza; cosicchè a questo nuovo magistrato, alla cittĂ , e a tutta la repubblica, i Dodici riformatori avevano costituito per capo e signore il Duca Alessandro deâMedici genero della MaestĂ sua, nel quale, e in tutti i suoi successori legittimi essi dichiaravano transfusa tutta la dignitĂ e autoritĂ della Repubblica fiorentina." (Riformagioni di Firenze.) Ad oggetto di guadagnar la plebe ad assopirla nei divertimenti, il duca Alessandro, a imitazione del duca di Atene, ripristinò i Saturnali fiorentini, volgarmente appellati Potenze, significato che davasi a diverse brigate di persone del popolo; le quali univansi sotto un capo col titolo e con la veste di duca, di signore, di marchese, di monarca, dâimperatore, di re, o di gransignore. Ciascuna Potenza aveva bandiera e insegna sua propria, e soleva cominciare i suoi spettacoli dal primo di maggio sino a tutta estate, festeggiando per la cittĂ , e gareggiando l'una con l'altra per lusso, per invenzione e per brio, talchè spesso terminavasi in risse civili, in battaglie cruenti di sassate, in crapole scandalose e in altri tumulti popolari. Ă memorabile l'iscrizione lapidaria esistente nella facciata della chiesa di S. Lucia sul Prato, come quella che rammenta uno di quei campioni: Imperator Ego vici praeliando lapidibus. Anno MDXXXXIV.
In apparenza il popolo mostrava di essersi quasi scordato delle vecchie sofferenze e sventure; e i cittadini non spatriati, attendendo a coltivare e a murare, pareva che ne dassero una specie di conferma. Era tra questi Filippo Strozzi, il quale comprava case per gittarle a terra, onde avere piazza davanti al suo palazzo; e tutti coloro che avevano sporti alle case di via larga, per far il piacere del duca e accrescere bellezza a quella via, li fecero in pochi mesi levare.Nell'anno medesimo che ciò si operava (1534) per dare maggiore luce e rendere piÚ salubri le abitazioni private, fu accresciuto ornamento alla piazza de'Signori, ora del Gran Duca, collocandosi davanti alla porta del palazzo ducale e allato al Davidde del Buonarroti il gruppo di Ercole e Cacco, scolpito da Baccio Bandinelli.
Ma questa non era che apparenza di felicità ; avvegnachè le famiglie piÚ potenti e piÚ ricche, i grandi capitalisti, i maestri delle arti maggiori per dispetto, per timore, o per livore si erano allontanati da Firenze; dove in sostanza vivevasi di malavoglia nell'universale, sia per al novità del governo, sia per vedersi in certo modo degradati, sÏ ancora per la violenza sua, come pure per i cattivi portamenti della famiglia del Duca, e dei soldati che erano alla sua guardia. Al che si aggiungeva pure, che lo stesso duca Alessandro in verso le donne, di qualunque condizione o stato elleno fossero, mostravasi disonestissimo.
Per assicurar sempre piĂš il suo potere, Alessandro aveva posta mano a erigere in un angolo della cittĂ verso maestro, presso la porta Faenza e il torrente Mugnone, una fortezza spaziosa e forte; convinto esso, e piĂš di lui papa Clemente, di non potere contare dentro Firenze su di un migliore e sicuro appoggio, quale fora senza dubbio quello che posseggono i buoni principi nell'amore dei loro sudditi. Per dar luogo al nuovo castello, che perse il titolo di S. Gio. Battista dal monastero di donne Vallombrosane ivi presso levato, dovettero demolirsi, fra le altre fabbriche, l'antica villa di S. Antonio degli arcivescovi di Firenze, e il contiguo borgo di porta Faenza. FornĂŹ denari per tale impresa il ricco Filippo Strozzi, quello stesso a cui quattro anni dopo la fortezza di S. Gio. Battista servĂŹ di carcere e di tomba.
Vivevasi in cotesta guisa in Firenze, allorchè accadde la morte di Clemente VII (29 settembre) in quel giorno stesso in cui era tornato dall'esilio Cosimo di lui bisavolo .
â La sede vacante dopo pochi giorni (15 ottobre) fu coperta da cardinale decano Alessandro Farnese, che volle esser chiamato Paolo III.
Frattanto una gran parte dei fuorusciti fiorentini si era raccolta in Roma, dove essi cominciarono ad avvicinare Filippo Strozzi coi suoi maggiori figliuoli e quindi a far la corte al cardinale Ippolito deâMedici, come quello che, in confronto del duca Alessandro, per essere maggiore di etĂ e di senno, sentiva tuttora il rancore di essere stato da papa Clemente a lui proposto nel principato della sua patria. Donde avvenne che la casa di Ippolito era diventata lâasilo della piĂš nobil parte deâfuorusciti, i quali accrescevano con ogni arte e con ogni potere questo mal talento del cardinale verso il duca, sperando essi che cotal inimicizia dovesse partorire la rovina di tutti e due loro, siccome accadde in realtĂ , ma non in quella maniera, e con quellâesito che i fuorusciti si aspettavano . â Concorrevano a favorire fra i principali fiorentini i maneggi deâfuorusciti, oltre i sopraindicati Strozzi stati di recente offesi da Alessandro, anche i cardinali Ridolfi e Salviati, mossi a ciò dallâinteresse privato piĂš presto che da volere che la patria loro vivesse in libertĂ .
Conciossiachè ciaschedun di essi era nato di una figliuola di Lorenzo il Magnifico, nipote di Cosimo, la di cui linea era mancata in papa Leone fratello delle loro madri. A questa cosĂŹ fatta ragione aggiungevasi lâonta di vedersi quei parenti da qualche tempo villanamente dal duca offesi e maltrattati. Per effetto di che Lorenzo Ridolfi, fratello del cardinale, giovane di natali per nobiltĂ di sangue e per ricchezze cospicuo, dubitando che Alesandro fosse di mal animo verso di lui che tenea per una figliuola di Filippo Strozzi, nascosamente di Firenze si allontanò.
Nè molto tempo passò che egli insieme con Bernardo Salviati fratello dellâaltro cardinale, con Piero di Filippo Strozzi ed altri si recarono in Spagna alla corte di Carlo V a perorare la causa della loro patria, e a dolersi con S.M.I.
del tirannico contegno del capo della Repubblica fiorentina. Furono ascoltati da Cesare i reclami dai nobili fuorusciti fiorentini, ai quali promise che dopo fatta lâimpresa di Tunisi, egli tratterebbe di ciò alla sua tornata in Napoli. Allora tutti quelli che trovavansi raccolti in Roma deliberarono di mandare il cardinale deâMedici a Tunisi con altri sette compagni per raccomandarsi allâImperatore quanto mai potessero il piĂš, acciò volesse degnarsi di ordinari in Firenze quel governo che piĂš gli piacesse: solo châegli ne levasse il duca Alessandro.
I fuorusciti dubitando della mente del cardinale, nè fidandosi del tutto di lui, imposero a quei sette di sorvegliarlo. Erasi giĂ consumata in questi maneggi la maggior parte dellâestate del 1535, quando il cardinale Ippolito, ammalatosi in Itri di febbre prodotta da mal aria, o come altri dissero di veleno datogli per conto del duca, ai 10 di agosto si morĂŹ, lasciando in molti grandissimo desiderio di sè, in quantochè egli mostrossi dâindole cortese, di grandâanimo, e amatore dâogni maniera di virtĂš. Frattanto sâintese, che Cesare dopo la presa di Tunisi era sbarcato a Napoli, e che costĂ aveva assai lusinghevolmente accolto un incaricato deâfuorusciti.
I cardinali Ridolfi e Salviati con i principali esuli fiorentini erano giĂ partiti per quella cittĂ , onde assistere al processo che colĂ agitar dovevasi davanti lo stesso imperatore, mentre dallâaltra parte il cardinale Innocenzo Cybo sollecitava il duca Alessandro a partire da Firenze accompagnato da nobile corteggio e da valenti giureconsulti e oratori, affinchè potesse meglio difendersi dagli addebiti di cui fu accusato.
Lâistorico Guicciardini gli servĂŹ di avvocato, e seppe sĂŹ bene piatire la causa del suo signore, che lâImperatore ritirò la proposizione di rendere il duca Alessandro feudatario di Cesare; dopo convinto, che la cittĂ di Firenze, essendo stata tanto tempo con somma fatica e spesa liberata dal dominio della Camera Aulica, non era cosa giusta nè onorevole di farla soggiacere unâaltra volta sotto quel giogo. Altra cagione indusse Cesare a rimettere la cittĂ e dizione fiorentina sotto il libero dominio di colui, il quale, essendo per divenire genero di Carlo V, doveva considerare come fosse un suo governatore e come se lo Stato fiorentino facesse quasi parte dellâImpero. ContribuĂŹ eziandio a favorire Alessandro la situazione politica dellâItalia, per la morte accaduta del duca di Milano, e per la guerra che andava ad accendersi con la Francia. Dondechè Carlo V si decise di assicurare il trono di Firenze ad Alessandro sollecitando la celebrazione del contratto matrimoniale; per concludere in quale il duca ebbe peraltro a sopportare condizioni molto gravose, onde assicurare le convenienze della sposa, non meno che quelle dellâAngusto di lei genitore.
Il Duca per la vittoria diplomatica riportata sopra i suoi nemici, e per le nozze solennizzate (li 29 febbrajo 1536) con Margherita dâAustria, tornò festeggiante a Firenze, dove accolse fra gli archi trionfali, e in mezzo a sontuose feste e spettacoli il piĂš potente monarca dellâEuropa nel suo Augusto suocero.
Dâallora in poi Alessandro non ebbe piĂš ritegno onde mostrare ogni severitĂ contro i malcontenti, imporre forti gravezze ai nuovi sudditi, e soddisfare liberamente allâeffrenata sua libidine verso le vergini e le matrone; sino a che Lorenzino di Pierfrancesco deâMedici, châera il suo piĂš prossimo agnato, ed il ministro piĂš confidente di Alessandro nei piaceri, sperando di ereditarne il trono, piuttosto che di ridonare alla patria la pubblica libertĂ , la notte deâ6 di gennajo 1537, nella propria casa del traditore in Via larga, allorchè il duca stava nel sonno immerso, proditoriamente lo scannò nel trentesimo anno della sua etĂ .
Fu Alessandro deâMedici uomo dâingegno persipicace, di animo irrequieto e insaziabile, desideroso peraltro e capace di altre cose. Aveva complessione robusta, prontezza nel risolvere, caldo fuor di modo nelle passioni, senza rispetto nelle cose divine, come nelle umane.
COSIMO DUCA II, GRANDUCA I La storia dopo un lungo intervallo di tre secoli con pacato animo dai lettori contemplata può esser giudicata forse meglio che da coloro, i quali, benchè coetanei, non furono però tutti concordi nel discorrere delle cause, e dello scopo dellâassassinio del primo duca di Firenze. Quindi è, che niuno dei scrittori di quella etĂ apparisce giudice imparziale a decidere, se Lorenzino fu un vile scellerato assassino, piuttostochè la brutta copia di un Bruto novello.
Conciossiachè anche allâepoca in cui seguĂŹ quella tragica scena, per testimonianza dello storico Varchi, nessuno potè sciogliere quella politica dubbiezza e darne sentenza che fosse senzâappello.
Checchè ne sia, Lorenzino dopo il duchicidio evase dallo Stato come un colpevole di capitale delitto; e il giorno susseguente, non vedendosi a Firenze comparire il principe in luogo veruno, si cominciò dai suoi piÚ intimi a dubitare, e infine a certificare quello che era di lui avvenuto.
Allora il cardinal Innocenzo Cybo, perchè non si levasse tumulto nella cittĂ , procurò che si tenesse occulto il caso avvenuto; e intanto scrisse al generale Alessandro Vitelli, che partisse subito da CittĂ di Castello. Lo stessâordine inviò ai comandanti delle bande di Pisa, e di Mugello, affinchè usassero ogni diligenza e si trasferissero con quanta piĂš gente potevano alla capitale. Quindi nello stesso palazzo deâMedici, dove il cardinale abitava, ragunato per suo ordine il senato deâ48, dopo qualche deliberazione, fu proposto in successore legittimo dellâestinto duca il signor Cosimo figlio di Giovanni delle Bande nere; il quale avvisato dai suoi amici, partĂŹ tosto dalla sua villa del Trebbio nel Mugello per recarsi a Firenze. â La presenza di questo giovanetto in patria, il gran concorso di tanti amici e soldati, vecchi compagni del padre, nel visitarlo, servĂŹ di pungolo al cardinale per esplorare lâanimo di Cosimo. Il quale avendogli date molte buone parole, nel caso che fosse eletto per capo della Repubblica, di osservare con ogni sua possa le condizioni propostegli, Cosimo nel terzo giorno dopo la morte del duca Alessandro, fu nominato dal senato fiorentino al governo della Repubblica, ad eccezione di un senatore, Palla Rucellai, il solo che protestò non volere piĂš in Firenze nè duchi, nè principi, nè signori.
Ma se al suono dellâinaspettata novella della morte del duca Alessandro, i repubblicani fuorusciti si erano rallegrati, e giĂ mossi da Roma per avviarsi armati verso la patria, altrettanto gli alterò e sbigottĂŹ lâannunzio della sollecita elezione fatta di un altro principe di casa Medici nella persona di Cosimo.
FarĂ maraviglia agli uomini spassionati di riscontrare alla testa di due spedizioni militari di faziosi (quella prima di Val di Chiana, e lâaltra di Montemurlo) fra i capi fuorusciti, quel Baccio Valori che fu commissario del pontefice Clemente allâassedio di Firenze e primo campione del governo assoluto di questa cittĂ . Ma il giovinetto Cosimo mostrò senno e sagacitĂ da vecchio fin dallâesordio del suo regnare, poichè i falsi amici e le mire dei nemici espiando, con efficaci misure di difesa a sventare i loro disegni da ogni parte provvedeva e riparava.
Nel tempo stesso lâimperatore col mezzo del conte Sifontes suo ambasciatore, con atto del 21 giugno 1537, dichiarava legittima e valida lâelezione di Cosimo figlio di Giovanni deâMedici, come piĂš prossimo e di maggior etĂ che alcun altro di detta casa; cosicchè il governo della Repubblica dopo esso passar doveva ai suoi discendenti legittimamente nati da lui, siccome lâordinava il Lodo imperiale nel 1530 pronunziato. Per la qual cosa vegendosi i fuorusciti privati dâogni speranza, non restava loro altra via che il tentare quella dellâarmi, animati a ciò anche dalla corte di Francia, che prometteva di assisterli.
Si ragunarono perciò alla Mirandola, oltre un buon numero di esuli fiorentini, intorno a 4000 soldati. Capo dellâimpresa si fece Baccio Valori; comandante della fanteria fu eletto il colonnello Capino da Mantova, e capitano deâfuorusciti mess. Piero di Filippo Strozzi; tutta gente nuova, e piĂš piena di ferocia che di molta esperienza e di virtuose opere. Avvegnachè per la massima parte ciascuno di coloro che comparvero in quella scena ricoperti sotto il mantello della libertĂ , piuttosto allâambizione propria, che al pubblico bene agognavano.
Essendosi pertanto quegli armati mossi verso Bologna, accadde che il Valori, adiratosi per conto di paghe, senza por mente a quello che si faceva, quantunque nel governo degli Stati e degli eserciti uomo intendentissimo egli fosse riputato, insieme con alcuni pochi deâsuoi, montato a cavallo, verso Firenze si mosse, come se in paese amico fosse per entrare, con pensiero di far alto alla sua piĂš che privata villa del Barone situata poco lungi da Montemurlo. Il quale disordinato movimento non piacendo ai capi di quellâimpresa per i mali che ne potevano avvenire, fu pregato Filippo Strozzi che con alcuni cavalleggeri quella piccola colonna raggiungesse e le facesse far alto per via.
Era giĂ il valori arrivato alle Fabbriche in Val di Bure, presso il Montale di Pistoja, quando fu raggiunto dallo Strozzi. Ma questi invece di adempire il consiglio avuto, egli che molte volte aveva detto di non voler in quella guerra intervenire, da Baccio a proseguir oltre si lasciò tirare. Giunti essi ai 26 luglio del 1537 alla villa del Barone con meno di 80 tra soldati a cavallo e a piedi: e trovandosi di fronte a una potenza sostenuta daâsudditi fedeli, da molte forze proprie e da quelle dellâImperatore, viddero bene allora, che non era quella stanza da starvi sicuri; cosicchè deliberarono di ricovrarsi nella fortezza quadrata di Montemurlo, che a ostro-libeccio dal Barone è discosta meno di un miglio.
Quantunque sino dâallora Montemurlo fosse stata ridotta a uso di villa dalla casa Nerli di Firenze, pure per esser posta nella sommitĂ di un poggio isolato, che domina la pianura fra Prato e Pistoja, e per aver un qualche reciuto delle antiche reliquie di quel fortilizio, fu reputata tuttora capace di sostenere un assedio, e a servire di difese.
Intanto Piero Strozzi con 800 fanti incamminavasi da Bologna per la stessa via in appoggio e salvezza del padre e deâcompagni, la qual marcia eseguĂŹ con tanta dilegenza, che aâ28 dello stesso mese arrivò a Montemurlo, dove giĂ si erano raccolti molti contadini armati dai Cancellieri, che in quelle campagne avevano molti resedj e vaste possessioni.
Queste novelle riportate in Firenze, turbarono grandemente il governo e i Palleschi; ma quando sâincominciò a sentire che Baccio Valori avea cavalcato da Montemurlo al Barone, dove quasi in sicurezza attendeva a designare fabbriche, a ordinare colt ivazioni nuove ed a pigliarsi i piaceri della villa; quando seppesi che, non ostante lâarrivo di Piero Strozzi, e il sopraggiungere delle altre genti del paese in loro favore, ogni cosa negligentemente costĂ si governava, incominciò a entrare negli animi del Duca e deâsuoi capitani certa speranza di far quelle genti mal capitare.
Al quale effetto i Palleschi sparsero ad arte voci di paura, figurando di segnare alloggiamenti a di prendere disposizioni di difesa, fintanto che la notte del 31 di luglio 1537, Federigo da Montauto comandante di due compagnie di fanti in Pistoja, chiamati a sè tutti i Panciatichi, si diresse verso Montemurlo; e ciò nel tempo medesimo che Alessandro Vitelli, generale in capo dellâimpresa, erasi avviato da Firenze a Prato con 7000 soldati e 900 cavalleggieri capitanati da Ridolfo Baglioni, ai quali teneva dietro dalla parte di Fiesole Francesco Sarmiento con 1500 Spagnoli e con due compagnie di Tedeschi. Tutta questâoste la mattina allâalba del primo agosto era giĂ nella Terra di Prato pronta ad assalire Montemurlo, quando Federigo da Montauto dal lato opposto aveva digiĂ assaliti i Cancellieri nella badia di Pacciana.
Piero Strozzi, che non sâaspettava addosso tanta piena, erasi di buon mattino spinto innanzi con pochi fucilieri, avendo seco Sandrino da Filicaja giovine animoso, con la mira di far cadere in un agguato i cavalleggieri del capitano Pozzo giĂ di prima postati in Prato. Ma appena furon visti i nemici in grosso numero nel piano fra Montemurlo e Prato, Piero Strozzi trovossi dalla cavalleria del Baglioni assalito, gittato a terra, e fatto prigione; e solo il benefizio delle tenebre, non essendo ancor giorno chiaro, potè salvarlo, col gittarsi da una ripa, e per luoghi coperti in sicuro ricovrandosi.
Era sceso dallâAppennino, e giunto la sera innanzi con tutto il resto delle genti deâfuorusciti alle Fabbriche, Bernardo Salviati comandante dellâesercito deâfuorusciti; ma una tempesta grandissima di pioggia che aveva fatto ingrossare tutti i torrenti, lâaveva a gran forza rattenuto, in guisa che non potè in alcun modo respingere Federigo da Montauto che nella badia di Pacciana e dalla parte di Agliana combatteva i Cancellieri col capitan Mattana da Cutigliano, nè recare ajuto ai capi fuorusciti rinchiusi nel castello di Montemu rlo, dove per asserto di uno storico contemporaneo (Bernardo Segni) non era che un piccolo presidio armato di tre spingarde, e difeso da un antiporto, mezzo rovinato. â Baccio Valori, e Filippo Strozzi dormivano quasi senza alcun pensiero, e lo stesso faceva Anton Francesco degli Albizzi, che la sera innanzi era costĂ arrivato; tutti tre capi di partito contro i Palleschi, dopo essere stati dei Medici caldi fautori ed amici.
Vâerano di piĂš due Filippi Valori, uno figliuolo, e lâaltro nipote di Baccio, e Paolantonio altro suo figliuolo, châera genero di Filippo Strozzi.
Lâimportanza dei prigioneri, e il timore che sopraggiugnesse in loro soccorso il rimanente dellâesercito dei fuorusciti, servĂŹ di stimolo agli assedianti per sollecitamente assalire la casa torrita di Montemurlo, della quale dopo breve ostacolo si resero padroni; ma Filippo Strozzi volle arrendersi unicamente al Vitelli, da cui ebbe parola di salvarlo. Questo avvenimento riempĂŹ di spavento i liberali della cittĂ e i fuorusciti con il restante del loro esercito; il quale, voltando le spalle al nemico, si sbandò al di lĂ dellâAppennino. I prigioni di Montemurlo furono condotti in Firenze in vile equipaggio, per fare un tristo e miserabile spettacolo in faccia a un popolo estatico di rimirare tanti nobili personaggi, stati in governo e come principi di Firenze, menati vilmente su di un cavalluccio con un sudicio sajo in dosso e senza berretta in capo nel declinare di cocente giornata (lĂŹ 2 di agosto) procedendo innanzi il Vitelli trionfante di sĂŹ gran vittoria. Dopo questa umiliante comparsa una gran parte di quei prigioni a quattro per giorno furono condannati a lasciare la testa sopra un palco davanti alla ringhiera del palazzo ducale, o nelle prigioni del bargello. Toccò questâultima sorte a Baccio Valori, il quale fu decapitato insieme con i due Filippi figlio e nipote con Anton Francesco degli Albizzi e Alessandro Rondinelli, nello stesso giorno 20 agosto, in cui Baccio sette anni innanzi colla forza dellâarmi era entrato nel palazzo deâSignori a riformare il governo della sua patria, allorchè da spergiuro ruppe la convenzione firmata dieci giorni innanzi nel campo imperiale sopra Firenze.
Filippo Strozzi e Paolantonio Valori suo genero per allora si rimasero nel castello prigioni, guardati da Alessandro Vitelli a nome e per conto dellâImperatore; sino a che, chiamato dal pontefice Paolo III in capitano del suo esercito, egli consegnò la fortezza coi prigioneri a don Lopes Urtados ministro dellâImperatore, il quale vi destinò castellano don Giovanni di Luna, non senza risentimento dello Strozzi cui il Vitelli aveva mancato di fede, e con dispiacere di Cosimo per non essergli stato consegnato colui, pel quale aveva pagati 18000 scudi di taglia al Vitelli, e i parenti dellâillustre prigione gioje e denari.
Dubitando Cosimo che Filippo, stante i molti e potenti mezzi, non ritornasse in grazia di Carlo V, faceva di tutto, affinchè gli fosse dato nelle mani. Ma lâImperatore che aveva promesso al Papa di campargli la vita, se egli non era colpevole della morte del duca Alessandro, non lasciava intendere altro se non che bisognava venire in chiaro di un tale addebito.
Per questa ragione riescĂŹ al Duca di far esaminare lo Strozzi in fortezza e di ottenere che si affidasse il processo a un cancelliere degli Otto di BalĂŹa. Furono dati alcuni tratti di corda a Filippo, che, di gentilissima complessione comâegli era, penando assai, venne levato dal tormento negando però sempre di non sapere cosa alcuna dellâassassinio ducale. Dopo questo furono messe le mani addosso a Giuliano Gondi suo stretto amico, che venne esaminato a furia di tortura. Compito il processo, si mandò in Spagna allâImperatore; e in seguito di ciò fu dato ordine che lo Strozzi fosse consegnato in mano di Cosimo. SâudĂŹ poi al principio dellâanno 1538, come Filippo da sè stesso sâera ammazzato in prigione per ajuto di una spada stata lasciata nel carcere come dissesi, a caso da uno di quei che lo guardavano. Nella quale occasione si resero noti alcuni suoi scritti, fra i quali quella Virgiliana sentenza vergata (dicesi) col proprio sangue: Exoriatur aliquis nostris ex ossibus ultor.
Il suo corpo peraltro non fu piĂš veduto, nè si seppe mai in che luogo preciso venisse sepolto. â Comecchè fra il volgo si spargesse voce che Filippo si fosse per sè stesso ammazzato, piĂš certa fama in fra pochi fu, châei venisse scannato per ordine del castellano, o del marchese del Vasto, avendo quei due Spagnoli promesso allo Strozzi di non darlo in potere del Duca, sul dubbio che volesse per mano del carnefice farlo giustiziare.
Poichè Cosimo si ebbe levato dinanzi Filippo Strozzi, che considerava come il suo piĂš formidabile rivale; dopo che vide allontanarsi da Firenze il Vitelli e il cardinal Cybo; poichè finalmente la maggior parte di quei fiorentini che furono autori del principato Mediceo, infra poco tempo vide di strazio, di dolore, o di mala contentezza morti, parve a Cosimo dâesser rimasto senza sospetto di nemici, e nel governo della Repubblica piĂš libero del suo valore; sicchè da quellâepoca in poi si applicò a liberarsi da tutti quei vincoli, nei quali lo avevano involto le condizioni politiche che gli ottennero il trono. â Il riguardo dovuto a molti senatori che avevano promossa la sua elezione; la soggezione che glâimponevano i ministri e i generali di Cesare, erano catene troppo pesanti per un giovine fiero e cupo quale fu Cosimo, che mal soffriva di dover partecipare con altri il potere e la gloria. Cominciò pertanto a ristringere la cognizione degli affari fra pochi suoi confidenti, e ad assuefare i magistrati ad una maggior subordinazione ai suoi voleri. A tal effetto pubblicò nel 1549 un motuproprio, col quale ordinava che nessun magistrato potesse adunarsi a deliberare senza il suo assenso; e fu per questo che Giorgio Vasari volendo dipingere il Granduca in presenza dei senatori, prese per simbolo di questi ultimi il silenzio.
Unâimposizione del sette per cento si raccolse per le pubbliche contingenze, e per supplire alle spese onde vigilare alla sicurezza del dominio con lâerezione o restauro di fortezze e di mura castellane in varie cittĂ dello Stato, per munire di bastioni la cittĂ di Firenze dalla parte di Oltrarno e per ridurre a fortilizio il palazzo arcivescovile presso il monastero di S. Minato al Monte.
Dopo la vittoria di Montemurlo Cosimo manifestò il suo piano politico della lega con Carlo V, anteponendo di associare i suoi interessi con chi dominava le Spagne, lâAlemagna, ed era in Italia signore del regno di Napoli e della Lombardia, piuttosto che accomunarli a quelli della Francia, ove regnava Caterina deâMedici, la quale, come ultima erede del ramo di Lorenzo il Magnifico, riguardò per qualche tempo Cosimo quale usurpatore deâsuoi diritti alla signoria di Firenze. Questo politico sistema pertanto impegnò il Duca a prender parte in tutti gli avvenimenti che potevano riguardar glâinteressi dellâImperatore nelle cose dâItalia. Nè potendo egli, siccome ambiva, sposare la vedova del duca Alessandro, per stringere un vincolo di parentado e procacciarsi vieppiĂš la grazia di Carlo V, chiese a scelta di S. M. una sposa, ed ebbe Eleonora secondogenita di don Pietro di Toledo vicerè di Napoli, spettante alle primarie famiglie di Spagna.
Essa fu pomposamente accolta e festeggiata, nel giugno del 1539, nella casa Medici, e un anno dopo nel palazzo giĂ detto deâSignori, riordinato e ridotto a nobile residenza ducale.
In occasione delle nozze di donna Eleonora Cosimo trovossi obbligato a far lavorare gli argenti altrove, perchè in Firenze erano mancati i migliori artisti e i principali manifattori stati dispersi in tempo di assedio, o dopo la caduta della Repubblica dalla patria allontanatisi.
Largo nelle spese domestiche non meno che nel contribuire denaro e gente allâImperatore, dilettandosi specialmente nel murare grandiose fabbriche, e nel tenere in corso diverse galere, Cosimo I consumava infinito peculio, in guisa chè oltre lâentrate ordinarie, oltre i beni confiscati a piĂš di 400 ricchi fuorusciti sentenziati, o condannati in contumacia con pena della vita, egli trovavasi soventi volte forzato a impor gravezze straordinarie alla cittĂ e dominio fiorentino, non che ad insistere presso il pont. Paolo III, per avere lâimportare di due decime esatte in Toscana sopra i beni ecclesiastici, in ricompensa (diceva la bolla del 31 maggio 1538 che le concedeva) delle spese fatte per la difesa dei luoghi marittimi contro il Turco. (Riformagioni di Firenze.) Voleva il Papa tornare a imporre altre decime, ma Cosimo vi si oppose tanto che rese senza effetto le armi spirituali contro esso e contro i suoi sudditi fulminate, rintuzzando anche le armi temporali, che avevano incominciato a invadere il teritorio toscano dalla parte di Cortona.
Per le quali contingenze Cosimo ricorse nel 1541 a un accatto, nel quale furono tassati persino i mercanti fiorentini che abitavano fuori del suo Stato.
Nel 1543 fu ordinata unâaltra maggiore imposizione a tutta perdita onde supplire a una grossa somma di denaro richiesta dallâImperatore prima di consegnare al Granduca le fortezze di Firenze, di Pisa e di Livorno.
Dopo aver chiesto ripetute volte a Carlo V il territorio di Piombino, Cosimo lâottenne nel 1548, ma ben presto per un intrigo di corte gli fu ritolto; nè per questo egli giammai apparentemente fece mostra dâaverne sdegno, nemmeno quando i ministri Cesarei gelosi del favore che egli godeva presso sĂŹ gran monarca, quasi per derisione, in compenso di tanti sacrifizj fatti per la causa imperiale, gli offrivano deâpossessi in America. â Tanta costanza, e una cosĂŹ ferma imperturbabilitĂ spianarono a Cosimo la via onde aggiungere ai suoi dominj la cittĂ e lo Stato di Siena, divenuto dopo la caduta della Repubblica fiorentina il nido deâfuorusciti o di tutti i malcontenti del governo spagnolo in Italia.
Dovè pertanto Siena accettare presidio imperiale, ma quella popolazione non soffrendo che vi si edificasse una fortezza, sollevossi per discacciare la guarnigione, cosicchè nel 1552 sâimpegnò una guerra accanita, nella quale prese parte a favore dei Senesi la Francia, non giĂ per sostenere la causa della libertĂ , ma per menomare la maggioranza che gli Spagnoli avevano acquistata nella Penisola . â Vedere SIENA.
Perduta da Piero Strozzi, gran Maresciallo di Francia, nel 2 di agosto 1554, la battaglia di Marciano in Val di Chiana, le truppe Cesareo-Medicee si recarono intorno a Siena, la quale stretta e combattuta da ogni parte, dovè finalmente aprire le porte ai nemici (25 aprile 1555) dopo essere state distrutte le facoltĂ con un gran numero di quei cittadini, e dopo esser caduto in potere degli imperiali quasi tutto il dominio senese, ad eccezione di pochi paesi meridionali e degli ultimi avanzi della Repubblica, che finalmente si estinse quattrâanni dopo in Montalcino. â Ma il vero conquistatore di Siena fu Cosimo; il quale coi suoi denari e coi suoi talenti, dal palazzo Pitti, riparando a ogni bisogno, aveva dirette e sostenute le operazioni militari di quella campagna.
La difesa peraltro che i Senesi fecero della loro libertà è uno dei periodi piĂš onorevoli dellâistoria italiana, tale da non perdere al confronto con alcuni di quelli di Sparta e di Atene.
Ma la caduta della Repubblica di Siena è altresĂŹ lâepoca la piĂš desolante per quella vasta porzione della Toscana, e forse una delle piĂš funeste allâItalia; poichè lâemigrazioni, le morti e la miseria, in cui si ridussero moltissimi negozianti e possidenti terrieri, isterilirono con lâindustrie e deteriorarono le campagne, gran parte delle quali sino dal 1549 aveva risentiti i danni delle numerose bandite da Cosimo I introdotte nello Stato fiorentino.
Al pari, e forse piĂš dellâagricoltura, era decaduto quel commercio, che aveva formate le grandi fortune e la forza della Repubblica fiorentina prima di Lorenzo il Magnifico, alla di cui etĂ cominciarono molte famiglie mercantili e varie colonie di operai a spatriare per recarsi in Inghilterra, in Francia e in altre parti di Europa, dove stabilirono ragioni bancarie, fondachi di lanificj e drapperie di seta e di oro. Finalmente quelle arti che tanto contribuirono alla grandezza di Firenze, quelle ricche case di commercio che avevano resa cotanto opulenta e forte cotesta cittĂ , si ridussero quasi allâinazione, dopo che Cosimo I risolvè di classare una casta di nobili, collâistituire nel 1561 lâordine cavalleresco di S. Stefano Papa e Martire, per far militare i nuovi crocesegnati sulle galere toscane contro i Turchi; nel tempo che il resto della nobiltĂ si gettava in folla nelle anticamere della corte granducale, o si consacrava alla vita ecclesiastica.
Dopo la conquista di Siena, Cosimo I, memore delle gravi contestazioni avute con Paolo III, cercò di farsi molti amici nel Conclave, sicchè egli contribuĂŹ grandemente, nel 1559, allâelezione di Pio IV. Del quale pontefice Cosimo seppe guadagnarsi lâanimo in guisa che fu sul punto di essere da lui fregiato del titolo di Re. Non ebbe minor favore dal di lui successore Pio V, il quale con solenne cerimonia in Roma nella sala dei Re, il dĂŹ 5 di marzo del 1570, gli pose in capo la corona granducale ad onta delle proteste fatte da ministro Cesareo; sicchè i sovrani della Toscana da quellâanno in appresso goderono delle onorificienze di Granduchi. In ossequio di Pio V Cosimo emanò una legge, con la quale fu ordinato ai giudici e ai notari, che tutti gli atti pubblici fossero intestati col nome del Papa vivente innanzi a quello del Granduca regnate.
La decorazione del toson dâoro che piĂš tardi Carlo V inviò a Cosimo, la conseguenza di un imprestito, o piuttosto di un regalo di 100.000 ducati dâoro.
Stabilito lo Stato vecchio (che cosĂŹ chiamossi dopo il 1559 lâantico dominio fiorentino) e ingrandito con lo Stato nuovo, ossia quello della distrutta Repubblica senese, Cosimo I, assicurato che fu da ogni interno sconvolgimento, pensò a preservare il suo dominio da qualunque violenza esterna che ne potesse mai turbare la quiete. â Dopo avere eretto le fortezze della cittĂ di Arezzo e di Pistoja, procurò una difesa alle frontiere dello Stato col guarnire di torri e di fortilizj le coste, col circondare di mura e fabbricare una rocca dentro la cittĂ di S. Sepolcro in Val Tiberina, collâinnalzare dai fondamenti due piazze dâarmi, una allâestremo confine della Romagna, appellandola Eliopoli (Terra del Sole), lâaltra munita di due fortissimi castelli nellâIsola dâElba, designata un tempo col nome del fondatore (Cosmopoli), piĂš nota però sotto lâantico vocabolo di Porto Ferrajo.
Fece incominciare un porto piĂš ampio a Livorno, costruire nel Mugello sopra S. Pier a Sieve lâampia fortezza di S. Martino, dopo che presso Poggibonsi aveva rifabbricato con solida regolaritĂ il bastione che da Arrigo di Lussemburgo prese il nome di Poggio Imperiale. â Dilettavasi inoltre Cosimo, e spendeva assai in fare mine per cavare argento e altri metalli; perciò a Pietrasanta inviò ingegneri mineristi chiamati dalla Germania, nutrendo molti in simile esercizio senza ritrarne gran frutto, e piuttosto con suo danno, se credere si deve allo storico Bernardo Segni (Stor. Fior. Lib. XI). â Dal bilancio fatto nel 1550 di tutte le entrate ordinarie del dominio fiorentino appariva, che esse ammontavano a lordo a ducati 437,934 per anno, e al netto delle spese ordinarie a ducati 267,903. â Però la sorgente maggiore delle ricchezze di Cosimo I, colle quali suppliva alle straordinarie spese e al fasto della sua corte, traevale non tanto dai beni dei ribelli (molti deâquali assegnò aâluoghi pii, o donò agli amici) quanto anco dal monopolio della mercatura: stantechè egli interessavasi con le ragioni di ricchi negozianti nelle piazze di Anversa, Bruges, Londra, Lisbona, Barcellona, Marsilia, Lione, Venezia, Napoli e Roma.
A qual uopo Cosimo impiegava continuamente due galeoni pel trasporto delle mercanzie del Levante e dellâItalia nei porti di Spagna, di Portogallo e di Fiandra, da dove ritornavano carichi delle merci di quelle contrade.
Anco la granduchessa Eleonora, al pari del marito intenta a un simile esercizio, potè in progresso, sebbene venuta in Toscana con piccola dote, accumulare un ragguardevolissimo peculio.
Per queste ragioni le opere di lanificio e i broccati di seta e oro ripresero in Firenze un qualche favore. Talchè il prodotto dei panni fini (detti del Garbo) e di quelli ordinarj nellâanno 1575, ammontò alla somma di due milioni di ducati: nè in questo calcolo si contemplarono i drappi di seta, nè le piĂš minute manifatture, che ricevevansi in America con aviditĂ .
In conseguenza di ciò Cosimo I divenne il piĂš ricco e denaroso principe dellâItalia, sicchè alla sua morte, stando alle Memorie MSS. del Settimanni, il di lui successore trovò in cassa un avanzo di sei milioni e mezzo di ducati, parte in contanti e parte in verghe di argento e di oro.
Se Cosimo seppe sormontare le difficoltĂ per stabilirsi sul trono collâimitare i primi anni del regno di Augusto a furia di morti, di condanne e di proscrizioni, lo seppe anche emulare nella magnificenza e nel fare piĂš bella la capitale del suo dominio per sontuositĂ di edifizj. Tra i quali giova qui rammentare il primo ingrandimento del palazzo che conserva il nome del suo fondatore (Luca Pitti), divenuto la piĂš magnifica reggia dellâEuropa; il sontuoso fabbricato con portico tutto di pietra concia per servire di residenza a XIII magistrati, detto perciò degli Ufizj; il lungo corridore che cavalca lâArno sul ponte vecchio per unire la reggia nuova deâPitti con quella di Palazzo vecchio; la biblioteca Laurenziana disegnata da Michelangnolo e compita dallâAmmannati, che fu lâautore del sorprendete e leggerissimo ponte di S. Trinita. â Ă opera di Cosimo la edificazione del Ghetto che trovasi collocato nel centro della cittĂ , fra il distrutto Campidoglio, il Foro vecchio e lâArcivescovado. â InstituĂŹ lâArchivio generale sopra la fabbrica isolata di Or San Michele per raccogliervi tutti i pubblici contratti dello Stato vecchio. Col disegno del Vasari fece edificare il loggiato della Pescheria in Mercato vecchio, mentre Bernardo Tasso innalzava piĂš grandiose loggie in Mercato nuovo, sopra le quali, nel 1612, furono collocate le filze degli originali delle pubbliche scritture.
Lo stesso Cosimo ordinò che sâinnalzasse sotto le logge dellâOrgagna la statua del Perseo di Benvenuto Cellini, sulla piazza di S. Lorenzo la base storiata dal Bandinelli per collocarvi sopra la statua di Govanni de Medici di lui padre. Per ordine del sovrano medesimo fu fatto lâacquedotto e la gran fonte di Piazza; fu alzata una colonna di granito delle Terme Antonine di Roma trasportata nella piazza di S. Trinita e messavi sopra la statua di porfido scolpita dal Ferrucci. Una minore colonna di marmo fu posta a S. Felice in Piazza, e quella maggiore di tutte che si ruppe prima di essere collocata nella piazza di S. Marco, poco lungi dal giardino deâSemplici; giardino ordinato dallo stesso Gran Duca un anno dopo quello di Pisa, che è il piĂš antico orto accademico istituito in Italia, cui presedè il primo botanico dâEuropa, il Cesalpino.
Devesi ancora a Cosimo lâistituzione dellâAccademia fiorentina, fondata nellâanno 1542, richiamando cosĂŹ a nuova vita quella aperta in Firenze nel 1485 da Giovanni Mazzuoli detto lo Stradino; dalla quale Accademia nacque lâaltra piĂš famosa del bel parlare, che prese per simbolo il Buratto e il titolo di Crusca. Nacquero a Cosimo I dalla granduchessa Eleonora 7 figliuoli maschi e 3 femmine, oltre una figlia dalla seconda moglie Camilla Martelli, la quale donna però non fece mai riconoscere per granduchessa.
In quanto alle passioni amorose, e alle vicende domestiche attinenti alle vicende del primo Granduca, non avendo esse influenza sulle cose pubbliche, debbono tacersi anzichè propagarsi dallo storico, che non ama confondere lâuomo di stato con lâuomo privato.
FRANCESCO I, GRANDUCA II Morto Cosimo I, li 21 di aprile 1574, nella sua villa di Castello in etĂ di anni 55, gli successe il figlio primogenito Francesco nato nel 1541. Questi sino dal 1564 era stato messo a parte del governo col titolo di reggente senza però che il padre gli cedesse nè la corona nè il maneggio degli affari diplomatici. Ciò avvenne un anno innanzi che Francesco prendesse in sposa Giovanna Arciduchessa dâAustria figlia dellâimp. Ferdinando I.
La congiura di molti giovani attinenti a famiglie nobili di Firenze, dei quali trovavasi alla testa Orazio Pucci, punita con la morte di alcuni di loro e la condanna di ribelli di tutti gli altri, segnalò il primo anno del suo regno. Era tra i principali congiurati Pierino di Lorenzo di Piero Ridolfi, il cui palazzo in via dè Tornabuoni, ricco di statue e di altri oggetti di belle arti, fu da Francesco I con il giardino e case contigue, nel febbrajo del 1576, donato a Marco Scittico cardinale di Altemps per affezionarlo alla sua casa: e da questo, nel maggio 1577, venduto per 13.000 ducati dâoro ad Alessandro deâMedici arcivescovo di Firenze; sino a che i suoi eredi, del ramo deâMedici deâprincipi di Ottajano di Napoli, nel gennajo del 1607, alienarono tutto quel fabbricato per ducati 24.000 a Bardo Corsi di Firenze. (Arch. Dipl. Fior. â Carte del Monte di PietĂ ).
Nel secondo anno, Francesco I fu riconosciuto dallâimperatore Massimiliano col titolo di Granduca di Toscana, e in seguito dal re di Spagna e da tutti gli altri sovrani. In tal guisa fu terminata una clamorosa causa di precedenza fra la casa deâMedici e quella dâEste, stata per 35 anni il passatempo diplomatico di tutti i gabinetti di Europa.
Francesco I, se da un lato superava il padre in dottrina, dallâaltro lato gli era di gran lunga inferiore nei talenti di uomo di stato.
Glâimperatori ed i re, che avevano ambito lâamicizia di Cosimo, consideravano il figlio meramente come un feudatario. Poco attento per natura agli affari, indifferente per la principessa di cui era stato fatto sposo, piĂš di ognâaltra cosa lâoccupavano le feste, i conviti, e alcuni fisico-chimici esperimenti. Ă altresĂŹ vero che Francesco non obliò i grandiosi concetti del padre, come quello di proseguire le fortificazioni di Livorno, di gettare solennemente (28 marzo 1577) la prima pietra della nuova cittĂ , e di destinare assegnamenti opportuni a farne un grande emporio; e per quanto lâincominciata impresa non progredisse a grandi passi, tuttavia fu continuata per fino che durò il suo regno.
Lo stesso Granduca seguitò lâoperazione incominciata da Cosimo I col far rivedere e rinnovare gli statuti municipali, onde metterli in consonanza col governo monarchico, come anche per gli statuti delle arti e mestieri, alle quali corporazioni peraltro tolse i loro patrimonj. â Tutto in somma mirava in lui a compire lâopera paterna, ad estinguere cioè ogni residuo di autoritĂ repubblicana, lasciando solamente le apparenze e i nomi senza potere.
Imperocchè sotto Francesco I il magistrato Supremo, ossia quello dei 4 Consiglieri e del Luogotenente granducale, che doveva raffigurare lâimmagine della Signoria di Firenze, era divenuto un mero tribunale civile: cosĂŹ pure gli altri magistrati, comecchè decretassero in nome proprio, non agivano che in forza di un rescritto sovrano. â La giurisdizione criminale, per quanto fosse esercitata dagli Otto di Guardia, o di Balia, tutta lâautoritĂ riconcentrossi nel loro segretario Lorenzo Corboli da Montevarchi, che divenne uno deâpiĂš terribili e prepotenti ministri di Francesco I.
Alla contabilitĂ delle finanze dello Stato presedeva un ministro col titolo di depositario generale. A lui erano subordinate, non solamente le varie branche dellâamministrazione economica, ma anco quelle del commercio privato del Granduca, per cui Francesco teneva in corso due galeoni destinati a convojari altri legni carichi di produzioni di varie contrade. La mercatura delle gioje era la sola che quel principe esercitasse da per sè stesso, essendo piĂš dâognâaltro intelligente in sĂŹ fatte merci, e vago di averne delle piĂš rare e piĂš preziose.
Se in questa parte superò lo stesso suo padre, non lo imitò peraltro rapporto alla sua spledidezza. Imperocchè, se nei primi tempi Francesco tenne una corte con fasto quasi regio, negli ultimi anni della sua vita comparve al pubblico troppo ristretta e poco decorosa.
Divenuto per vergogna e per rimorso inaccessibile ai sudditi, viveva ritirato nella villa di Pratolino, nella costruzione della quale si racconta che egli impiegasse una somma immensa di denaro, lasciando totalmente in mano dei ministri le redini dello Stato.
Il principato di Francesco I non fu di lunga durata, essendo egli morto in compendio, quasi insieme con la seconda moglie Bianca Cappello, il dĂŹ 19 ottobre 1587 nella villa del Poggio a Cajano, mentre correva lâanno XIV° del suo regno e il XLVII° di sua etĂ .
Francesco fu protettore dei migliori artisti, e a lui si deve la fondazione della sorprendente Galleria di Firenze, stata notabilmente accresciuta da quasi tutti i Granduchi della prima e della seconda dinastia; talchè la numerosa collezione di oggetti di belle arti, di pitture di varie scuole e di varia età , può dirsi la piÚ completa di tutte le Gallerie di Europa.
Fra i piĂš eccellenti architetti da Francesco I nelle maggiori sue fabbriche adoprati furono lâAmmannati e il Buontalenti. Il primo di essi disegnò la costosa villa di Pratolino, per la quale Francesco I spese scudi 782000; ed è opera dello stesso architetto il palazzo delle RR.
Guardie in Via larga denominato il Casino di S. Marco.
Diede pure molte commissioni di pitture ad Alessandro Allori, a Bernardino Poccetti e ad altri; e fu sotto il suo regno quando Gio. Bologna sotto un arco delle logge dellâOrgagna innalzò il sorprendente gruppo delle Sabine.
Le lettere italiane coltivate e incoraggite per istinto della Casa deâMedici, sembra che fissassero a questâepoca la loro sede in Firenze, dove comparve il Tacito italiano, mercè lâopera di Bernardo Davanzati.
FERDINANDO I, GRANDUCA III Essendo il Granduca Francesco mancato senza figliuoli maschi, prese tosto le redini del governo Ferdinando suo fratello minore, il quale può dirsi il piĂš grande principe della dinastia Medicea, e quello che fu dai sudditi realmente amato, e generalmente stimato. Imperocchè, se da porporato aveva dato prove luminose di un gran talento e di un animo nobile, allorchè divenne Granduca si distinse per ogni genere di azioni. â Creato Cardinale a quattordici anni dal pontefice Pio IV, divenuto adulto si recò a Roma (anno 1569) dove dimostrò di buonora la sua indole generosa e lâamore ingenito nella sua famiglia per gli artisti e gli oggetti piĂš rari di belle arti, acquistando a caro prezzo la Venere deâMedici e la famiglia della Niobe, i Lottatori, lâErmafrodito, il cosĂŹ detto Arrotino, e molte altre statue e teste antiche, onde adornare la deliziosa villa Medicea, da esso lui fatta edificare sul colle Pinciano. Egli fu che aprĂŹ in Roma la stamperia di Propaganda con caratteri orientali, affine di agevolare la propagazione della fede nelle parti deglâInfedeli in Oriente.
Con sĂŹ fausti auspicj Ferdinando I, appena salito sul trono della Toscana, vi sviluppò un piano di politica opposta a quello deâsuoi antecessori, perchè mirava a emanciparsi dalla corte di Spagna e a legare al suo sistema i varj principi dâItalia, tutti disgustati dellâorgoglio e della prepotenza di Filippo II.
Ne diede una prima prova il matrimonio contratto nel 1589 con la principessa Cristina figlia di Carlo duca di Lorena, a preferenza di unâArciduchessa dâAustria, e di una figlia del duca di Braganza, che la Spagna voleva dare al Granduca: e a costo delle rimostranze fattegli, che, a forma del trattato della cessione di Siena nel 1557, i matrimonj di casa Medici dovevano stabilirsi a beneplacito della corte di Madrid. Ferdinando intento a strappare il freno spagnuolo offrĂŹ piuttosto al sua mano a una principessa Lorenese propostagli da Caterina regina di Francia sua parente, la quale in occasione di tali nozze cedè ogni sua ragione sui beni di casa Medici, e ogni diritto che poteva aver ereditato sul ducato di Urbino. â Nelle feste eseguite in Firenze per tali nozze si diede il primo saggio deâdrammi musicali e dellâOpera italiana nel nuovo teatro costruito sopra la fabbrica degli Ufizj.
Le piĂš grandi cure di Ferdinando furono dirette a tre oggetti di pubblica economia per la felicitĂ dei suoi sudditi; cioè allâaumento e prosperitĂ del commercio di Livorno, al disseccamento della Val di Chiana, e alla riduzione della Maremma senese.
Pieno il desiderio di porre in esecuzione le idee del padre, ferdinando continuò a richiamare in Pisa i mercanti esteri, procurando loro magazzini e abitazioni, mentre nel 1587 nel porto di Livorno vedeva gettare i fondamenti della fortezza nuova, e dentro il mare piantare le palizzate per fondarvi sopra un muraglione che unire doveva il fanale alla Terraferma; costĂ dove sorgevano numerosi edifizj, costĂ dove accorrevano da ogni contrada commercianti e artisti di qualunque setta o religione, sotto lâegida di un indulto di tolleranza pubblicato nel 1593, incoraggiti da provvedimenti benefici coloro che vi accorrevano, e da utili franchigie per le industrie che vi si esercitavano. â Onde poi avere una comunicazione piĂš diretta e piĂš facile fra Pisa e Livorno, lo stesso principe fece voltare una parte dellâArno col diversorio del canale Naviglio, e ciò dopo aver messo al coperto il littorale dai corsari, dalle frodi di contrabbando e sanitarie mercè le compagnie deâcavalleggeri di costa istituite nel 1592.
Quattrâanni continui di carestie, avendo portati fuori della Toscana piĂš di due milioni di scudi dâoro per comprare vettovaglie, e sviluppate dentro il dominio epidemiche malattie, mortalitĂ straordinarie e sbigottimento universale, suggerirono allâanimo imperturbabile di Ferdinando un mezzo di tirar profitto anche dalle pubbliche calamitĂ . Nella speranza di ritrarre la sussistenza dal proprio Stato, questo Granduca rivolse le sue cure al prosciugamento della Val di Chiana, e alla riduzione della Maremma senese, nel tempo stesso che egli procurava di risanare lâumida Val di Nievole e la bassa pianura di Pistoja.
La grandezza dâanimo di un tal principe fu dâimmenso sollievo ai suoi popoli, a benefizio dei quali egli versava a larga mano i tesori lasciati da Francesco I. Però fra le diverse leggi agrarie da esso pubblicate, ve ne furono di quelle che vincolarono il commercio con la speranza di prevenire le carestie, e che conseguentemente paralizzarono ognâaltra misura tendente ad accrescere la produzione del suolo. InstituĂŹ il magistrato dei Fossi per dirigere con un sistema uniforme le operazioni idrauliche delle provincie di Pisa e di Grosseto.
Il genio di Ferdinando per le grandi imprese marittime e per le sue peculiari speculazioni mercantili in diverse parti di Europa, somministravagli frequenti occasioni di occupare utilmente la toscana marineria in varie spedizioni nellâAmerica, nel Mar rosso e contro i Turchi in Levante. Al qual effetto aumentava egli annualmente il numero dei suoi legni, montati dalle caravane dellâOrdine militare di S. Stefano. Talchè la sua marina era nel mediterraneo la piĂš esercitata e la piĂš formidabile per la pirateria contro i Levantini e gli Affricani.
Fra le piĂš ardite e gloriose imprese della flotta Toscana comandata dallâammiraglio Cavagliere Jacopo Inghirami, fu senza dubbio quella della cittĂ di Bona sulla costa di Barberia (anno 1607), dove si conquistarono 11 insegne, 1500 schiavi, molte armi e projettili da fuoco.
Una si felice spedizione eseguita sotto li nome del figlio primogenito del Granduca, fu appresa in Firenze come un augurio della prospera fortuna di questo principe, allora in etĂ di 17 anni, in tempo appunto che trattavasi il suo matrimonio. â Tali nozze furono infatti celebrate con straordinaria pompa in Firenze nellâanno susseguente, epoca in cui Ferdinando riunĂŹ stabilmente al suo dominio la contea di Pitigliano, acquistata dagli Orsini.
Unâaltra non meno gloriosa vittoria si ottenne dalla flotta del Granduca sopra i Turchi nellâArcipelago, nella quale occasione si fecero 700 prigionieri con una preda che oltrepassò il valore di due milioni di ducati. Questa seconda impresa marittima era per chiudere quellâanno fra le allegrezze e il giubbilo universale, quando la fatalitĂ della sorte volle che tanto giubbilo fosse funestato dalla morte di Ferdinando, accaduta li 3 febbrajo del 1609, col compianto dei Toscani e di tutta lâEuropa.
Avvegnachè Ferdinando I, per quanto egli potè, fece il bene dei suoi sudditi e della sua famiglia siccome avrebbe voluto farlo allâItalia tutta col tentare dâindebolire lâifluenza spagnuola nella bella penisola, al qual fine egli recò soccorso di forze, di denari e di consigli a Enrico IV re di Francia, che fu della corte Spagnuola rivale.
Ferdinando I, riuniva tutte le qualitĂ necessarie dâun ottimo principe; il suo governo non fu soggetto a intrighi di corte, nè egli, nel corso di 23 anni, variò mai i tre principali e fedeli ministri del suo consiglio, Belisario Vinta per gli affari Esteri, Lorenzo Usimbardi per gli affari Interni, e Carlo Antonio del Pozzo arcivescovo di Pisa per gli affari di Giustizia e di Regio Diritto. â Ingenuo ma cauto, saggio ma vigoroso nelle deliberazioni, di animo risoluto ma grande anche nelle disgrazie, di carattere collerico ma che sapeva placarsi e conoscere a sè stesso il suo naturale, per cui egli godeva quando sentiva che i suoi ministri avevano sospeso le risoluzioni date in mezzo a quei trasporti. Lâimpresa del re delle Alpi collo sciame attorno, ed il motto Majestate tantum, che si vede nella base della statua equestre fatta da Gio. Bologna dei metalli rapiti al fiero Trace, ed innalzata nella piazza della Nunziata in Firenze per onorare la memoria di Ferdinando I, denota bastantemente, che in mezzo alle altre virtĂš trionfava in lui la clemenza . â Quanto era frugale ed economo in famiglia, altrettanto Ferdinando mostravasi splendido e generoso nellâoccasioni di pubbliche feste, nelle grandi imprese, nel soccorrere i suoi popoli, nel premiare la virtĂš e i fedeli servigj.
Firenze acquistò, mercè questo principe, due raritĂ che la resero infinitamente piĂš pregevole per i dilettanti del bello; essendo stata arricchita della statua della Venere detta deâMedici, capo dâopera della scultura antica, e della numerosa famiglia marmorea della Niobe, adornamento il piĂš bello della R. Galleria, e ciò per acquisto fatto in Roma da Ferdinando mentre era Cardinale.
Fu pensiero dello stesso principe la fondazione di un nobile e maestoso asilo ai trapassati della famiglia granducale, facendo disegnare dal fratello don Giovanni nato da Cosimo I e da Eleonora degli Albizzi, architetto militare piĂš che civile, il tempio ottagono della cappella deâPrincipi accosto alla R. basilica di S. Lorenzo a Firenze; tempio che fu incominciato nel 1604, proseguito dal figlio e dal nipote di Ferdinando I, e portato presso che al termine di una completa decorazione dal magnanimo Granduca LEOPOLDO II felicemente regnante. â Vedere COMUNITAâ DI FIRENZE.
Col disegno del Buontalenti Ferdinado I edificò nel 1590 la fortezza di Belvedere sul poggio di Boboli, e quindi istituĂŹ lo spedale deâConvalescenti sulla piazza di S.
Maria Novella. â Fondò, sebbene senza effetto, il monte deâVacabili con la mira di rimediare ai danni che risentivano le arti, il commercio e lâagricoltura dal patrimonio eccelesiastico, come quello che assorbiva la maggior parte dei beni della Toscana, nel mentre che monaci, preti e frati negavano di soddisfare le gabelle al principe. â Fece erigere collâopera di Gio. Bologna la statua equestre di Cosimo I suo padre, e sulla coscia del ponte vecchio dalla parte di OltrâArno il gruppo marmoreo della lotta di Ercole col Centauro. Donò allâaltare della SS. Annunziata deâServi il gran dossale di argento, scolpito col disegno di Matteo Nigetti. Impiegò il Buontalenti nellâinnalzare dai fondamenti in brevissimo tempo la villa Ferdinanda, ossia di Artimino, dopo aver costruito presso Montelupo quella dellâAmbrogiana. â Fra le grandi opere fatte in Pisa contasi lâacqedotto magnifico dal suo figlio Cosimo II compito per condurre da Asciano acque copiose e salubri dentro la cittĂ , dove fece restaurare con grandissima spesa il duomo, stato da un incendio nel 1594 rovinato: aprĂŹ il primo museo di storia naturale, ed eresse il collegio Ferdinando per gli alunni di quella UniversitĂ , in tempo che il di lui ministro arcivescovo del Pozzo impiegava le sue ricchezze nella fondazione del collegio Puteano. â In Siena avvivò quella languente UniversitĂ col mettervi non meno di 35 cattedre. A Grosseto compĂŹ la costruzione delle sue mura castellane e della fortezza incominciate da Francesco I.
Il commercio deâFiorentini e le loro manifatture eransi mantenute nellâistesso grado a cui pervennero sotto Cosimo I. â Contasi che si fabbricassero allora annualmente in Firenze per tre milioni di scudi fra drappi di seta, tele dâoro, di argento e rasce. Ă certo che si compravano ognâanno 300,000 scudi di sete greggie nei regni delle due Sicilie; talchè lâestrazione di sĂŹ ragguardevole somma di denaro dallo Stato indusse Ferdinando a promuovere con ognâimpegno la propagazione e coltura dei gelsi in Toscana. Molti Fiorentini in quel tempo viaggiavano allâIndie e in America, riportando in patria nuove e rarissime produzioni da quelle contrade.
Essi furono che insegnarono la mercatura di contrabbando aglâInglesi e agli Olandesi, coi quali allora facevano un commercio attivo i Fiorentini, stati incoraggiti dallâesempio dei loro antenati, Amerigo Vespucci e Giovanni da Verrazzano, due uomini che ispirarono nei Toscani tutti lâardire per lunghe navigazioni.
Ferdinando sino dai primi anni che salÏ sul trono pensò di riunire le arti piÚ belle e di maggior lusso nella R.
Galleria sopra glâUfizj, invitando nel tempo medesimo da ogni parte artefici per eseguirle, onde emancipare i suoi stati dalle manifatture estere.
Lâarte di lavorare e di commettere le pietre dure intradotta da Cosimo e favorita da Francesco, ricevè da Ferdinando maggior perfezione sino al punto di rappresenatare con esse ritratti a guisa di mosaico.
Lasciò Ferdinando otto figli, quattro maschi e altrettante femmine, tutti nati dalla granduchessa Cristina di Lorena, alla quale assegnò un legato annuo di 27000 scudi, oltre il libero governo, sua vita naturale durante, dei capitanati o vicariati di Montepulciano e di Pietrasanta, e ciò a forma deâpatti nuziali.
COSIMO II, GRANDUCA IV SalĂŹ sul trono della Toscana Cosimo II nel giorno in cui morĂŹ il di lui padre che gli servĂŹ di modello, e nelle fresca etĂ di anni 19 non compiti. Il principio del suo governo fu illustrato dalle scoperte astronomiche dellâimmortale Galileo, richiamato da Padova, allorchè questo genio diede il nome di Stelle Medicee ai satelli di Giove.
Concorsero a rendere piĂš splendida la corte di Cosimo unâambasceria del SofĂŹ di Persia e la successiva venuta a Firenze di un Sultano profugo, fratello dellâimperatore Ottomano Acmet; e per ultimo la comparsa dellâEmir di SorĂŹa, profugo egli pure a cagione dellâinvasione dei suoi Stati fatta dai Turchi. Tali avventure facevano meditare ad ogni momento crociate di sacre alleanze e spedizioni in Terra Santa, progettate da Cosimo II senza che sortissero alcun effetto, perchè tutti gli occhi allora erano rivolti alla rivalitĂ tra la Francia e la Spagna, dallâunione delle quali due monarchie dipendeva la pace dellâEuropa. Frattanto gli amici della quiete pubblica promossero tra le due dinastie un doppio parentado, e Cosimo II ebbe la gloria di essere il mediatore e il confidente di sĂŹ importante patto di famiglia, mediante un reciproco matrimonio, che fu conchiuso dopo molti contrasti, nel 1611 fra i figli primogeneti e le figlie dellâuna e dellâaltra dinastia, convalidato da una lega difensiva fra le due corone. Era per compirsi un terzo matrimonio fra Caterina sorella di Cosimo II ed Enrico principe di Galles, figlio di Giacomo re dâInghilterra; il quale monarca per lâampiezza della dote anteponeva una sposa di casa deâMedici a molte altre di famiglie reali, accordando alla futura nuora e alla sua corte lâesercizio libero della religione cattolica, e promettendo anco una modificazione al giuramento di fedeltĂ che dai cattolici si prestava in quel regno. Ma il cardinal Bellarmino sconcertò tutto, e Paolo V negava a Cosimo II la dispensa del parentado con una corte eterodossa tanto che la morte immatura del principe di Galles terminò tutte le questioni.
Cosimo II era tutto per la pace deâsuoi sudditi, e trovava sempre il modo di condurre prudentemente gli affari che avrebbero potuto metterlo in urto con i sovrani di Europa.
Nel suo politico contegno peraltro seguĂŹ le massime di famiglia tendenti ad aderire ai voleri della corte di Madrid; cosicchè, in vigore della capitolazione di Siena del 1557, non potè negare un corpo di milizie in sussidio deâgovernatori spagnuoli in Milano, si allâoccasione delle controversie insorte sulla successione del Monferrato (anno 1613), quando allorchè comparvero, nel 1616, i Francesi in Piemonte. Ebbe Cosimo II molte brighe col ministro di Francia, dopo che a Parigi fu assassinato il maresciallo dâAncre, dal che ne vennero i mali trattamenti fatti da Luigi XIII alla propria madre Maria deâMedici.
Il governo di Cosimo II non presenta unâepoca tanto importante come quella di Ferdinando suo padre; chè anzi sotto un qualche aspetto sino dâallora furono sparsi i semi del futuro decadimento dello Stato.
Egualmente benigno verso i sudditi, non era egli egualmente magnanimo, pronto e intraprendente come il padre. Principe culto, dâindole moderata e di salute cagionosa e fiacca, fu per natura sensibile ai piaceri dellâimmaginazione, alla musica, alla poesia e agli spettacoli cavallereschi. La sua corte fu montata con maggior fasto che non era stato ai tempi del padre e dellâavo; e per accrescere il numero di chi doveva popolarla, si vide sotto di lui introdursi nel palazzo Pitti la societĂ dei nani e dei buffoni; gli mancavano però le ricchezze del padre e dellâavo, per aver abbandonato affatto la mercatura. Moltiplicò le cacce e le pesche riservate nelle RR. bandite, e nel 1619 cominciò a concederle anche ai gentiluomini con grave danno allâagricoltura. â Nel 1620 cambiò un punto importante della legislazione fiorentina, pochè ristrinse, e spogliò in gran parte le femmine del diritto di successione.
AprĂŹ un asilo in Livorno ai Mori cacciati di Spagna, ma fu costretto, stante la loro ferocia, a rimandarli quasi tutti in Barberia. â Sotto la direzione e soprintendenza di don Giovanni deâMedici suo zio costruĂŹ il Molo che porta il nome di Molo di Cosimo , accrebbe abitazioni e comodi alla nuova cittĂ , che andava sempre piĂš prosperando per concorso di merci, di negoziati e di artigiani.
Fiorirono sotto il suo regno, tra gli architetti Matteo Nigetti e Giulio Parigi, ai quali commise la continuazione della grandiosa reggia del palazzo Pitti, della R. cappella di S. Lorenzo e la costruzione della loggia del Grano; tra i pittori il Cigoli, il Passignano, Cristofano Allori ed il Rosselli, châebbero tutti commissioni e lavori dal Granduca; tra glâincisori in rame il Callotta; e tra gli scultori il Francavilla, il Fancelli e Pietro Tacca che divenne il miglior allievo di Gio. Bologna, cui affidò il lavoro del superbo monumento eretto nel Molo di Livorno in onore di Ferdiando I di lui padre, rappresentato in una statua colossale di marmo, alla cui base sono incatenati alcuni schiavi di bronzo di una maravigliosa bellezza.
La massima gloria però e il maggior decoro di Firenze e della Toscana era in questo tempo Galileo, meritamente onorato da Cosimo II; il qual principe, se non veniva rapito da morte immatura, non avrebbe forse sofferto di vedere il piĂš gran genio delle scienze mattematiche lasciato in balĂŹa per opprimersi, come poi lo fu, dalla maldicenza, dallâignoranza e dalla malvagitĂ .
Ma tutto cominciò a declinare da momento in cui Cosimo, nel 1615, afflitto da malattia, e presago di un prossimo fine, credè prevenire le triste conseguenze della sua morte con un testamento che servisse di norma al governo della Reggenza del figlio minore. â In tale occasione egli aumentò alle fanciulle le doti instituite dal padre collâultima sua volontĂ ; assegnò i fondi per il proseguimento delle RR. fabbriche; costituĂŹ ai figli cadetti unâannua entrata di 40,000 scudi per ciascuno, alle principesse le doti, e alla granduchessa sua consorte un annuo legato di 30,000 scudi, oltre al governo delle cittĂ di Colle e di San Miniato con le loro entrate dichiarandola Tutrice e Reggente del figlio insieme con la vedova (ERRATA: lâArciduchessa Maria Maddalena) la Principessa Cristina di lui madre, e trasfondendo in esse, durante la minoritĂ del successore, il pieno esercizio della sovranitĂ , previo il parere di un consiglio di quattro ministri, cui dovevano servire di segretarj il Pichena ed il Cioli.
Chiuse il suo tesoro a chiunque, proibendo imprestiti, operazioni mercantili e spese straordinarie: e volle che solo potesse aprirsi il suo scrignio per dotare le principesse, o per sovvenire alle pubbliche calamitĂ . MorĂŹ Cosimo II li 28 febbrajo 1621, nella freschissima etĂ di 31 anni, lasciando cinque figliuoli maschi e 3 femmine, nati dalla (ERRATA: Granduchessa Cristina) Granduchessa Maria Maddalena dâAustria.
FERDINANDO II, GRANDUCA V Nato nel 1610, ai 14 di luglio, non potè prendere le redini dello Stato, se non che al suo diciottesimâanno. Per tal modo la Toscana restò sei anni e mezzo in balĂŹa della Reggenza instituita da Cosimo II. La qual Reggenza cominciò subito a divenir pesante ai popoli per mezzo dâinopportuni sconvolgimenti e di riforme meno che necessarie, trascurando quelle ordinate dal testatore, lasciando sussistere tutto ciò che serviva al fasto inutile, e sospendendo i lavori delle fabbriche granducali. â Le vedove Granduchesse tutrici si allontanarono talmente dalle massime della pubblica economia, che la Toscana se ne risentĂŹ per lunghissima etĂ . Esse medesime intrapresero per loro conto il commercio dei grani della Maremma senese, con che finirono di rovinare quella provincia sventurata.
La saggia condotta di Ferdinando II apparve sino dal primo anno del suo governo (anno 1628), quando la Toscana fu invasa da mortifera pestilenza, che rapĂŹ a Firenze 9000 abitanti, e che portò la desolazione e un totale sconvolgimento al commercio di Livorno. Di molto cordoglio fu anche pel giovane principe il vedere arrivare con la sua famiglia in Firenze il duca di Lorena suo cugino per cercare un asilo in Toscana, spogliato deâsuoi Stati dai Francesi. Diede occasione a ciò la guerra deâ30 anni, accesa in Europa dai maneggi del cardinal Richelieu, ostinato nel cercare la depressione della casa dâAustria sĂŹ in Germania, come nella Spagna: talchè nel 1635 questâincendio si comunicò anche allâItalia. Il solo duca Odoardo Farnese di Parma si lasciò sedurre dalle pratiche del ministro francese, e benchè Ferdinando II facesse di tutto, per distornarlo dalla sconsigliata determinazione, non per questo vi riuscĂŹ; siccome inutili furono i suoi sforzi per combinare una lega, che tendesse a mantenere la neutralitĂ neâprincipi italiani. La guerra continuò, i Francesi ebbero la peggio, e tocco poi al Granduca di salvare il Farnese suo cognato dallo sdegno degli Austriaci.
Lâoccupazione di Castro e di Ronciglione, fatta dai Barberini nipoti di Urbano VIII a danno del Farnese, i raggiri e i continui dissapori ricevuti dalla corte di Roma a cagione di giurisdizione, mossero e fecero insorgere fra Urbano VIII e Ferdinando II serie contese, che terminarono in una guerra. Per rafforzare lâesercito toscano contro il Papa furono invitati tutti i bravi e tutti i facinorosi dellâItalia: e per sostenere le spese furono accresciute di un terzo le gabelle, dichiarati alcuni oggetti di diritti di regalia, e introdotto lâuso della carta bollata.
Questa guerra ridicola e disastrosa si ridusse poi ad alcuni piccoli fatti dâarmi, e alla battaglia di Mongiovino, seguita li 4 settembre 1643, nella quale non si contarono piĂš di 25 morti sul campo. In tale occasione, volendo profittare della capitolazione di Siena del 1557, a tenore della quale la casa deâMedici doveva prestare soccorso di milizie alla Spagna in ogni contingenza di guerra con patto di reciprocitĂ , il Granduca aveva chiesto per la prima volta sussidio di genti di armi alla Spagna; ma gli fu tosto negato col diplomatico ripiego, che la corte di Madrid avrebbe dovuto prestare egual soccorso al Papa, il quale lo poteva pretendere per lâalto dominio sul regno di Napoli, allora sotto il governo spagnolo.
Nellâanno 1662 lâItalia trovandosi minacciata, e in procinto di essere posta a socquadro da Luigi XIV per un disgustoso accidente occorso al suo ambasciatore in Roma, Ferdinando II sâintromise in tale spinoso affare, facendosi il mediatore di un accomodamento tra il re di Francia e il pontefice Alessandro VII.
Ă reputato questo Granduca tra i migliori della dinastia Medicea, sebbene non migliorasse in alcuna guisa, durante il suo regno, la sorte della Toscana, il di cui stato economico-agrario fu anzichenò oppresso dai vincoli sempre maggiori. Dondechè la coltura della terra si abbandonò e il commercio si affievolĂŹ, nel mentre che le nazioni oltramarine e oltramontane sâimpadronivano di tutti i rami di maggior profitto.
Ferdinando II, cinque anni dopo essersi messo alla testa del suo Stato, erasi unito in matrimonio a Vittoria di Ubaldo della Rovere, principessa ereditaria del ducato di Urbino, come ultimo fiato della sua casa, e da cui ebbe soli due figliuoli.
La prudenza fu la compagna del suo governo; ma essendo questa virtĂš per ordinario scompagnata dal coraggio, cosĂŹ Ferdinando II venne addebitato di non aver saputo far valere le sue ragioni per parte della moglie sul ducato di Urbino, di cui ella era legittima erede; di non avere troppo bene regolata la guerra contro i Barberini, e di avere abbandonato il progetto di erigere un monumento a Galileo, allorchè gli fu fatto sentire, non doversi far lâelogio di un uomo châera stato nelle mani dellâInquisizione.
Ferdinando al pari degli altri Granduchi suoi predecessori protesse coloro che professavano le Belle arti, tra i quali Pietro Tacca scultore, al quale ordinò una copia di bronzo del Cignale di marmo antico di Galleria per porlo davanti alle logge di Mercato nuovo; Giovanni da S. Giovanni, e Pietro da Cortona pittori, e Stefano della Bella incisore.
Ma chi si distinse sopra tutti dalla famiglia Medici nel proteggere i cultori delle scienze esatte, fu il cardinal Leopoldo, uno dei fratelli di Ferdinando II. Divenuto egli stesso dottissimo, prima che vestisse la sacra porpora, fondò nel 19 giugno 1657, la celebre accademia del Cimento, la prima che si dedicasse agli studj della fisica esperimentale e che figurasse in Europa.
Avvi memoria che presso il Gr. D. Ferdinando si tenessero private adunaze scientifiche fino dal 1648, in cui il Viviani preparò una Raccolta di Eperienze senzâordine, dove furono descritti molti strumenti dâinvenzione dello stesso Granduca, riportati in disegno nel Saggio di Naturali Esperienze. Questâaccademia, celebre per i grandi uomini che la componevano, e per lâimportanza delle scoperte che diede alla luce, tenne lâultima sua adunanza scientifica li 5 marzo del 1667.
Due furono i motivi che cospirarono al suo scioglimento, la dissensione tra gli accademici prodotta dallâirrequieto Alfonso Borelli, e la promozione di Leopoldo al cardinalato. Vogliono alcuni, che anche lâInquisizione vi avesse la sua parte, mal contenta del principio di negare quello che non si vedeva.
Fu dono del card. Leopoldo alla Galleria di Firenze la raccolta dei ritratti dei piĂš rinomati pittori, dipinti da loro medesimi, collezione che fu sempre piĂš, e che anche ai nostri giorni viene con cura particolare dei ritratti deâmigliori pittori dellâEuropa aumentata. Cominciò la raccolta dei Cammei, e aumentò quella delle Medaglie di circa 2000 delle piĂš rare, fra le quali 750 in oro. A lui si deve la prima Collezione dei disegni che ivi si conserva dai primi sbozzi deâscolari deâGreci fino ai tempi di Raffaello.
A spese di un altro cardinale (Carlo deâMedici) fratello del granduca Ferdinando II, videsi compita la magnifica chiesa deâSS. Michele e Gaetano nella piazza degli Antinori, cominciata col disegno di don Giovanni deâMedici zio di Ferdinando, proseguita da Matteo Nigetti, e terminata nel 1648 da Gherardo Silvani.
Fu ai tempi di Ferdinando II quando Eleonora Ramirez da Montalvo fondò nel 1647 la Congregazione per lâeducazione delle fanciulle nelle case presso quella del celebre Viviani, in via dellâAmore, attualmente in Ripoli, e nel 1650 il nobile Conservatorio della Quiete presso la R. Villa di Castello.
Ferdinando II nel 1633 aggregò al Granducato la contea di S. Fiora, venduta dalla casa Sforza, e nel 1650 Pontremoli col suo territorio, comprato dalla corte di Spagna. â MorĂŹ nel 1670, ai 23 di maggio, lasciando due figli maschi, Cosimo suo primogenito e Francesco Maria.
COSIMO III, GRANDUCA VI Cosimo nato ai 14 agosto 1642, successe immediatamente al padre nel governo dello Stato, non però nelle qualitĂ di animo e nella nobiltĂ delle idee. Quantunque educato in una corte fiorita dâuomini letterati e di filosofi, pel suo corto talento, e per una certa propensione allâascetticismo e agli scrupoli insinuatigli dalla madre, Cosimo non ricavò alcun utile profitto per sè e molto meno per i suoi sudditi.
La maniera di viaggiare châegli tenne in varie parti di Europa, allâetĂ di 26 anni, dimostrò chiaramente châegli nel visitare le contrade e i gabinetti non andava a cercar sapienza, nè arte di governare tra i costumi delle varie nazioni, ma sivvero a far pompa della sua magnificenza e di una vistosa pietĂ . Non è da maravigliarsi però se il nome che si era fatto in Europa un letterato del suo seguito, il conte Lorenzo Magalotti, stato segretario dellâaccademia del Cimento, offuscasse quello del principe che accompagnava.
Il frutto, che Cosimo III raccolse dalla visita delle corti oltramontane, fu il disprezzo per le cose del proprio paese; talchè la sua casa fu montata in una maniera piĂš magnifica e piĂš dispendiosa, la reggia addobbata di drappi di Francia e dâInghilterra, le genti di servizio per maggior fasto chiamate da remote regioni, e la mensa sontuosamente imbandita coi prodotti piĂš delicati ed esotici.
Il carattere costante di Cosimo III era quello di figurare facoltoso e potente. A tale effetto comprava dallâImperatore per grosse somme di denaro il titolo di Altezza Reale; regalava con profusione tutti i forestieri di distinzione che lo visitavano, faceva lo stesso annualmente con tutti i ministri esteri e con molti monarchi: ma quelli che piĂš dâognâaltro esaurivano i suoi ricchi scrigni erano gli eccelsiastici, i prelati di Roma, e in special modo i Gesuiti; i quali ultimi sino dal fondo dellâAsia strappavano da lui generosi assegnamenti, che il popolo per derisione chiamava pensioni sul Credo, in vista specialmente dei tesori che si profondevano agli eterodossi per convertirli, ai neofiti per alimentarli, ai santuarj per arricchirli, ai missionarj acciocchè trattenessero il popolo in frequenti prediche e processioni.
In conseguenza di queste e di altre consimili prove di ambiziose magnificenze e di pietose dimostrazioni, le avite ricchezze e quelle dello Stato si esaurirono al punto da mancare al granduca talvolta il denaro per le paghe della milizia e dei pubblici impiegati. Arroge a ciò lâesorbitanti somme che cotesto principe, minacciato da unâinvasione militare, dovette contribuire alla Camera aulica per i feudi di Lunigiana; in conto dei quali dal 1706 al 1711, si calcola che pagasse 300,000 doppie dâoro. Per tali angustie trovossi costretto di ricorrere a gravose imposizioni straordinarie, ossia collette, proprie ad alienargli, piuttostochè a conciliargli lâobbedienza e lâaffezione dei sudditi; e ciò non bastando, bisognò che Cosimo III ipotecasse per sino le sue piĂš preziose gioje.
Ma il male ancor piĂš grave era, che la propensione del principe per le persone bigotte induceva molti furbi e ribaldi allâipocrisia, come mezzo sicuro di entrargli in grazia. Che però destava onta e dispetto vedere quei falsi devoti proteggersi scambievolmente e far setta fra loro, come sogliono praticare tante altre congreghe segrete da tutti i governi condannate.
A un sovrano di simil tempra, e che stava rigorosamente sul puntiglio delle cerimonie, a quello cui non si vedeva mai sul labbro un sorriso, sul volto un moto di ilaritĂ , a lui toccò in moglie una brillante principessa (Margherita Luisa dâOrleans) tutta vezzi e tutta grazie, stata giĂ educata alla corte di Luigi XIV colla mira di farne una regina di Francia. Non era appena concluso il trattato di matrimonio, che morĂŹ il ministro Mazzarino, e la madre di lei tentò di annullare il contratto; ma Luigi XIV mise la sposa promessa sul duro bivio, o di andare in Toscana al talamo di Cosimo, o in un convento rinchiusa per fin che viveva; cosicchè alla principessa dâOrleans convenne obbedire, e di mal umore con altra passione in cuore recarsi a marito in Firenze.
Al che si aggiunga la scambievole disistima che, stante la diversitĂ dei caratteri, ben presto nacque fra la suocera Granduchessa vedova e la Granduchessa sposa.
Quindi avvenne che un sĂŹ fatto matrimonio fu pieno di amarezze, vivendo i coniugi in una quasi continua discordia. Dissi quasi continua, mentre nei brevi intervalli di ravvicinamento, che seguirono nel primo decennio, la granduchessa Margherita rimase per tre volte incinta e partorĂŹ, oltre una femmina (Anna Maria Luisa) due figliuoli maschi, cioè, Ferdinando premorto al padre, e Gio. Gastone che fu lâultimo granduca della dinastia Medicea. Quando Cosimo credè di avere in tal guisa assicurata la successione, cominciò a rimirare con occhio severo anzichenò la condotta di sua moglie; rimandò in Francia le donne che lâavevano seguita, ed essa medesima fu rilegata al Poggio a Cajano; dalla qual villa non avendo potuto fuggire, chiese il divorzio. Fu gioco forza nel 1675 di venire ad un componimento, nel quale fu stabilito, che la Granduchessa si ritirasse nel convento di Montmartre a Parigi, di dove, per avere troppo spesso e con poco decoro infranta la clausura, (ERRATA : 1792) nel 1692 fu traslocata nel convento di S. Mendes per starvi a patti piĂš austeri.
Le massime, il bigottismo e il troppo serio contegno di Cosimo III gli avevano pure alienato il figlio primogenito, che senza prole, nel 1713, morÏ consunto dai disordini, benchè fin dal 1688 avesse sposata la virtuosa principessa Violante di Baviera.
Per assicurare la successione della dinastia, Cosimo ammogliò il figlio secondogenito, poi il fratello suo Francesco Maria, che a tal effetto dovè spogliarsi della porpora. Toccarono ad ambedue (nipote e zio) donne stravaganti; la prima di esse non voleva venire in Toscana per essergli stato narrato il tragico fine di tante principesse di casa Medici; lâaltra rifiutavasi di giacere col marito perchè sâera fitta in mente di aver a contrarre qualche malattia contagiosa.
E siccome ai mali della fantasia rare volte si trova rimedio, questo sesto e penultimo granduca Mediceo, condannato a vivere fra i dissapori e le discordie domestiche, ebbe il dolore di vedere in sua vita preparata lâestinzione di una casa che aveva pacificamente regnato per quasi due secoli sulla piĂš bella parte dâItalia.
Pensò allora ai futuri destini della Toscana, ma le potenze di Europa vi provvedevano per esso, e senzâesso.
Il lodo di Carlo V del 1530 aveva escluso dalla successione le femmine e le linee distaccate dai rami Medici del duca di Alessandro, e di quello piĂš propinquo che gli succedè del primo Granduca. Talchè con al morte di Cosimo III e della sua prole mascolina si riputavano consumate le disposizioni imperiali, e Firenze rientrata in diritto dellâantica libertĂ . Questo pensiero svanĂŹ appena posto sul tappeto del Granduca; nè molto piĂš giovò un atto organico disteso dal senato fiorentino, con cui, annullato lâesclusione delle femmine della sovranitĂ , chiamavasi alla successione del trono granducale, in mancanza deâmaschi, Anna Maria Luisa Elettrice Palatina figlia affezionata di Cosimo III.
Con queste norme, morta che fosse lâElettrice, gli eredi al trono della Toscana comparivano i Farnesi di Parma, come quelli châerano nati da una sorella di Ferdinando II, e conseguentemente di Elisabetta ultima di casa Farnese, sposata a Filippo V. Per tal guisa sarebbe venuto ad accumularsi nella famiglia Borbonica di Spagna, oltre il ducato di Parma e Piacenza, anche il granducato di Toscana, lo che teneva in perplessitĂ tutte le potenze di Europa. Finalmente nel 1718 fu convenuto fra lâImperatore, il re di Francia, il re dâInghilterra e gli Stati uniti dellâOlanda, che il primogenito nato da Elisabetta Farnese e da Filippo V sarebbe il successore al Granducato, purchè la Toscana dovesse costituirsi in feudo imperiale mascolino.
Cosimo III si rammaricò di vedere esclusa dalla successione la di lui figlia prediletta, nè gli rimase se non la consolazione dei deboli, quella cioè delle inutili proteste.
MorĂŹ Cosimo nellâetĂ di 81 anni compiti, il dĂŹ 31 ottobre del 1723, dopo aver regnato per piĂš di mezzo secolo (53 anni 5 mesi e 7 giorni) col lasciare il suo trono tra le incertezze, e i sudditi nellâabbattimento, nella confusione e nella miseria.
Fra gli atti della sua amministrazione economica fuvvi un debole tentativo di risanare la Maremma senese, quando chiamò costà una colonia di 800 famiglie di Mainotti, la quale tutta vi perÏ.
Comecchè Cosimo III fosse cotanto intollerante in fatto di opinioni religiose, pure non sdegnò di ammettere nei suoi Stati i predetti greci scismatici, pensando alla riunione della chiesa greca con la latina; nel mentre che nemico acerrimo deâprotestanti egli rifiutossi di accogliere quegli Ugonotti che dopo la revoca dellâeditto di Nantes avevano chiesto di stabilirsi in Pisa e nelle Maremme toscane per potarvi le industrie, delle quali arricchirono invece i Paesi Bassi: e ciò ad onta che essi avessero esibito al Granduca di tentare a loro spese il bonificamento del littorale toscano.
Del restante la miseria aâsuoi tempi crebbe a tale misura da vedere aumentati i furti e i delitti in guisa, che nel 1680 Cosimo III fu costretto a instituire una Ruota criminale per riparare al disbrigo dei molti processi delittusi.
Nel 1700 egli fondò in Firenze la congregazione di S.
Giovanni Battista per fornire lavoro e mezzi di sussistenza ai poveri, mentre si moltiplicavano per la Toscana gli ospizj deâvagabondi e dei mendicanti; nè per questo gli artigiani restavansi dal tumultuare per non trovar esito ai loro lavori, dei quali talvolta lo stesso sovrano videsi costretto addossarsi lo smercio.
Ciò non ostante nel periodo della sua lunga dominazione si pubblicarono due editti importanti: quello del 1717, con cui fu abolita la pena di morte nei delitti di delazione di armi, il che può dirsi a queâtempi cosa straordinaria: ed un altro motuproprio, nel 1719 tendente a facilitare il giro delle proprietĂ col diminuire la tassa della gabella deâcontratti.
Il progresso per altro nelle scienze esatte si arrestò e quasi si spense in Firenze, mancato che fu il fondatore della scuola del Cimento.
La morte del cardinale Leopoldo, accaduta (ERRATA: nel 1765) nel 1665, fece prendere unâaltra direzione agli studj, tornando colĂ donde sono soliti di principiare, alla cultura cioè delle lingue, alla poesia e allâeloquenza.
Al periodo delle scienze succedè quello della letteratura, e perita lâaccademia del Cimento rimasero quelle della Crusca e degli Apatisti, la prima dedicata unicamente alla lingua volgare, lâaltra alle muse. Il Coltellini fu il fondare e il campione di questa; Benedetto Averani, i due Salvini e Orazio Rucellai i capi di quella, seguiti da moltâaltri.
Sebbene gli studj della buona filosofia si rallentassero sempre piĂš sotto il regno di Cosimo III, che fu costante protettore delle dottrine dei Gesuiti, non potè però trascurare affatto un Francesco Redi, un Giuseppe Averani, un Niccolò Gualtieri, un Pier Antonio Micheli, un Gio. Battista Nelli seniore, un padre Grandi e tantâaltri che nelle scienze fisiche, matematiche, mediche e naturali germogliarono in Toscana a quellâetĂ .
In una parola le scienze economiche, morali e filosofiche, ai tempi di Cosimo III non fecero un passo in avanti; e sebbene le varie nazioni Europee, allâoccasione della guerra della Successione, si fossero vicendevolmente comunicate nuove idee, tuttavia i claustrali che frequentavano la corte granducale, gridando alla corruttela, ne impedivano la propagazione. Pure o fosse ambizione di figurare, o piuttosto virtuosa insistenza dellâarchiatro Francesco Redi, Cosimo III si lasciò indurre ad accrescere di oggetti naturali il museo di Pisa, mentre in Firenze arricchiva la Galleria delle Statue di pietre preziose e lavorate della maggior raritĂ .
GIANGASTONE I, GRANDUCA VII Nacque Giovanni Gastone ai 24 maggio dellâanno 1671, ed ebbe in dono dalla natura quelle virtĂš che mancarono a Cosimo III, la giustizia, la clemenza e lâingenuitĂ .
Fornito di un talento svegliato, potè arricchire di buonâora la sua mente dei precetti che ascoltò dai piĂš valenti maestri di quel secolo, Benedetto Bresciani, Enrico Noris, Giuseppe Averani, ed dai familiari congressi ed esercitazioni del geometra Lorenzini, dellâabate Salvini e del celebre Magliabechi, che fu il Varrone della sua etĂ .
Lâindole di un tal principe e tali preludj facevano presagire ai Toscani di avere a possedere in lui un sovrano superiore a quanti lo precedettero. Suo padre stesso lo chiamava il dottore della casa Medici.
Destinato dapprima alla porpora fu poscia indotto al matrimonio per dar successione alla casa regnante; ma la discordia sopraggiunta sino dai primi istanti fra esso e la moglie, fece dileguare le concepite speranze.
Lâindifferenza del padre verso di lui, la reciproca disistima del figlio, la prevista lontananza dal trono per la robusta vecchiezza di chi lâoccupava, e la non piĂš sperata prole, concorsero ad avvilirlo e a disgustarlo.
Era Giangastone di carattere affabile e sensibile, ma i dissapori sofferti influirono sopra di lui sino al punto di cercare nellâindolenza, nella dissipazione e nella scostumatezza un alleviamento alle sue sventure.
Trovavasi in tale stato di abbattimento, quando allâetĂ di 53 anni salĂŹ sul trono, dove gli fu facile trovare in un suo lacchè, fatto ajutante di camera un altro Sejano infame ministro di turpitudini.
Ma il peggio si fu che, reputandosi usufruttuario, piuttosto che vero sovrano della Toscana, Giangastone si fece ben presto conoscere indifferente alla gloria della sua dominazione ed al governo dello Stato; donde ne abbandonava la cura allâarbitrio di pochi, ovvero poco e di malavoglia egli operava.
Difficilissimo sâera reso lâaccesso deâsudditi al suo trono, e le piĂš volte conceduto a prezzo dai favoriti; rarissimi le conferenze con i suoi ministri; talchè in 14 anni di governo si conta che tenesse quel Granduca non piĂš che tre consigli di Stato.
Pare che in materia di politica egli si prefiggesse la massima di Sully, che il mondo cammina da per sè.
Assuefatto da principe a vivere ristretto per lo scarso assegnamento fissatogli dal padre, anche da Granduca conservò contraggenio alle pompe, ricusando ogni apparato di sovrana formalità . Quindi le spese pel suo trattamento erano limitatissime, e le rendite della Toscana non dissipandosi come ai tempi del suo antecessore, le RR. casse rigurgitarono a segno, che potè nei primi anni del suo governo diminuire una gran parte delle straordinarie gravezze per tanti modi da Cosimo III studiate; e potè ridurre i frutti onerosi dei luoghi di Monte dal cinque al tre 1/2 per cento.
Un provvedimento importante, che poi a tanti altri di simil genere servĂŹ di modello, fu quello della Pia casa di Lavoro, cui appellò il motuproprio del 18 maggio 1734, quando Giangastone convertĂŹ lo spedale di Bonifazio sotto il titolo di S. G. Battista in Conservatorio deâpoveri del Granducato per applicarli a quei lavori dei quali potevano esser capaci secondo la loro condizione. Al quale oggetto concorse lâannuenza del pontef. Clemente XII, il quale, con breve del 15 maggio dello stesso anno, riunĂŹ a quel pio stabilimento lâentrate e i possessi di quattro monasteri di donne, stati in tale occasione soppressi.
Frattanto i confidenti ed i familiari di Giangastone, intenti a spogliare quel buon padrone, fecero di tutto per indurlo a dar corso al denaro dello Stato, adombrando la loro venalitĂ col vantaggio che egli in tral guisa avrebbe procurato aâsuoi sudditi. Ebbe tal forza il loro consiglio che Giangastone non solo si diede a comprare manifatture, gioje, pitture e tutto ciò che gli veniva proposto, ma risolvè dâassegnare la provvisione di un ruspo per settimana ad una turba di giovinetti, distinti in seguito con lâepiteto di Ruspanti, e segnalati dai loro concittadini per la grande familiaritĂ col principe e per le loro dissolutezze. Dâonde avvenne che quella popolazione divenuta bigotta sotto Cosimo III (tanto influisce lâesempio deâmaggiori!), si vide in gran parte trasformata in libertina.
Continuandosi in questo frattempo a trattare fra le corti di Europa della successione eventuale al trono di Toscana, arrivò lâanno 1729, quando fu deciso daĂŹ plenipotenziari riuniti in Siviglia: che rimanessero ferme le convenzioni stabilite dal trattato di Londra del dĂŹ 2 agosto 1718 a favore di don Carlo figlio di Filippo V, e che la Spagna inviasse a presidiare con le sue truppe alcune piazze del Granducato.
Giangastone obbligato per ciò ad occuparsi continuamente in un argomento, châera lâannunzio incessante della sua fine, disgustato comâera, dovette altresĂŹ acconsentire e ricevere nella reggia lâInfante don Carlo destinato a succedergli, il quale col titolo di Gran principe ereditario della Toscana nel 1731 sbarcò a Livorno per recarsi quindi nel palazzo Pitti a Firenze.
Due anni dopo, essendo scoppiata in Europa la guerra per la successione di Polonia, videsi strascinare nel vortice delle vicende universali anche la Toscana, la quale per buona di lei ventura, col trattato di Vienna deâ19 novembre 1735 fu ceduta in compenso allâantica casa sovrana della Lorena, nel tempo che il preaccennato Infante riconoscevasi in re delle due Sicilie.
Restando per tal modo annullato il trattato di Siviglia, Giangastone calcolava di poter essere ritornato nella sua libertĂ , tantochè rivolse il pensiero a rimettere in campo un atto, il quale, a insiniuazione di Cosimo III, sino dallâanno 1713 era stato emesso dal senato fiorentino a favore dellâElettrice Palatina sorella di Giangastone; e ciò nella guisa medesima che fu operato nel 1537, allorchè il senato elesse Cosimo in capo della Repub. di Firenze. Ma quel consesso non aveva piĂš autoritĂ , e il Granduca parlava di senatusconsulti, e di prammatiche a chi non lo voleva udire. Vedute però le milizie tedesche sottentrate alle spagnuole nelle piazze della Toscana, Giangastone domandò ai sovrani della quadruplice alleanza che, qualora il Granducato doveva passare alla casa di Lorena, fosse liberato da qualunque vincolo di feudalitĂ , cui la Camera aulica pretendeva assoggettarlo.
Per torre di mezzo ogni aspettativa di regresso allâImpero, avuto il consenso della Dieta germanica, lâimp. Carlo VI con diploma deâ24 gennajo 1737 stabilĂŹ che, dopo la morte del granduca Gianfastone, la piena sovranitĂ , proprietĂ e possessione della Toscana restasse investita nel duca Francesco III di Lorena e nei suoi discendenti maschi per ordine di primogenitura; e che, venendo a mancare la sua discendenza mascolina, si rifondessero li stessi diritti nel principe Carlo di Lorena di lui fratello con il medesimo ordine di successione.
Turbava altersĂŹ lâanimo dei Toscani, che potesse venire il caso, in cui il nuovo granduca Francesco stasse assente dal suo seggio, e che lo Stato come provincia per reggenti si governasse. I ministri dâAustria e di Lorena risposero alle istanze fatte sĂš di tale proposito: che non restando la Toscana compresa nella prammatica sanzione, nè potendo, a forma del trattato di Londra, esser incorporata con gli Stati ereditarj della casa dâAustria, subito che la successione Austriaca si fosse consolidata nel primogenito di Francesco III giĂ unito in matrimonio a Maria Teresa figlia ed erede di Carlo VI, il granducato di Toscana si trasferirebbe nel secondogenito, e in mancanza di esso nel principe Carlo di Lorena e suoi discendenti, i quali per soddisfare ai desiderj del popolo toscano fisserebbero costĂ la loro residenza.
Dopo tali disposizioni diplomatiche si aspettava che la morte venisse a troncare a Giangastone una vita resa ormai nojosa dalle infermitĂ , dagli affanni e dalle sregolatezze. MorĂŹ infatti lâultimo granduca Mediceo nel 1737, ai 9 di luglio; e il principe di Craon investito dei poteri plenipotenziarj prese possesso del Granducato in nome di Francesco III duca di Lorena e re di GERUSALEMME.
STATO DI FIRENZE SOTTO LA DINASTIA LOTARINGIO-AUSTRIACA FELICEMENTE REGNANTE FRANCESCO II, GRANDUCA VIII Sino dalle prime parole di questo lungo articolo diedi a Firenze i titoli di fortunata e felice, oltre quello di bella, che a buon diritto per il suo materiale tutto il mondo le accorda. Avvegnachè, se questa cittĂ sotto lâaspetto storico nelle sue passate vicende si riguarda, le conviene lâepiteto di fortunata,tostochè durante il periodo della Repubblica, ad onta di agitatissime rivoluzioni intestine, di lunghe e rovinose guerre straniere e municipali, di pubbliche calamitĂ , di pestilenze, di carestie, di alluvioni e di altri straordinarj flagelli, la si vedde per fortuna da simili traversie scampata e risorta sempre piĂš prosperosa.
Fu fortunata durante il periodo Mediceo in guisa che, dopo tante proscrizioni, morti, esilj e vendette, in mezzo ai tristi esempj di mal costume, di torpitudini, di violenze, di arbitj, dâipocrisie e di abiezione, fra tanti mali e tante battiture il popolo fiorentino, benchè avvilito, scandalizzato, oppresso, impoverito, per fortuna conservò quellâinnato istinto di filantropica caritĂ , quella dolcezza di costumi, e quelle massime di cristiana pietĂ che lo distinsero in ogni tempo e sotto tutte le forme politiche.
Fu poi felice Firenze, dopo che la speranza di un migliore avvenire, con lâestinzione dâuna famiglia giĂ cittadina, poi fatta dominatrice della sua patria, era per spegnersi nei cuori degli uomini giusti ed onesti, talchè quella generazione, che fu contemporanea del granduca Gio.
Gastone, difficilmente avrebbe immaginato di dover cedere il luogo ad una migliore; e pochi infatti furonvi allora di quelli, i quali per i passati disordini, avendo visto le cose allâultimo esterminio e abbassamento ridotte, di risalire verso il bene e ad unâepoca piĂš felice potessero lusingarsi.
Tali a un dipresso erano le circostanze di Firenze, allorchè essa con tutto il Granducato passò nella casa di Lorena, non restando della stirpe Medicea che lâElettrice Palatina, dichiarata da tanti congressi destituta dâogni diritto a succedere al trono; benchè in seguito venisse trattata da nuovo Granduca con tutti quei riguardi ed onorificenze maggiori che Ella poteva mai desiderare, sino al punto di offrirle la reggenza dello Stato.
Erano a quel tempo le cose della Toscana nel massimo disordine. Abusi moltissimi nella pubblica amministrazione; leggi civili improvvide, intricate, parziali; contese perpetue di giurisdizione; procedura dispendiosa; ingiusti giudizj; pene eccessive e crudeli nel sistema criminale; poca sicurezza personale; asili sacri pieni di malfattori; commercio mal favorito; agricoltura in abbandono; possessioni mal ripartite; fidecommissi inceppati; patrimonio ecclesiastico troppo vasto e troppo immune; una caterva di feudatarj; da ogni parte bandite signoriali o comunitative; coloni troppo poveri; dogane intermedie ad ogni passo; dazj onerosissimi, e un debito pubblico di circa 65 milioni di lire Toscane.
Lo scioglinento di tanti nodi, la liberazione da tanti vincoli oppressivi, furono lâopera pacifica, umana ammirabile della dinastia felicemente regnante in TOSCANA; di questa dinastia che non fondò la libertĂ sulle parole, nè su i contrasti dei poteri, ma ve la stabilĂŹ di proprio istinto sulla base di saggie leggi dettate dalla filosofia, dalla morale, da santissimi principj di cristiana religione, di giustizia e di equitĂ , da chi in una parola non conosceva altra via fuori di quella che traccia la virtĂš e la vera gloria.
Francesco III duca di Lorena e di Bar, poi granduca di Toscana II di questo nome, e I imperatore in Allemagna, nacque da duca di Lorena Giuseppe Carlo e da Elisabetta Carlotta dâOrleans li 8 dicembre dellâanno 1708. Egli discendeva dal pio e valoroso Goffredo di Buglione primo re cristiano di GERUSALEMME, da cui la dinastia Lotaringia ereditĂ il titolo, e ciò che vale piĂš del titolo molte virtĂš di lui e di tanti loro antenati, a partire da Carlo Magno. ââ Sino dallâetĂ di 12 anni Francesco di Lorena fu educato alla corte di Vienna sotto la vigilanza dellâimperatore Carlo VI, che voleva prepere in quel principe il suo genero e successore allâImpero. ââ Gli avvenimenti politici sopraggiunti poco dopo aver preso possesso (anno 1726) della Lorena per la morte del padre, produssero un cambiamento importantissimo nella sorte di Francesco III e della sua casa. Avvegnanchè in compenso dei suoi Stati ereditarj, egli ebbe in sovranitĂ il granducato di Toscana. Egli lo acquistò poco dopo unitosi in matrimonio (12 febbrajo 1736) allâArciduchessa Maria Teresa unica figlia ed erede dellâimp. Carlo VI; per modo che Francesco III di Lorena diventò il fortunato fecondo stipite della Casa Austriaca felicemente regnante.
Principe guerriero, saggio, istruito e religioso, egli diede molte prove di prudenza, di sapere e di valore, si nei campi di battaglia, come neâconsigli dellâaulica sua reggia.
Fra i primi provvedimenti economici, dei quali, appena mancato lâultimo granduca di casa Medici, la Toscana risentisse i buoni effetti, fu quello di estinguere il debito fatto dal suo predecessore per mantenere sei mila spagnuoli che per sei anni (dal 1731 al 1737) avevano presidiato Pisa, Livorno e Portoferrajo. In tale occasione Francesco II con lâannuenza pontificia, obbligò gli eccelsiatici e i luoghi pii a concorrere al pari degli altri sudditi a contribuire la loro quota a ragione di quasi il tre per cento, sulle loro rendite annuali; e fu a tale uopo diretto il motuproprio del 4 novembre 1737, con cui nominò una deputazione laica ad oggetto dâavere esatte informazioni sul patrimonio e stato economico deâluoghi pii, e delle corporazioni si monastiche come secolari.
Dâonde apparĂŹ, che le rendite annue del patrimonio eccelsiastico di tutto il Granducato, detratte le doti congrue delle parrochie, le commende di Malta e i benefizj deâCardinali, ascendevano alla somma di 1,120,827 scudi da lire 7 lâuno; deâquali per 369,324 scudi di rendita spettavano alla diocesi fiorentina; scudi 118,291 a Siena; 76,152 ad Arezzo; 75,797 a Pistoja; 66,985 a Pisa, e 60,965 alla diocesi di Fiesole.
Che la maggior parte delle rendite dello Stato fosse allora assorbita dai creditori del debito pubblico per pagare i frutti annui, lo dichiarò lo stesso monarca, allorchè con due motuproprj, del 3 marzo e 4 aprile 1738, non volendo imporre nuove gravezze, ordinò, prima la vendita dei beni allodiali per estinguere una porzione di luoghi di monte; quindi vedendo che tal progetto non poteva effettuarsi con celeritĂ come si desiderava, limitò la restituzione dei luoghi medesimi a una cifra proporzionata agli avanzi delle pubbliche rendite, riducendo il frutto dei luoghi superstiti dal 3 e 1/2 al 3 per cento: Mentre da una parte il principe tendeva ad alleggerire il debito pubblico, dallâaltra parte si cercava di diminuire il numero eccessivo deglâimpiegati, preferendo piuttosto di dare in affitto, non solo i beni della Corona, ma di appaltare, come ai tempi della Repubblica, le regalie e gabelle anzichè farle amministrare a conto del sovrano.
Fra le numerose regalĂŹe fuvvi quella del gioco del Lotto, che dopo di essere stato piĂš volte proibito, venne finalmente nel 1749 adottato e concesso in appalto.
Lâabuso dei feriati i quali, sospendendo le braccia degli artigiani e lâesercizio di ogni civile giurisdizione, recavano danno incalcolabile al commercio e allâindustria, richiamò lâattenzione di Francesco II, giacchè nel primo anno del suo governo vennero tolti cinque giorni feriati, a principiare dal 19 e 23 novembre, destinati a rammentare lâesaltazione al pontificato e lâincoronazione di Clemente VII distruttore della Repubblica fiorentina; quindi i due primi giorni di agosto stati sino allora festeggiati in memoria della battaglia di Marciano, che decise delle sorte di Siena; e finalmente il giorno 9 di gennajo, in cui soleva solennizzarsi lâanniversario dellâelezione di Cosimo I in duca della repubblica di Firenze.
Dodici anni dopo prestò al principe anche una mano il pontefice Benedetto XIV, vista la molteplicità dei giorni festivi e la necessità di ridurli a un piÚ ristretto numero, e ciò col fine di facilitare ai braccianti il modo di procacciarsi da vivere senza offesa delle leggi divine e umane.
Al principio dellâanno 1739 Francesco II accompagnato dalla sua immortale consorte Maria Teresa e dal principe Carlo di Lorena di lui fratello, arrivò in Toscana; e nel dĂŹ 19 di gennajo fece un festevole e magnifico ingresso nella sua capitale, passando sotto il grandioso arco trionfale presso la porta S. Gallo a tale effetto innalzata col disegno e direzione dellâarchitetto Lorenese Giadod.
Dopo aver beato della loro augusta presenza le cittĂ di Pisa e di Livorno, gli Augusti coniugi alla fine del mese di aprile dellâanno stesso ripartirono per lâAllemagna, lasciando in Firenze un consiglio di Reggenza, al quale dovevano riferire i consiglieri di guerra, e di finanze per rendere piĂš pronta, facile ed esatta lâesecuzione della volontĂ sovrana.
Una dele prime deliberazioni di quella Reggenza fu quella emessa nel 6 di luglio 1739, quando la SocietĂ botanica di Firenze, instituita sino dal 1716 dallâinsigne naturalista Pier Antonio Micheli, fu dichiarata sotto la speciale protezione del granduca Francesco II, che le accordò lâorto deâsemplici presso le RR. scuderie di S. Marco con un annuo assegno di 300 scudi per le spese necessarie alla coltura e conservazione del medesimo, sino a che lo stesso giardino e la SocietĂ botanica, nellâanno 1783, venne incorporata a quella piĂš celebre dellâImperiale e Reale Accademia economico-agraria dei georgofili, la quale ebbe vita sotto il dominio dello stesso Granduca Francesco II nellâanno 1753.
Ma il piÚ evidente vantaggio che abbia tratto il pubblico da quella Società botanica furono i Viaggi per la Toscana del dott. Giovanni Targioni-Tozzetti, opera che fa sommo onore al suo nome, non meno al monarca che la comandò.
Avvegnachè Francesco II sapendo che il miglior mezzo di rendere attivi e utili i corpi scientifici era quello di ordinare dei lavori garndiosi, commis e alla SocietĂ botanica di compilare la Storia Naturale deâpaesi del Granducato. Il qual incarico fu dallâAccademia stessa affidato al sullodato Targioni, affinchè visitando le varie parti della Toscana egli facesse quelle osservazioni fisiche, geologiche, mediche, botaniche, istoriche che il suo gran sapere era capace di riunire.
Tendeva a incoraggiare lâagricoltura sino dal 1738 lâaffitto di tutte le possessioni della Corona, e di quelle spettanti allâordine cavalleresco di S. Stefano. â A questo stesso scopo miravano motupropri dellâanno 1738, del 1750 e del 1762, coi quali Francesco II, per il corso di 34 anni dichiarò libera la tratta dei grani della Maremma senese, anche nei casi di qualunque carestia che fosse per avvenire.
Svincolò da alcuni inceppamenti, il commercio interno fra lo Stato vecchio (dominio fiorentino e pisano) e lo Stato nuovo (ossai senese); alleggerĂŹ le gabelle di estrazione per le manifatture di lino,di quoja e di lana; promosse lâeducazione dei filugelli con moltiplicare la piantagione dei gelsi lungo le strade regie; procurò di migliorare le campagne della Val di Nievole, della piannra pistojese e grossetana mediante opere idrauliche.
Ma il sistema della riforma legislativa cominciò a svilupparsi allorchè fu preso di mira lo svincolamento di molti beni resi fino allora inalienabili.
Mercè la legge dei 22 giugno 1747 fu ristretta e limitata sino al quarto grado dopo quello del fondatore la durata deâfidecommissi; la qual legge adottata ed ampliata dallâAugusto suo figlio, il granduca Pietro Leopoldo, venne sempre piĂš a rallentare i vincoli della proprietĂ , e a moderare i perniciosi effetti dellâinalienabilitĂ dei beni stabili, uno degl ostacoli piĂš nocivi alla prosperitĂ del commercio e dellâagricoltura.
Con le leggi del 21 aprile 1749 e del 15 marzo successivo, sopra i feudi e i feudatarj, lo stesso monarca ebbe in mira di liberare i vassalli dalla prepotenza dei baroni, e di garantire nel tempo medesimo le franchige municipali, riservando ai tribunali ordinarj del Granducato lâappello nelle cause civili e miste, mentre vincolava la giurisdizione criminale dei viacarj feudali a delle riforme salutari. ââ Fu allora che tutti gli elementi della sovranitĂ , come sarebbero i diritti di mero e misto impero, la potestĂ legislativa, la libera scelta delle milizie dello Stato, e tuttociò che trovasi compreso sotto il nome di Regalie, vennero con quelle due leggi riservate al sommo imperante.
Era pure di grandissimo vincolo alla libera commerciabilitĂ deâbeni fondi quellâimmenso patrimonio posseduto dalle corporazioni ecclesiastiche e laicali, da tutte quelle persone immaginarie, che per esistere civilmente hanno bisogno dâessere rappresentate da sindaci, o amministratori.
Le quali mani morte, essendo per loro natura perpetue e indefettibili, ritengono tenacissimamente ciò che hanno una volta acquistato, e che difficilmente sogliono rilasciare al comune commercio degli uomini. â Per evitare appunto questo condensamento eccessivo di beni in simili mani morte, Francesco II, con motuproprio del 1 febbarjo 1751, proibĂŹ il passaggio delle sostanze nei corpi morali, sicchè questi non potessero piĂš ricevere alcuna ereditĂ senza un privilegio sovrano.
Nel 1745, ad oggetto di conoscere esattamente il numero e lo stato deâsuoi sudditi in Toscana, il Granduca ordinò al Rucellai segretario del Regio diritto un prospetto statistico formato sulle note somministrate dai parrochi di cadauna diocesi. La quale statistica doveva registrarsi in altrettanti prospetti stampati a tal uopo forniti, dove alle respettive caselle furono specificati i nomi del luogo, del santo titolare della parrocchia, della comunitĂ cui appartenevano, piĂš il numero delle case, delle famiglie e quello dellâanime, indicando lâetĂ , lo stato, la religione, e distingendo le cifre dagli impuberi dagli adulti, i maschi dalle femmine, quindi il numero deâmaritati, e finalmente degli ecclesiastici ripartiti in chierici, in sacerdoti, in secolari, religiosi, romiti e monache. In ultimo non dovevano trascurarsi gli Ebrei, nè gli altri Eterodossi che vi potessero stanziare, per famiglie, per sesso e per stato.
Frattanto ravvicinandosi il mezzo del cammino del secolo XVIII, venne fuori una legge (20 novembre 1749) che ordinò lâuniformitĂ del computo annuo per tutto il Granducato;cosicchè gli atti pubblici dellâantico dominio pisano che fino allora aveavano seguitato a contar lâanno ab incarnatione, cioè nove mesi e cinque giorni prima dello stile comune, e gli atti pubblici dellâantico contado fiorentino che restavano indietro un anno allo stile pisano, dovettero dal primo di gennajo dellâanno 1750 uniformarsi tutti al comune calendario romano. A memoria di ciò fu posta unâiscrizione in marmo sotto la loggia dellâOrgagna nella piazza granducale, dettata dal celebre Giovanni Lami.
Francesco II diede alla Toscana il primo esempio per far godere agli autori il diritto della loro proprietĂ letteraria, e lâavvocato Carlo Goldoni, benchè non Toscano, fu quello che lo meritò.Imperocchè egli ottenne dal Granduca un privilegio (27 settembre 1753) che gli assicurava per dieci anni la privativa di stampare in Firenze le sue commedie, minacciando pene e perdite di tutti gli esemplari a chi avesse ardito introdurre nel Granducato altre edizioni dallâestero, o contraffare la privilegiata.
Francesco protesse gli studj al pari degli autori, mentre ampliò il collegio dei PP. Scolopj allora posto nelle antiche case dei Cerchj; instituiti nellâospedale di Orbatello la prima cattedra di Ostetricia per servire di scuola alle levatrici; aprĂŹ al pubblico la copiosa biblioteca lasciata dal Magliabechi; accolse sotto la sua protezione lâistituto di scuole pubbliche per lâeducazione delle fanciulle aperto in Livorno, ec.
In generale durante il regno di Francesco II si riordinò la pubblica amministrazione; e se la Toscana non risentĂŹ tutti quei vantaggi che aveva in animo quel sommo regante di procurarle, bisognò attribuirlo alla trista circostanza dei tempi piĂš che allâassenza del principe, cioè alle dispendiose e lunghe guerre che si dovettero sostenere dallâimmortale Maria Teresa sua augusta consorte contro tanti e potenti nemici, dopo châeglino avevano riconosciuto e promesso di non ledere i di Lei diritti sulla estesa ereditĂ lasciatagli dallâimperatore Carlo VI.
Erano in questo stato le cose quando fortunatamente il cielo destinò al governo della Toscana lâArciduca Pietro Leopoldo secondogenito di Cesare, nato il 15 di maggio 1747. Fino dal 1753 erasi convenuto fra Carlo III e lâimp.
Francesco di dare in sposa al prelodato Arciduca lâInfanta Maria Luisa di Spagna, previa la libera cessione a favore dello stesso secondogenito e della sua discendenza, del Granducato, dichiarandolo indipendente e separato dagli Stati Austriaci.
Per lâeffettuazione del quale atto lâArciduca primogenito Giuseppe, come quello che portava in sè col titolo i diritti di Gran principe ereditario della Toscana, rinunziò formalmente ogni ragione a favore del fratello e della di Lui successione.
Le feste di cosĂŹ fausto connubio solennizzato in Inspruck nellâagosto del 1765, furono rattristate dalla morte ivi accaduta dellâimperatore Francesco; e i dĂŹ 3 di settembre del 1765, giunse in Firenze il desiderato sovrano con lâAugusta consorte, primo giorno per la Toscana del suo secolo dâoro.
PIETRO LEOPOLDO I, GRANDUCA IX Che bel nome! Che cara rimembranza per i Toscani è quella di Pietro Leopoldo! La giustizia e prosperitĂ che con le sue umane e saggie leggi ne apportò, tanti vincoli ed aggravj che per il bene delle generazioni viventi e successive Egli infranse e annichilĂŹ, questi soli due titoli servono a innalzare e stabilire Pietro Leopoldo sul trono dellâimmortalitĂ finchè esisterĂ la specie umana, sino a che si farĂ buon diritto alla ragione.
Basta aprire il libro della sua legislazione per vedere con quale ordine, con quale proposito deliberato questo principe disponeva e preparava ai suoi piuttosto figli che sudditi il loro ben essere, correggendo a poco a poco i difetti ed i vizj acquistati dallâabitudine dei privilegj di corporazioni, di famiglie e dâindividui, dallâinefficacia e pregiudizio di provvedimenti assurdi, deplorabili. Volle che lâutile dei suoi popoli fosse condito dalla persuasione di chi lo riceveva; volle dimostrare al mondo la maggiore prosperitĂ di uno Stato, prodotta dalla savezza di un supremo ed unico Legislatore.
Non vi è anno, non vi è mese, non vi è dirò cosĂŹ giorno nel regno di Pietro Leopoldo che non sia fecondo di utili provvedimenti sĂŹ nellâeconomico, quanto nel politico, tanto nel civile, come nel morale.
Al suo arrivo in Toscana tutte le risorse dello Stato, gabelle e regalĂŹe di un ogni genere, latifondi della Corona, quelli della religione di S. Stefano, tutti i proventi della finanza erano fra le mani di avidi appaltatori; le arti e mestieri si trovavano sottoposti a tasse multiformi, a ingiuste privative, a fori parziali; il commercio e lâagricoltura da mille ostacoli, da moltiplici aggravj ed angarie oppressi.
Pietro Leopoldo sino dai primi anni del suo governo prese di mira a liberare dai vincoli la piĂš sacra delle proprietĂ , la individuale, allora quando cominciò a sopprimere le matricole delle arti e mestieri (settembre 1767, febbrajo e maggio 1770) a benefizio dellâinteresse personale, onde far progredire le industrie private. Corollario del medesimo principio fu lâabolizione delle cosĂŹ dette comandate e di altre prestazioni servili che esigevano le comunitĂ dai contadini e dalle loro bestie da lavoro (giugno 1776).
Per la stessa massima volle liberare i suoi popoli dalle vessazioni indivisibili dal sistema degli appalti; che perciò non curando quel Sovrano la diminuzione delle rendite regie, prescrisse (agosto dellâanno 1768) lâabolizione di ogni sorta di privative, dâincette, di monopoli, di esenzioni e dâimmunitĂ dagli oneri sociali, tanto per le proprietĂ dei privati, quanto per quelle del principe, del fisco, e di qualsiasi altro corpo e universitĂ ; onde le pubbliche gravezze riuscissero meno sensibili, e perchè fossero, come la giustizia esigeva, risentite ugualmente da tutti i possessori (marzo del 1770). Fu conseguenza di quel sistema legislativo la libera circolazione e negoziazione deâgeneri di suolo, e loro manifatture, sopprimendo a tale uopo ogni sorta di tasse, di contribuzioni parziali, di gabelle interne e di proventi delle piazze e mercati (agosto, ottobre e dicembre del 1775; marzo 1778; settembre 1784).
Nel mentre si ridonava la vita e il rispetto alla proprietĂ individuale, il magnanimo Legislatore applicava la sua grandâopera allâabolizione dei vincoli che investivano lâintegritĂ del diritto della proprietĂ fondiaria o che ne inceppavano lâuso e la commerciabilitĂ (marzo 1769 e febbrajo 1778).
Risplendè poi nel maggior lume possibile la paterna clemenza di quel sovrano verso i suoi sudditi, allorchè, per risvegliare lâamor proprio neâpossidenti, onde ognuno concorresse alle operazioni dâinteresse comune, da primo creò (22 giugno 1769) la Camera delle comunitĂ , incorporandovi quelle del magistrato deâCapitani di Parte, degli Ufiziali dei fiumi e del tribunale dei Nove Conservatori del dominio fiorentino; quindi organizzò un sistema governativo ed economico per tutte le comunitĂ del Granducato, incominciando dalle cittĂ di Volterra e di Arezzo (settembre e dicembre 1772). â Persuaso (diceva il Legislatore nella parte proemiale) che niuno deve avere maggior zelo e premura per la buona condotta e direzione degli affari comunitativi, quanto quelli che vi hanno tutto lâinteresse; e confidando Noi che la libertĂ che averĂ ciascheduno di esaminare le spese, le distribuzioni delle tasse e delle gravezze, e di dire il proprio sentimento sopra i partiti da prendersi, animerĂ i cittadini a impiegare i loro talenti in servigio della patria, e a contribuire con tutte le loro forze alla pubblica felicitĂ , nella quale essi sono i primi interessati, abbiamo risoluto ec." Donde ne conseguĂŹ, che le magistrature comunitative, presedute da un gonfaloniere, il quale suole corrispondere direttamente con il provveditore, ossia col capo della Camera delle comunitĂ del suo Compartimento, vennero a costituire, rapporto allâeconomico, una rappresentanza civica nel Granducato, onorevole al municipio, utile allo Stato. Con altre misure economico-governative fu tentata da Pietro Leopoldo la laboriosa impresa di migliorare le condizioni della Maremma senese. Al qual effetto, dopo aver formato un sistema di governo e di amministrazione speciale immediatamente dipendente dalla sua sovrana autoritĂ (marzo e dicembre 1766, aprile 1767 e 1788), erogò rilevanti somme di denaro (1,700,500 lire) per lâescavazione di fossi e canali, per la costruzione di nuove strade e acquedotti, per rendere piĂš sicuro e piĂš comodo lâaccesso del porto di Castiglion della Pescaja. Tentò inoltre di migliorare la sorte degli abitanti indigeni, e di accrescerne il numero, allettando gli stranieri a stabilirvi la loro dimora mercè di privilegj personali e di esenzioni commerciali, rimuovendo altresĂŹ ogni ostacolo allâindustria dei particolari e consigliando le comunitĂ della Provincia inferiore dello Stato senese a voler assegnare alle famiglie forestiere che vi si stabilissero una parte dei molti terreni comunitativi che restavano improduttivi e inoperosi, mentre il R. erario si obbligava a pagare il quarto del prezzo delle nuove case a chi le fabbricava.
Tutto sembrava coordinato nel piano legislativo- economico di P. Leopoldo, tanto rapporto alla proprietĂ personale, quanto relativamente alla commerciabilitĂ dei prodotti, dei beni mobili e degli stabili. â La legge diretta a prevenire il condensamento successivo delle proprietĂ nei particolari era stata preceduta da quella sulle mani- morte con il motuproprio del 2 marzo 1769, che servĂŹ di aumento e sviluppo a quello emanato nel 1751 dal Granduca Francesco II suo augusto genitore.
âLa legge sui fidecommissi del 22 giugno dellâanno 1747 (diceva un profondo giureconsulto, figlio vivente di questa bella Firenze) quantunque fosse stata dettata dallo spirito eminente di ristringere lâistituzione deâfidecommissi alla sola classe deânobili, di limitare la qualitĂ e natura dei beni coi quali potevano fondarsene dei nuovi, dâimpedire che la loro istituzione fosse il meno possibile pregiudicevole allâinteresse dei terzi: pure quella modificazione di sistema deâfidecommissi e deâmaggiorati per la gran mente di Pietro Leopodo, che voleva lo svincolamento totale, pienissimo del diritto di proprietĂ fondiaria, era un sistema assurdo nella sua base, una sorgente inesauribile di mali morali ed economici per le sue conseguenze e per i suoi resultati. â â Sapeva Egli, che una nobiltĂ immobile e permanente con delle grandi e costanti ricchezze territoriali era un vecchio pregiudizio, una chimera ideale; e che dâaltronde qualunque grado dâinfluenza politica sulla costituzione dello Stato possa mai attribuirsi a cotesta classe della societĂ , Pietro Leopoldo non poteva, nè voleva comprarla a pregiudizio di tutto lâuniversale. Sapeva in ogni caso, che la nobiltĂ non abbisogna dei fidecommissi per conservarsi, che si rinnovella e si recluta continuamente ogni giorno anche dalle altre classi della civile societĂ , e che le vere sorgenti della ricchezza, lâordine, lâeconomia, lâindustria, il commercio fanno sorgere questa nuova nobiltĂ , questa nuova aristocrazia territoriale per subentrare a quella porzione dellâantica, di cui neppure i fidecommissi in tutto il loro vigore hanno potuto ritardare la decadenza.â (GIR. POGGI, Saggio di un Trattato sul Sistema Livellare T. I. §. 293 e segg.) Frattanto il benefico Legislatore della Toscana con una delle solite leggi foriere delle sue piĂš grandi riforme, dopo avere nel 1782 ordinato la resoluzione di tutti i fidecommissi dividui fatti e da farsi, appena che una porzione qualunque dei loro beni fosse rimasta sciolta dal vincolo fidecommissario per lâesaurito passaggio nei 4 gradi prescritti dalla legge del 1747, Pietro Leopoldo, con motuproprio del 23 febbrajo 1789, comandò il proscioglimento di tutti i fidecommissi stati fatti per il passato, salve alcune modificazioni. Allâoccasione medesima proibĂŹ a chiunque per qualsiasi titolo di erigere nuove fondazioni di simil genere, o a titolo anche di sostituzione, le quali per qualche tempo ancorchè breve, rendessero i beni di qualsiasi specie e natura inalienabili.
Per ciò che riguarda il sistema giudiziario, con legge del 30 settembre del 1772 quel monarca organizzò il Compartimento di giustizia dello Stato fiorentino, collâinvestire della giurisdizione civile i respettivi potestĂ , e riservando la giurisdizione criminale ai vicarj regj, o al magistrato degli Otto di Guardia e BalĂŹa rapporto a Firenze e al suo circondario limitato alle sette potesterie minori. In tale occasione restò annullata la cumulativa giurisdizione, che in vigore della legge dellâanno 1423 i vicarj di Certaldo, di S. Giovanni in Val dâArno e quello di Scarperia nel Mugello ebbero sino allora sopra le sette potesterie suburbane di Fiesole, Sesto, Campi, Lastra a Signa, Galluzzo, San Casciano e Bagno a Ripoli.
Finalmente dopo la riforma di varj tribunali (settembre 1774) fu soppresso (26 maggio 1777) il magistrato degli Otto, allorchè venne creato pel criminale un Tribunale Supremo in Firenze, incaricato a disimpegnare le diverse incombenze del magistrato suddetto, e di tutti gli altri tribunali parziali della capitale e di altre città del Granducato, i quali potessero avere avuta una qualche giurisdizione criminale.
Ma la giustizia unita alla clemenza, e a tutte le altre piĂš belle virtĂš di quel magnanimo Legislatore si manifestano nel motuproprio deâ30 novembre 1786, che costituisce il piĂš sacrosanto codice della procedura criminale. Dopo aver Egli aboliti i privilegj personali, dopo aver pareggiati i diritti civili di qualunque classe di sudditi, dopo avere annullata ogni specie dâimmunitĂ , dopo aver riconosciuta lâantica legislazione criminale troppo crudele e severa e derivata da massime stabilite nei tempi meno felici dellâImpero Romano, o nelle turbolenze dellâanarchia del medio evo, e per conseguenza non adattata al dolce e mansueto carattere della Nazione Toscana , stabilĂŹ, che le querele dovessero darsi per formale istanza, che si restituissero i contumaci allâintegritĂ delle difese, che le pene fossero proporzionate al delitto; non ammise la confisca dei beni, non piĂš il giuramento dei rei, nè lâaccusa contro gli affini; impedĂŹ ogni sorta di tortura, abolĂŹ il delitto di lesa maestĂ , e la pena di morte; destinò lâavanzo delle pene pecuniarie e delle multe a rindennizzare quegli innocenti che il necessario corso della giustizia avesse talvolta potuto sottoporre al carcere e alle molestie di un processo, oppure lo assegnò a sollievo dei danneggiati pei delitti altrui.
Lâeffetto fu conforme alle provvide misure e alle clementi intenzioni del Legislatore; avvegnachè i costumi non solo si raddolcirono e le industrie si accrebbero, ma lâozio, i vizj e i delitti andarono gradatamente a diminuire, sino a che arrivò il momento in cui le prigioni di tutto il Granducato (cosa maravigliosa a dirsi!) si trovarono vuote di delinquenti e di accusati.
Per modo chè la Toscana, guidata da Pietro Leopoldo precorse le altre nazioni anche in questo ramo di civiltĂ ; e fin dâallora potè dimostrare allâEuropa, che la prosperitĂ e la quiete dei popoli desunte da leggi imparziali, giuste, e da una saggia libertĂ , non da moltiplici gravose imposte, possono costituire la vera felicitĂ della nazione, e la costante ricchezza del R. erario.
Dopo tuttociò restava a togliere di mezzo unâaltra specie di vincolo alla libera disposizione della proprietĂ fondiaria, vincolo che rimontava allâepoca della Rep.
fiorentina, continuato sotto la dinastia Medicea, e fortunatamente tolto per sempre dallâImperiale dinastia dominante. Imperocchè spesse volte accadeva, che il libero venditore di uno stabile doveva impegnarsi in faccia al compratore e ai suoi eredi dellâevizione dello stabile venduto, e ciò a cagione dellâinquisitore dellâEretica pravitĂ . La quale responsabilitĂ ad ogni sinistro evento ricadere doveva a svantaggio del venditore, innanzi che restasse abolito in Toscana il temuto tribunale del Santâufizio. ââ Se non che qualche zelante, pervenne ad impegnare Pietro Leopoldo in alcune riforme ecclesiastiche, le quali, essendo state prese in sinistro dal popolo e da Roma, suscitarono tanto rumo re, che ne fu tosto ripiena tutta Europa. Comecchè sia a lode del vero, la rettitudine dei principj di quel monarca risplendè e trionfò anche in cotesta delicata materia, tostochè da imperatore Egli ripristinò i seminarj vescovili e varie altre costumanze ecclesiastiche.
La massima sempre vera, perchè autenticata dallâesperienza, è quella, che allor quando si tratta di amministrazione di giustizia, le immunitĂ , le privative e i privilegi sono, non solo direttamente contrarj al bene generale di una ben ordinata societĂ , ma perniciosi pur anche aglâindividui che ne godono il favore. I quali ultimi sogliono usare di quei privilegj come di altrettanti incentivi per fomentare glâingiusti capricci della prepotenza e dellâanimositĂ , impegnandosi persino a far fronte e a contrastare contro la forza di una non equivoca ragione. Tali giusti motivi obbligarono Pietro Leopoldo a parificare nel Granducato indistintamente i cittadini, per ciò che riguarda lâamministrazione della giustizia, con lâabolizione dei sacri asil i e delle parziali giurisdizioni esercitate dalle curie e tribunali vescovili negli affari secolari, riserbando loro le cause meramente spirituali (luglio 1778, e ottobre 1782). Per la stessa ragione annullò il tribunale della Nunziatura, (settembre 1778) quello dellâInquisizione (luglio 1782) e varie altre prerogative, delle quali fruivano i rappresentanti delle municipali magistrature (giugno 1779) i cavalieri di Santo Stefano (1783) e i feudatarj (febbrajo 1786).
Si ripristinarono perciò nei loro diritti i tribunali e magistrati ordinarj, cui furono date istruzioni opportune e ordini rigorosi sui termini e istanze delle cause, sul modo di spedirle, sulle tasse e spese di liti, sugli onorarj dovuti ai causidici, ai notari e ai cancellieri (dicembre 1771 ottobre 1779) con provvide istruzioni per rendere meno penoso il carcere ai detenuti (novembre 1781).
Sapeva Pietro Leopoldo che tutte queste riforme, che sĂŹ fatte abolizioni di tasse, di appalti, di propine, di fronte a tante pubbliche spese dovevano vistosissimamente diminuire le regie entrate. Lo sapeva e lo diceva, ma piĂš lo moveva il desiderio del bene pubblico che il vantaggio proprio; avvegnachè prevedeva ciò che avvenne, cioè, che una piĂš esatta amministrazione deâbeni, una piĂš attiva circolazione deâgeneri, una piĂš libera, piĂš estesa e migliore manifattura deâprodotti nostrali dovevano supplire a tuttociò che perdeva. E chiaramente lo dimostrò col fatto, tosto che questo stesso Granduca fu in grado, non solamente di soddisfare ai frutti del debito pubblico, ma di erigere stabilimenti nuovi e di estinguere tanti luoghi di monte per la somma di lire 56, 649, 201.
Tra mezzo a tutte queste cose Pietro Leopoldo non tralasciava di ordinare nelle varie parti del Granducato stabilimenti di utilitĂ pubblica, sĂŹ per lâeducazione morale, civile e religiosa, tanto per soccorso dei poveri, come anche per decoro della santa religione che professava.
Non dirò delle moltissime chiese parrocchiali edificate per le campagne, dove, o mancava chi amministrava i sacramenti, o non bastavano i mezzi da mantenere i parrochi, o per vecchiezza cadevano le loro abitazioni.
Nè starò a dire dei canali aperti, dei ponti costruiti, dei paduli bonificati in Maremma e in Val di Nievole, dei laghi prosciugati, delle grandiose terme edificate; nè starò ad enumerare quali, quante, e a chi vistosa somma ascendessero le strade aperte nel Granducato sotto il suo regno. Senza far menzione alcuna delle vecchie vie maestre restaurate, nè di quelle per abbellimento e per comodo di varie terre e cittĂ costruite, basterĂ dare unâocchiata alla seguente nota officiale.
- La strada che dalla cittĂ di Pistoja valicando la montagna guida sulla sommitĂ dellâAppennino ai confini del modenese, costò lire 2, 612,895 - Da Pistoja fino al confine lucchese del Ponte allâAbbate lire 1, 000, 882 - Da Pisa a Livorno lire 263, 181 - Quella R. Lauretana che da Siena per Asciano varca in Val di Chiana lire 273, 888 - La Traversa che dal Borgo a Buggiano conduce a Pisa, e quella che vĂ ad Altopascio lire 346, 603 - La strada che si prolunga per Vico Pisano, Calcinaja e Val di Nievole lire 340, 193 - Quella della Valdichiana per Torrita lire 273, 879 - La strada da Volterra alla Marina di Cecina lire 94, 313 - Quella da Siena a Grosseto lire 227, 082 - La strada da Massa a Follonica lire 140, 000 TOTALE Lire 5, 572, 916 Rimase incompleta la strada aperta al Pontassieve per San Godenzo dovendo varcare lâAlpe di S. Benedetto e traversare la Romagna toscana; la qual via si arrestò a piè della montagna medesima, sino a che essa è stata continuata nella parte piĂš difficile e piĂš alpestre dalla magnanimitĂ del SECONDO LEOPOLDO felicemente regnante.
Non si conosce esattamente il costo di molte altre strade tracciate sotto lo stesso Granduca, come sono quelle dal Pontassieve fino alla Consuma, da Pisa al Fitto della Cecina, il tronco della strada Aretina da Malafrasca ad Arezzo, lâaltro tronco da Palazzone al Bastardo sino in Valdichiana quello dalle Fornacette alla strada di Vicopisano.
Non occorre indagare quanto costassero i Campisanti costruiti lontano dallâabitato, in ordine al motuproprio deâ30 novembre 1775, tosto che quello solo di Trespiano, spettante alla cittĂ di Firenze, importò lire 329511.
Per ordine di Leopoldo un milione di lire erogato negli 83 conservatorj e stabilimenti di lâeducazione per le fanciulle di tutti i ceti, sparsi nel Granducato.
Basta aggiungere, in quanto spetta alla cittĂ di Firenze, che nel tempo medesimo sorgevano scuole pubbliche per ogni classe e per ogni sesso in ciascuno dei quattro quartieri della capitale, nei quali destinò chirurghi ostetrici e levatrici stipendiate. Assegnò premj ai medici e a chiunque avesse liberato dalla morte apparente asfissi ed affogati. RiunĂŹ per un piĂš esatto servizio i molti ospedali della cittĂ nei tre piĂš grandiosi di S. Maria Nuova, deglâInnocenti e di Bonifazio, conservando inoltre quello grandioso dei Benfratelli. Ai quali ospedali non solo aumentò le rendite e il locale, ma fece rialzare dai fondamenti con piĂš ordine e maggiori comodi e simmetria quello di Bonifazio Lupi, destinandone una porzione aglâinvalidi, lâaltra ai dementi dei due sessi.
Nellâarea giĂ occupata da un monastero i donne e dal soppresso spedale di S. Matteo, Pietro Leopoldo fece innalzare un grandioso edifizio per lâaccademia delle Belle arti, fornito di maestri del disegno, dalla pittura alla scagliola, dallâincisione in rame e in camei al commesso delle pietre dure, e assegnando premj agli alunni cui preparò in quel locale, oltre agli accennati soccorsi, una copiosa collezione di modelli in quadri della scuola fiorentina, e in gessi tratti dai capi dâopera di scultura antichi e moderni. Mentre tutto ciò operava a prò delle Belle arti, lo stesso G.D. faceva acquisto del palazzo Torrigiani, prossimo alla sua reggia deâPitti, per convertirlo in un Gabinetto di Fisica e di Storia Naturale con un Osservatorio astronomico, onde offrire alla vista giornaliera del pubblico la piĂš memorabile e rara collezione dâistrumenti fisici dellâAccademia del Cimento, di preparazioni anatomiche in cera e di prodotti dei tre regni della natura raccolti da varie parti del globo, con lâesemplare vivente del regno vegetabile nel contiguo splendidissimo orto botanico.
Gli studj di Pisa e di Siena meglio si ordinarono, nel tempo che a Firenze nuove cattedre di agraria, di giurisprudenza e di medicina sâistituivano; che le librerie della Laurenziana e della Magliabecchiana di codici numerosi e di libri provenienti dalle biblioteche Palatina, Gaddiana e Strozziana si arricchivano; quando la galleria sopra gli Ufizj e la loggia dellâOrgagna di antiche statue si adornavano.
Inoltre instituĂŹ sopra la fabbrica degli Ufizj un monumento alla storia del medio evo nellâArchivio Diplomatico, che quel sovrano ordinò ad oggetto di raccogliervi gli antichi documenti MSS. in cartapecora. â Avendo in veduta (dice il motuproprio del 24 dicembre 1778) li importanti lumi, che tali documenti possono apportare non solo allâerudizione ed allâistoria, quanto ancora ai pubblici e privati diritti, S. A. R. ha determinato di stabilire in Firenze un pubblico Archivio Diplomatico, preseduto da un direttore con due ajuti che travaglieranno sotto di lui per lâordinazione ed illustrazione delle cartapecore; riserbandosi S. A. R. ad accrescere di questi il numero, allorchè si riconoscerĂ , che la quantitĂ dei documenti lo esiga.â Con quale operositĂ , zelo ed intelligenza cotestâArchivio Diplomatico, dallâepoca della sua instituzione sino a oggi abbia progredito, lo diranno tutti quelli che ebbero occasione di visitarlo e di ammirare in quella copiosissima raccolta, di 140000 pergamene, circa 135000 di esse di giĂ spogliate, cronologicamente ordinate, e in gran parte da queglâimpiegati illustrate.
Ma il fatto che piĂš di ogni altro recherĂ stupore alla posteritĂ , e che renderĂ Leopoldo tanto piĂš grande quanto piĂš il mondo invecchierĂ , sarĂ quello di sentire che un principe indipendente, come un Granduca di Toscana, innanzi che fosse chiamato dai destini a succedere al defunto fratello sopra un piĂš alto trono, volle lasciare ai suoi sudditi un pegno prezioso e solenne della sua clemenza e bontĂ col pubblicare un Rendimento di conti esatto e sincero assai piĂš di quello che avrebbe potuto aspettarsi da un amministratore o curatore, anzichè da un padrone assoluto, cui non restava alcuna cosa, eccetto la sua coscienza, da consultare. â Quel magnanimo e sapiente monarca era talmente persuaso, che il piĂš efficace mezzo per sempre piĂš consolidare la fiducia dei popoli verso il governo fosse quello di sottoporre alla cognizione di ciascun individuo le diverse mire e ragioni che avevano servito di fondamento ai provvedimenti prescritti secondo lâesigenza e lâopportunitĂ delle circostanze, volle manifestare senza riserva e colla massima chiarezza lâerogazione dei prodotti delle pubbliche contribuzioni. Che perciò Egli stesso con simili eroiche parole esordiò il suo famoso Rendiconto, allorchè fece dare alle stampe il dettaglio ragionato, non tanto di ciò che riguardava lâamministrazione della finanza, dal suo avvenimento al trono della Toscana fino a tutto lâanno 1789, ma di quanto ancora potesse mai aver rapporto alle principali operazioni e regolamenti di pubblica economia agraria, industriale e di commercio, alle leggi civili e criminali, alla pubblica morale e disciplina ecclesiastica, alli stabilimenti di caritĂ e dâistruzione. Premessa una sincera esposizione dello stato politico ed economico della Toscana, quel Sovrano diede un dimostrativo discarico della totalitĂ delle RR. rendite, e della loro erogazione. Dalla quale dimostrazione appariva: che nellâanno 1765, ultimo del governo di Francesco II, gli Assegnamenti ed Entrate diverse dello Stato ascendevano a lire 8, 958, 685. 17. 4, quando le Spese ed Aggravj, tanto orinarj come straordinarj, assorbivano la somma di lire 8, 448, 892. 1. 10. â Avanzo netto lire 509, 193 15 6.
Altronde il prospetto generale dellâEntrata e Uscita, desunto dai resultati dellâanno 1789, diede di prodotto, a Entrate lire 9, 199, 121. 1. 9; e a Uscite lire 8, 405, 056.
8. 4. Cosicchè restarono superiori lâEntrate di lire 784, 064. 8.4.
Per la quale generosa e spontanea dimostrazione Pietro Leopoldo, con una sorprendente chiarezza, con documenti e prove di fatto, volle a chiunque dimostrare non solamente il resultato della percezione, ma anche lâerogazione delle rendite deâsuoi stati per il corso di 24 anni del suo felice governo, onde far conoscere il suo massimo disinteresse e la costante premura con cui Egli aveva impiegate le pubbliche risorse nel migliorare lâamministrazione economica, sgravando progressivamente lo Stato dal debito che lo affliggeva, nel tempo che a favore dei suoi sudditi il Granduca rinunziava a molti assegnamenti, a tante gabelle, tanti appalti, tante regalĂŹe, tasse e privilegj percepiti dai sovrani che prima di lui avevano retto i destini della Toscana.
Non aveva appena cominciato il suo corso lâanno 1790, quando giunse a Firenze la trista nuova della immatura morte dellâimperatore Giuseppe II nella fresca etĂ di 49 anni, caso tanto piĂš dolente per i Toscani, in quanto che doveva allontanare da essi lâAugusta persona del benefico sovrano che con sommo amore e filantropia per 25 anni gli aveva diretti, corretti, visitati e beneficati.
Infatti lâimperatore Leopoldo, nel dĂŹ 1 marzo del 1790, lasciò Firenze dopo aver nominato un consiglio di Reggenza con facoltĂ di spedire tutti gli affari a tenore delle istruzioni e ordini che riceverebbe da S. M. R. e Imperiale nella sua qualitĂ di Granduca di Toscana.
Nel settembre dellâanno medesimo 1790 furono celebrati in Vienna i ben augurati sponsali dellâArciduca Ferdinando secondogenito dellâImperatore con lâInfanta Luisa Maria Amalia figlia di Ferdinando IV re di Napoli.
La quale celebrazione fu preceduta dallâatto solenne fatto in Vienna, li 21 di luglio 1790, da S. M. R. e Apostolica a favore dello stesso Ferdinando suo figlio, cui rinunziò la libera sovranitĂ del Granducato di Toscana.
Infatti il nuovo Granduca fu annunziato e proclamato in Firenze con editto della Reggenza del 7 marzo dellâanno 1791, in seguito da un dispaccio dellâimperatore.
Il motuproprio dei 22 febbrajo 1792, col quale Pietro Leopoldo annunziò ai Toscani la cessazione del suo governo, costituisce un monumento storico glorioso per quel Monarca, per la Nazione che resse, per lâAugusto figlio che gli succedè. Ecco con quali memorande parole quel generoso Sovrano si congedava dai Toscani. â Terminando il mio governo dal giorno della pubblicazione dellâatto stipulato in Vienna il dĂŹ 21 luglio 1790, ho creduto di dovere ed insieme di giustizia, di dare al militare, alla nobiltĂ , alla cittadinanza, al ceto deglâimpiegati, ai capi di dipartimento e specialmente della Reggenza, come anche a tutta intiera la nazione e popolo toscano un pubblico contrassegno del mio particolare gradimento, riconoscenza e gratitudine per lâattaccamento che hanno dimostrato alla mia persona, quanto ancora per lo zelo, premura e buona volontĂ , con cui è stato daglâimpiegati e da tutto il pubblico concorso costantemente contribuito alla buona riuscita di quanto è stato operato nel tempo del mio governo. Con questa persuasione mi lusingo ancora, che dagli effetti ognuno sarĂ rimasto persuaso, che ben lungi dallâaver avuto fini secondarj, ed oggetti particolari, tutte le pene che mi sono dato sono state sempre dirette al pubblico vantaggio ed allâadempimento dei miei doveri. Ă vero che sono state le mie cure largamente ricompensate dallo zelo e premura del ministero e del pubblico, il quale si è interessato alla felice riuscita delle mie operazioni; ma questo appunto mi porge tutto il motivo e speranza che il mio Figlio, al quale non ho tralasciato dâinculcare li stessi sentimenti, troverĂ pure in ogni ceto quellâattaccamento, affetto e docilitĂ , che formano il carattere della Nazione.â Beato quel principe, fortunato quel popolo che ha tanta contentezza da poter dire di lasciare la generazione che gli succede cresciuta e stabilita nei precetti della virtĂš, nellâesperienza del ben operare e nel possesso della comune felicitĂ ! Tale quale Cesare lo predisse fu lâottimo principe Ferdinando III, che il suo popolo amò dalle fasce, e che fatto Granduca con effusione sincera di affetto e di rispetto accolse ed acclamò nel giorno di 8 aprile dellâanno 1791, giorno in cui Egli giunse con lâAugusta Sposa nella sua capitale.
FERDINANDO III, GRANDUCA X Non vi fu forse nei tempi trapassati un sovrano, il quale, trovandosi in mezzo alle piĂš difficili circostanze politiche, senza eserciti da farsi ragione e con un piccolo Stato da governare, sapesse al pari di Ferdinando III felicitare i sudditi mediante la dolcezza del suo dominio.
Non aveva la Toscana in sessanta anni di governo della dinastia Lotaringio-Austriaca assaggiate per anco le leggi amarissime della necessitĂ . I primi suoi colpi e lâire prime della fortuna aspettarono che fosse salito sul trono il figlio del Gran Leopoldo, affinchè le piĂš intricate difficoltĂ nellâarte di regnare servissero di tirocinio allâottimo principe.
Erano la mente e lâanimo di Ferdinando rivolti a completare alcune disposizioni economiche, giudiciarie e governative, incominciate dallâaugustissimo suo Genitore.
Tale fu la legge del 18 ottobre 1791, sullâimportante oggetto delle dogane, cui appellava lâeditto del 30 agosto 1781 per stabilire una gabella unica e una tariffa generale.
Tale lâopera utilissima che tanto lâAvo come il Genitore eransi proposta per la compilazione di un Codice toscano, della quale importantissima impresa, con dispaccio del 21 maggio 1792, Ferdinando III affidò lâincarico allâinsigne giureconsulto G. Maria Lampredi, invitando a concorrervi coi loro lumi tutti i magistrati del Granducato. Tale ancora lâidea che dettò la legge del 26 settembre 1794 sulla revoca dellâaffrancazione della Tassa di Redenzione alle ComunitĂ per lâestinzione dei luoghi di Monte, nella veduta di preparare i mezzi alla rettificazione del Catasto, cui si opponeva direttamente lâoperazione dello scioglimento del Debito pubblico, ordinata con le leggi del primo e del 7 marzo 1788, che doveva convertire in un debito privato la respettiva tangente della Tassa prenominata. Mosso il Granduca dal desiderio di provvedere ai bisogni in tempi di carestia, pubblicò la legge del 9 ottobre 1792, colla quale venne proibita lâestrazione dei generi frumentarj indigeni del Granducato, e si ristabilivano gli ufiziali dellâAnnona e della Grascia.
Ma le sublimi qualitĂ , e la dolcezza del carattere di Ferdinando III rapporto agli affari politici si svilupparono sino da quando prese fuoco la rivoluzione francese; e fu Ferdinando III il primo tra i regnanti, il quale, penetrato dal sentimento della sua posizione, consentisse di trattare mediante un suo ministro col Comitato di Salute pubblica.
Il trattato del 5 febbrajo 1794, che stabiliva la neutralitĂ fra la Toscana e la Francia, fu intavolato e sottoscritto dal Granduca nel desiderio di liberare i suoi popoli dalle sciagure, e se stesso da quei pericoli, ai quali però ben presto sudditi e sovrano si trovarono esposti. Imperocchè appena le armate della Repubblica francese ebbero superate le Alpi (anno 1796), quel Direttorio dopo avere ottenuto che si allontanassero tutti gli emigrati rifugiati in Toscana, comandò, che una divisione dellâesercito di Bonaparte penetrasse nel Granducato, (26 giugno 1796) sotto pretesto che la bandiera repubblicana era stata insultata daglâInglesi nel porto di Livorno, che le proprietĂ dei negozianti francesi vi fossero state violate.
Intanto che il vincitore di Montenotte faceva eseguire in Livorno il sequestro di tutti i capitali del commercio inglese, e di ogni sorta di mercanzie che potevasi scuoprire di proprietĂ loro, o dei sudditi delle potenze belligeranti; intanto che, per colmo di arbitrio, si arrestava il governatore di Livorno inviandolo con dei lamenti a Firenze; frattanto che le carpite merci si vendevano con molte fraudi; nel mentre che si mugnevano i negozianti tutti di quel porto con cinque milioni di lire di riscatto, sovrastava al Granduca il pericolo di vedersi togliere lo Stato, siccome tale era lâintenzione di Bonaparte.
Allâepoca di questa prima invasione francese nella Toscana Firenze vide spogliarsi di molti capi dâopera di belle arti, fra i quali la famosa Venere deâMedici, ritornati tutti nel 1815.
Intanto che i Francesi maltrattavano Livorno, glâInglesi non portavano maggior rispetto a Porto Ferrajo, dove nel dĂŹ 9 di luglio si presentarono minacciosi con grossa flottiglia e con truppe da sbarco. La perdita istantanea della Corsica, obbligò glâInglesi a lasciare quel porto, dopo averlo per breve tempo occupato; e ciò poco dopo che, previo lo sborso di due milioni di lire le truppe francesi avevano evacuato Livorno (maggio 1797) impegnando il Granduca a dovere chiudere aglâInglesi i porti del littorale. â Ma non per questo il direttorio rinunziava alle sue mire tendenti alla conquista definitiva della Toscana.
Lâarmistizio di Campo Formio, e quindi la pace di Udine sospese, ma non distornò il Direttorio dal meditato progetto. Avvegnachè si ebbe ricorso ad altri mezzi con sollecitare indirettamente i meno cauti, o i piĂš esaltati a tentare di sollevare gli animi dei Toscani per natura loro propensi alla pace, e fedeli allâottimo loro monarca.
GiĂ da qualche temp o sâintroducevano da varj punti in Toscana uomini senza carattere e forse col solo scopo di preparare dei fautori alla Francia, e di staccare i sudditi dalla soggezione e affetto verso il sovrano. Fu una questa delle ragioni che obbligò Ferdinando a emanare la legge del 30 agosto 1795, con la quale deviò in qualche parte dalle massime che costituiscono la magna carta deâ30 novembre 1786 del Codice criminale toscano.
â Convinto da una trista e dolorosa esperienza (diceva lâaugusto Figlio di Pietro Leopoldo) che un sistema piĂš dolce nella procedura, piĂš mite nelle pene, per quanto era confacente al carattere mansueto della nazione toscana, poteva per altro richiamare dai paesi circonvicini dei soggetti facinorosi con grave discapito della quiete e sicurezza dello Stato e dei sudditi, si trovò Egli perciò costretto a richiamare un maggior rigore nei giudizj, e ad aggravare il gastigo, onde atterrire i mali intenzionati, e specialmente coloro che avessero tentato di sovvertire lâordine pubblico.â Al principio del 1798 il Direttorio esecutivo fece dichiarare al Granduca che bisognava scegliere, o unâalleanza attiva, o unâostilitĂ dichiarata. Mentre però Ferdinando si lusingava di veder compiti i suoi voti per il ristabilimento della pace, specialmente in Italia, Egli sentiva presso alle porte dei suoi Stati movimenti di armate, e misure di guerra minaccianti la sicurezza e tranquillitĂ sua e dei suoi sudditi. Quindi, vide la necessitĂ di prendere delle precauzioni per la comune difesa, con un appello ai suoi buoni Toscani, fatto nel 30 novembre 1798, allorchè invocava la divina Provvidenza, affinchè volesse preservare da ogni disastro questo innocente paese, il quale non aveva se non che deâdiritti alla riconoscenza di tutte le Nazioni.
Si formarono pertanto varj corpi di volontarj da arruolarsi neâbattaglioni di Bande, dipendenti dagli ufiziali della truppa regolata, onde provvedere alla difesa della comune patria.
Ma il Governo francese che aveva penetrato la politica del Granduca, e la Rep. Cisalpina che erasi accorta della vigilanza che si praticava in Toscana sopra glâindividui provenienti dalla Lombardia, ebbero ricorso ad un nuovo pretesto, come quello dâaver favorita e permessa alle truppe napoletane lâoccupazione di Livorno, nel gennajo dellâanno 1799. Dietro a sĂŹ fatto reclamo si vide entrare minacciosa nel Granducato una divisione dellâarmata francese, per rimuovere la quale il Principe pagò rilevanti somme onde facilitare ai Napoletani lâevacuazione di Livorno e la ritirata deâRepubblicani dal Granducato.
Ma poco dopo (marzo 1799) rottasi la pace tra la Repubblica francese e lâImperatore, anche la Toscana fu compresa nella dichiarazione di guerra; cosicchè i Francesi penetrarono da tre punti nel territorio Granducale, e il ventisette di marzo, giorno di lutto universale, Ferdinando III con lâAugusta famiglia dovè lasciare la sua reggia, e con dolore abbandonare i suoi desolati sudditi dopo averli esortati ad adattarsi con rassegnazione alla sorta.
STATO DI FIRENZE DURANTE LâASSENZA FORZATA DI FERDINANDO III Gli avvenimenti politici, di cui molti tra noi fummo testimoni, e il desiderio di attraversare sollecitamente cotesta tempestosa laguna per rientrare al piĂš presto nel porto, renderĂ piĂš rapido il discorso sulle vicende politiche che chiusero con molte lacrime il secolo XVIII, e che in mezzo a tumultuose sevizie diedero principio al secolo XIX.
Centundici giorni Firenze e una gran parte della Toscana ubbidĂŹ sommessa e taciturna agli ordini di chi subentrò al governo di Ferdinando III, in guisa chè un generale di divisione (Gaultier) e un commissario di guerra (Reinhard) reggendo la somma delle cose, nel 5 aprile annunziavano ai Fiorentini, che il giorno 18 germinale, anno VII Repubblicano, farebbe epoca nei loro annali, dopo il voto legalmente espresso dai rappresentanti della cittĂ . Stantechè quel giorno era stato destinato alla festa patriottica dellâerezione dellâalbero della libertĂ , davanti al vecchio palazzo del popolo fiorentino.
Era appena scorso un mese da che le truppe francesi occupavano la Toscana, quando gli abitanti delle cittĂ di Cortona e di Arezzo pieni di furore e di vendetta, innalzando lâinsegna della rivolta, e gridando Viva Maria, distruggevano gli alberi della libertĂ , e facevano man bassa sopra chiunque fosse stato di francesismo sospetto.
Mentre tali faccende mettevano in gran pericolo la Toscana, in vista che le forze deâRepubblicani erano ancora considerevoli in Italia, mentre era per attraversarla un numeroso esercito reduce dallâinvasione di Napoli, il duumvirato di Reinhard e di Gaultier con proclami atterriva (5 maggio 1799) tutte le comunitĂ della Toscana, nelle quali si fossero formati attruppamenti sediziosi.
E quasi che la nazione toscana avesse di proprio intuito chiesto di essere rigenerata allâuso di quel governo, veniva rimproverato dai duumviri con queste ridevoli parole chi era avvezzo a vivere sotto le leggi Leopoldine: âŚâŚVoi che atterrate gli alberi della libertĂ , dovevate nel giorno in cui essi furono piantati eslamare: noi vogliamo rimanere schiavi; la ragione non è fatta per noi: ci dichiariamo indegni di esercitare i diritti dellâuomo!!!âŚ..
Per buona sorte degli Aretini, verso il finir di maggio lâarmata di Macdonald passava da Siena, donde questo maresciallo fulminava bando di esterminio, se Arezzo e Cortona ben tosto non si sottomettevano. Ma gli Aretini e i Cortonesi non si sbigottirono; e la tempesta attraversò senza toccare il loro territorio. Quindi le tre sanguinose giornate della Trebbia (18 19 20 giugno) avendo deciso delle sorti in Italia, liberossi la Toscana dai Francesi; i quali senza attendere alcuna truppa regolata dellâesercito vincitore, nella notte del 4 al 5 luglio, lasciarono Firenze vuota di presidio, e di ogni sorta di pubblico denaro.
La loro taciturna ritirata da una popolosa cittĂ mise a cimento il buon ordine e la quiete pubblica in guisa, che ad onta delle esortazioni dei magistrati provvisorj Firenze videsi involta fra persecuzioni di cittadini e di contadini, i quali senzâordine e senza legge a furia di spaventevoli grida e dâinsulti imprigionavano, saccheggiavano e inveivano tumultuariamente contro coloro che avevano servito o in qualche modo aderito al governo francese. â Per buona sorte lâanarchia non fu di lunga durata, cui successe un governo provvisorio, che nellâassenza tanto deplorata del legittimo sovrano sostenne lâamministrazione dello Stato. In questo modo terminò lâanno 1799, ed era giĂ a mezzo il corso il 1800, quando arrivò a Firenze la novella della battaglia di Marengo, (14 giugno) che ripose i destini dellâItalia e dellâEuropa in mano di Napoleone.
Allora pur anche la Toscana dovette di nuovo piegare il collo al giogo francese, e nel 15 ottobre di detto anno i generali Dupont e Miollis entravano in Firenze, 4 giorni innanzi che Mounier e Cara Saint Cyr sâimpadronissero a viva forza di Arezzo e la ponessero a sacco. Intanto un triumvirato di parte francese era succeduto alla reggenza che aveva governato pel legittimo principe questa provincia; quando pel trattato di Luneville (9 febbrajo 1801) il primo Console Napoleone cedè a Lodovico di Borbone, figlio dellâInfante duca di Parma, il Granducato sotto il titolo di Regno di Etruria ; regno pagato a caro prezzo dalla Spagna con la cessione della Luigiana, col dono di cinque vascelli e con lo sborso di piĂš milioni di contante. Si prometteva poi nel suddetto trattato una indennitĂ piena ed intera al Granduca Ferdinando III in Alemagna, dei suoi stati aviti dâItalia.
Nè è da tacersi la fedeltĂ degli Elbani verso questo amatissimo principe; poichè Portoferrajo resistè alle forze di terra e di mare spedite dalla Francia per conquistare lâIsola; nè fu capitolato se non dopo il trattato dâAmiens fra la Francia e lâInghilterra, e lâannuenza richiesta dal legittimo principe, pel quale combattevano; e fu dâallora in poi che la Francia si ritenne tutta lâIsola. Frattanto fu ricevuto dal general Murat nel 12 agosto in Firenze il re Lodovico, il quale, per quanto disbrigar si volesse delle truppe francesi stanziate in Livorno, non riescĂŹ che tardi nellâintento. ââEgli con decreto del 2 giugno dellâanno 1802 associò la Regina sua consorte al consiglio e alla direzione delle pubbliche cose. Ma infermiccio di salute comâegli era, dopo il ritorno da un viaggio in Ispagna, morĂŹ nel 29 maggio 1803, lasciando il trono al piccolo figlio Carlo Lodovico, assistito dalla vedova Maria Luisa, come Regina reggente.
Avvenivano tali cose in Toscana, quando con passi di gigante Napoleone Bonaparte da un Senatus Consulto nel 18 maggio del 1803, veniva dichiarato imperatore deâFrancesi, e nel 2 del successivo dicembre dallâimmortale Pio VII nella metropoli della Francia incoronato.
Quindi nel 26 maggio del 1805 cinse in Milano il diadema come re dâItalia; e forse credutosi piĂš che mortale non conobbe piĂš freno alle ambizioni. Nè abbandonollo la volubil fortuna, finchè non lo spinse allâapice della grandezza con la vittoria di Austerlitz (nel 2 dicembre 1805, anniversario della sua vittoria morale sulla democrazia francese), e col celebre trattato di Presburgo (26 dicembre detto), in cui novelli regni creava, altri ne distruggeva e permutava, facendo dinastica la sua casata.
Mercè i capitoli di quel trattato, Ferdinando III, che fino dal 1803 reggeva Salisburgo col titolo di Elettore, ebbe nuova sede e granducato in Wurtzburgo, ove nel 1807 Egli creava lâordine del merito sotto il titolo di S.
Giuseppe. Frattanto la Regina reggente di Etruria non dimenticava i disegni deâprincipi Austriaci a favor delle lettere, consacrando col motuproprio del 20 febbrajo dello stesso anno il R. Museo alla pubblica istruzione.
Ma agitando sempre nella sua mente lâimperator deâFrancesi prepotenti concetti, convenne con Carlo IV re di Spagna, mediante il trattato di Fontainebleau (27 ottobre del 1807) che sâincorporasse la Toscana alla Francia, e che Carlo Lodovico re di Etruria a titolo dâindennitĂ avesse il regno della Lusitania settentrionale, mentre si destinavano le province degli Algarvi in sovranitĂ al principe della Pace, e il rimanente del Portogallo allâImpero francese; decorando col titolo dâImperatore delle due Americhe il mentovato Carlo IV re di Spagna. Per questi politici divisamenti la Regina reggente si trovò costretta a licenziarsi nel 10 dicembre 1807 coâsuoi popoli in cotal guisa: âAvendoci lâimperatore dei Francesi e re dâItalia reso noto,che per un trattato concluso con S. M. Cattolica vengono a noi destinati altri Stati in compenso del regno di Etruria,dichiariamo da questo giorno cessato il nostro governo e sciogliamo la Nazione da qualunque vincolo di sudditanza ec.â âDifatti in quello stesso giorno entrarono in Firenze le soldatesche francesi, tenendo il superiore comando Reille e Miollis, fino a tanto che, pubblicato il codice Napoleone nel 25 maggio 1808, una Giunta di governo da Menou preseduta, nel 9 luglio dellâanno suddetto, non ne prese lâassoluta direzione. Divisa la Toscana in tre dipartimenti, dellâArno, dellâOmbrone e del Mediterraneo, ottenne dallâImperator deâFrancesi di etrusca origine due gran privilegj, cioè lâuso del patrio idioma nel foro e nei pubblici affari, e lo splendor dâuna corte, dichiarandone Granduchessa (6 marzo 1809)la sua sorella maggiore. Ma per quanto proseguisse la volubil fortuna a decorare Napoleone di allori nelle giornate di Eylau, di Fryedland, di Eckmul e di Wagram, pure lâingiusta guerra da lui mossa al re di Spagna per usurpargli la corona, e lâaltra ardimentosissima contro la Russia, furon cagione che tutta Europa si collegasse in cotal modo per la sua ruina, che nel dĂŹ 14 aprile 1814 dura necessitĂ lo astrinse a rinunziare allâimpero. âRisentĂŹ la Toscana, come ogni altra provincia, lâeffetto delle strepitose vicende, e nel 1 febbrajo di quellâanno era giĂ partita di Firenze la granduchessa francese, e nel giorno 6 entrarono nella cittĂ milizie napoletane addivenute amiche e collegate collâAustria. Ma spuntò finalmente il ridente giorno del 19 aprile, in cui ne fu preso possesso pel sospirato suo antico Signore Ferdinando III; il quale nel 18 settembre dellâanno stesso fra i trasporti di gioja e le acclamazioni piĂš vive fece lâingresso solenne nella sua metropoli, dopo 15 anni di dolorosa assenza. Fu il governo francese per i Toscani insopportabile e duro, perchè governo assoluto e di reggimenti non proprj al carattere di docile Nazione. Non vi fu famiglia, cui non contristasse la fatal coscrizione; increbbero i diritti riuniti ; pesò il prepotente comando. Pure fra tanti mali fuvvi alcun bene. Si migliorarono le branche amministrative per la precisione, lâordine e il rigore introdottivi; furono moltiplicate ed ampliate le strade in servigio al commercio, eretti ponti, abbellite e illuminate le cittĂ , protetti gli ingegni, incoraggiate le arti e le manifatture collâerigere a incremento di esse il Conservatorio annesso allâAccademia delle Belle Arti con una confacente biblioteca. Piacque la pubblicitĂ dei giudizi, la sollecitudine nelle sentenze, la bontĂ delle leggi civili, la severitĂ nella procedura commerciale, e ciò che piĂš monta, restò esonerato e liberato lo Stato di ogni suo debito per mezzo dei beni e delle soppresse corporazioni morali.
GOVERNO DI FERDINANDO III IN TOSCANA DOPO LA RESTAURAZIONE Ritornato allâavito trono il desideratissimo Ferdinando III, fece tosto risplendere in pienissima luce quella caratteristica virtĂš che seco nacque e lâaccompagnò nel sepolcro, la piĂš squisita bontĂ . Infatti nel novello reggimento egli prese per guida delle sue opere la felicitĂ dello Stato, e non le infiammate passioni deâtempi; nè sentĂŹ brama alcuna di vendetta per le ingiurie e i delitti, onde furono pur troppo brutti e sanguinosi gli ultimi giorni del secolo trapassato. Fra i primi atti del suo animo generoso si fu quello dâinterrogar la sapienza deâtoscani giureconsulti, per dare ai sudditi leggi, quali richiedeva lâetĂ presente e tanta esperienza di cose. Pose adunque mano nel 1814 a riordinare il governo secondo le istituzioni del suo Augusto genitore, nè tampoco trascurò le straniere, che a lui parvero le piĂš utili alla pubblica prosperitĂ dopo unâesperienza dimostrata. Per queste ragioni i tribunali, i magistrati, le ruote si riprodussero secondo lâantico sistema, e in una forma di evidente giustizia; imperciocchè volle che palesi fossero le azioni delle cause si civili, che criminali; palesi le accuse, le difese, le assoluzioni, le condanne. âCon motuproprio deâ13 ottobre 1814 creò la Ruota civile e criminale di Grosseto, che comprendeva nella sua giurisdizione tutto il territorio dellâantica provincia inferiore senese, e nei rapporti di Ruota criminale estendeva la sua giurisdizione anche al Piombinese e allâisola dellâElba. Ma il cielo politico non era ancora sereno; fosche nubi addensaronsi, e minacciarono altra funesta esplosione. Nel 20 marzo 1815 Napoleone, evaso dallâElba, entrava in Parigi, e un esercito di Murat nellâ8 aprile in Firenze; e giĂ pendevan di nuovo i destini dâItalia e di Francia, quando la battaglia di Tolentino (4 maggio) e quella memoranda di Watterloo (18 giugno) spensero affatto ognâincendio di guerra, e ogni speranza di regno e dâimpero nei due vinti cognati.
Se però dileguavansi le temute politiche calamitĂ , due tremendi flagelli ricomparivano ad affliggere la Toscana, la fame ed il tifo. Non è a dirsi con quanto zelo si adoprasse lâottimo Principe per fare argine ai mali, e come tosto cacciasse la prima, procacciando allâindigente un guadagno col promuovere opere pubbliche dâogni maniera e in ogni angolo dello Stato; e come in seguito vincesse lâaltra, erigendo ovunque spedali ed ospizj, ed affidandoli alla cura di zelanti cittadini. Fu grande allora il fervor dei lavori nelle regie fabbriche, e sommo nellâapertura di nuove strade; fra le quali sono da rammentarsi, quella regia della Val Tiberina per render piĂš pronto il commercio fra i due mari; quella per cui comunica Volterra con Siena, e che si lega collâaltra pur nuova che da Siena guida ad Arezzo; quella sul littorale del mare Mediterraneo che unisce Grosseto ad Orbetello, quella che traversa il Casentino, e lâaltra infine che dal Ponte a Sieve piĂš comodamente conduce al Superiore Valdarno, che fu dichiarata R. postale. A tali imprese cento altri consimili benefici provvedimenti andarono uniti: di modo tale che può dirsi, a ragione, di si ottimo Principe, che se non lasciò trascorrere giorno in cui non fosse cortese di qualche privato favore, non passò altresĂŹ mese senza segnalare lâepoca di un qualche suo pubblico benefizio.
Infatti con sovrano motuproprio degli 11 gennajo 1815 stabiliva il collegio Forteguerri di Pistoja, nel luogo della Sapienza cui il benemerito card. Niccolò Forteguerri, sino dal 1473 aveva donati amplissimi fondi per lâistruzione della gioventĂš; e corrispondendo alle benefiche mire di quel porporato, Ferdinando III riunĂŹ in quel collegio tutte le pubbliche scuole della cittĂ di Pistoja. Con altro motuproprio del 21 novembre dellâanno istesso erigeva in Firenze lâospizio della MaternitĂ , e fu nello stesso anno (18 dicembre) che aprivasi in Firenze la Pia Casa di Lavoro, per raccogliervi i questuanti della cittĂ e del suburbio. Neppure il seguente anno (1816) andò scarso di sue grazie; imperocchè col motuproprio del 2 settembre confermò la R. deputazione degli spedali e luoghi pii del Granducato, e la incaricò di riorganizzare e sistemarne i loro patrimonj. Nel 1817 beneficò Siena col pio stabilimento di MendicitĂ , associando i suoi caritatevoli sussidii alle volontarie oblazioni dei benemeriti di quella cittĂ . Nellâanno medesimo, con notificazione del 26 febbrajo, creò in Firenze un Archivio centrale, destinato a raccogliere e conservare le scritture e i documenti spettanti alle soppresse corporazioni religiose, affinchè non si smarrissero cosĂŹ preziose e interessanti memorie; istituzione carissima agli eruditi, utilissima alle amministrazioni. Nel tempo che incoraggiava con sovrana munificienza la giĂ accreditata Accademia delle Belle Arti in Firenze, dava vita in questâanno, con decreto del 23 agosto, ad una sorella di lei nella dotta Alfea, raccomandando ai professori una scrupolosa vigilanza sopra tutti gli oggetti di arte sparsi intorno alle chiese, neâmonasteri, ed in altri pubblici stabilimenti, come anche nelle strade, nelle piazze di Pisa e nei luoghi suburbani, per riunirli allâuopo nel museo dellâantichitĂ patria, qual è il Campo santo di quella cittĂ . Nella stessa Pisa raddoppiava le sue beneficenze col sovrano motuproprio del 28 novembre, mercè cui si soccorrevano molti infelici con la filantropica scuola deâSordi-muti. Giunse pure in questâanno alla sua maturitĂ quel disegno che fin dai primi esordj del suo governo Ferdinando III avea concepito, onde rimuovere le disparitĂ del contributo, mediante lâistituzione della tassa prediale da distribuirsi per tutta la superficie del Granducato con proporzione adeguata al valore dei beni. A tale oggetto, con motuproprio deâ24 novembre 1817 creò la Deputazione per la direzione del nuovo Catasto; per cui non solo incoraggi lâastronomo insigne prof. Giovanni Inghirami a intraprendere una triangolazione per tutta la Toscana, ma volle di piĂš che lâI. e R. Governo se ne addossasse tutto intiero il dispendio sino ad avere da lui una carta geometrica della Toscana ricavata dal vero nella proporzione di 1 a 200000, della piĂš esatta esecuzione.
Questo beneaugurato anno 1817 ottenne infine dalla beneficenza del Principe lâufizio dello Stato civile, dipendente dal Segretario del Regio Diritto, destinato a formare i registri deânati, deâmorti e deâmatrimonj del Granducato. Dai quali registri si hanno non solo i resultamenti statistici si parziali che generali rispetto alla popolazione neâsuoi variati rapporti, ma altresĂŹ le nozioni piĂš precise sulla durata media della vita umana, siccome in Francia fu dato il primoesempio dal boureau delle Longitudini, cui presiedono sommi scienziati. Si conservano inoltre in tale ufizio numerosi campioni statistico-geografici di tutte le localitĂ della Toscana, secondo le diverse loro dipendenze nellâordine politico, giudiciario, economico, civile. Dopo aver provvisto collâistituzione di una deputazione ecclesiastica per lâamministrazione interna della Metropolitana fiorentina e del tempio di S. Giov. Battista, con motuproprio del 22 febbrajo 1818 lo stesso Granduca creò una deputazione secolare sopra lâOpera di S. Maria del Fiore; la quale fornita di sufficienti rendite, non solo ha potuto sostenere i restauri dellâuno e lâaltro tempio, ma è giunta ancora ad inalzare tre vasti ed uniformi palazzi, distruggendo le umili case e lasciando libero spazio allâocchio dello spettatore per contemplare la simetria e lâordine di un edifizio per ogni lato sublime, e tutta la bellezza della maravigliosa torre di Giotto. Fra cosĂŹ varie e molteplici cure per render felice il suo popolo unâaltra pur ne sorgea nella mente del Principe, per cui nel 4 dicembre 1819 stabiliva definitivamente lâorganizzazione della guardia dei Pompieri, non tanto rivestendola di grado e caratteristica militare, quanto col procurarle un numero vistoso di macchine. AbbellĂŹ quindi RR. Ville, e ampliò la reggia del palazzo deâPitti. Amico alle belle arti di pace, non si rimase dallâadunare opere di singolare artificio, dal porgere occasione ad egregii per emular la natura con la mente e con la mano, e dal beneficare i cultori delle scienze e delle lettere. Si dee al suo animo generoso la sanzione dellâannuo premio che per concessione imperiale giĂ decretava la Crusca. ArricchĂŹ poi talmente di preziose opere e di splendide edizioni la sua biblioteca Palatina, che ora può dirsi senza tema di esagerazione una delle piĂš insigni di Europa. Del suo benefico amore verso lâagricoltura apertamente fanno fede la Val di Cecina e la Val di Chiana, e specialmente questâultima che per vastitĂ di colmate, per numerosi viali e per le nuove fabbriche quasi vasto giardino rassembra. Sposò Ferdinando III in seconde nozze nel 6 aprile 1821 Maria Ferdinanda Amalia, figlia di Massimiliano Principe di Sassonia, e secondando Egli le materne sollecitudini del di Lei cuore e quelle della sua pietosa Sorella, nel 24 novembre 1823 decretava che sorgesse il R. Istituto della SS. Annunziata per lâeducazione delle ingenue fanciulle, onde la societĂ non patisse del maggior deâbisogni, quale si è unâottima madre di famiglia. Un vivere cosĂŹ bello e riposato in Toscana persuase potenti stranieri che vennero dâoltremonti e dâoltremare a fermar la dimora sulle rive dellâArno; e chi per la calamitĂ deâtempi si trovò senza patria, quivi una patria rinvenne sotto lâegida della giustizia. Ritornava da un viaggio nelle Chiane lâottimo Ferdinando nel 12 giugno dellâanno 1824, ma ritornava alla capitale col germe del male che a noi voleva barbaramente rapirlo appena arrivato allâundecimo lustro della sua etĂ . I cittadini entrati in sollecitudine per lâimminente pericolo, taciturni erravano per le vie, ingombravano i sacri templi, sogguardavansi, interrogavansi, e penetravano negli atrii stessi e nelle sale del regio palazzo, smarriti, sparuti, affannosi, desolati.
Niunâaltra premura, nessun affare domestico o civile, tutti i passi, tutte le lingue, tutte le orecchie a questo solo erano rivolte, di questo solo occupate! Il pallore di un volto nellâaltro si diffondea: nè potrei agguagliar con parole quel che io stesso vidi, e nellâintimo petto sentii fra il gemito e il tumulto della reggia e del popolo. Suonò lâultimâora, e il 18 giugno 1824 fu giorno di pianto per tutti; e dico per tutti, perchè, anche gli stranieri medesimi che si trovarono presenti a cosĂŹ trista e inusitata scena, rimasero talmente commossi, che proruppero al pari di noi in tristi lamenti ed in sincere lagrime.
LEOPOLDO II, GRANDUCA XI FELICEMENTE REGNANTE Riparava lâamara perdita il benefico figlio di sĂŹ benefico padre, il Granduca Leopoldo II, che or felicemente regge i nostri destini. Lâimprendere a parlare di un sovrano che siede sul trono, sarebbe subbietto di non lieve difficoltĂ , se gli argomenti di evidenza e di fatto non mostrassero vere quelle espressioni di encomio e di lode che gli vengono tributate. Francheggiati per tanto da evidenti e indubitate prove, noi salutiamo il Granduca Leopoldo II, come quel Principe che, prendendo le vie calcate dellâAvo e del Padre, non solo raccolse i frutti da loro preparati, ma di altri ancora affrettò la maturitĂ ; e molti piĂš semi Egli vĂ spargendo per viemaggiormente rendere prosperoso e felice il suo Stato. Era Egli intento ai placidi studii sullâopere del Magnifico e di Galileo, quando, mancato il Genitore, gli fu mestieri nel fiore degli anni dedicarsi alla somma delle pubbliche cose. Il primo atto del suo governo fu un segnalato favore a prò del commercio, sopprimendo la cosĂŹ detta tassa del sigillo delle carni ; allorchè lâI. e R. Consulta con la notificazione del 16 novembre 1824 manifestava in questi termini i sentimenti del novello Signore. âS. A. I. e R. meditando i providi sistemi di governo adottati dallâAugusto dilettissimo suo Genitore, potè apprezzare i progetti di rettificazioni amministrative, e di risparmi giĂ disposti a maturitĂ , onde supplire a qualche diminuzione delle pubbliche imposte.
Non tardò quindi a prenderne di mira una, che oltre al naturale suo peso si distingueva per essere opposta nel tempo stesso agli interessi dei proprietarj e dei consumatori. Era essa in oltre contraria alla legislazione economica stabilita sotto il regno glorioso del suo Avo immortale, onde per lungo esperimento divenne qui evidente quanta pubblica prosperitĂ produca la somma di tutte le industrie individuali eccitate da una libera e leale concorrenza, e quanto danno rechino privilegj e prerogative, che, abbagliando con molto lume in alcuni punti, spargono oblio sopra tutti gli altri lasciati nellâoscuritĂ .
LâI. e R. A. S. egualmente animata da paterna sollecitudine a favore di ogni classe di persone e di ogni parte del Granducato, a benignamente voluto che resti abolita la cosĂŹ detta tassa del sigillo delle carni, e proventi deâmacelli, e felicitandosi di porgere la mano al compimento del pensiero Avito in questo saggio di beneficenza, ordina e comanda quanto appresso, ec. â Con tali benefici sentimenti, e con tale sapienza economica si assideva nel soglio toscano il Granduca Leopoldo II. Il quale, dopo decretata (1 novembre 1825) lâorganizzazione del dipartimento delle acque e strade, pensò ad aprire per tre grandi vie tre gioghi dellâAppennino; cioè, con la strada della Cisa in Lunigiana, con quella di Urbania, concorrendo per questa alla spesa anche al di la del Granducato, e con la strada di Romagna per la Valle del Montone. Le ultime due vie Regie pongono in comunicazione diretta i due mari che circoscrivono la bella Penisola.
Ma erano appena date tali provide disposizioni, che il Principe apriva il suo cuore a grazie piĂš singolari e munifiche col motuproprio del 4 dicembre dellâanno medesimo, di cui è bello il riferire le clementi espressioni.
âSe fu grato al nostro cuore il far godere dal 1 dello scorso maggio ai nostri amatissimi sudditi i vantaggi dellâabolizione di unâantica tassa, dannosa non meno ai consumatori che ai proprietarj ed agli agricoltori, molto piĂš consolante è il potere nel volgere del cadente anno (1825) accordar loro un ulteriore alleviamento ai pubblici aggravj. Portata da Noi la piĂš seria attenzione sulla proprietĂ fondiaria, e dopo esserci assicurati, che quando circostanze impreviste non sopravvengano, lo stato della finanza permette una diminuzione della tassa prediale, abbiamo determinato di ordinare, conforme ordiniamo e vogliamo: Che dal 1 gennajo prossimo avvenire resti diminuita della quarta parte la tassa prediale, la quale, a forma del motuproprio deâ7 ottobre 1817, è imposta e si esige attualmente al profitto del R. erario, ec. â Con universale esultanza incominciava adunque il suo corso il 1826, nè vi fu uomo sensibile che non professasse sincera gratitudine verso tanto benefattore. Nè questo è il tutto; imperciocchè in questâanno approvò ancora lo stabilimento della Banca di sconto (27 settembre) con associarvi il R. Governo, e col munirla delle opportune garanzie e privilegj. âPrescrisse nellâanno 1827 (20 agosto) i regolamenti degli affari riguardanti lâeconomica amministrazione dei patrimonj dei pupilli e sottoposti, e volle che a favore degli interdetti per causa di prodigalitĂ , lâipoteca tacita legale su i beni dei loro curatori sâintendesse infissa nel modo stesso e per gli stessi effetti, per i quali si acquista a favore degli interdetti a cagione di demenza o dâimbecillitĂ , ed a favore deâminori, secondo il sistema ipotecario del Granducato. Intorno al qual sistema, conservato come cosa utilissima da Ferdinando III, altri regolamenti, per renderlo viemaggiormente utile, vennero in appresso da Leopoldo II comandati.
Volgeva lâanno 1828, e sotto i sovrani auspicii si apriva in Siena una scuola pubblica per i Sordi-muti, non tanto sostenuta da spontanee oblazioni, quanto da larghi sussidj della regia Famiglia. Non era però giunto quellâanno fortunato al suo termine, quando comparve quel celebratissimo motuproprio del 27 novembre, come lâannunzio di una delle piĂš grandi operazioni scientifiche ed economiche di questâetĂ , che meritò lâapplauso di Europa, e la perpetua gratitudine del popolo toscano. Per esso si annunziava ai sudditi il grandioso divisamento di risanare e render culta, al pari dellâaltre terre, la provincia grossetana. Non vi fu accademia, non vi fu giornale che non si compiacesse di riferirlo, indicando essere di giĂ spuntato quel giorno, in cui condurre si dovea ad effetto un disegno da tanto tempo concepito, e sempre debolmente tentato. Eccone le magnanime espressioni: â S. A. I. e R. restò profondamente commossa dallo squallore ed insalubritĂ , che desolando tutte le maremme toscane scoraggiavano con lâidea dei tentativi praticati senza conseguirne lo sperato meglioramento.
Volle S. A. I. e R. sullâesempio deâsuoi Augusti predecessori con assidua paterna cura riscontrare ocularmente lâestensione dei mali, e riunĂŹ quanti lumi emergevano dalla storia, dalla teoria e dalla esperienza. â Potè allora convincersi che tutte le risorse della natura e dellâarte non erano esaurite, e fissando intanto la sua sovrana considerazione sopra la pianura di Grosseto, la sottrasse in pochi mesi a quellâelemento dâinfezione che può emanare dalla mescolanza delle acque marine colle pluviali. â Ponendo poi mente alla giacitura di quel terreno, e al pingue limo che trasportano i suoi influenti, trovò condizioni le piĂš favorevoli ad un sistema di colmate fino al presente ivi sconosciuto, dal qual sistema in altre provincie del Granducato si ottennero i piĂš felici risultamenti. âIn sequela pertanto di maturo consiglio S.
A. I. e R. determinò di dare opera ad unâimpresa di manifesto interesse per il territorio grossetano, e di sommo vantaggio per lâintero Granducato, essendo altronde prezioso per il suo cuore il considerare, che questo nuovo benefizio per tutti i suoi amatissimi sudditi non imporrĂ loro veruno aggravio ulteriore.
Avuto riguardo alla natura e vastitĂ dellâimpresa, e alla rapiditĂ necessaria dellâesecuzione, come nei provvedimenti che di tempo in tempo può essere urgente di adottare, S. A. I. e R. non ha giudicato conciliabile di commettere la cura e le operazioni della bonificazione grossetana agli ordinarj mezzi amministrativi e di arte, che offre lâistituzione in quella provincia di una Camera di sopraintendenza comunitativa, e di una ispezione di acque e strade; ed è rimasta allâincontro pienamente convinta, che la condotta delle operazioni idrauliche deve esser libera nella sua azione, ed indipendente dagli ordinarii rapporti, che convengono alle amministrazioni non transitorie, ma permanenti. Quindi dispone ec. ec.â Alle parole successero opere prontissime, fervide, singolari. Popolaronsi quei luoghi palustri e limacciosi, di caravane di lavoranti, ai quali fu imposto ordine e disciplina. Quelle selve non piĂš deserte offrivano lo spettacolo delle rive del Ceilan, e del villaggio di CondactĂŹ, che in tempo della pesca di romite spelonche addivengono borgate popolose e vivaci. Desideroso lâottimo Principe, che senza interruzione progredisse lâimpresa, di continuo dirigevasi neâsuoi viaggi per quella provincia, provvedeva con nuovi consigli a nuovi bisogni, vegliava, incoraggiava, remunerava; talmentechè ottenne finalmente, che nel 26 aprile 1830 in sua presenza e tra i numerosi operanti ed il molto popolo accorso, in pochi istanti fosse tolta ogni separazione che tuttora esisteva fra lâalveo del fiume Ombrone e quello del gran Canale diversivo, stato nei precedenti mesi escavato. Stipulata omai con quel saggio preliminare la garanzia di vedere uno strato immenso di terra vegetabile ricuoprire pestilenti marazzi, e sorger la messe lĂ dove infarcivano sterili piante palustri, grande ed iterato fu il grido di gioja e di conforto. Se fosse questa la sola magnanima azione di Leopoldo II, durante il suo regno, basterebbe a rendere il suo nome memorando, immortale! Di giorno in giorno pertanto vedesi lâetrusca maremma ritornare al florido stato deâprischi tempi, e manifesta la presenza e la cura della mano dellâuomo. La celebre via Emilia di Scauro restaurata, anzi di nuovo costrutta, ampliata e rettificata per mettere in comunicazione il Compartimento di Pisa con quello di Grosseto; il paludoso Prelio, lâisola di Pacuvio sgombrati dâacque limacciose e di mofetico orrore; i diboscati campi, le messi sorgenti, i sentieri, i ponti, le rustiche e padronali abitazioni edificate, tuttociò desta il plauso, lâammirazione e la speranza. Sia lode adunque al sapientissimo Principe che ha tanto in amore lâagricoltura, quellâarte nobilissima, fugatrice dellâozio, dispensiera di ricchezze, vita della vita sociale; arte veramente indigena, arte nostra, di che fummo maestri agli stranieri e che dobbiamo a tutta possa riporre in vigore, non indegni al certo nè per clima, nè per sĂŹ favorevoli auspicii, nè per isvegliato ingegno di possederla. Una nazione divenuta agricola, diventa conseguentemente commerciale; la sovrabbondanza deâsuoi prodotti chiama lâesportazioni; cosĂŹ la povertĂ rustica stata prima impiegata per le campagne ad aumentare i prodotti, bandisce quindi la povertĂ cittadina collâaumento delle manifatture. Quei dotti forestieri, che hanno non ha gnari percorsa lâItalia, non obliarono di celebrare per le stampe la rigenerazione della nostra maremma; (Ved. Viaggi di Alfredo Reummont ec.) e qualunque leggitore non può scorrere quelle pagine senza unirsi ai voti delle popolazioni beneficate verso lâAugusto benefattore.
Ma se Egli col fervore di tante opere rallegrava le classi agricole e commerciali, non pertanto pose in dimenticanza la coltura delle scienze e delle lettere, anzi, siccome ai tempi Medicei, volle che il nome toscano si associasse alle scientifiche glorie di un potentissimo regno. Parlo della spedizione Gallico-Tosca in Egitto, donde ritornati nellâanno 1830 i nostri dotti uomini recarono seco molti capi dâopera, che esposti furono alla pubblica ammirazione, accoppiati a piĂš di 1300 disegni delle cose piĂš singolari della classica terra dei Faraoni.
Acquistò poi lâindigenza un mezzo di aumentare il guadagno nella regia sanzione delle Casse di risparmio; e la pubblica economia ottenne nuovi vantaggi per essere stata anche la manifattura del ferro ridotta al generale sistema di libera concorrenza. Tali erano le liete sorti della patria nostra in questo suddetto anno, il quale destinato a veder compiti molti dei grandi concetti deânostri maggiori, si rese immortale per la solenne inaugurazione del monumento che finalmente fu inalzato al Padre della lingua e della poesia Toscana. CosĂŹ inclinava felicemente per noi al suo tramonto il 1830, quando inaspettate politiche vicende tutta Europa commossero! Ma invano per noi romoreggiò la procella intanto che il R.
Liceo eretto nel Museo di fisica e storia naturale in Firenze otteneva dalla munificenza del Principe celeberrimi professori, sicchè ripresero quivi gli ottimi studii il suo corso, nel tempo che si perfezionava la Specola; e di quanto era dâuopo arricchivasi quellâinsigne stabilimento sede del sapere.
Spettava però allâanno 1835 unâaltra di quelle sovrane risoluzioni che caratterizzano la magnanimitĂ di Leopoldo II, e fu questa lâimpresa della nuova circonvallazione della cittĂ di Livorno, che cresce e giganteggia quasi regina dei mari. Ă cosa mirabile a dirsi, e forse incredibile ai posteri, come appena fu al pubblico annunziato il sovrano volere, mille mani corsero allâopera, come rapidamente crescesse, e come dopo 15 lune quasi tocchi al suo termine un giro di 4 miglia di mura urbane; quando in simili imprese nelle trascorse etĂ furono tentativi non di mesi nè di anni, ma di successive generazioni.
Ed oh! qual funesto nemico in questo tempo appunto venne ad involgere Livorno di lutto, e ad intimorire lâintera Toscana; ed oh! di quali generosi e magnanimi soccorsi, sagge previdenze, e beneficj di ogni genere fu capace il cuore veramente paterno del Granduca Leopoldo II. Senza aggiungere alcun aggravio ai suoi sudditi, versò Egli a larga mano sul costernato popolo di quella cittĂ grazie e favori, eresse spedali, provvide alla nettezza, al disinfettamento, premiò i piĂš operosi e infine riparò a quanto può attendersi da un Principe che tiene per figli i suoi sudditi.
Nè alla marittima cittĂ erano solo rivolte le cure di Lui, ma la capitale ed ogni altro luogo del Granducato affettuosamente gli attestarono la loro riconoscenza. Fu pure effetto del malaugurato Cholera , che non godè la Toscana di una festivitĂ dei natali del Gran principe ereditario, Ferdinando, festa che doveva suggellare una fortunatissima epoca neânostri fasti: imperciocchè in cosĂŹ bella occasione Egli accoglieva nella reggia tutto il suo popolo esultante.
Nel principio di quellâanno medesimo, ultimata la dispendiosa impresa del catasto, instituiva un nuovo dipartimento per la conservazione di quellâestimo medesimo, oltre una direzione per il corpo deglâingegneri di acque e strade incaricata di formare i progetti, e di sorvegliare allâesecuzione dei lavori relativi. Infatti mercè di tali provvedimenti, il Granducato conta oggi tante e sĂŹ buone strade regie, provinciali e comunitative rotabili, che non vi è rimasto quasi angolo della Toscana, cui restino a desiderare strade maestre da comunicare per varie direzioni.
Finalmente, per raccogliere in breve il molto che resterebbe da dire, accennerò, come sotto il felice governo di Leopoldo II si vede condotta a perfezione ogni parte esteriore del regio palazzo, riordinata e fatta come pubblica quella classica galleria che sopravanza ognâaltra di qualunque reggia e metropoli; come da accreditati pennelli fu dipinto il nuovo quartiere nel palazzo deâPitti, oltre la cupola della Cappella deâPrincipi in S. Lorenzo, dove tutto sâappronta per ultimarla; come si abbellisce ognora piĂš la cittĂ , e massimo con la magnifica via S.
Leopoldo, che forma la continuazione della piĂš bella e piĂš ampia delle sue strade; come si sospendono a traverso dellâArno sopra e sotto la cittĂ due ponti di ferro; come si amplia la fabbrica dellâIstituto delle Scuole Pie a benefizio della numerosa scolaresca; come le pitture di Andrea del Sarto nel vestibolo dellâAnnunziata furono restaurate e difese; come intorno alla base dei tre cospicui edifizj sacri di S. Giovanni, della Metropolitana e della Torre di Or San Michele, furono posti stabili e decenti ripari di ferro; come infine, per dir tutto in una parola, si vede condurre verso il suo perfezionamento quanto la grandezza Medicea, la mente dellâAvo, e il cuore del Padre intesero a gloria, a utilitĂ e felicitĂ del toscano popolo di ordinare.
COMUNITAâ DI FIRENZE Il circondario della ComunitĂ di Firenze, a tenore del motuproprio del 20 novembre 1781, fu circoscritto dallo spazio delle mura della cittĂ da quello della fortezza da Basso, che le attraversa, e dal corso dellâArno fra le due pescaje. A questo circondario furono aggiunti nellâanno 1833 alcuni spazii fuori delle mura dalla parte destra dellâArno; cosicchè lâattuale perimetro della ComunitĂ di Firenze è contrassegnato dal giro che fa la strada regia intorno alle mura esterne, dalle quali essa alla destra del fiume in quattro punti per breve spazio si discosta, cioè verso grecale davanti alla porta S. Gallo per abbracciare il parterre e la piazza dellâarco trionfale; davanti alla chiusa porta Guelfa, verso levante sopra alla pescaja della Zecca vecchia; dal lato di maestro lungo la strada nuova che gira intorno alla fortezza da Basso; e dal lato di libeccio sino al pilone destro del nuovo ponte di ferro, rimontando di lĂ la sponda destra dellâArno sino alla pescaja dâOgnissanti.
Tutta la superficie della ComunitĂ di Firenze occupa quadrati 1.556,17 (quasi due miglia toscane quadre), dei quali quadrati 306,47 sono presi da strade e dal letto del fiume Arno; donde avviene, che la superficie imponibile riducesi a quadrati 1249,70. La quale superficie è occupata per circa tre quarti da fabbriche e per il restante da orti e giardini interni, dai campi e dal pomerio della cittĂ . â I suoi abitanti nellâanno 1833 ascendevano a 95927. (Vedere qui appresso il Quadro della popolazione.) VARIE GRANDEZZE DEâSUOI CERCHI Il giro attuale delle mura, comprese le larghezze delle due pescaje che attraversano lâArno sopra e sotto a Firenze, ammonta in tutto a braccia fiorentine 16330, equivalenti a miglia cinque e tre quarti, piĂš braccia 38 e 1/3, siccome apparisce dalle varie sezioni seguenti.
Larghezza della Pescaja dalla porta di S. Niccolò alla Zecca vecchia Br . 403 Giro delle mura della fabbrica della Zecca vecchia Br.
Da questa alla porta alla Croce Br . 816 Di costĂ alla porta a Pinti Br. 1526 Da porta a Pinti a porta S. Gallo Br. 1337 Dalla porta S. Gallo al bastione a levante della fortezza da Basso o di S. Giov. Battista Br. 1466 Giro esterno della fortezza sudd. Br. 1752 Dal bastione a ponente sino alla porta al Prato Br. 1052 Dalla porta al Prato fino alla porticciuola dellâantica Gora Br. 1082 Dalla porticciuola fino alla Pescaja di Ognissanti Br.
Larghezza della Pescaja dâOgnissanti Br . 448 Dalla casa della Guardia sulle mura di Oltrarno sino al torrino della Sardigna Br . 662 Dal torrino alla porta S. Frediano Br. 290 Dalla porta S. Frediano alla porta S. Pier Gattolini o Romana Br. 1130 Da questa porta a quella chiusa di S. Giorgio sulla Costa Br. 2060 Dalla porta di S. Giorgio alla porta S. Miniato Br. 938 Da questa alla porta S. Niccolò Br . 585 Di lĂ sino alla Pescaja Br . 210 TOTALE Br. 16330 Cerchio piĂš antico. â Quando si volesse confrontare il cerchio piĂš antico della cittĂ di Firenze (mancando noi di prove che bastino ad assicurare, quale mai fosse il giro delle sue mu ra al tempo dei Romani) si vedrĂ che lâattuale perimetro, quello cioè decretato dalla Repubblica fiorentina nel 1284, è circa dieci volte maggiore del primo, e quattro volte piĂš esteso del secondo cerchio della stessa cittĂ .
Imperocchè il primo circuito quasi rettangolare era situato intieramente nel lato destro dellâArno presso dove confluiva il fiumicello Mugnone.
Il quale fiumicello, per tre volte dovè variare letto e direzione, mentre nei tempi antichi esso attraversava una parte dellâattuale cittĂ , tostoche allâepoca del primo cerchio le sue acque fluivano dove oggi è la via Larga, presso la quale furono scoperti i piloni di due ponti; uno dei quali dalla chiesa di S. Marco e lâaltro fra il palazzo Panciatichi e la chiesa di S. Giovannino. In seguito fu quel fiumicello di costĂ artatamente volto verso S.
Lorenzo, per girare intorno a questa chiesa, e di lĂ dietro alle mura antiche, di dove sembra che si dirigesse in Arno in vicinanza di S. Trinita.
Un solo ponte detto poi il Ponte vecchio , attraversava allora il fiume Arno fuori della Porta S. Maria, presso lâantica pescheria e il mercato degli erbaggi, mentre dal lato opposto del fiume, accosto alla chiesa di S. Felicita, trovavasi il campo santo o cimitero dei primi Cristiani.
Ma delle mura di Firenze, innanzi che incominciasse il secondo cerchio della città , non restano autorità o indizj tali ove poter fondare un dato sicuro. Certo è che, dal Malespini in poi, quasi tutti gli storici fiorentini concorrono a credere che allora la città non oltrepassasse (a partire dal lato di levante) la strada detta del Proconsole, prolungandosi a destra verso la piazza di S.
Firenze sino al canto del borgo deâGreci, dove sembra che fosse la postierla di quei della Pera, detti in seguito deâPeruzzi. Di lĂ continuando verso scirocco sino al palazzo o castello di Altafronte, poi deâCastellani, sâindirizzava sulla sponda dellâArno. Dalla parte manca, piegando a grecale, proseguiva il giro della via del Proconsolo al canto deâPazzi, dove esisteva la primitiva porta S. Piero; indi continuando per S. Maria in Campo, attraversava il suolo degli attuali fondamenti di S. Maria del Fiore, e volgendo la fronte a settentrione, lasciava dentro la cittĂ il tempio di S. Giovanni, ossia il Duomo; passato il quale trovava la seconda Porta detta del Duomo, dalla quale si entrava nel borgo S. Lorenzo. Con la stessa direzione inoltravasi sino al canto deâCarnesecchi, dove piegava a ponente, a un dipresso per la direzione che tuttora conservano le strade deâRondinelli e deâTornabuoni sino al canto degli Strozzi. CostĂ presso era la terza porta detta di S. Brancazio , di sotto alla quale le mura proseguivano diritto per via deâLegnajuoli sino alla postierla detta porta Rossa. Oltrepassata questa porticciuola, piegando da ponente a ostro, sembra che le mura rasentassero il borgo SS. Apostoli per sboccare alla porta di Por S. Maria presso alle case deglâInfangati. Di costĂ per una linea egualmente incerta, fra la via deâLamberteschi e quella degli Archibusieri, si chiudeva il giro al castello di Altafronte.
Tale era il giro della cittĂ , quando Fiorenza dentro dalla cerchia antica, Ondâella toglie ancora e terza e nona, Si stava in pace sobria e pudica.
Il suddescritto primo cerchio, che può calcolarsi dellâestensione di circa 3500 br., copriva, come ho detto, una superficie di terreno che appena equivaleva alla decima parte del cerchio attuale.
Se non che il fabbricato di quellâantica Firenze, situato tuttora nel centro della cittĂ , era oltremodo compatto con poche e piccole piazze, con si anguste vie, che piuttosto traghetti si chiamerebbero. A render tali vicoli piĂš tetri ed opachi contribuivano altresĂŹ le moltissime torri di pietra grigia,che a guisa di campanili quadrati fra le 60 e la 100 braccia si alzavano.
Ma la fortuna e le ricchezze di Firenze crescendo in ragione opposta a quelle di Fiesole sua madre patria, e la popolazione traboccando da ogni parte, fu gioco forza disfare le antiche porte e abbattere le vecchie mura, per occupare piĂš vasto spazio.
Secondo cerchio di Firenze. â Nellâanno 1078 cominciarono i Fiorentini cotesto secondo e piĂš largo circuito per mettere i borghi in cittĂ . Quindi il borgo deâGreci e quello di S. Pietro dal lato di levante fino alla chiesa di S. Pier Maggiore; dal lato di settentrione il borgo S. Lorenzo; dalla parte di ponente i borghi di S.
Brancazio, deâSS. Apostoli e di Parione, e dal lato di mezzodĂŹ, ossia di Oltrarno, i borghi di Pitiglioso , di S.
Jacopo e di S. Felice in Piazza entrarono in cittĂ .
Giravano queste mura dalla porta S. Piero al canto di via dello Sprone, dove facendo gomito trovavasi una postierla detta degli Albertinelli per una schiatta che era in quel luogo, e di costĂ si usciva per borgo Pinti. Poi seguitando la direzione da scirocco a maestro, correvano le mura per via S. Egidio, S. Maria Nuova e via deâCresci fino a S.
Michele Visdomini. CostĂ trovavasi la porta detta di Balla dalle balle di mercanzie provenienti dal bolognese e dalla Lombardia. Di lĂ continuando per via deâPucci attraversavano la via Larga, presso dove si congiunge con la strada degli Spadaj, ora via deâMartelli; donde proseguivano lungo lâantico alveo del Mugnone, attraversando la piazza di S. Lorenzo, e di lĂ intorno ai moderni fondamenti di questa basilica volgevansi incontro libeccio. Presso piazza Madonna esisteva una porticciuola detta del Mugnone; e poco piĂš giĂš, in via del Giglio, altra postierla che prese il nome da quei del Baschiera. Da via del Giglio il giro delle mura trapassava dalla Croce al Trebbio, e di lĂ al borgo San Brancazio dove sbocca la strada del Muro , detta poi via del Moro . A questo crocicchio fu aperta la porta denominata di San Paolo, perchè lasciava fuori col borgo la chiesa di tal nome. Seguitando la via del Moro arrivavano le mura allâArno, presso cui terminava il borgo antico di Parione, e cominciava quello piĂš moderno, appellato tuttora dâOgnissanti, e costĂ esisteva unâaltra porta della cittĂ , detta della Carraja . Di costĂ rimontava la ripa destra dellâArno sino al ponte di Rubaconte, dove esisteva la postierla di Ruggeri da Quona; quindi piegava verso S.
Jacopo traâFossi, e rasentando il Parlagio tornava a S.
Pier Maggiore.
Tutto il secondo cerchio, posto alla destra dellâArno, fu suddiviso in 5 sestieri, comprendendo nel sesto sestiere il fabbricato situato nellâOltrarno. Il qual sestiere dâOltrarno fu pure lâultimo ad essere circondato di mura; giacchè, nei secoli XI e XII riducevasi a tre borghi, ciascuno deâquali era chiuso da una porta. A capo del borgo S. Jacopo lunghâArno, era una porta sopra le case deâFrescobaldi; il borgo verso mezzodĂŹ da S. Felicita a S. Felice era chiuso dalla porta detta di Piazza; e il terzo borgo da levante abitato da persone piĂš che di bassa mano, detto perciò borgo Pidiglioso , corrispondente alla via deâBardi, aveva a capo di esso la porta detta a Roma, perchè conduceva a quellâalma cittĂ per lâantica via Cassia, che lâimp. Trajano fece costruire da Chiusi sino a Firenze. â Vedere FIRENZE pag. 151 e VIA CASSIA.
Questi tre borghi non avevano altre mura oltre le accennate porte e i dossi delle case, che chiudevano i borghi medesimi con orti e giardini. Comecchè Gio.
Villani asserisca, che le mura dâOltrarno del secondo cerchio cominciavano dalla porta a Roma (presso S. Lucia deâMagnoli), di dove montavano verso S. Giorgio alla Costa per poi riescire a S. Felice in Piazza rinchiudendo il borgo di Piazza , e quello di S. Jacopo, quasi come andavano i detti borghi, egli poscia soggiunge: che si feciono le mura dâOltrarno al poggio piĂš in alto, come sono ora, al tempo che di prima i Ghibellini signoreggiarono la cittĂ di Firenze.
Intorno al qual periodo (dal 1260 al 1266) probabilmente furono alzate le mura dâOltrarno fra la porta di Piazza e il canto della Cuculia: avvegnachè di cotesta porzione di mura è fatta menzione in un istumento del 12 febbrajo 1262 stil. fior. pubblicato dal Manni (Sigilli Antichi. T.
XXVI. 8).
E fu sul canto della Cuculia, di fronte a via deâSerragli, dove nel 1295 per decreto pubblico si edificò la porta di Giano della Bella. (AMMIR. Istor. Fior.) Terzo, e attuale cerchio della cittĂ . â Se dobbiamo prestar fede a Giovanni Villani, rapporto ai fatti accaduti in Firenze alla sua etĂ , fu nel febbrajo del 1284 st. fior., quando la cittĂ essendo cresciuta di popolo e di grandi borghi, cominciaronsi a fondare le nuove porte donde conseguirono le nuove mura; cioè quella di S. Candida di lĂ da S. Ambrogio, altrimenti detta la porta alla Croce in Gorgo; la porta di San Gallo in sul Mugnone, quella del Prato dâOgnissanti, e la porta dâincontro alle donne che si dicono di Faenza ancora in sul Mugnone. Il qual fiume alquanto dinanzi era stato addirizzato; che prima correa avvolto per Cafaggio (poi via delle Lance) e presso alle seconde cerchia, facendosi molesto assai alla cittĂ quando crescea; e fecionvi su i ponti dinanzi alle dette porte e rimase il lavoro delle mura innanzi che fossero allâArcora , per la novella che venne in Firenze della sconfitta di mare, che il re Carlo dâAngiò ricevè da Ruggeri di Loria. (GIO. VILLANI. Cronic. Lib. VII, cap.
99).
Dopo due lustri (nel 1293) per bisogno di moneta, non volendo il Comune crescere imposizioni, si venderono le mura vecchie ed i terreni che vâerano intorno. (ivi lib.
VIII, cap. 2).
Nel dĂŹ 29 novembre del 1299 si cominciarono a fondare le nuove e terze mura della cittĂ , a partire dalla Gora di Ognissanti infino alla porta al Prato; ma per nuove pubbliche avversitĂ stette buontempo che non vi si murò piĂš innanzi, e solamente undici anni dopo per tema della venuta dellâimp. Arrigo VII fu contornata e chiusa daâfossi la cittĂ , dalla porta a S. Gallo a quella alla Croce al Gorgo infino al fiume Arno, e poi dalla porta a S. Gallo infino a quella del Prato. Sâinnalzarono in poco tempo le mura otto braccia, imperciocchè la cittĂ era tutta schiusa e le mura vecchie in gran parte disfatte, e vendute ai possidenti vicini. (ivi lib. IX, cap. 10).
Nel 1324 la Rep. fiorentina deliberò di contornare al di fuori le nuove mura di fossi e far loro addosso i barbacani, e ogni 200 braccia una torre alta 60, e larga 14 braccia.
Giovanni Villani, che ne fa la descrizione (lib. IX, cap.
256) fu uno degli ufiziali del Comune a ciò deputati.
Finalmente nel dĂŹ 22 di gennajo del 1327, stile fiorent., si cominciò a fondare la gran porta Romana, ossia di S. Pier Gattolini; e in quei tempi si edificarono le mura nuove che dalla detta porta salgono verso il poggio di Boboli. â Non è per questo che tutto il terzo cerchio della cittĂ restasse compito in quellâanno stesso, siccome da molti scrittori fu opinato. (AMMIRAT. Istor. fior. liber XI).
Infatti nel 1360 si compivano le mura coi merli tra la porta alla Croce e quella di S. Gallo, mentre il restante del terzo cerchio continuavasi a lavorare anche molto tempo dopo, come ne fanno prova i decreti della repubblica fiorentina, allorchè nel 1368, la Signoria con provvisioni del 25 ottobre, 5 febbrajo, 2, e 16 marzo dellâanno stesso, e di nuovo nel 26 marzo e 20 aprile del 1369, deliberò che si prendesse ad imprestito dallâOpera di S. Reparata del denaro, giĂ destinato a proseguire quella chiesa, per impiegarlo al compimento e fortificazione delle mura della cittĂ di Firenze, che costruivansi di quĂ e di lĂ del fiume Arno presso alla pescaja della porta della Giustizia.
(ARCH. DIPL. Opera di S. M. del Fiore.)âChe il terzo cerchio della cittĂ non fosse ancora compito nel 1388 lo dimostra il legato di lire due, che ogni autor di testamento doveva lasciare, da servire per metĂ nella costruzione dei muri della cittĂ , e per lâaltra metĂ nella fabbrica di S.
Reparata. (ARCH. DIPL. FIOR. Carte del Bigallo.) Sotto il governo del duca Alessandro, fra la torre piantata sui fondamenti del ponte Reale e la porta di S. Francesco, ossia della Giustizia, nel luogo che servĂŹ per breve tempo alle officine della Zecca, detto tuttora la Zecca vecchia, quel principe fece costruire una specie di fortilizio. Il portone di pietra forte, esistente tuttora con lâarme Medicea, restò in gran parte sotterrato dal terreno depositato per le strade di Firenze dalla piena dellâArno nellâanno 1557, e che fu per consiglio dellâAmmannato in seguito dalle vie raccolto e trasportato a ridosso delle mura della cittĂ , a partire dalla porta suddetta fino a quella di S. Gallo.
Porte del terzo ed attuale cerchio della cittĂ . â Questo terzo cerchio ebbe sedici tra porte e postierle; dieci alla destra, e sei alla sinistra dellâArno. Otto di esse furono murate o disfatte al principio del governo Mediceo; cioè, la porta alla Giustizia, la porta Guelfa, la porta deâServi, la porta Faenza e la porta Polverosa , tutte alla destra dellâArno. Alla sinistra dello stesso fiume furono chiuse la postierla di Camaldoli, fra S. Pier Gattolini e S.
Frediano, e piĂš tardi le porte di S. Giorgio sulla Costa, e quella di S. Miniato. Questâultima per altro è stata riaperta nel 1834. Cosicchè attualmente esistono otto porte e una postierla; cioè, Porta la Croce, Pinti, S. Gallo, Prato, Porticciuola della Gora dâOgnissanti, Porta S. Frediano, S. Pier Gattolini, S. Miniato, e S. Niccolò.
Ponti della cittĂ . âFirenze antica non ebbe che un solo ponte fuori del suo primo cerchio, dirimpetto a porta S.
Maria. Su questo solido ponte furono in seguito costruite diverse botteghe per uso di macelli, ma Cosimo I, dopo aver fatto innalzare il corridore che mette in comunicazione la reggia deâPitti col Palazzo vecchio, ordinò che le botteghe del ponte Vecchio si riserbassero unicamente agli orefici e giojellieri. Prese il nome di ponte Vecchio dopo essere stato fatto, nel 1218, il ponte alla Carraja che rovinò nel 1269, e successivamente rifatto e ricaduto due volte, sino a che dopo la piena del 1333 fu solidamente ricostruito di pietra. Nel 1236 fu fabbricato il ponte alle Grazie, detto di Rubaconte dal nome di Rubaconte da Mandello, che allora esercitava in Firenze lâufizio di potestĂ . Nel 1251 fu edificato il ponte a S. Trinita che cadde, ora per intero, ora in parte, nel 1269, nel 1333, nel 1346 e nel 1557. Dopo questâultima epoca fu costruito di forma svelta ed elegante dallâarchitetto Ammannato. Nel 1317 si fondaron le pile del ponte Reale accosto alle mura della Zecca vecchia, ponte che non fu mai terminato.
Dopo la terribile piena del 1333 il Comune di Firenze decretò la demolizione delle pescaje di sotto a Firenze; onde con provvisione del 14 novembre 1340 la Signoria assegnò ai monaci della Badia a Settimo fiorini 600 dâoro per la distruzione di alcune pescaje di sotto a Firenze, ad oggetto di rimettere nel corso naturale le acque del fiume Arno dalla parte delle mura della cittĂ , le quali cagionavano inondazioni alla porta S. Francesco. (ARCH.
DIPL. FIOR. Carte di Cestello.) PRINCIPALI EDIFIZI SACRI DI FIRENZE S. Giovanni, Batistero, giĂ Duomo e Cattedrale. â La sua origine rimonta probabilmente ai tempi del gentilesimo, comecchè taluni congetturassero che fosse edificato dai Longobardi. La forma della sua cupola a guisa del Panteon di Roma, i marmi antichi e le colonne messe piĂš tardi intorno alle interne pareti, la immemorabile sua esistenza, e lâessere questo dichiarato sino dai primi secoli di Firenze cristiana il Duomo e la madre chiesa della diocesi fiorentina sono altrettanti motivi che ci spingono a credere cotesto tempio sorto in unâepoca anteriore alla regina Teodolinda, o allâinvasione deâLongobardi in Toscana.
Nel principio del secolo XIII ne era operajo un tale Arduino; imperocchè a quel maestro dellâOpera del Duomo di S. Giovanni di Firenze, nel 29 maggio 1207, il pont. Innocenzo III diresse da Roma un breve, col quale prese sotto la protezione della Sede Apostolica tutte le possessioni del Duomo di S. Giovanni, confermandogli le decime che giĂ da 50 anni per la chiesa medesima riscuotevansi dai suoi operaj.
Riferisce allo stesso Arduino operajo una sentenza del 25 novembre 1210, data in Firenze nella curia di S. Michele in Orto da Pace giudice dellâimperatore Federigo II per il Comune di Firenze, con la quale decise una controversia tra i monaci della badia fiorentina e Arduino operajo del Duomo di S. Giovanni, per esser lâOpera stessa creditrice della decima di un anno, per ragione di un pezzo di terra comprato dallâabate di detto monastero.
Anche nel 1217 il vescovo di Firenze Giovanni da Velletri, sepolto in S. Giovanni, diresse nel mese di novembre ad Arduino operajo di S. Giovanni un breve, col quale, per favorire le di lui istanze, confermò la pia elargizione fatta dai vescovi suoi antecessori allâOpera del Duomo delle decime spettanti alla mensa vescovile per i soli pivieri però di S. Giovanni, di Ripoli, di Settimo , di S.
Stefano in Pane , di Remole, di Empoli e di Calenzano. Il breve è firmato dal vescovo medesimo e da dieci canonici, comprese le tre dignitĂ del proposto, dellâarcidiacono e dellâarciprete del Duomo. (ARCH.
DIPL. FIOR. Arte di Calimala.) Circa lâanno 1293 fu questo tempio per ordine della Repubblica incrostato di marmi bianchi e neri con la direzione e disegno di Arnolfo capo maestro del Comune, il quale in tale occasione fece lastricare la piazza di S.
Giovanni.
Posava allora il sacro edifizio sopra un giro di scalere, stato rinterrato dopo il rialzamento progressivo del piano della cittĂ ; intorno al qual tempio esistevano le casse di marmo e gli avelli ra mmentati dal Boccaccio. Dalla parte della tribuna attuale quel tempio aveva il vestibolo e lâunico ingresso posto dirimpetto al palazzo di S.
Giovanni, ossia allâEpiscopio, con un solo altare nellâopposta parete voltata a levante. Fra Jacopo da Torrita, Andrea Taffi ed altri in diversi tempi rivestirono la cupola e la tribuna di mosaici. Andrea Pisano gettò, nel 1330, la porta di bronzo dalla parte di mezzodĂŹ; piĂš tardi (anno 1400) fu collocata al posto quella volta a settentrione, opera di Lorenzo Ghiberti, che fu pure lâautore della terza maravigliosa, dirimpetto alla cattedrale verso levante. Finalmente le statue di bronzo sopra i cornicioni delle porte medesime furono eseguite da Vincenzio Danti, da Francesco Rustici e da Andera Contucci da San Savino.
Metropolitana di S. Maria del Fiore, giĂ S. Reparata. â Questo grandioso e solido tempio che abbraccia unâarea di 22118 braccia quadrate, questo portentoso e imponente edifizio che basta da sè solo a dimostrare la magnanimitĂ e lâardire di quei cittadini che lâordinarono, fu decretato dal Comune di Firenze nellâanno 1294, quando commise ad Arnolfo capomaestro della Signoria: di far il disegno della rinnovazione di S. Reparata con quella piĂš alta e sontuosa magnificenza che inventar non si possa nè maggiore, nè piĂš bella dallâindustria e poter degli uomini; secondo che daâpiĂš savj di questa città è stato detto e consigliato in pubblica e privata adunanza, cioè: ânon doversi intraprender le cose del Comune, se il concetto non è di farle corrispondenti ad un cuore, che vien fatto grandissimo perchè composto dellâanimo di piĂš cittadini uniti insieme in un solo volereâ.
Il lungo periodo scorso dalla fondazione fino al compimento della metropolitana, diè luogo alla mutazione di diversi architetti per succedere a quelli che di mano in mano mancavano dopo morto il primo autore Arnolfo di Cambio da Colle.
Nel 1332 subentrò lâeccellente Giotto; ad esso lui Taddeo Gaddi, che fu rimpiazzato da Andrea Orgagna, e questi da Filippo di Ser Brunellesco. Questâultimo, tornato da Roma nellâanno 1407, consigliò gli operaj, che si elevasse la cupola, non giĂ immediatamente sopra gli archi, siccome Arnolfo aveva disegnato, ma sopra un tamburo, onde renderla piĂš svelta e maggiormente illuminata.
Superati da quel sublime artefice tutti i contrasti dei sui rivali, nel corso di 14 anni (dal 1421 al 1435) intraprese e terminò la fabbrica di quella portentosa cupola che niuno si sazia di contemplare. Nel 1437 fu dato principio allâelegantissima lanterna sul disegno dello stesso Brunellesco, la quale restò compita nel 1456, cioè 12 anni dopo la perdita del suo immortale autore, che ordinò si portasse a unâaltezza di braccia 202 compresa la palla e la croce di sopra al pavimento della chiesa.
Questo tempio a croce latina con tre corpi, o navate, è diviso da quattro arditissimi archi a sesto acuto. Ha di larghezza braccia 67 e soldi 2; di lunghezza totale br. 260 e soldi 18. Due tribune compagne a quella di mezzo, con 5 cappelle intorno per ciascuna, formano la croce, la quale ha br. 160 di larghezza. Sopra gli archi dei cappelloni si alza la gran cupola e sotto di essa è situato il coro ottagono rifatto di marmi sotto Cosimo I, e contornato da eccellenti figure in basso rilievo, scolpite da Giovanni dellâOpera, da Vincenzio Rossi, da Baccio Bandinelli e da altri. Il pavimento di marmi bianchi e a differenti colori e stimabile per i varj spartiti disegnati da sommi artisti; mentre quello intorno al coro fu delineato da Michelagnolo Buonarroti, lâaltro della navata di mezzo è di Francesco da San Gallo, ed il rimanente di Giuliano di Baccio dâAgnolo.
Ha sette grandi porte, quattro laterali, e tre nella facciata.
Le esterne pareti del tempio sono tutte incrostate a disegno di marmi bianchi, rossi e neri, sparse di piccole statue e di delicatissimi ornati. La facciata che fu incominciata col disegno di Giotto, venne disfatta nel 1588 con intenzione di ricostruirla piĂš bella. Ricompensa per altro un tal vuoto il contiguo campanile ossia la gran torre di Giotto, opera nel suo genere la piĂš portentosa dellâuniverso, siccome con tale scopo nel 1334 essa fu dalla Signoria di Firenze con queste parole decretata: âSi costruisca un edifizio cosĂŹ magnifico, che per altezza e qualitĂ del lavoro venga a superare tutti quanti in quel genere ne fossero stati fatti daâGreci e daâRomani neâtempi della loro piĂš florida potenza.â Questa torre, che ha 140 braccia di altezza e cento di circonferenza, finisce sormontata da un ballatojo praticabile; al di sopra del quale nel modello era disegnata una cuspide alta braccia 50, tralasciata da Taddeo Gaddi che tirò avanti la fabbrica dopo la morte di Giotto.
Basilica di S. Lorenzo e Regia Cappella dei Principi. â Non vi ha in Firenze tempio dedicato al vero Dio, il quale conti unâepoca, se non la piĂš remota, senza dubbio la meno contrastata, della chiesa di S. Lorenzo; talchè alcuni pontefici la qualificarono col titolo di chiesa principale.
Arroge a ciò che i canonici di questa collegiata vestirono degli abiti canonicali uniformi a quelli dei canonici della cattedrale, sino a che il pont. Eugenio IV, con bolla del 23 dicembre 1432, terminò le dissensioni su tal proposito fra i due capitoli insorte. (ARCH. DIPL. FIOR. Opera di S.
Maria del Fiore.) Fu nella primitiva chiesa di S. Lorenzo dove predicò S.
Ambrogio; fu costĂ dove ebbe il primo sepolcro uno deâpiĂš antichi vescovi fiorentini, S. Zanobi, e dove in seguito trovaron riposo le ceneri di Cosimo padre della patria; per la di cui munificenza la chiesa di S. Lorenzo, bruciata nel 1417, fu costruita di nuovo sopra un piĂš magnifico e grandioso disegno ordinato a Filippo di Ser Brunellesco. â Ă questo tempio a croce latina con tre navate divise da otto colonne per parte dâordine corintio.
Presso i cappelloni a destra e a sinistra havvi lâaccesso alle due sagrestie, vecchia e nuova; lâultima delle quali, disegnata dal Buonarroti, è arricchita dai due depositi maravigliosi di Lorenzo duca di Urbino, e di Giuliano duca di Nemours, lâuno e lâaltro della famiglia deâMedici, e scolpiti entrambi da Michel piĂš che terreno Angel divino . â Un altro piĂš sontuoso edizio è quello situato dietro al gran cappellone di mezzo, destinato ai sepolcri dei Principi Medicei. Ă disegno di don Giovanni dei Medici, continuato dal Nigetti a spese dei Granduchi Ferdinando I, Cosimo II e Ferdinando II che lâarricchirono dâintarsj, di lavori di pietre dure e di depositi con due statue di bronzo fuse da Giovan Bologna e da Pietro Tacca. Ma cotantâopera era restata incompleta sĂŹ nel pavimento, sĂŹ nellâaltare di pietre dure come nella cupola e nella fascia inferiore sino a che il regnante Granduca Leopoldo II con munificenza pari alla grandezza dal suo animo ordinò a valentissimi artisti il compimento di sĂŹ grandioso lavoro. Il quale lavoro è ormai giunto, rispetto alla cupola, con gran meraviglia del pubblico al suo compimento, mercè lâimmortale pennello del cav. Pietro Benvenuti, mentre con incessante attivitĂ sudano gli altri artefici per adempire pienamente ai voti del magnanimo Principe.
Nel chiostro contiguo alla basilica di S. Lorenzo trovasi lâinsigne biblioteca Laurenziana, costruita con disegno del Buonarroti; annessa alla quale va attualmente terminandosi la sala a guisa di rotonda per collocarvi una copiosa raccolta delle principali, piĂš antiche e piĂš rare edizioni, dono generoso lasciato alla patria dal dotto conte Giovanni dâEloi.
Chiesa di S. Croce. â Fu fondata nel 1294 col disegno di Arnolfo architetto del Comune, quando la Repubblica fiorentina decretava opere degne di Roma nella sua maggior potenza.
La chiesa è divisa in tre navate separate da otto arcate a sesto acuto per parte, lunga br. 240 e larga br. 70.
QuĂ Cimabue diede i primi saggi del suo valore nellâarte di dipingere. CostĂ Giotto mostrò la potenza del suo pennello neâgrandi affreschi; e quĂŹ una turba di pittori fecero a gara nel rappresentare storie sui muri, sulle tavole e sulle tele.
Questo tempio sino al 1434 fu il deposito dei trofei fiorentini e dei loro capitani, siccome ora è divenuto il panteon della nazione per collocarvi le ossa e innalzarvi i sepolcri degli uomini piÚ insigni figli naturali o adottivi di Firenze.
QuĂ la scultura emulò la pittura nelle belle statue che adornano i depositi del divino Buonarroti, di Galileo, di Machiavelli, di Alfieri, di Leonardo Bruni, del Marsuppini, del Fantoni e dellâAlighieri.
Chiesa di S. Maria Novella . â Questo ammirabile edifizio dei PP. Domenicani, è opera di tre religiosi laici dello stessâordine, fra Ristoro, fra Giovanni e fra Sisto. Fu fondato nel 1278, e restò quasi compito allâepoca della famosa peste del 1348.
La chiesa è lunga br. 170 a tre corpi con archi a sesto semi -acuto di varia grandezza; gli archi di mezzo sono piĂš larghi di quelli verso la facciata, e questi meno stretti di quelli vicino al presbiterio; contuttociò lâinsieme è di un effetto pieno di armonia. I piĂš valenti artisti gareggiarono gli uni dopo gli altri in adornarla; Cimabue, lâOrgagna, il Ghirlandajo, il Lippi,Santi di Tito, il Vasari, il Bronzino, ed altri distinti pittori, vi lavorarono. La famiglia deâRicci, châera in antico patrona della cappella maggiore, fece pitturare il coro da Andrea Orgagna, che dipinse eziandio nel 1357 gli affreschi del paradiso e delle bolge dellâInferno nel cappellone della crociata presso la sagrestia. Dilavate però ben presto le pitture dallâacque piovane, fu il coro di nuovo dipinto da capo a fondo in sei gran quadri per lato da Domenico del Ghirlandajo a spese di Giovanni Tornabuoni, giĂ Tornaquinci, che vedesi ivi effigiato al naturale con Francesca di Luca Pitti sua moglie, e con molti altri illustri uomini di quellâetĂ . Tutta questa pittura che desta la maraviglia in coloro che gustano il bello, non costò piĂš di mille fiorini. Fu terminata nel 1490, anno in cui fiorĂŹ Lorenzo il Magnifico, in tempo di pace, di abbondanza e di prosperitĂ ; come apparisce dallâiscrizione posta sulla muraglia a cornu Epistolae, la quale dice: Anno MCCCCLXXXX, quo pulcherrima civitas opibus, victoriis, artibus aedificiisque nobilis, copia, salubritate, pace perfruebatur.
Nel chiostro contiguo alla chiesa, eseguito da Fra Giovanni da Camp i, trovasi la famosa cappella del Capitolo, di struttura gotica, fondata circa il 1320 col disegno di un altro converso Domenicano fra Jacopo da Nipozzano. La pittura delle interne pareti fu affidata a due celebri artisti di quellâetĂ , Simone Memmi che dipinse tre facciate, e Taddeo Gaddi che fece lâaffresco della quarta parete dirimpetto allâaltare.
Chiesa di S. Spirito. â Il tempio piĂš vago, piĂš bello e meglio spartito di quanti altri ne potrebbe contare tutto lâorbe cristiano, è lâopera mirabile del piĂš grande architetto del suo secolo, Filippo di Ser Brunellesco. Egli disegnò negli ultimi tempi di sua vita (anno 1440) questo portentoso sacro edifizio a croce latina che sollevasi sopra cinque ordini paralleli di colonne a foggia corintia, con basi, capitelli, architravi e fregj di pietra serena con gran precisione lavorati. Tre ordini isolati percorrono con egual simetria lâambulatorio, la tribuna e i bracci, che costituiscono la croce latina. Tutto lâedifizio è lungo braccia 161, largo nella crociata br. 98 e nel rimanente br.
54. Gli altri due ordini di colonne sono appoggiati alle pareti del tempio, e servono di uniforme e grandiosa divisione alle 38 cappelle, che a guisa di svolte nicchie girano intorno e servono di adornamento al gran tempio.
In mezzo alla crociata si alza la cupola, sotto la quale gira il coro di figura ottagona, tutto di marmi fini, di statue e di balaustri lavorato. Nel centro della chiesa sotto la cupola sorge un vago tempietto, sorretto da colonne di verde antico, con lâaltar maggiore, tutto di pietre dure e preziose commesso, il quale fu dalla nobil famiglia Michelozzi con la spesa di 100,000 scudi nel secolo XVII fatto innalzare.
Molte pitture di eccellenti maestri adornano gli altari di questa chiesa e della contigua sacrestia; la qual ultima è della forma di un bel tempietto ottagono, opera del Cronaca. â Baccio dâAgnolo fu lâautore della svelta torre o campanile; Bartolommeo Ammannato e Alfonso Parigi rimodernarono gli spaziosi chiostri del contiguo convento.
Torre e chiesa di Or San Michele. â Questo eminente edifizio, destinato in origine per lâannona, collocato nel centro di Firenze antica e nella parte piĂš elevata, fu decretato dalla Signoria di Firenze subito dopo che ebbe ordinato a Giotto la piĂš magnifica torre del mondo. Fu nel 1336 châessa ordinò di erigere costĂ un loggiato sostenente una fabbrica che riescisse per tutti i rispetti degna dellâanimo dei Fiorentini, affidandone il disegno a Giotto, o, come altri vogliono, a Taddeo Gaddi, e la cura per lâesecuzione allâUn iversitĂ di Por S. Maria, ossia allâarte della Seta.
Fu benedetta la prima pietra nel 29 luglio 1337 dal vescovo di Firenze alla presenza di tutti i magistrati della cittĂ , gettando nei fondamenti medaglie dâoro e dâargento coniate con lâimpronta del disegnato edifizio, e intorno queste parole: Ut magnificentia Populi Flor. Artiumâ et Artificum ostendatur. Nel rovescio erano lâarmi della Rep.
e del Popolo colla leggenda: Reipub. et Pop. Decus et Honor.
La fabbrica è di pietra concia lunga br. 42, larga 32, alta 80; ha due ordini di finestroni, e termina con degli sporti intagliati a guisa della Loggia di Andrea Orgagna.
Unâimmagine della Madonna, dipinta in tavola da Ugolino Senese, veneravasi appoggiata a uno dei pilastri esterni di questo loggiato. La quale Madonna, nellâanno 1291, avendo fatto molti miracoli, diede origine a una compagnia per ricevere lâelemosine elargite dai fedeli.
Tali elargizioni si accrebbero al punto, che, allâoccasione dellâorribile peste del 1348, piĂš che 35000 fiorini dâoro le furono lasciati in dono dai cittadini colti da quella morĂŹa.
Per tali ragioni i capitani di essa Compagnia, con lâannuenza del Governo risolsero di serrare la giĂ innalzata Loggia; e di piazza destinata alla vendita giornaliera del grano, ridurla ad uso di oratorio per opera dello stesso Orgagna, che fu pure autore dellâelaborato tabernacolo, dove nel 1359 quella immagine venne collocata.
Non era appena compito questo ricco e delicato lavoro, quando i capitani della compagnia medesima deliberavano (14 novembre del 1358) di assegnare allâOpera di S. Reparata per la fabbrica della facciata della cattedrale tutto il danaro che la compagnia della Madonna di Or San Michele teneva nel Monte Comune.
Se non che poco dopo, revocando essi in parte quella deliberazione (28 dicembre 1358) limitarono il dono dellâannua offerta di 250 fiorini dâoro per un quinquennio, onde impiegare il denaro restante allâerezione di una cappella sotto la stessa loggia o chiesa di S. Michele in onore di S. Anna, in memoria del giorno, in cui Firenze fu liberata dalla tirannia del duca di Atene. (ARCH. DIPL.
FIOR.Opera di S. M. del Fiore.) Ci richiama allâepoca della conquista di Pisa (anno 1406) una provvisione della Signoria, con la quale destinò a ciascuno deâcollegj delle arti di Firenze una delle nicchie nelle esterne pareti della Torre di Or San Michele, perchè vi facessero collocare le statue di marmo o di bronzo dei loro santi avvocati con lâinsegna respettiva delle arti, nel modo che tuttora si osserva nella base delle varie statue eseguite da Donatello, da Andrea del Verrocchio, da Lorenzo Ghiberti, da Baccio da Montelupo, da Nanni dâAntonio del Bianco, e da Giovan Bologna. Simone da Fiesole fu autore della statua di marmo rappresentante la B. Vergine col santo Bambino, ordinata per lâarte deâMedici e Speziali, che fu dalla nicchia esterna trasportata in chiesa.
Archivio pubblico nella Torre di Or San Michele. âQuelle sale in origine stabilite aâmagazzini dellâannona, furono destinate da Cosimo I a ricevere i piĂš preziosi titoli della proprietĂ dello Stato e dei privati, quando con decreto dei 14 dicembre 1569 ordinò, che di tutti gli atti rogati dai notari fosse conservata una copia originale nellâarchivio pubblico, e che alla morte dei notari venissero trasmessi costĂ i protocolli. âNel 18 luglio 1572 fu decretata la separazione dei protocolli dagli originali, trasportando questi ultimi nellâarchivio del Proconsolo sotto la cura e custodia dei conservatori dellâarchivio pubblico di Or San Michele.
Essendo stato venduto lo stabile del Proconsolo, e trovandosi le stanze surrogate in quella vece poco comode, venne deliberato dal Granduca (ERRATA : Ferdinando I) Cosimo II, nel 27 maggio 1612, il trasporto sopra le logge di Mercato nuovo di tutte le mandate dei pubblici istrumenti originali.
Finalmente con sovrano rescritto del 26 ottobre 1823 fu creato un posto di archivista per la riordinazione degli atti originali posti nella loggia di Mercato nuovo.
Basilica della SS. Annunziata. â Correva il secolo XIV quando lâimmagine della SS. Annunziata dipinta a fresco allâingresso di questo tempio divenne lâoggetto piĂš sacro della devozione dei Fiorentini.
Nel 1262 uno di casa Falconieri aveva giĂ fatto edificare la prima chiesa, la quale in seguito fu ingrandita e adornata di un coro rotondo con una cupola disegnata da Leon Batista Alberti, e finalmente di un portico fatto davanti la facciata, dal Caccini a spese di Roberto Pucci.
Nel 1461 il Michelozzi per ordine di (ERRATA: Piero deâMedici) Cosimo deâMedici eresse la cappella della Beata Vergine a foggia di padiglione, e in questo tempio nel vestibolo e nei chiostri si immortalarono Andrea del Sarto, il Franciabigio, lâEmpoli, il Rosselli e il Pontormo fra i pittori, Baccio Bandinelli e Giuliano da San Gallo fra gli scultori.
Nellâimmenso numero dellâaltre chiese meritano di essere rammentate quella del Carmine per le pitture principalmente di Masaccio e di Masolino da Panicale, rispettate dallâincendio che distrusse quasi per intiero questa chiesa nel 1771; come pure fu rispettata la ricca cappella di S. Andrea Corsini e il mausoleo destinato a Pier Soderini. âMerita pure di esser considerata la chiesa della SS. TrinitĂ , rifatta sul disegno di Niccolò Pisano, meno la facciata col presbiterio, che sono opera di Bernardo Buontalenti; nella quale chiesa la cappella dei Sassetti è tutta dipinta a fresco da Domenico Ghirlandajo.
Nè è da passare in silenzio la vetusta chiesa dei SS.
Apostoli, quelle della Badia, deâSS. Michele e Gaetano, di S. Giovannino delle Scuole Pie, di S. Marco e di S.
Felicita, per tacere di moltissime altre.
PII ISTITUTI DI BENEFICENZA Compagnia della Misericordia, capo dâopera dellâumana caritĂ . âUna societĂ in mezzo alla societĂ , piĂš utile di questa, piĂš zelante, e piĂš disinteressata sarebbe difficile rintracciarla. âFu il suo principio nellâanno 1244 cagionato dalle frequenti pestilenze di quei tempi, che stimolarono deâzelanti cittadini ad associarsi insieme per soccorrere lâumanitĂ neâcasi dâinfermitĂ , o di accidenti fortuiti, accorrendo al primo invito tanto di notte che di giorno (non eccettuati i casi di pestilenza) per trasportare glâinfermi dalle case e dalle pubbliche strade alli spedali, e nel caso di morte improvvisa alla sepoltura. Il popolo fiorentino applaudĂŹ a questâopera, e vi concorse generosamente col servizio della persona, collâelemosine giornaliere, e coi lasciti testamentarj. Forse questo stesso patrimonio volontario e collettizio fu la cagione per cui la compagnia della Misericordia per decreto della Rep.
fiorentina rimase soppressa nel 1425, allorchè si riunĂŹ il titolo con le sue entrate allâaltra compagnia contigua di S.
Maria del Bigallo. Ma i frequenti sconcerti, che accadevano nella cittĂ , per malati o per morti abbandonati, fece meglio comprendere lâutilitĂ e lâimportanza del pio istituto della Misericordia; ed i suoi statuti antichi, sottoscritti nel 1491, inducono a credere, che la predetta compagnia non rimanesse soppressa che per circa 60 anni. Molti privilegj furono concessi a questa filantropica societĂ , tanto sotto la repubblica, quanto sotto la monarchia; in guisa che la caritĂ di questa numerosa e pia congrega conserva costante quel santo zelo ed ardore che diè origine a sĂŹ umano istituto.
Compagnia del Bigallo. â Ciò che fece la caritĂ per la compagnia della Misericordia venne fatto dalla religione militante per lâistituto del Bigallo. âTerminate le sanguinose battaglie contro gli eretici Paterini, circa il 1290, che bandĂŹ fra Pietro da Verona capo di quella milizia sacra, sorse la compagnia di S. Maria del Bigallo, lĂ dove si dipinsero le glorie dei crocesegnati sopra la loggia di Niccolò Pisano, chiamata della Misericordia vecchia. Furono quindi raccomandati alla pietĂ di questa compagnia molti piccoli spedali (circa 200 di numero) sparsi per il contado fiorentino, onde albergarvi infermi e pellegrini. Lo spedale chiamato del Bigallo , nel popolo di S. Quirico a Ruballa, diede alla compagnia il nome che porta.
Tale istituzione, e tanti ospedaletti durarono sino alla metĂ del secolo XVIII, quando cioè lâospitalitĂ cessò di essere un dovere di religione, ma il Granduca Cosimo I aveva riunito alla compagnia del Bigallo anche lâincarico di accogliere gli orfani abbandonati. Il luogo dove questi infelici si riunirono fu dapprima nello spedale di Bonifazio, dappoi nel convento di S. Caterina degli Abbandonati, trasportati infine nello spedale deglâInnocenti.
S. Martino deâBuonomini. â Questa piccola chiesuola situata fra il monastero della Badia di Firenze e le antiche case dei Cerchi, fu fondata nel 986, per uso di parrocchia sotto il governo deâBenedettini della vicina badia. Tale si manteneva allora quando il religioso domenicano fra Antonino, che fu poi il santo arcivescovo fiorentino, nel 1441, pensò di provvedere i poveri vergognosi, e specialmente i cittadini poveri, che non ardivano questuare.
A tale oggetto scelse dodici cittadini di onesto costume, i quali dopo aver ricevuto dal fondatore le costituzioni, adunaronsi da primo in casa di uno di loro, quindi nella chiesa di San Martino del Vescovo, la di cui cura fu poi soppressa nel 1471.
Fra gli obblighi fondamentali di questâistituto avvi quello di dovere alienare qualsiasi fondo lasciato dai benefattori per erogare il prodotto in sollievo dei poveri.
Congregazione di S. Giovan Battista. â Eretta da pie persone, fu confermata nel 1700 dal Sovrano allora regnante, e quindi protetta e ampliata dai RR. Successori, ed in special modo da Leopoldo II felicemente regnante.
Tende essa pure a prevenire la questua somministrando vesti e letta alle miserabili famiglie della cittĂ .
Fra le caritatevoli istituzioni Firenze conta la casa pia di San Filippo Neri, eretta nel 1659 da Filippo Franci per raccogliere i fanciulli erranti ed oziosi per le vie. CosĂŹ la Pia Casa di Lavoro, grandioso e utilissimo asilo, fu aperta nel 1815 per raccogliervi i questuanti, e togliendoli dallâozio, impiegarli in diversi mestieri.
Tali sono le sale infantili che la filantropia di molti cittadini e dame promuove in Firenze per addestrare dalla piĂš tenera etĂ i figliuoli del povero ai buoni costumi.
Non dirò del grandioso arcispedale di Santa Maria Nuova e delle scuole scientifiche ivi nel 1818 aumentate; tacerò dello Spedale degli Innocenti, e dellâaltro di Bonifazio, giacchè a ognun di loro vi sarebbe dâuopo di un lungo articolo.
Appartiene allo stesso genere lâospizio di Orbatello fondato nel 1372 da Niccolò Alberti per ricevere le vittime della seduzione, onde depositarvi il loro feto.
STABILIMENTI DâISTRUZIONE PUBBLICA La via dello Studio fra la canonica del Duomo e la chiesa dei Ricci, e la via della Sapienza fra le due piazze di S.
Marco e della Nunziata, ci rammentano due antichi stabilimenti di pubblica istruzione, che uno aperto a spese della Rep. lâaltro fondato da un illustre cittadino Niccolò da Uzzano.
Non era ancora cessata la gran moria del 1348, allorchè i Fiorentini, pensando di richiamare gente alla loro città , e dilatarla in fama e in onore, operarono sÏ che costà fosse generale Studio di varie scienze, lettere ed arti; cioè in sacra Teologia ; in diritto Canonico; in Giurisprudenza; in Astrologia e Filosofia; in Medicina; nelle Arti e Letteratura.
Era questo studio ridotto alla sola facoltĂ di Teologia, quando Cosimo I nel 1542 assegnò quelle case allâAccademia fiorentina, sino a che questa nel 1784 cedette il posto al collegio dei chierici Eugeniani della Metropolitana per le loro scuole.
Non ebbe miglior fortuna la casa della Sapienza incominciata a fabbricare verso il 1430 da Niccolò da Uzzano, il quale alla sua morte assegnò un fondo cospicuo per mantenimento di 50 scolari poveri. Se non chè lâedifizio restò incompleto, e gli assegnamenti a quel collegio destinati furono dalla Repubblica convertiti in altri usi. Ripararono in parte a questo vuoto i PP. Gesuiti chiamati in Firenze nel 1551 dalla duchessa Eleonora di Toledo moglie di Cosimo I, e con generosa liberalitĂ da quel sovrano e da molti cittadini assistiti. Cosicchè nel 1559 quei Padri diedero principio al Collegio e chiesa di S. Giovannino col disegno e i mezzi di Bartolommeo Ammannato, il quale fu contato liberale che donò quasi tutto il suo patrimonio a quei religiosi, per cui negli ultimi anni di sua vita si ridusse indigente.
Ma i gesuiti non si curavano molto dâistruire i poveri, a favor dei quali vennero dopo 80 anni i compagni del Calasanzio; e fra questi il P. Clemente Settimj, maestro del ch. Viviani, e il P. Franc. Michelini successore di Galileo nello Studio pisano. Infatti i PP. Scolopj introdussero migliori metodi dâistruzione, sĂŹ in letteratura, che nello studio della fisica e delle matematiche.
Dalle case deâCerchi, dove le Scuole Pie furono in origine collocate, passarono nel 1775 nel Collegio dei soppressi Gesuiti a San Giovannino, dove tuttora con gran plauso e profitto della gioventĂš quei religiosi esercitano il loro filantropico ministero.
Allâistruzione ecclesiastica del clero fiorentino provvedono le scuole delle chiese collegiate, e per le scienze sacre i professori del Seminario fiorentino.
Alla prima istruzione elementare riparano tre pubbliche scuole di reciproco insegnamento, e diversi privati istituti.
Dopo annullata la testamentaria volontà di Niccolò da Uzzano, Firenze non ebbe piÚ stabilimento con convito per i studenti; e sebbene nel 1812 si preparava il vasto monastero di Candeli per riempire un tal vuoto in cosÏ vasta città ; pure non resta oggi che il nome di Liceo a quel locale, senzachè principiasse a servire a tal uso.
PiĂš fortunate furono le fanciulle di ogni classe, le quali, oltre le pubbliche scuole dei Quartieri instituite dal G.D.
Pietro Leopoldo, contano in Firenze otto ben forniti Consevatorj, quello Imp. e R. della SS. Annunziata, quelli di Ripoli, delle Mantellate, di S. Agata, degli Angiolini, delle Salesiane, delle Giovacchine, e lâeducatorio di Fuligno.
PALAZZI REGJ IN FIRENZE Il palazzo Vecchio, giĂ della Signoria, situato nella gran piazza chiamata deâSignori, poi del Granduca, fu disegnato da Arnolfo da Colle. La sua torre posante in parte sulli sporti è alta 150 brac.; il gran salone lungo br.
90 e largo br. 37, fu dipinto dal Vasari. La cappella la secondo piano venne pitturata da Domenico Ghirlandajo.
â In questo palazzo trovansi riuniti tutti gli ufizj delle RR.
Segreterie di Stato; quelli delle RR. Possessioni, la R.
Depositeria, lâufizio deâSindacati, la Guardaroba maggiore e la R. Dogana.
Il palazzo Pitti, una delle piĂš magnifiche reggie, fu incominciato nel 1440, da Luca Pitti col disegno del Brunellesco, e nel 1560 per ordine di Cosimo I fu aggiunto il magnifico cortile dellâAmmanato. In seguito Alfonso Parigi aumentò i fianchi dellâedifizio; e il Paoletti per ordine del G. D. Pietro Leopoldo costruĂŹ il quartiere della Meridiana verso Boboli, e cominciò il Rondò a levante della facciata. Finalmente Ferdinando III e Leopoldo II felicemente regnante commisero al R.
architetto Poccianti nuovi grandiosi annessi tanto interni che esterni per accrescere bellezza e armonia a cotesta imponenete mole. Dalla quale mediante un lungo corridore coperto, fatto nel 1564 dal Vasari, si comunica con la R. fabbrica degli Ufizj, e di lĂ col palazzo Vecchio.
Il R. palazzo della Crocetta fu fatto riedificare e ampliare dal G. D. Pietro Leopoldo col R. Casino di S. Marco, e le RR. Scuderie. Due superbi palazzi vennero recentemente dal Governo acquistati, cioè, il palazzo Riccardi, giĂ di casa deâMedici, opera in gran parte dellâarchitetto Michelozzi; e il palazzo detto Non finito, che fu per Roberto Strozzi disegnato dallo Scamozzi, cui il Buontalenti aggiunse la facciata, e il Cigoli il bel cortile.
Per i tanti nobili palazzi dei privati, i di cui fondatori occupano nella storia un posto distinto, rinvierò alle Guide speciali.
POPOLAZIONE della CittĂ di FIRENZE a tre epoche diverse divisa per QUARTIERI (A) QUARTIERE DI S. GIOVANNI - Titolo della parrocchia: Metropolitana di S. Maria del Fiore, giĂ S. Reparata con gli annessi che seguono (1) popolazione del 1745: 1765 popolazione del 1833: 3421 (con annessi) - Titolo della parrocchia: S. Pietro Celoro (2) Soppressa nel 1448 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Andrea in Mercato vecchio Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 330 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Benedetto dalla Canonica Soppressa nel 1771 popolazione del 1745: 153 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Cristofano degli Adimari dietro il Bigallo Soppressa nel 1786 popolazione del 1745: 226 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Maria Nepotecosa, o S.
Donnino deglâAdimari Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 398 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Maria deglâAlberighi (3) Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 221 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Michele delle Trombe Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 131 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: S. Tommaso in Mercato Vecchio Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 145 popolazione del 1833: annesso a S. Maria del Fiore - Titolo della parrocchia: Basilica e insigne Collegiata di S. Lorenzo popolazione del 1745: 12783 popolazione del 1833: 15837 - Titolo della parrocchia: S. Michele Visdomini popolazione del 1745: 3046 popolazione del 1833: 2497 - Titolo della parrocchia: SS. Annunziata, per una porzione della parrocchia trasportata da S. Pier Maggiore (4) Eretta dopo la rovina di S. Pier Maggiore (1783) popolazione del 1745: 2592 popolazione del 1833: 2736 - Titolo della parrocchia: S. Marco evangelista PP. Domenicani popolazione del 1745: 670 popolazione del 1833: 1152 - TOTALE popolazione del 1551: 25680 - Titolo della parrocchia: S. Egidio in S. Maria Nuova Arcispedale popolazione del 1551: 250 popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 335 - Titolo della parrocchia: S. Maria nello Spedale deglâInnocenti, ossia degli Esposti Con lâannesso di S. Caterina degli Abbandonati popolazione del 1551: 127 popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 73 - Titolo della parrocchia: S. Gio. Battista nello Spedale di Bonifazio Con lâannesso di S. Lucia popolazione del 1551: 178 popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 127 - Titolo della parrocchia: S. Maria in Campo Residenza del vescovo di Fiesole popolazione del 1551: - popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 11 - TOTALE abitanti anno 1551: 26235 - TOTALE abitanti anno 1745: 22131 - TOTALE abitanti anno 1833: 26189 (A) La popolazione del 1551 non trovasi distinta per parrocchie, ma solamente per case e Quartieri.
(1) N. B. Nella cura della Metropolitana è compresa la popolazione del Ghetto di 884 abitanti.
(2) Venne ridotta ad uso della Biblioteca della Cattedrale sino a che nel 1680 si convertĂŹ nellâarchivio e adunanza del Capitolo fiorentino, cui serve tuttora.
(3) Una porzione della cura di S. Maria deglâAlberighi toccò alla parrocchia di S. Margherita (4) Lâaltra porzione della parrocchia di S. Pier Maggiore fu data alla cura di S. Giuseppe.
QUARTIERE DI S. MARIA NOVELLA - Titolo della parrocchia: SS. Apostoli, prioria antica con lâannesso di S. Maria sopra Porta popolazione del 1745: 459 popolazione del 1833: 1287 (con annesso) - Titolo della parrocchia: S. Maria sopra Porta in S.
Biagio, antica Prioria Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 634 popolazione del 1833: annesso ai SS. Apostoli - Titolo della parrocchia: S. Gaetano in S. Michele Bertelde, ossia deglâAntinori con gli annessi che seguono popolazione del 1745: 291 popolazione del 1833: 1926 (con annessi) - Titolo della parrocchia: S. Miniato fra le Torri Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 246 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Maria Ughi Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 224 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Donato deâVecchietti Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 301 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Leone nella Piazza deâBrunelleschi Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 211 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Maria in Campidoglio Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 76 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Piero Buon Consiglio Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 268 popolazione del 1833: annesso a S. Gaetano - Titolo della parrocchia: S. Maria Maggiore, con lâannesso che segue popolazione del 1745: 870 popolazione del 1833: 1033 (con lâannesso dellâantica prioria di S. Ruffillo sulla Piazzetta dellâOlio) - Titolo della parrocchia: antica prioria di S. Ruffillo sulla Piazzetta dellâOlio Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 70 popolazione del 1833: annesso a S. Maria Maggiore - Titolo della parrocchia: S. Maria Novella PP. Domenicani popolazione del 1745: 2502 popolazione del 1833: 3153 - Titolo della parrocchia: SS. TrinitĂ con lâannesso che segue PP. Vallombrosani popolazione del 1745: 1216 popolazione del 1833: 2955 (con lâannesso di S.
Pancrazio) - Titolo della parrocchia: S. Pancrazio Soppressa nel 1809 popolazione del 1745: 1520 popolazione del 1833: annesso alla SS. TrinitĂ - Titolo della parrocchia: S. Salvadore in Ognissanti (con lâannesso di S. Paolo dei PP. Teresiani, giĂ prioria - soppressa nel 1619) Eretta nel 1619 PP. Francescani popolazione del 1745: 2700 popolazione del 1833: 3115 - Titolo della parrocchia: S. Lucia sul Prato popolazione del 1745: 4644 popolazione del 1833: 5043 - TOTALE popolazione del 155: 10336 - Titolo della parrocchia: S. Giovanni Battista nella Fortezza da Basso Cura di Militari popolazione del 1551: 300 popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 1287 - TOTALE abitanti anno 1551: 10636 - TOTALE abitanti anno 1745: 14231 - TOTALE abitanti anno 1833: 19924 QUARTIERE DI S. SPIRITO - Titolo della parrocchia: S. Frediano in Castello, Collegiata popolazione del 1745: 5302 popolazione del 1833: 10288 (con parte della cura di S.
Maria in Verzaja) (5) - Titolo della parrocchia: S. Maria in Verzaja Soppressa nel 1784 popolazione del 1745: 2160 popolazione del 1833: annesso in parte a S. Frediano in Castello e in parte a S. Maria al Pignone - Titolo della parrocchia: S. Felicita (con lâannesso dellâantica Prioria di S. Jacopo soprâArno â Soppressa nel 1575) popolazione del 1745: 2373 popolazione del 1833: 3645 - Titolo della parrocchia: S. Felice in Piazza popolazione del 1745: 3369 popolazione del 1833: 5085 - Titolo della parrocchia: S. Piero in Gattolino popolazione del 1745: 1214 popolazione del 1833: 1799 - Titolo della parrocchia: S. Niccolò oltrâArno, Prioria popolazione del 1745: 1911 popolazione del 1833: 2253 - Titolo della parrocchia: S. Lucia deâMagnoli con lâannesso che segue popolazione del 1745: 479 popolazione del 1833: 1031 (con lâannesso di S. Maria soprâArno) - Titolo della parrocchia: S. Maria soprâArno Soppressa nel 1785 popolazione del 1745: 240 popolazione del 1833: annesso a S. Lucia deâMagnoli - Titolo della parrocchia: S. Spirito, ossia S. Giorgio sulla Costa popolazione del 1745: 733 popolazione del 1833: 957 - Titolo della parrocchia: S. Maria nella Fortezza di Belvedere Cura di Militari popolazione del 1745: - popolazione del 1833: 374 - TOTALE abitanti anno 1551: 14680 - TOTALE abitanti anno 1745: 17781 - TOTALE abitanti anno 1833: 25432 (5) La porzione della cura di S. Maria in Verzaja fuori di porta S. Frediano fu data alla parrocchia nuova di S.
Maria al Pignone.
QUARTIERE DI S. CROCE - Titolo della parrocchia: S. Michele in Orto, Prepositura con i due annessi seguenti popolazione del 1745: 750 - Titolo della parrocchia: S. Romolo in Piazza Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 450 - Titolo della parrocchia: S. Bartolommeo in via Caciajoli Soppressa nel 1768 popolazione del 1745: 337 - Totale popolazione di S. Michele in Orto e annessi: - Titolo della parrocchia: S. Stefano al Ponte con i due annessi seguenti popolazione del 1745: 1397 popolazione del 1833: 1201 (con gli annessi di S. Cecilia in Vacchereccia e S. Pietro Scheraggio) - Titolo della parrocchia: S. Cecilia in Vacchereccia Soppressa nel 1783 popolazione del 1745: 163 popolazione del 1833: annesso a S. Stefano al Ponte - Titolo della parrocchia: S. Pietro Scheraggio Soppressa nel 1561 popolazione del 1745: annesso a S. Stefano al Ponte popolazione del 1833: annesso a S. Stefano al Ponte - Titolo della parrocchia: S. Remigio, Prioria antica con lâannesso di S. Firenze popolazione del 1745: 1598 popolazione del 1833: 2520 (con lâannesso di S. Firenze) - Titolo della parrocchia: S. Firenze Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 315 popolazione del 1833: annesso a S. Remigio - Titolo della parrocchia: S. Stefano della Badia con gli annessi di S. Martino del Vescovo in parte (6) e S.
Apollinare PP. Benedettini popolazione del 1833: 929 (con gli annessi) - Titolo della parrocchia: S. Martino del Vescovo Soppressa nel 1471 popolazione del 1745: annesso a S. Stefano della Badia popolazione del 1833: annesso a S. Stefano della Badia - Titolo della parrocchia: S. Apollinare Soppressa nel 1755 popolazione del 1745: 607 popolazione del 1833: annesso a S. Stefano della Badia - Titolo della parrocchia: S. Margherita nella Madonna deâRicci con lâannesso di SS. Proclo e Nicodemo (7) e S.
Maria deglâAlberighi per una porzione (8) Traslocata nellâanno 1834 popolazione del 1745: 215 popolazione del 1833: 1023 (con gli annessi) - Titolo della parrocchia: SS. Proclo e Nicodemo Soppressa nel 1788 popolazione del 1745: 307 popolazione del 1833: annesso a S. Margherita nella Madonna deâRicci - Titolo della parrocchia: S. Maria deglâAlberighi Soppressa nel 1769 popolazione del 1745: 400 popolazione del 1833: annesso a S. Margherita nella Madonna deâRicci - Titolo della parrocchia: S. Simone, Prioria antica popolazione del 1745: 2289 popolazione del 1833: 1875 - Titolo della parrocchia: S. Jacopo tra i Fossi, Prioria antica popolazione del 1745: 1283 popolazione del 1833: 1941 - Titolo della parrocchia: S. Ambrogio, Prioria antica popolazione del 1745: 4771 popolazione del 1833: 6937 - Titolo della parrocchia: S. Giuseppe delle Conce Eretta nel 1784 opolazione del 1745: 4492 popolazione del 1833: 5259 - Titolo della parrocchia: S. Ferdinando nella Pia Casa di Lavoro Eretta nel 1815 opolazione del 1745: - popolazione del 1833: 832 - TOTALE abitanti anno 1551: 9122 - TOTALE abitanti anno 1745: 19374 - TOTALE abitanti anno 1833: 24382 (6) La cura di S. Martino fu aggregata a quella di S.
Procolo, e il suo locale ceduto alla congregazione dei XII Buonomini nel 1471.
(7) La cura di S. Procolo fu data a S. Stefano da Badia.
(8) Altra porzione fu annessa alla Metropolitana.
(9) Instituita con la porzione orientale della distrutta parrocchia e chiesa di S. Pier Maggiore.
RICAPITOLAZIONE di tutta la popolazione della cittĂ di FIRENZE distribuita per QUARTIERI 1° Quartiere di S. Giovanni - abitanti anno 1551: 26235 - abitanti anno 1745: 22131 - abitanti anno 1833: 26189 2° Quartiere di S. Maria Novella - abitanti anno 1551: 10636 - abitanti anno 1745: 14231 - abitanti anno 1833: 19924 3° Quartiere di S. Spirito - abitanti anno 1551: 14680 - abitanti anno 1745: 17781 - abitanti anno 1833: 25432 4° Quartiere di S. Croce - abitanti anno 1551: 9122 - abitanti anno 1745: 19374 - abitanti anno 1833: 24382 - TOTALE abitanti anno 1551: 60773 - TOTALE abitanti anno 1745: 73517 - TOTALE abitanti anno 1833: 95927 MOVIMENTO della Popolazione della CITTAâ di FIRENZE dallâanno 1818 sino a tutto aprile 1836.
-ANNO 1818 POPOLAZIONE: n° 82,739 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1642; femmine n° 1503; totale n° 3145 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1504; femmine n° 1597; totale n° 3101 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 700 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 888 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1819 POPOLAZIONE: n° 82,984 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1759; femmine n° 1777; totale n° 3536 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1609; femmine n° 1677; totale n° 3286 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 791 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 828 CENTENARJ: n° - -ANNO 1820 POPOLAZIONE: n° 83,306 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1856; femmine n° 1800; totale n° 3656 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1493; femmine n° 1472; totale n° 2965 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 763 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 827 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1821 POPOLAZIONE: n° 84,791 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1831; femmine n° 1743; totale n° 3574 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1698; femmine n° 1758; totale n° 3456 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 719 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 753 CENTENARJ: n° - -ANNO 1822 POPOLAZIONE: n° 85,249 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1931; femmine n° 1718; totale n° 3649 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1661; femmine n° 1640; totale n° 3301 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 730 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 800 CENTENARJ: n° - -ANNO 1823 POPOLAZIONE: n° 86,976 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1934; femmine n° 1841; totale n° 3775 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1450; femmine n° 1473; totale n° 2923 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 708 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 858 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1824 POPOLAZIONE: n° 88,088 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1891; femmine n° 1802; totale n° 3693 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1569; femmine n° 1607; totale n° 3176 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 720 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 807 CENTENARJ: n° - -ANNO 1825 POPOLAZIONE: n° 89,373 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1861; femmine n° 1854; totale n° 3715 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1626; femmine n° 1633; totale n° 3259 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 823 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 790 CENTENARJ: n° - -ANNO 1826 POPOLAZIONE: n° 90,423 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1974; femmine n° 1882; totale n° 3856 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1562; femmine n° 1568; totale n° 3130 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 756 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 865 CENTENARJ: n° - -ANNO 1827 POPOLAZIONE: n° 90,930 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1950; femmine n° 1958; totale n° 3908 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1526; femmine n° 1682; totale n° 3208 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 702 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 884 CENTENARJ: n° - -ANNO 1828 POPOLAZIONE: n° 92,362 NUMERO DEI NATI: maschi n° 2017; femmine n° 1789; totale n° 3806 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1826; femmine n° 1715; totale n° 3541 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 736 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 881 CENTENARJ: n° - -ANNO 1829 POPOLAZIONE: n° 92,763 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1856; femmine n° 1765; totale n° 3621 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1591; femmine n° 1589; totale n° 3180 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 685 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 790 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1830 POPOLAZIONE: n° 93,437 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1778; femmine n° 1760; totale n° 3538 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1576; femmine n° 1532; totale n° 3108 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 724 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 772 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1831 POPOLAZIONE: n° 94,156 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1896; femmine n° 1949; totale n° 3845 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1654; femmine n° 1632; totale n° 3286 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 709 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 838 CENTENARJ: n° - -ANNO 1832 POPOLAZIONE: n° 94,519 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1847; femmine n° 1842; totale n° 3689 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1720; femmine n° 1692; totale n° 3412 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 726 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 864 CENTENARJ: n° - -ANNO 1833 POPOLAZIONE: n° 95,927 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1920; femmine n° 1770; totale n° 3690 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 2428; femmine n° 2517; totale n° 4945 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 695 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 862 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1834 POPOLAZIONE: n° 96,240 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1971; femmine n° 1916; totale n° 3887 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1518; femmine n° 1632; totale n° 3150 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 779 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 890 CENTENARJ: n° 1 -ANNO 1835 POPOLAZIONE: n° 97,201 NUMERO DEI NATI: maschi n° 1872; fe mmine n° 1857; totale n° 3729 NUMERO DEI MORTI: maschi n° 1698; femmine n° 1866; totale n° 3564 NUMERO DEI MATRIMONJ: n° 766 NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° 901 CENTENARJ: n° - -ANNO 1836 POPOLAZIONE: n° 97,648 (fino al 30 aprile del 1836) NUMERO DEI NATI: maschi n° âŚ; femmine n° âŚ; totale n° ⌠NUMERO DEI MORTI: maschi n° âŚ; femmine n° âŚ; totale n° ⌠NUMERO DEI MATRIMONJ: n° ⌠NUMERO DEI NATI DA IGNOTI GENITORI: n° ⌠CENTENARJ: n° ⌠DIOCESI DI FIRENZE Non essendoci di alcun vescovo fiorentino prima del secolo IV memoria che fermamente chiara e certa si possa dire, ragion vuole che si cominci dal vescovo Felice, il quale nellâanno 313 assistè al Concilio romano adunato per causa dei Donaziani. Essendochè (dirò col Borghini, e con molti altri dotti scrittori della chiesa fiorentina) di quel vescovo Frontino, del quale parlano alcuni come di un discepolo di S. Pietro Apostolo, e da lui specialmente mandato in Toscana con Paolino e con Romolo loro compagni a predicare la fede di GesĂš Cristo, non si trovano scritture nè autoritĂ che sembrino potere con sicurezza affermarlo, onde pigliare il principio della diocesi fiorentina dal primo secolo del Cristianesimo. Il piĂš antico adunque che si trovi tra i vescovi di Firenze, è quel Felice di sopra nominato, dopo del quale per circa 60 anni non sâincontrano notizie sicure di altri vescovi suoi successori sino al glorioso S. Zanobi. Arroge a ciò che il piĂš delle volte nei primi secoli solevano quei gerarchi prendere il titolo del loro vescovado da quello della chiesa matrice o cattedrale in cui sedevano, nel modo che lo usarono in Toscana i prelati di Arezzo, di Lucca, di Fiesole, di Volterra, ec. Uno dei piĂš vetusti esempj a prova di tal vero lo forniscono per la diocesi fiorentina molte pergamene del suo archivio, a partire da quella dellâanno 723, nella quale Specioso si qualifica vescovo dellâepiscopio e chiesa matrice di S. Giovanni. CosĂŹ in due istrumenti, uno del 4 agosto 967 sotto il vesc. Sichelmo, lâaltro del 5 febbrajo 990 sotto il vesc. S. Podio, si rammenta il Duomo di S. Giovanni, ubi Sichelmus (nel primo) et Dominus Podius (nel secondo) tunc erat Episcopus. Unâaltra membrana del settembre 972 nomina Domum Episcopalem Sancti Joannis intra civitatem Florentiae. Per egual modo nella fondazione della badia di S. Miniato al Monte, fatta nel 1013 dal vescovo Ildebrando, quel gerarca si sottoscrisse: Ildebrandus Sancti Jannis servus et indignus Episcopus. Ă altresi vero che la pieve di S. Reparata (ora S. Maria del Fiore) a partire dal secolo XI sembra che acquistasse il privilegio di concattedrale, mentre il vescovo Ildebrando nella carta dellâanno 1013 poco sopra rammentata si qualifica Episcopus Sancti Joannis vel Sanctae Reparatae, nel modo istesso che per atto pubblico del 15 gennajo 1040, rogato in Signa, si offrono terreni alla chiesa e canonica del Duomo di S. Giovanni e di S. Reparata. (LAMI, Monum. Eccles. Flor. passim.) Che veramente la chiesa del Battista fosse la prima sede e la cattedrale dei vescovi di Firenze si può eziandio argomentarlo dallâantica consuetudine che avevano i nuovi eletti di cantare la prima messa in quel tempio, mentre costĂ tamquam in suum stallum entravano a prenderne il possesso (l. c.). In conseguenza di ciò, e a buon diritto, il sommo poeta chiamava ovile di S. Giovanni la cittadinanza fiorentina, e a Firenze la cittĂ del Battista. In cotanta venerazione ed amore era tenuto il nome di S. Giovanni dal popolo fiorentino, che nei primi secoli dopo il mille le terre e le castella, i magnati di contado e altri signori, quando volevano sottomettere essi e le loro sostanze al Comune di Firenze, dichiaravano di farlo, non a favore della cittĂ nè deâsuoi magistrati, ma sivvero a onore di S. Giovanni, cui promettevano lâofferta di un annuo tributo. Cosicchè il santo precursore di G. Cristo scritto consideravasi dai fiorentini nella stessa guisa che per il dominio e cittĂ di Venezia era riguardato il S. Marco. Ma lasciando a parte coteste cose, mi limiterò piuttosto a dire di ciò che piĂš direttamente giova a far conoscere lâantico e moderno perimetro della diocesi in discorso. Quando peraltro dico perimetro antico non intendo giĂ di risalire al primitivo stato, in cui Firenze venne alla fede di Cristo, e nè anche partirmi dalla meno dubbiosa serie dei suoi vescovi, quando cioè la capitale della Toscana contava una diocesi sua propria. Imperocchè, ammessa anche per verisimile lâopinione del sopralodato Borghini, che i termini, cioè, della giurisdizione ecclesiastica di Firenze, fossero i medesimi di quelli del territorio che fu consegnato ai coloni fiorentini sotto i Triumviri, ossia nei primi anni dellâImpero di Ottaviano, pure non conoscendo qual modificazione territoriale posteriormente sia avvenuta fra lâEsarcato di Ravenna e la Toscana, non possiamo tampoco sapere, se a quellâetĂ la diocesi di Firenze oltrepassasse la catena dellâAppennino, e quindi penetrasse, come ora si vede, nelle valli del Senio e del Santerno. Tanto piĂš lo danno a dubitare i documenti di Ravenna, dai quali risulta, che anche dopo lâepoca Longobarda (durante la quale dominazione vennero tolti varii paesi e terreni al greco esarcato e alla metropoli Ravennate) il giogo dellâAppennino, sino almeno al secolo IX avanzato, serviva di limite alla giurisdizione della Romagna; essendo che allora questa continuava a estendere il suo dominio usque ad jugum Alpium finibus Thusciae (FANTUZZI, Mon. Ravenn. Carta degli 8 settembre 896). Comunque sia di quella parte di territorio transappennino, in cui si vede inoltrata la diocesi fiorentina, fatto stĂ che a di lei favore su questo rapporto non si contano, se io non mâinganno, memorie valevoli a contestare unâantichitĂ che risalga piĂš indietro del secolo XI. Poste tali considerazioni, ne consegue che non si può con sicurezza dedurre dai confini piĂš anticamente conosciuti della diocesi di Firenze, quali fossero quelli della fiorentina colonia; e che perciò ognun che non voglia pescare fra le cronache favolose, debba limitarsi piuttosto ai fatti meno controversi, e confacenti a dimostrare il distretto di questa diocesi ecclesiastica innanzi che ad essa venisse tolto il piviere di Poggibonsi per darlo a quella piĂš moderna eretta in Colle, e prima che la nostra fosse stata aumentata di varie chiese transapennine appartenute alla diocesi di Bologna e dâImola. Io non tornerò a far parola del piviere dâEmpoli, che alcuni dissero una volta compreso nella diocesi di Pisa, giacchè ne fu bastantemente discorso allâarticolo di quella Terra del Val dâArno inferiore. CosĂŹ allâarticolo FIESOLE fu accennato, che la cattedrale fiesolana con 22 parrocchie della stessa diocesi trovansi circondate dalla fiorentina in guisa di lasciare il poggio ed i contorni dellâetrusca cittĂ di Fiesole isolati dal restante del suo antico contado e giurisdizione. Premesse tali avvertenze speciali, dico, che la diocesi fiorentina attualmente confina con 9 vescovati; cioè, a levante e scirocco con la diocesi di Fiesole; a ostro con quella di Colle; a ostro libeccio con la diocesi di Volterra ; a libeccio con quella di Samminiato; a ponente e maestro con i vescovati di Pistoja e di Prato; a settentrione con quelli di Bologna e dâImola; e a grecale con la diocesi di Faenza . Verso levante e scirocco la diocesi di Firenze costeggia con quella di Fiesole, a partire dal giogo dellâAppennino di Belforte sopra il Passo delle Scalette, scendendo di lĂ per lo sprone che divide il valloncello di Corella da quello di S. Bavello sino alla confluenza del torrente Dicomano in Sieve, quindi seguitando la corrente di questo fiume sbocca sotto al Pontassieve in Arno, il cui corso seconda sino al fosso di Rosano. CostĂ trapassa alla sinistra dellâArno per salire sui poggi a Luco e dellâIncontro, e di lĂ inoltrasi sino sul dorso di quello di S. Donato in Collina , di dove retrocede piegando da levante a scirocco per dirigersi in Val dâEma alle falde di Cintoja. Di costĂ cavalca in Val di Greve passando questo fiumicello tra Vicomaggio e Citille, quindi penetra in Val di Pesa, il di cui fiume attraversa di contro a Sicelle. QuĂ rimontando il torrente Cerchiajo sale i poggi occidentali del Chianti sino al loro vertice, dove cessa la Valle di Pesa e si apre quella dellâElsa. Su questa sommitĂ cessa la diocesi di Fiesole e subentrano gli antichi confini della diocesi di Siena, ora di Colle, coi quali la fiorentina passa a contatto del piviere di S. Agnese del Chianti. Serve di limite allâuna e allâaltra diocesi il torrente Drove, che penetra nel piviere e comunitĂ di Poggibonsi, staccato dalla diocesi fiorentina sino dallâanno 1592. (Vedere COLLE dioc.) Giunta laddove al fiume Elsa si marita il torrente Avane, la diocesi fior. lascia dal lato dâostro quella di Colle, alla quale sottentra dal lato di libeccio la volterrana; con questa si accompagna lungo lo stesso fiume Elsa sino a che fra le tenute di Meleto e di Canneto entra a confine dal lato di libeccio la diocesi di Sanminiato. Questâultima presso al ponte a Elsa passa alla destra del fiume per abbracciare dentro al suo perimetro i popoli della BastĂŹa e di Marcignana, e vicino al ponte nuovo arriva sullâArno. CostĂ volgendo la faccia da libeccio a maestro rimonta la sponda destra dell'Arno di conserva con la diocesi di Sanminiato che stĂ sulla destra ripa, e la fiorentina alla sinistra, sino di fronte alla confluenza del torrente Strido nell'Arno. Quivi la fiorentina oltrepassa questo fiume per arrivare sulle colline di Petrojo e di Spicchio e di lĂ al villaggio di Limite, confine della moderna diocesi di Sanminiato un tempo di Lucca, e sin dove si estende uno dei lembi della diocesi di Pistoja; la quale ultima arriva sul fiume Arno rimontandolo unitamente a quella di Firenze tra Montelupo e Capraja, di lĂ per la gola della Golfolina giunge per le pendici di Artimino presso a Signa. A questo punto la diocesi di Firenze ripassa alla destra dell'Arno per inoltrarsi dentro terra lungo la strada da Lecore a Mezzana, dove sottentra la diocesi di Prato in continuazione di quella di Pistoja, e con essa, approssimandosi al pomerio orientale della cittĂ di Prato, rimonta il fiume Bisenzio, mercè cui confinano le due diocesi sino presso al Mercatale di Vernio. CostĂ quella fiorentina abbandona a ponente il Bisenzio per salire sulla pendice occidentale del poggio di Mangona, di dove inoltrasi per il vallone della Stura nell'Appennino dello Stale, e di lĂ dietro al Sasso di Castro ove incontra la diocesi di Bologna, con la quale la fiorentina confina dal lato di settentrione fra Monte Beni e Montoggioli , donde si avanza sul giogo della Radicosa sino alla dogana delle Filigare, e di lĂ per i poggi che dividono le acque del fiume Idige da quelle del Sillaro, e la diocesi di Bologna dal vescovado d'Imola. Con quest'ultima diocesi la fiorentina gira intorno all'Appennino di Piancaldoli con la faccia a grecale, e quindi attraversando la valle del Santerno entra in quella superiore del Senio, che percorre sino al monte Gambaraldi. Sulla sommitĂ di questa montagna trova la diocesi Faenza, con la quale la nostra di Firenze, piegando da grecale a levante, retrocede verso la Colla di Casaglia sull'Appennino che separa il Mugello e l'antica Toscana dalla Romagna, dopo esser passata per un contrafforte settentrionale formato dai monti di Pravaligo e di Calzolano, col quale sorpassa la caduta del torrente di Valbura . Dal giogo di Casaglia, seguitando la criniera dell'Appennino nella direzione da maestr. a scirocco cammina insieme con la stessa diocesi Faentina sino al Passo delle Scalette o di Belforte, nella cui pendice meridionale ritrova il vescovato di Fiesole. La diocesi fiorentina negli ultimi secoli non ha sofferto se non che piccole variazioni, mentre nel 1592, se essa perdette il piviere di Poggibonsi per darlo alla diocesi di Colle, nel 1785 acquistò quattro parrocchie transappennine, tre delle quali (Bruscoli, Pietramala e Cavrenno) staccaronsi dalla diocesi di Bologna, e una (Piancaldoli) da quella d'Imola. Finalmente nel 1795 fu fatta una permuta fra Firenze e Fiesole della parrocchia di Trespiano, che la diocesi fiesolana cedè alla fiorentina, ricevendo in cambio la cura di S. Martino a Mensola. Il vescovato in discorso conta attualmente 474 parrocchie, 28 delle quali dentro la cittĂ con due collegiate, oltre la metropolitana. Ha sotto di sè 61 pievi, quattro delle quali sono decorate di collegiate; e sono, Empoli, Castel Fiorentino, San Casciano e l'Impruneta. Si noverano 28 conventi di Regolari, 16 dei quali in cittĂ , 5 nel suburbio, e 7 nel contado. Vi si conservano 19 monasteri di donne in cittĂ , 4 dei quali nei suburbj, oltre 11 Conservatorj che uno di essi è fuori di cittĂ , in tutte 770 monache; a differenza che all'epoca della chiusura del Concilio di Trento si enumerarono dentro Firenze 3823 monache ripartite in 47 monasterj; e per la diocesi, compresi i suburbj della cittĂ , 14 monasteri con 970 monache.
â Vi sono due seminarj, uno dentro la cittĂ , l'altro a Firenzuola di lĂ dall'Appennino.
Nel 1420 la cattedrale fiorentina fu dichiarata metropolitana con bolla del pontefice Martino V, e il vescovo Amerigo di Filippo di Tommaso Corsini, nel 12 dicembre dello stesso anno, stato insignito in Roma del pallio sacro, fu il primo che incominciò la serie degli arcivescovi fiorentini. In seguito vennero destinati per suffragenei del metropolitano fiorentino i vescovi di Fiesole, Pistoja, Prato, San Sepolcro, Colle, e Sanminiato.
Nella serie dei vescovi fiorentini, che sopra gli altri figurassero per santità , prudenza e dottrina, sono da annoverarsi il glorioso San Zanobi secondo patrono della città , San Podio, Giovanni da Velletri, il vescovo Gherardo che fu pont. sotto nome di Niccolò II; frate Angelo Acciajoli e il cardinale dello stesso nome e casato; Pietro Corsini cardinale e politico insigne; il vescovo Antonio d'Orso, che esortò ed animò i Fiorentini alla difesa della patria, quando era minacciata dall'Imperatore Arrigo VII. Nel novero poi degli arcivescovi della stessa diocesi precede tutti gli altri per virtÚ e dottrina il nostro Santo Antonino, per rinomanza Giulio, e Alessandro de'Medici, entrambi i quali salirono sulla cattedra di S.
Pietro, uno col nome di Clemente VII, l'altro di Leone XI, Tommaso de'Conti della Gherardesca, Francesco Maria Incontri, Antonio Martini, oltre a moltissimi altri virtuosi e zelanti prelati che sederono sulla stessa cattedra.
COMPARTIMENTO DI FIRENZE La città di Firenze non ebbe negli antichi tempi un molto vasto contado; giacchè il suo distretto non si può dedurre, siccome è stato qui sopra avvertito, dall'estensione della diocesi ecclesiastica.
Contentandoci adunque di prendere le notizie dai tempi meno oscuri, fa duopo partire dall'epoca in cui la Rep.
fiorentina incominciò a fare registrare regolarmente i suoi decreti, o Riformagioni.
Quando il Comune di Firenze estendeva il suo dominio su i paesi assoggettati per via di armi, oppure mediante capitolazioni, il territorio in tal guisa acquistato faceva parte del distretto fiorentino; il quale distretto trattavasi quasi nel modo istesso che la Rep. Romana usava rispetto ai municipj, cui lasciava il diritto di eleggere i magistrati proprj, e quello di far uso di statuti e leggi loro parziali, variando però nella qualità de'tributi e per altre prerogative di cittadinanza. Altronde gli abitanti del contado fiorentino non erano, come quelli del distretto, capitolati nè conquistati, ma sivvero consideravansi come i cittadini e gli abitanti della capitale con eguali privilegj, diritti ed esenzioni, siccome Roma usava verso le colonie di diritto romano.
La stessa ripartizione materiale della cittĂ di Firenze, divisa prima in Sestieri, poi in Quartieri, venne applicata egualmente al contado fiorentino. La qual divisione servĂŹ sotto la Rep. fior. quasi sempre di norma all'amministrazione della giustizia, quando le cause del contado si portavano e discutevano davanti i giudici assessori o collaterali del potestĂ , e innanzi che s'instituissero i vicariati di S. Giovanni, di Scarperia, e di Certaldo, i quali ultimi, in vigore della legge del 1423, ebbero in certi casi ripartitamente la giurisdizione criminale sopra le comunitĂ del contado fiorentino a partire dalle porte di Firenze.
Per tal guisa spettava al Quartiere di S. Giovanni la porzione del contado posta alla destra dell'Arno sopra Firenze, cominciando dalle chiese suburbane fra la porta S. Gallo e l'Arno. Cosicchè dalla comunitĂ di Fiesole innoltravasi per Pontassieve, e di lĂ per Cascia e Piandiscò nel Val dâArno superiore sino a Terranuova e Loro; mentre nel Valdarno del Casentino non abbracciava che le ComunitĂ di Raggiolo e di Castel S. Niccolò, situate nella cosĂŹ detta Montagna fiorentina .
Il Quartier di S. Croce comprendeva la porzione del contado posta alla sinistra dell'Arno sopra a Firenze, a partire dalle chiese suburbane situate fra la porta Romana e quella di S. Niccolò, e di là rimontando le Valli di Ema e di Greve, e quindi quella della Pesa, giungeva nel Chianti sino sopra Brolio dove varcava in Val d'Ambra per arrivare con quel fiume in Arno sopra Montevarchi.
Il Quartiere di S. Maria Novella comprendeva il contado alla destra dell'Arno sotto a Firenze, a partire dalle cure suburbane fra la porta S. Gallo e porta al Prato, abbracciava i pivieri di S. Stefano in Pane, di Cercina e di Maccioli donde per Monte Senario entrava in Mugello, e oltrepassava il giogo di Scarperia scendendo per l'Alpi cosĂŹ dette fiorentine o di Firenzuola. Da quel punto retrocedeva per lo Stale e per Mangona nella valle del Bisenzio, che attraversava sui confini della comunitĂ di Prato, passando a settentrione di Montemurlo e di lĂ fra Tizzana e la ComunitĂ di Carmignano calava nel Val d'Arno inferiore per il Mont'Albano sino all'Arno presso Fucecchio.
Il contado del Quartiere di S. Spirito comprendeva tutti i popoli suburbani fra la porta Romana e la porta S.
Frediano, rasentando la ripa sinistra dell'Arno sino presso la bocca di Elsa, escluso tutto il territorio distrettuale di Sanminiato. ColĂ rimontando il fiume Elsa, comprendeva alla sua sinistra i Comunelli di Catignano e di Gambassi con tutto il territorio di Montajone e di Barbialla in Val d'Evola, punto il piĂš remoto del contado fiorentino. Di costassĂš ripiegando verso la Val d'Elsa ritornava per il territorio di Castel fiorentino a Certaldo, e di lĂ si estendeva fra le comunitĂ di S. Gimignano e di Colle con quella di Poggibonsi, ultima Terra dell'antico contado fiorentino dal lato d'ostro.
Tutti gli altri paesi terre e cittĂ assoggettate alla Repubblica fiorentina facevano parte del suo distretto, fra le quali le cittĂ di Arezzo col suo contado, di Borgo S.
Sepolcro, di Colle, di Cortona, di Montepulciano, di Prato, di Pistoja, di Pescia e di Volterra, oltre le Terre di Val di Nievole, di San Gimignano, del Casentino e di quelle della Romagna granducale.
Con motuproprio del 22 giugno 1769, allorchè fu eretta la Camera delle ComunitĂ del Granducato, vennero ad essa assegnate molte di quelle attribuzioni, che nei tempi andati erano ripartite fra i Capitani di parte Guelfa , i Nove Conservatori del Dominio fior. e gli Ufiziali dei fiumi. âPosteriormente con il regolamento generale dei 23 maggio 1774 furono organizzate e meglio sistemate le attribuzioni delle comunitĂ comprese nel contado fiorentino; le quali comunitĂ subirono una riforma durante l'occupazione straniera, sino a che il regolamento del 1774 fu ripristinato dalla legge deâ27 giugno 1814; e finalmente comparve il motuproprio del primo novembre 1825, col quale furono staccate 15 comunitĂ dal Compartimento senese, e 40 da quello fiorentino, onde costituire una quinta Camera di soprintendenza comunitativa da risiedere in Arezzo.
Il Compartimento fiorentino attualmente è composto di 90 comunità comprese in 28 cancellerie, e in 14 de'18 circondarj, nei quali è diviso il Granducato rapporto all'ufizio degl'ingegneri delle acque e strade.
La superficie territoriale del Compartimento di Firenze occupa 1,799018,65 quadrati di misura agraria, pari a miglia 2241. La sua popolazione nel 1833 ascendeva a 681083 abitanti, calcolati nella proporzione media di 304 persone per ogni miglio quadrato. Da questa stessa superficie però restano a defalcarsi 67814 quadrati, (circa miglia 84 e 1/3) occupati da corsi di acque e da pubbliche strade, e quindi esenti dall'imposizione fondiaria.
Il suo perimetro attuale abbraccia le valli transappennine del Granducato, a partire da grecale dalla Valle del Savio, o di Bagno, sino alla Valle del Reno, verso maestro. Di quà dall'Appennino comprende il territorio pistojese e la regione del Mugello girando dalla giogana della Falterona sopra i monti della Consuma e di Vallombrosa. Da quella sommità fra Reggello e Pian di Scò scende in Arno che attraversa fra S. Giovanni e Figline per varcare presso al giogo di Monte Scalari in Val di Greve, e indi in quella di Pesa sino a che a S. Donato in Poggio entra in Val d'Elsa, rasentando i confini orientali della Comunità di Barberino di Val d'Elsa e di Certaldo. Colà oltrepassa l'Elsa fra la Comunità di San Gimignano che lascia al Compartimento senese, e quella di Montajone che abbraccia penetrando in Val d'Era lungo i confini settentrionali della Comunità di Volterra. Di là inoltrasi in Val di Cecina fra la Comunità di Pomarance del Compartimento pisano e quella di Montecatini di Val di Cecina, con la quale ritorna in Val d'Era a ritrovare i limiti occidentali delle Comunità di Volterra e di Montajone, di Sanminiato e di Montopoli, per modo che arriva col torrente della Cecinella in Arno.
Da questa confluenza scende lo stesso fiume lungo la destra sponda sino alla Navetta di Calcinaja, che lascia al Compartimento pisano, e Montecalvoli che abbraccia nel suo perimetro insieme con S. Maria in Monte, Monte Carlo, Pescia, e tutte le terre della Val di Nievole, in guisa che per Vellano ritrova sulla montagna di Pistoja i confini del Compartimento fiorentino e nel tempo stesso quelli del Granducato.
PROSPETTO della ComunitĂ del COMPARTIMENTO FIORENTINO distribuito per Cancellerie.
- Capoluogo di CANCELLERIA: 1. BAGNO, Cancell.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del Savio Superficie territoriale in quadrati: 66386,35 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6399 - Capoluogo di Comunità : Sorbano Valle in cui si trova il Capoluogo: Valle del Savio Superficie territoriale in quadrati: 10749,05 Popolazione della Comunità , abitanti n° 1116 - Capoluogo di CANCELLERIA: 2. BORGO S.
LORENZO, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Sieve Superficie territoriale in quadrati: 42301,94 Popolazione della Comunità , abitanti n° 10787 - Capoluogo di Comunità : Vicchio Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Sieve Superficie territoriale in quadrati: 42053,38 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8621 - Capoluogo di Comunità : Dicomano (R) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Sieve Superficie territoriale in quadrati: 17054,49 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4232 - Capoluogo di Comunità : San Godenzo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Sieve Superficie territoriale in quadrati: 28506,68 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2704 - Capoluogo di CANCELLERIA: 3. BUGGIANO, Cancell .
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 12930,74 Popolazione della Comunità , abitanti n° 9135 - Capoluogo di Comunità : Massa e Cozzile Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 4613,24 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2769 - Capoluogo di CANCELLERIA: 4. SAN CASCIANO, Cancell . (A) Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Pesa e Val di Greve Superficie territoriale in quadrati: 30096,07 Popolazione della Comunità , abitanti n° 11097 - Capoluogo di Comunità : Montespertoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Pesa e Val d'Elsa Superficie territoriale in quadrati: 35186,33 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6934 - Capoluogo di Comunità : Barberino di Val d'Elsa Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Elsa Superficie territoriale in quadrati: 35067,19 Popolazione della Comunità , abitanti n° 7869 - Capoluogo di CANCELLERIA: 5. CASTEL FIORENTINO, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Elsa Superficie territoriale in quadrati: 14001,20 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6053 - Capoluogo di Comunità : Certaldo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Elsa Superficie territoriale in quadrati: 21264,87 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5336 - Capoluogo di Comunità : Montajone Valle in cui si trova il Capoluogo: Valli d'Elsa e d'Evola Superficie territoriale in quadrati: 58203,94 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8725 - Capoluogo di CANCELLERIA: 6. CASTELFRANCO DI SOTTO, Cancell.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 10449,56 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4092 - Capoluogo di Comunità : Montecalvoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 1582,52 Popolazione della Comunità , abitanti n° 1140 - Capoluogo di Comunità : Montopoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 4063,89 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2886 - Capoluogo di Comunità : S. Maria in Monte Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 9068,41 Popolazione della Comunità , abitanti n° 3117 - Capoluogo di CANCELLERIA: 7. EMPOLI, Cancell.
Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 17267,39 Popolazione della Comunità , abitanti n° 13095 - Capoluogo di Comunità : Montelupo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 6661,58 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4204 - Capoluogo di Comunità : Capraja Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 7028,02 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2406 - Capoluogo di Comunità : Cerreto (R) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 14095,37 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4905 - Capoluogo di Comunità : Vinci Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 14770,92 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5054 - Capoluogo di CANCELLERIA: 8. FIESOLE, Canc.
Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 14842,97 Popolazione della Comunità , abitanti n° 7888 - Capoluogo di Comunità : Pellegrino Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 5870,36 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5469 - Capoluogo di Comunità : Sesto Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d 'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 14329,48 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8796 - Capoluogo di Comunità : Brozzi Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 4396,94 Popolazione della Comunità , abitanti n° 7816 - Capoluogo di Comunità : Campi (R) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 7904,81 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8918 - Capoluogo di Comunità : Signa Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 4902,46 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5738 - Capoluogo di Comunità : Calenzano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 20903,61 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5307 - Capoluogo di Comunità : Montemurlo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 8579,90 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2350 - Capoluogo di CANCELLERIA: 9. FIGLINE, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno superiore Superficie territoriale in quadrati: 29937,37 Popolazione della Comunità , abitanti n° 15000 - Capoluogo di Comunità : Reggello Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno superiore Superficie territoriale in quadrati: 34274,26 Popolazione della Comunità , abitanti n° 9492 - Capoluogo di Comunità : Greve Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Greve Superficie territoriale in quadrati: 48041,61 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8747 - Capoluogo di CANCELLERIA: 10. FIRENZE, Capitale Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 1556,17 Popolazione della Comunità , abitanti n° 95927 - Capoluogo di CANCELLERIA: 11. FIRENZUOLA, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del Santerno Superficie territoriale in quadrati: 77481,50 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8242 - Capoluogo di CANCELLERIA: 12. FUCECCHIO, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 18090,22 Popolazione della Comunità , abitanti n° 9940 - Capoluogo di Comunità : Santa Croce Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 7749,68 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6450 - Capoluogo di CANCELLERIA: 13. GALEATA, Canc.
(A) Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del Bidente Superficie territoriale in quadrati: 21460,05 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2894 - Capoluogo di Comunità : Santa Sofia Valle in cui si trova il Capoluogo: Valle del Bidente Superficie territoriale in quadrati: 18861,42 Popolazione della Comunità , abitanti n° 1639 - Capoluogo di CANCELLERIA: 14. GALLUZZO, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 20151,27 Popolazione della Comunità , abitanti n° 11729 - Capoluogo di Comunità : Legnaja Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 6805,26 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8162 - Capoluogo di Comunità : Bagno a Ripoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 21942,37 Popolazione della Comunità , abitanti n° 11617 - Capoluogo di Comunità : Rovezzano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 2581,53 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4170 - Capoluogo di Comunità : Casellina e Torri Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 14828,77 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8132 - Capoluogo di Comunità : Lastra a Signa Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 12056,60 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8367 - Capoluogo di CANCELLERIA: 15. S. MARCELLO, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Lima Superficie territoriale in quadrati: 24462,93 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4805 - Capoluogo di Comunità : Cutigliano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Lima Superficie territoriale in quadrati: 18517,03 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2199 - Capoluogo di Comunità : Piteglio Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Lima Superficie territoriale in quadrati: 14309,64 Popolazione della Comunità , abitanti n° 3136 - Capoluogo di CANCELLERIA: 16. MARRADI, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del Lamone Superficie territoriale in quadrati: 44374,19 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6732 - Capoluogo di Comunità : Palazzuolo, Ing.
Valle in cui si trova il Capoluogo: Valle del Senio Superficie territoriale in quadrati: 31317,96 Popolazione della Comunità , abitanti n° 3319 - Capoluogo di CANCELLERIA: 17. SANMINIATO, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 31931,63 Popolazione della Comunità , abitanti n° 13960 - Capoluogo di CANCELLERIA: 18. MODIGLIANA, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del Marzena Superficie territoriale in quadrati: 28844,87 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4810 - Capoluogo di CANCELLERIA: 19. MONTE CATINI di Val di Nievole, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 8562,14 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5340 - Capoluogo di Comunità : Monsummano, e Monte Vettolini, Ing.
Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 9294,08 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5209 - Capoluogo di CANCELLERIA: 20. PESCIA, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 7330,35 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5334 - Capoluogo di Comunità : Monte Carlo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 10166,09 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6472 - Capoluogo di Comunità : Uzzano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 3590,44 Popolazione della Comunità , abitanti n° 3847 - Capoluogo di Comunità : Vellano (R) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 7111,46 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2520 - Capoluogo di CANCELLERIA: 21. PISTOIA Città e Cortine, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 286,60 Popolazione della Comunità , abitanti n° 11101 - Capoluogo di Comunità : Porta al Borgo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 35497,41 Popolazione della Comunità , abitanti n° 13394 - Capoluogo di Comunità : Porta Carratica Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 5980,52 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6738 - Capoluogo di Comunità : Porta Lucchese Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 7368,47 Popolazione della Comunità , abitanti n° 5504 - Capoluogo di Comunità : Porta S. Marco Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 18494,93 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6696 POTESTERIE DI PISTOIA - Capoluogo di CANCELLERIA: 22. TIZZANA, Canc.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 13004,29 Popolazione della Comunità , abitanti n° 7721 - Capoluogo di Comunità : Serravalle Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese e Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 12019,97 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4867 - Capoluogo di Comunità : Lamporecchio Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno inferiore Superficie territoriale in quadrati: 13301,52 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6101 - Capoluogo di Comunità : Marliana Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese e Val di Nievole Superficie territoriale in quadrati: 11985,17 Popolazione della Comunità , abitanti n° 3345 - Capoluogo di Comunità : Montale (A) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojese Superficie territoriale in quadrati: 12393,11 Popolazione della Comunità , abitanti n° 6718 - Capoluogo di Comunità : Cantagallo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Bisenzio Superficie territoriale in quadrati: 23837,54 Popolazione della Comunità , abitanti n° 4942 - Capoluogo di Comunità : Sambuca Valle in cui si trova il Capoluogo: Val del Reno bolognese Superficie territoriale in quadrati: 22228,92 Popolazione della Comunità , abitanti n° 2632 - Capoluogo di CANCELLERIA: 23. PONTASSIEVE, Canc. Ing.
Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 32105,94 Popolazione della Comunità , abitanti n° 8699 - Capoluogo di Comunità : Pelago Valle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Arno fiorentino Superficie territoriale in quadrati: 28386,96 Popolazione della Comunità , abitanti n° 7493 - Capoluogo di Comunità : Londa Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Sieve Superficie territoriale in quadrati: 15356,43Popolazione della Comunità , abitanti n° 2383- Capoluogo di CANCELLERIA: 24. PRATO, Canc. Ing.Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di BisenzioSuperficie territoriale in quadrati: 36885,17Popolazione della Comunità , abitanti n° 30390- Capoluogo di Comunità : CarmignanoValle in cui si trova il Capoluogo: Val d'Ombrone pistojeseSuperficie territoriale in quadrati: 12534,19Popolazione della Comunità , abitanti n° 8495- Capoluogo di CANCELLERIA: 25. ROCCA S.
CASCIANO, Canc.Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del MontoneSuperficie territoriale in quadrati: 15701,17Popolazione della Comunità , abitanti n° 2506- Capoluogo di Comunità : PorticoValle in cui si trova il Capoluogo: Valle del MontoneSuperficie territoriale in quadrati: 17697,09Popolazione della Comunità , abitanti n° 1894 - Capoluogo di Comunità : TredozioValle in cui si trova il Capoluogo: Val del TredozioSuperficie territoriale in quadrati: 17970,96Popolazione della Comunità , abitanti n° 2281 - Capoluogo di Comunità : PremilcuoreValle in cui si trova il Capoluogo: Valle del RabbiSuperficie territoriale in quadrati: 38238,15Popolazione della Comunità , abitanti n° 2872- Capoluogo di Comunità : DovadolaValle in cui si trova il Capoluogo: Valle del MontoneSuperficie territoriale in quadrati: 11000,38Popolazione della Comunità , abitanti n° 1975- Capoluogo di CANCELLERIA: 26. SCARPERIA, Canc.Valle in cui è compreso il Capoluogo: Val di SieveSuperficie territoriale in quadrati: 22846,08Popolazione della Comunità , abitanti n° 5112- Capoluogo di Comunità : S. Piero a SieveValle in cui si trova il Capoluogo: Val di SieveSuperficie territoriale in quadrati: 10349,93Popolazione della Comunità , abitanti n° 2713 - Capoluogo di Comunità : VagliaValle in cui si trova il Capoluogo: Val di SieveSuperficie territoriale in quadrati: 16324,00Popolazione della Comunità , abitanti n° 2656 - Capoluogo di Comunità : Barberino di Mugello (A), Ing.
(R) Canc.Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di SieveSuperficie territoriale in quadrati: 44980,16Popolazione della Comunità , abitanti n° 8771 - Capoluogo di Comunità : VernioValle in cui si trova il Capoluogo: Val di BisenzioSuperficie territoriale in quadrati: 15373,37Popolazione della Comunità , abitanti n° 3617 - Capoluogo di CANCELLERIA: 27. TERRA DEL SOLE, Canc.Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valle del MontoneSuperficie territoriale in quadrati: 9938,44Popolazione della Comunità , abitanti n° 3309 - Capoluogo di CANCELLERIA: 28. VOLTERRA, Canc. Ing.Valle in cui è compreso il Capoluogo: Valli d'Era e di CecinaSuperficie territoriale in quadrati: 77789,73Popolazione della Comunità , abitanti n° 40434 - Capoluogo di Comunità : Montecatini di Val di CecinaValle in cui si trova il Capoluogo: Valli d'Era e di CecinaSuperficie territoriale in quadrati: 40377,70Popolazione della Comunità , abitanti n° 2575 - TOTALE superficie territoriale in quadrati: 1,799018,65- TOTALE popolazione: abitanti n° 681083 Nel presente prospetto la lettera (A) indica residenza di un'Ingegnere ajuto; la lettera (R) di un secondo Cancelliere. - N.B. La superficie territoriale è stata rettificata.
STRADE REGIE E PROVINCIALI CHE ATTRAVERSANO IL COMPARTIMENTO DI FIRENZE STRADE REGIE 1. Strada Regia postale Bolognese. Dalla porta S. Gallo di Firenze per la Futa sino al confine delle Filigare.
2. Strada Regia postale Romana. Dalla porta Romana di Firenze sino al confine con il Compartimento di Siena fra il territorio di Barberino di Val dâElsa e quello di Poggibonsi.
3. Strada Regia postale Pisana. Dalla porta San Frediano di Firenze sino al confine con il Compartimento di Pisa sul ponte della Cecinella.
4. Strada Regia postale Aretina. Dalla porta la Croce per Pontassieve e lâIncisa sino al confine con il Compartimento dâArezzo fra San Giovanni e Figline.
5. Strada vecchia, giĂ postale Aretina. Dalla porta San Niccolò di Firenze per San Donato in Collina fino allâIncisa, dove si accomuna alla Regia postale nuova.
6. Strada Regia postale Lucchese. Dalla porta al Prato di Firenze per Prato, Pistoja e Pescia al confine con lo Stato di Lucca alla dogana del Cardino.
7. Strada Regia Pistojese per il poggio a Cajano. Staccasi dalla postale Lucchese alla piazza di Peretola sino alla porta Carratica di Pistoja.
8. Strada traversa Romana. Staccasi dalla Regia postale Pisana allâosteria bianca rimontando la Val dâElsa per Castel fiorentino e Certaldo sino al confine di questa comunitĂ e del Compartimento fiorentino.
9. Strada traversa di Val di Nievole. Staccasi dalla Regia postale Lucchese al borgo a Buggiano, e attraversa la Val di Nievole per Bellavista sino al confine del Compartimento di Pisa al poggio di Santa Colomba, fra la ComunitĂ di S. Maria in Monte e quella di Calcinaja.
10. Strada Regia Modenese. Dalla porta al Borgo della cittĂ di Pistoja fino al confine del Compartimento fiorentino e della Toscana a Bosco lungo.
11. Strada nuova di Romagna. Staccasi dalla Regia postale Aretina al Pontassieve per Dicomano e il Ponticino, varca lâAlpe di S. Godenzo per entrare nella Valle del Montone che percorre passando per S.
Benedetto in Alpe, Portico, Rocca S. Casciano, Dovadola e Terra del Sole sul confine del Compartimento fiorentino e con la ComunitĂ di ForlĂŹ dello Stato Pontificio.
12. Strada traversa dellâAltopascio nella sezione della strada antica Romea. Dal porto dellâAltopascio fino al ponte della Sibolla.
13. Strada Regia del circondario esterno delle mura di Firenze, a partire dalle RR. Cascine sulla testata del nuovo ponte sospeso, e di lĂ girando intorno al pomerio della cittĂ , termina alla porta S. Frediano.
STRADE PROVINCIALI SPETTANTI AL COMPARTIMENTO DI FIRENZE 1. Strada del Mugello. Staccasi dalla strada Regia Bolognese presso Novoli, passa per S. Piero a Sieve, Borgo S. Lorenzo, Vicchio e termina a Dicomano.
2. Strada delle Salajole. Staccasi dalla Regia Bolognese al ponte Rosso presso la porta S. Gallo di Firenze, e rimontando il fiumicello Mugnone passa sotto il poggio di Fiesole, quindi per quello dellâOlmo entra in Val di Sieve e termina al ponte che cavalca il fiume Sieve davanti al Borgo S. Lorenzo.
3. Strada Faentina. Staccasi dal Borgo S. Lorenzo, sale lâAppennino di Casaglia per entrare nella Valle del Lamone passando per Marradi, e termina al confine del Compartimento fiorentino e del Granducato con la ComunitĂ Pontificia di Brisighella al ponte di Marignano sul fiume Lamone.
4. Strada Militare, o Mulattiera di Barberino di Mugello.
Si dirama dalla Regia Bolognese presso la posta di Monte Carelli, e passando per Barberino di Mugello varca il Monte alle Croci per entrare in Val di Marina, indi per Campi sâinnoltra al ponte di Signa, dove si unisce alla Regia Pisana.
5. Strada di Val di Bisenzio. Dalla porta del Serraglio della cittĂ di Prato rimontando il fiume Bisenzio finchè a Vernio sale lâAppennino di Montepiano inoltrandosi da questa dogana verso il rio Rimalpasso sul confine Bolognese.
6. Strada Montallese. Principia dalla porta del Serraglio di Prato passando aâpiè di Montemurlo, e di lĂ per Montale giunge sino alla porta S. Marco della cittĂ di Pistoja.
7. Strada Francesca, piĂš comunemente Valdarnese, o Empolese. Staccasi dalla strada Regia Pistojese al ponte al Nievole, e passando per Monsummano e Stabbia arriva a Fucecchio, di dove proseguendo lungo la ripa destra dellâArno, passa per le Terre e di Santa Croce e di Castel Franco di Sotto, quindi attraversa il canale della Gusciana al porto di S. Maria in Monte, sino a che giunge al confine del Compartimento fiorentino col pisano, che trova alla Navetta sulla strada Regia Pistojese .
8. Strada Lucchese, denominata Romana, o antica Romea.
Staccasi dalla strada Regia Pisana allâOsteria Bianca, passa lâArno dirimpetto a Fucecchio, e di lĂ per il ponte a Cappiano, la Cerbaja e Altopascio giunge al confine Lucchese presso il Turchetto. (N.B. Il tratto dal porto di Altopascio al ponte Sibolla è strada regia).
9. Strada Chiantigiana. Si stacca dallâantica strada postale Aretina alla voltata del Bandino fuori di porta S. Niccolò, e passando per il ponte a Ema, per Greve e per Ponzano, arriva al confine della ComunitĂ di Greve con quello della Castellina, dove prosegue nel Compartimento di Siena.
10. Strada Casentinese. Staccasi dalla Regia postale Aretina passato il Pontassieve, e sale il monte della Consuma sino al confine della ComunitĂ di Monte Mignajo presso lâosteria della Consuma, dove entra nel Compartimento Aretino.
11. Primo ramo della strada Volterrana per la parte di Castelfiorentino. Si stacca dalla Regia Romana sotto al Galluzzo, passa per i poggi della Romola, in Val di Pesa, vĂ a Montespertoli e Castelfiorentino; di lĂ per Gambassi sale il monte del Cornocchio passando pel Castagno, sino a che presso Montemiccioli si congiunge al secondo ramo della strada Volterrana che viene dalla cittĂ di Colle.
12. Secondo ramo della strada Volterrana . Staccasi dal primo ramo della strada medesima sotto il poggio di Montemiccioli sino al confine della Co munitĂ di Colle e del Compartimento senese.
13. Terzo ramo della strada Volterrana. Incomincia da Montemiccioli sul confine della comunitĂ di Volterra con quella di Colle e per Spicchiajuola passa da Volterra, e di lĂ per il territorio di Montecatino giunge al principio della ComunitĂ di Guardistallo, dove sottentra il Compartimento pisano.
14. Strada Maremmana. Questa dalle Moje Leopoldine conduce al guado di Cecina, anzi al nuovo ponte sospeso.
15. Strada provinciale da Firenze a Siena . Si dirama dalla Regia Romana al ponte nuovo sulla Pesa, e passando per la Sambuca e S. Donato in Poggio giunge al confine della ComunitĂ di Barberino di Val dâElsa con quello della Castellina nel Compartimento senese.
16. Proseguimento della strada Urbinese deâSette ponti e Riofi nel Val dâArno superiore. La sezione di questa via compresa nel Compartimento fiorentino, comincia presso la villa di Renaccio, e arriva fino alla nuova strada Regia postale Aretina vicino al ponte dellâIncisa. â Vedere AREZZO. (COMPARTIMENTO DI).
17. Strada provinciale Lucchese, denominata Romana.
Principia dalla Regia Romana al bivio fuori la porta Pisana di Empoli, e conduce sino al nuovo ponte sullâArno sopra la bocca dâElsa.
18. Strada provinciale di San Gimignano. Staccasi dalla Regia Traversa Romana a Certaldo per dirigersi sino a San Gimignano.
19. Strada provinciale, detta la Nuova Volterrana. Questa dalle vicinanze di Rioddi si dirige a Capannoli.
20. Strada provinciale Traversa Romagnola. Staccasi dalla nuova via R. di Romagna presso Dovadola, e passando per Modigliana, S. Reparata e Sessana, giunge allâaltra via provinciale Faentina presso S. Adriano sul fiume Lamone.
Riferimento bibliografico:
E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, 1835, Volume II, p. 149.
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