PISA
(PISAE, un dĂŹ ALPHAEA)
â Nobile, antichissima, e bella cittĂ di origine greca, poi romana prefettura e colonia, piĂš tardi sede di conti e di marchesi, quindi cospicua repubblica del medio evo con celebre universitĂ scientifica e la piĂš antica metropolitana della Toscana, residenza costante di un arcivescovo Primate; attualmente anco di un governatore civile e militare, della cancelleria dellâordine cavalleresco di S. Stefano, di un tribunale di Prima istanza, di una deputazione idraulica sotto il titolo di Ufizio deâFossi, di una comunitĂ , di un dipartimento doganale e di uno deâ cinque compartimenti del Granducato.
Risiede Pisa sul fiume Arno che sotto tre ponti di pietra le passa in mezzo mediante un alveo spazioso, fiancheggiato da comodi scali e da larghe strade lastricate e adorne in tutta la loro lunghezza di palazzi e di decenti abitazioni, talchĂŠ il Lungarno di Pisa latamente arcuato presenta una delle piĂš belle prospettive che possa mai vedersi in grandiosa cittĂ .
Trovasi Pisa nel grado 28° 4â di longitudine e 43° 43â di latitudine in mezzo ad una ubertosissima pianura della larghezza di 10 a 55 miglia toscane da grecale a ponente, fra il Monte Pisano e il littorale, della lunghezza di 13 alle 20 miglia toscane da settentrione a ostro, a partire dal Serchio sino alle Colline inferiori pisane, non piĂš che 10 miglia ostro libeccio di Lucca passando per la strada antica di S. Maria del Giudice, e 13 per la strada postale di Ripafratta; 4 miglia toscane nella stessa direzione dai Bagni Pisani di S. Giuliano; 12 miglia toscane a settentrione grecale di Livorno; altrettante a scirocco di Viareggio; 18 miglia toscane nella stessa linea da Pietrasanta passando però dallâantica via di marina; circa 6 miglia toscane a grecale dalla bocca dellâArno, e 7 ½ da quella del Serchio.
Ma se la situazione geografica di Pisa è appena variata da quella dei tempi antichi, essa peraltro è assai diversa oggidÏ rispetto alla corografia del suolo sul quale riposa.
SicchĂŠ dovendo percorrere brevemente le storiche e poscia le sue fisiche vicende, dividerò, rispetto alla parte storica, il presente articolo in cinque periodi per dare un cenno succinto; 1. di Pisa antica sino alla caduta dellâImpero Romano; 2. di Pisa sotto il dominio dei Goti e dei Longobardi; 3. di Pisa sotto i marchesi di Toscana; 4. di Pisa durante la sua Repubblica; 5. di Pira sullo il governo di Firenze fino ai giorni nostri.
1. PISA ANTICA FINO ALLA CADUTA DELLâIMPERO ROMANO La prima epoca di Pisa precede i tempi istorici; che se essa fioriva 30 e piĂš secoli indietro, pure a confessione di Catone il censore, il quale nacque centoventâanni prima dellâEra volgare, fino dâallora lâorigine di Pisa si nascondeva nelle tenebre. â (SERVII in Aeneid . Lib.
X). â I piĂš vecchi scrittori peraltro, siano essi italiani, oppure orientali, concordano nel dirci che Pisa esisteva alla presa di Troja, se non fu molto innanzi quando vi capitò una mano di gente dalla Tracia. Non so poi quanto lusingar possa lâamor proprio nazionale, diceva su tal proposito il Pignotti, il credersi da tempo immemorabile cittadini di un paese oltramarino piuttosto che di una nazione per arti e per lettere distinta fino dalla piĂš remota etĂ , come fu quella degli Etruschi.
Tuttavia nĂŠ si può fermamente asserire, nĂŠ decisamente negare che una colonia greca un dĂŹ si fermasse costĂ presso lâangolo estremo di terra dove si univano insieme il Serchio e lâArno innanzi che il progressivo interramento della sua spiaggia avesse allontanato Pisa dal mare.
E volendo supporre che la venuta dei Greci a Pisa sia accaduta avanti la distruzione di Troja, che verrebbe ad essere 1200 anni e piĂš innanzi la nascita di GesĂš Cristo, in tal caso bisognerebbe dire che Pisa fosse una delle piĂš vetuste e la piĂš costantemente celebre cittĂ dellâItalia.
Io non starò qui a rammentare le oscure parole del greco Licofrone che viveva due secoli e mezzo innanzi lâEra volgare, allorchĂŠ qualificò Pis a tra le piĂš insigni cittĂ nel tempo in cui Enea capitò in Italia. Non dirò con Plinio che Pisa abbia avuto origine da Pelope e dai Pisci, greca gente capitata nelle coste dâItalia tredici secoli avanti la nascita di GesĂš Cristo. â Neppure mi atterrò a Dionisio dâAlicarnasso col supporre Pisa fiorente sino da quando Deucalione condusse in Ausonia i suoi Pelasgi.
NĂŠ voglio affidarmi piĂš degli altri a Strabone che fece nascere Pisa da Nestore re di Pilo, allorchĂŠ questi dopo la presa di Troja, sbagliando cammini, navigò in Italia approdando coi suoi nel seno pisano. Dirò piuttosto essere piĂš in voga di tutte la tradizione che Pisa, ossia lâAlfea dei Greci, fosse conquistata dagli Etruschi, i quali lâincorporarono al loro territorio, siccome ne avvisa (ERRATA: il sommo liric) il sommo epicoo latino dicendo, che Pisa fornĂŹ ad Enea un battaglione di mille guerrieri.
Hos parere jubent Alpheae ab origine Pisae, Urbs Etrusca solo. â (AENEID. Lib. X) ChecchĂŠ ne sia, sembra credibile bensĂŹ che Pisa fosse da tempi assai remoti ragguardevole, qualora si contempli la sua posizione molto opportuna alle operazioni marittime, ben difesa dalla natura mediante due fiumi i quali, fiancheggiandone i lembi, si accomunavano costĂ quasi nel centro di una fertile ed irrigatissima pianura, a poca distanza da monti formati di marmi, vestiti di pini e di altri alberi di alto fusto proprii alla costruzione navale, in una parola per dolcezza di clima, per serenitĂ di cielo, per prodotti di suolo salubre, ricca e deliziosa.
Contuttociò mancano documenti da poter asserire che Pisa, avanti il dominio dei Romani, per potenza, popolazione, grandezza e commercio fosse una delle cittĂ piĂš considerevoli dellâ Italia. Imperocchè, sebbene il geografo Strabone abbia detto che i Pisani primeggiarono fra gli Etruschi per valore guerriero, trovandosi spesso alle prese contro i Liguri loro importuni vicini, ciò nondimeno resta sempre incerto tutto quello che spetta a Pisa innanzi la storia di Roma; e solamente dopo che questa figlia di Romolo divenne potenza, cominciò per la nostra Toscana ad albeggiare un poco di luce, la quale si rese alquanto piĂš chiara fra il V ed il VI secolo di Roma, circa 300 anni avanti GesĂš Cristo Per modo dâesempio, è tuttora una questione storica irresoluta quella di sapere se Pisa, posta nel suolo etrusco, facesse parte dellâantica Etruria; e se la porzione del suo territorio situata alla destra dellâArno e del Serchio era compresa nellâEtruria Media anzichĂŠ nella Liguria, o sivvero nellâEtruria Circumpadana? Ho giĂ detto che Pisa antica era fabbricata sullâangolo formato, a destra dallâArno, a sinistra dal Serchio, (Auser, Esar) la dove i due fiumi univansi in un solo. Di tal veritĂ fecero testimonianza per tutti Strabone, Plinio e Rutilio Numaziano, lâultimo deâquali allorchĂŠ visitò la stessa cittĂ nellâanno 415 o nel 416 dellâEra volgare, descriveva nel suo Itinerario la congiunzione deâdue fiumi cosĂŹ: Alpheae veterem contemplor originis Urbem, Quam cingunt geminis Auser et Arnus aquis.
Conum pyramidis coeuntia fulmina ducunt, Intratur modico frons patefacta solo: Sed proprium retinet communi in gurgite nomen, Et pontum solus scilicet Arnus adit.
Anche Strabone aveva detto che, dove lâArno e il Serchio, (seppure è quel desso appellato Esar) confluivano nel sito di Pisa, ivi lâimpeto delle onde faceva alzare il livello nella corrente di mezzo per tal modo che impediva alle persone situate nelle due opposte ripe di vedersi fra loro.
Io giĂ dissi allâArticolo LUCCA (Volume III pag. 877), che se Polibio nella sua istoria, se Silace nel suo Periplo fecero dellâArno il confine occidentale dellâEtruria, niuno di essi due, nĂŠ alcun altro antico scrittore che a me sia noto si occupò di tramandare ai posteri la notizia: se il territorio antico pisano alla loro etĂ oltrepassasse o no il fiume maggiore dalle Toscana.
Che piĂš: citando un passo di Tito Livio (Lib, XXXIV cap.
56) poco dopo io soggiungeva: ÂŤche da quello e da altri riscontri dello storico patavino mi sembrava poter concludere, che la cittĂ di Luni, prima etrusca, quindi Ligure, poi socia, finalmente suddita di Roma, dipendeva dai consoli e dai proconsoli residenti in Pisa. Inoltre, io ivi diceva, che dopo cotestâunione di Luni e di Pisa alla Repubblica romana il territorio lunense lungo il littorale toscano confinava immediatamente con quello pisano. â Vedere PIETRASANTA.
Alla pagina susseguente dello stesso volume (878) io aggiungeva: che qualcuno forse potrebbe domandare da qual parte il territorio assegnato nellâanno 577 ab U. C.
alla colonia romana di Lucca confinasse con quello châera stato concesso tre anni innanzi alla colonia latina dedotta a Pisa? Di piĂš; come si potrebbe conciliare la storia di Tito Livio con Livio istesso rapporto ai 303,000 jugeri di terreno assegnato alla colonia di Lucca, terreno che egli disse tolto dai Romani ai Liguri, ma che innanzi tutto apparteneva agli Etruschi? Come spiegare tuttociò dopo che la Tavola Velejate ci ha dimostrato che il territorio della colonia, ossia della repubblica lucchese, anche allâepoca dellâImperatore Trajano si estendeva fino nel territorio di Parma e di Piacenza, vale a dire, sul rovescio dellâAppennino? Questioni importantissime sembravano queste per me, comecchè poco confacenti allâopera che tengo indefessamente fra mano. Dirò solo (in quanto allâultimo quesito) che le parole di Tito Livio e la Tavola Velejate concordar potrebbero con le vicende istoriche quante volte lâerudito, distinti bene i tempi e le cose, richiamar procura alla sua memoria deâfatti di natura consimile.
Avvegnachè se Tito Livio, discorrendo delle colonie romane dedotte a Bologna, a Modena e a Parma (Hist.
Lib. XXXVII e XXXIX), diceva che il territorio stato assegnato a quei coloni, sebbene tolto ai Galli Boj, innanzi spettava agli Etruschi; per la stessa ragione è lecito supporre che il terreno della colonia di Lucca conquistato dai Romani ai Liguri potesse innanzi essere appartenuto agli abitanti dellâ Etruria.... Ma di qual Etruria? non giĂ io credo della Media, comâera la Toscana fino allâArno, ma piuttosto dellâEtruria Circompadana , la di cui estensione oltrappennina, e forse cisappennina , non fu, che io sappia, definitivamente dimostrata. Imperocchè nulla si oppone al mio dubbio che il territorio dellâEtruria Circompadana attraversasse una volta lâAppennino in guisa che le popolazioni piĂš meridionali di quegli Etruschi comunicassero con i popoli piĂš occidentali dellâEtruria Media, o Centrale innanzi che nella contrada fra lâArno e la Magra penetrassero le tribĂš dei Liguri Apuani. Arroge che il municipio di Lucca sino ai tempi del romano impero continuò a far parte della Gallia Togata o Cisalpina, dipendendo dal governo di quei proconsoli, come io avvisava allâArticolo LUCCA.
(ERRATA: Vol. III) Vol. II pag. 821-22.
Comunque sia, torno a ripetere, che la storia di Pisa, innanzi che essa cadesse in potere dei Romani, resta per anco allâoscuro.
La perdita della seconda decade di Tito Livio ed il silenzio di tutti gli altri storici sulle conquiste fatte dai Romani nellâEtruria occidentale, non ci permette di scoprire in qual epoca precisa Pisa fosse occupata dalle armi del Lazio. Altronde i marmi capitolini fissando allâanno 516 U. C. il primo trionfo riportato dai consoli sopra i Liguri confinanti con lâEtruria, e la notizia aggiunta da Polibio sulla conquista locale degli Etruschi fatta dai Romani, coincidendo con la venuta di Pirro in Italia, dopo domati i Sanniti e molte tribĂš deâGalli, ciò basta a scuoprire che fu allora per la prima volta, quando le romane legioni si avanzarono al di lĂ dellâEtruria per conquistare il restante dâItalia. Che se codeste congetture sembrassero troppo vaghe, altronde Livio aggiunge qualche avviso per decidere, che poco dopo la prima guerra Punica i Pisani erano alleati dei Romani, tosto che da Pisa nellâanno 520, o 21 di Roma, (232 avanti GesĂš Cristo) il console Q. Fabio Massimo Verrucoso , dopo aver vinto in terraferma alcune tribĂš di Liguri veleggiò con le sue legioni nellâisola di Sardegna, dove riportò vittoria. Finalmente in Pisa due anni dopo si riunirono le romane legioni sotto il Console M. Papirio Masone, per recarsi di costĂ nellâisola predetta e in quella di Corsica.
Ma il fatto piĂš decisivo dellâamicizia deâRomani con i Pisani lo fece conoscere il prenominato Polibio allâanno 528 o 29 di Roma (avanti GesĂš Cristo 225) quando il console Cajo Attilio Regolo sopra numerosi navigli imbarcò le sue legioni per tornare dalla Sardegna a Pisa e di lĂ per le etrusche maremme recarsi ai comizj di Roma, nel tempo che senza sua saputa la Toscana era invasa da numerosissime orde di Galli che restarono dai due consoli romani nei contorni di Cosa disfatte.
â (POLYB. Histor. Lib. II.) Nel qual conflitto essendo stato ucciso il console C.
Attilio, il di lui collega superstite L. Emilio Papo fu solo a godere in Roma gli onori del trionfo, accaduto nel giorno 5 di marzo, siccome nei fasti capitolini con le espressioni seguenti fu registrato: L. AEMILIUS Q. F. CN. N. PAPUS CON. AN DXXIIX.
DE GALLEIS III. NON. MA.RT.
Dobbiamo pure allo storico medesimo lâaltra notizia, cioè, che il console P. Cornelio Scipione nellâanno di Roma 535 o 36 (218 avanti GesĂš Cristo) appena seppe che Annibale col suo esercito aveva superato le Alpi per discendere in Italia, egli con scelto numero di milizie da Roma navigò a Pisa, e appena ebbe raccolto un esercito, sâincamminò nella Lombardia per accamparsi intorno al Pò, dove poi il console stesso restò vinto da Annibale e con gran perdita di gente messo in fuga. â (Oper. cit. Lib.
III).
Nel tempo però che i fatti principali della seconda guerra punica nelle parti meridionali dellâItalia accadevano, il senato romano inviava nellâEtruria occidentale delle legioni comandate dai pretori e dai proconsoli per difendere la costa marittima, e mantenere in fede del nome romano quelle popolazioni, molte delle quali dopo la disfatta di Canne (anno 537 U.C . 216 avanti GesĂš Cristo) ai Cartaginesi avevano aderito. â (LIVII, Hist. Lib.
XXVI.) Appena terminata cotesta guerra il governo di Roma deliberò dâinviare un esercito nella provincia di Etruria e uno nella Flaminia con lâistruzione ai consoli di soggiogare specialmente quei Liguri, Insubri e Galli Cisalpini, i quali nellâinvasione di Annibale si erano uniti a quel acerrimo nemico deâRomani.
Correva lâanno 558-59 ab U. C. (avanti GesĂš Cristo 195) quando al Console L. Valerio Flacco fu ordinato di portare la guerra fra i Galli Boj, e quasi nel tempo medesimo P. Porcio Leca pretore dâEtruria riceveva dallâesercito gallico 2000 pedoni e 500 soldati a cavallo per marciare verso Pisa ad oggetto di prendere alle spalle con le sue genti le piĂš orientali tribĂš ligustiche. â (Vedere APPENNIO TOSCANO Volume I. pagina 101).
In quellâanno però, e nel susseguente, nel tempo che i Romani si battagliavano coi Galli Boj e con gli Insubri, non accaddero fatti di rilievo in quanto ai Liguri. Ma giunto lâanno 560-61 ab U. C. (193 avanti GesĂš Cristo) arrivarono al senato di Roma lettere di Marco Cincio prefetto residente in Pisa, che avvisava il governo qualmente 20,000 Liguri di varie tribĂš limitrofe congiurando insieme erano scesi repentinamente a devastare il territorio lunense, e di lĂ inoltrate nel confine pisano scorrevano per tutta quella spiaggia marittima. â (LIVII, Histor. Lib. XXXIV).
Dondechè pochi giorni dopo il Console Q. Minucio Termo, cui era stata assegnata la provincia dei Liguri, mandò un editto perchĂŠ in Arezzo si riunissero i soldati di due legioni urbane con 15000 soldati a piedi e 500 a cavallo dei socj e dei popoli latini coscritti. Al che si aggiunse un Senatus consulto diretto ai consoli dellâanno antecedente T. Sempronio Longo, e P. Cornelio Scipione Affricano, che ordinava di staccare dal loro esercito i soldati deâsocj dirigendoli in Etruria nel luogo e nel giorno che da Q. Minucio sarebbe stato indicato. Frattanto i Liguri affluendo sempre piĂš intorno alla cittĂ di Pisa erano cresciuti sino a 40,000, quando il console mosse col nuovo esercito da Arezzo conducendolo con riserva, e come in ordine di battaglia (quadrato agmine) verso Pisa.
Arrivato costĂ il console potĂŠ con la sua armata introdursi in cittĂ , stante che lâoste si era accampata un miglio lungi di lĂ dal fiume; quindi nel giorno seguente Q. Minucio piantò i suoi accampamenti circa mezzo miglio a occidente di Pisa donde mediante piccole scaramuccie difendeva la cittĂ dai nemici, i quali altronde per essere piĂš forti di numero e ansiosi di preda scorrevano a saccheggiare quelle etrusche campagne. â (Oper. cit., Lib.
XXXV.) A cotesta etĂ pertanto i Pisani erano del popolo romano solamente alleati, di che fornisce piĂš dâuna prova lo stesso Tito Livio, il quale scrivendo appunto della guerra ligustica che si faceva in quel tempo dal Console Q.
Mincio soggiunge: come quel duce con leggieri combattimenti difendeva lâagro deâsocj, mentre non ardiva con tante minori forze collettizie allontanarsi da Pisa a campeggiare. E ciò anche sul riflesso che per avere in quellâanno stesso azzardato egli di condurre lâesercito in un passaggio angusto e montuoso, si trovò chiuso dai nemici in guisa che senza il coraggio di 800 cavalieri Numidi, i Romani correvano rischio di ritrovare colĂ il secondo caso delle forche caudine. â Vedere MINUCCIANO.
Avvicinatosi frattanto il tempo deâcomizj (marzo dellâanno 190 avanti G. G.) il console Minucio dovĂŠ scrivere da Pisa al senato, qualmente egli non potrebbe recarsi a Roma senza danno deâsocj e della repubblica (loc. cit.). Infatti dopo tale avviso fu prorogato per un altrâanno a Q. Minucio il comando dellâarmata contro i Liguri accampati nellâagro pisano, sopra i quali poco dopo egli ottenne una vittoria segnalata e tale che il suo esercito sâinternò nel paese nemico per mettere a ferro e fuoco i casali e vici deâLiguri, ritogliendo loro gran parte della preda etrusca fatta dallâoste nellâanno innanzi, dopo di che i Romani se ne ritornarono negli accampamenti di Pisa.
CosĂŹ terminò felicemente la campagna dellâanno di Roma 561 o 562. Ma nel susseguente, che fu il secondo anno del proconsolato di Q. Minucio, i Liguri avendo radunato gran numero di soldati, piombarono di notte improvvisi ad assalire gli accampamenti del proconsole che pure sostenne con bravura tanto impeto sino al fare del giorno.
Ma al primo albore Q. Minucio fece escire dagli steccati le sue genti, le quali dopo aver ucciso sul campo di battaglia da 4000 Liguri, misero il restante in piena fuga.
Che sebbene Q. Minucio nel terzâanno del suo proconsolato scrivesse al senato essersi i Liguri limitrofi dati per vinti, pure dopo quattrâanni di quiete quella razza indomita rinnovò le ostilitĂ con piĂš serio apparato, sicchĂŠ nei comizj dellâanno 565 al 566 di Roma fu decretato che a M. Valerio Messala, uno dei due consoli nuovi, venisse assegnata Pisa con la provincia della Liguria. Apparisce per altro dallo storico medesimo, che M. Valerio durante il suo consolato non fece alcuna cosa degna di memoria circa lâabbattere lâorgoglio di quei fieri montanari confinanti col territorio di Luni e di Pisa.
Per la qual cosa, nellâanno di Roma 566 e 567, appena creati i consoli M. Emilio Lepido e T. Flaminio Nepote, il senato di Roma deliberò che ad entrambi fosse confidata lâimpresa della guerra ligustica. In conseguenza il Console T. Flaminio condusse le sue legioni contro i Liguri Friniati (nel Frignano), costringendoli dopo varie battaglie a fare il suo volere; quindi portò la guerra a quei Liguri Apuani che nellâanno innanzi avevano fatta incursione non solo nellâagro pisano ma anche nel bolognese, e anchâessi furon costretti ben presto a darsi per vinti. Ma che costoro si mantenessero poco tempo soggetti al voler deâRomani è dimostrato dalla spedizione ordinata nellâanno seguente, quando il Console Q. Marcio Filippo marciò contro essi con nuove legioni, le quali furono assalite dai Liguri Apuani in luogo angusto e di difficile accesso, per modo che vi restarono morti 4000 soldati, perdute tre insegne della seconda legione, oltre 11 stendardi dei socj latini.
Allora il senato ai nuovi comizj (anno di Roma 568 al 569) ordinò al Console M. Sempronio Tuditano di condurre le sue legioni a Pisa per vendicare tanta ignominia ricevuta dai Liguri. Infatti poco dopo M.
Sempronio valorosamente eseguĂŹ le intenzioni del popolo romano, e superando lâasprezza deâluoghi montuosi, risalĂŹ da Pisa contro le sorgenti del Serchio fino al fiume Magra donde le legioni vittoriose passarono al porto di Luni.
SennonchĂŠ quelle feroci popolazioni alla fine dellâanno 571 al 72 di Roma non stettero piĂš ferme, giacchĂŠ il Console Q. Fabio Labeone, cui era toccata quella provincia, dovĂŠ scrivere al senato: esservi gran pericolo che gli Apuani, sempre pronti a rivoluzione, non irrompessero al loro solito nellâagro pisano. Per la qual cosa appena eletti i consoli, L. Emilio Paolo e Gn. Bebio Tanfilo, furono inviati entrambi contro i Liguri, per lâoggetto che eglino conducessero prosperamente la guerra ed espugnassero sopra tutto i Liguri Apuani fino nei loro inaccessibili tuguri. Quindi al tempo nuovo prima dellâadunanza deâcomizj fu ordinato ad un solo dei consoli di ritornare a Roma affinchĂŠ lâaltro restasse nella provincia. â Era giĂ avanzato lâautunno del 572 quando uno deâConsoli, L. Emilio, fece prendere alle sue legioni i quartieri dâinverno in Pisa, dove appena terminati i comizj tornò lâaltro collega Gn. Bebio in qualitĂ di proconsole.
Ma la tribĂš degli Apuani continuava sempre ad essere infesta ai Romani ed ai Pisani in modo che dal senato fu ordinato che ai consoli creati nellâanno di Roma 573-74 si fornissero due legioni con piĂš 5000 soldati a piedi e a cavallo degli alleati, donde con tale esercito si portasse una guerra decisiva nella contrada deâLiguri Apuani.
Per tal guisa lâoste trovandosi da tante forze neâsuoi stessi recessi assalita, dovĂŠ darsi a discrezione deâRomani, che imposero ai vinti la dura condizione di consegnare ai vincitori armi, uomini, donne, vecchi, fanciulli e tutto ciò che aveano di piĂš caro, costringendo nel tempo stesso quei montanari ad abbandonare le sedi avite ed i sepolcri deâloro maggiori. Cotesta operazione, per la quale si trasportarono nel Sannio 40,000 Liguri, essendo stata eseguita nellâanno predetto sotto il proconsolato di P.
Cornelio Cetego e di Gn. Bebio Tanfilo, fece dare a quelle colonie ligustiche il soprannome di Corneliane e Bebiane.
Quindi avvenne, che nellââanno stesso 574 di Roma i Pisani, vedendosi liberati da unâoste cotanto infesta, inviarono i loro legati al senato romano affinchĂŠ volesse mandare a Pisa una colonia di cittadini, siccome fu loro concessa di diritto latino, assegnando per triunviri della medesima Q. Fabio Buteone, Marco, e Publio Lenate.
Dalla deduzione per tanto della colonia latina in poi sembra che la cittĂ di Pisa cessasse di essere federata del popolo romano, ma invece che quel capoluogo di prefettura militare insieme col suo contado restasse unito allâItalia romana.
Peraltro, se Pisa potĂŠ acquistare mediante la sua colonia il diritto latino, la stessa cittĂ non perdĂŠ quello del municipio, voglio dire leggi, sacerdoti, divinitĂ , e magistrature proprie, nella guisa stessa che simili onori conservaronsi alla cittĂ di Lucca, al pari che a tanti altri popoli italiani rammentati da Festo alla voce Municipium.
â Vedere LUCCA., Volume II. pagina 821.
E siccome il popolo romano rispetto ai suffragj fu ripartito in 35 tribĂš, cosĂŹ la cittĂ di Pisa venne aggregata alla TribĂš Galeria, di che fanno testimonianza varii marmi sparsi per lâItalia, non pochi dei quali si conservano ancora in Pisa.
Mancano bensĂŹ dati da assicurare che dalla colonia latina pisana prendesse il nome una porta dellâantico cerchio dellâcittĂ , cui fu conservato il vocabolo di Porta Latina anche nei secoli intorno al mille. â Vedere piĂš avanti nellâArticolo medesimo Cerchi diversi delle mura di Pisa.
NĂŠ tampoco si conosce quali fossero e da qual parte i confini del territorio assegnato alla colonia latina di Pisa con quelli della colonia romana di Lucca, comecchè questâ ultima nellâanno 585 di Roma venisse ad occupare una parte dellâagro pisano. â Vedere LUCCA. Volume II, pagina 820.
Io dissi poco sopra, che dopo dedotta a Pisa la colonia di diritto latino, e dopo accordato a quella popolazione il privilegio deâsuffragj ascrivendola alla TribĂš Galeria, la stessa cittĂ col suo distretto divenne parte dellâItalia romana. Imperocchè lâItalia propriamente detta sotto il governo della romana repubblica aveva per confine lâArno dal lato del mare Mediterraneo ed il Rubicone dalla parte dellâAdriatico.
Ma se T. Livio fece di Pisa il capoluogo di una provincia diversa da quella deâLiguri (Hist. Lib. XXXIII e XLI) nel tempo stesso che Lucca con lâesteso suo territorio dipendeva dai governanti della Gallia Togata, bisogna ben credere che la cittĂ di Pisa dopo la deduzione della sua colonia restasse con tutto il contado annessole incorporata alla Toscana. Vi sarĂ forse alcuno che potrebbe porre innanzi qualche difficoltĂ , come sarebbe quella della Via Emilia munita da M. Emilio Scauro, dopo che questo console ebbe soggiogati i Liguri Gatisci. La qual via tracciata per Pisa e Luni sino ai Sabazi si crede sia stata aperta durante il proconsolato di Emilio Scauro (anno di Roma 639-40), vale a dire 66 anni dopo unita a Roma la cittĂ di Pisa.
Vero è che Strabone (Geograph. lib. V) ne assicura essere lâautore di detta strada quel M. Emilio Scauro che mediante lâescavazione di grandi fosse navigabili condusse dallâagro di Parma nel Poâ le acque che stagnavano in quelle vaste paludi transitate dallâesercito di Annibale con gran difficoltĂ innanzi di scendere in Toscana. Ma se Scauro, sento dirmi, quando era proconsole aprĂŹ la grande strada da Pisa ai Sabazi, come avrebbe potuto eseguire ciò fuori della sua provincia? Tostochè vigeva una legge che proibiva ai proconsoli di oltrepassare i limiti delle provincie loro assegnate? Come far ciò dentro lâItalia quando la costruzione delle vie militari e di altre opere pubbliche era riservata ai censori? Tali difficoltĂ per altro, comecchè siano di gran peso, dovranno perdere assai della loro forza allorchĂŠ si vorrĂ riflettere avere M. Emilio Scauro occupato novâanni dopo il suo consolato (cioè lâanno di Roma 647-48) anche questa seconda magistratura censoria. Per modo che potrebbe essere che il personaggio medesimo fosse stato autore non solo del tronco della Via Emilia compresa nella Gallia Togata, ma ancora della continuazione dellâAurelia che in qualitĂ di censore potea condurre dalle Maremme a Pisa e a Luni, e di lĂ come proconsole, nella Gallia Togata. CosĂŹ a senso mio, si riconcilia Strabone con Aurelio Vittore, o con chi fu lâautore delle vite degli uomini illustri, il quale nellâelogio di Emilio Scauro scriveva di lui: Censor viam Aemiliam stravit, Pontem Milvium fecit. â Vedere LâArticolo VIA AURELLIA NUOVA, o VIA EMILIA DI SCAURO.
Frattanto, se per cagione delle guerre civili da un lato scemavasi quasi per tutta Italia la popolazione, dallâaltro lato a Pisa si aumentava lâagro pubblico a proporzione che le colmate dalle torbe trascinate dal Serchio e dallâArno spingevano il delta pisano verso il litorale, stato in tempi piĂš antichi fondo di mare. Quindi riescĂŹ facile allâImperatore Cesare Augusto, piuttostochè al dittatore Giulio Cesare, di assegnare alle legioni reduci in Italia dalle vittorie riportate sopra i difensori della Repubblica i fondi pubblici deâmunicipj col ripartire a una di quelle tante colonie dei suoi veterani i terreni del litorale pisano, sicchĂŠ i nuovi ospiti di Pisa in ossequio del loro benefattore chiamarono la pisana Colonia Giulia Ossequiosa . Io dissi la colonia militare pisana creata da Augusto anzichĂŠ da Giulio Cesare non tanto sul riflesso che il cognome della famiglia Giulia era passato in quella di Augusto, quanto per la ragione che questâimperatore in 28 anni (dal 724 al 752 U.C.) popolò di soldati 28 colonie in Italia, corredandole di opere pubbliche, arricchendole di entrate, di diritti e dignitĂ , sicchĂŠ esse tanto in riguardo ai suffragi, quanto rispetto alle leggi ed ai magistrati decurionali potevano quasi paragonarsi ad altrettante piccole Rome. â (SVETONIO, in August. Cap. 49. â CHIMENTELLII, de Honore Bisellii â NORISII, Cenotaphia pisana).
Aggiungasi a tutto ciò un frammento che appoggia abbastanza il mio asserto. ImperocchÊ, e perirono le opere di quella età o le lapide dove un tal dubbio poteva decifrarsi, sussiste per avventura una prova plausibile e tale da far credere che la colonia Giulia Ossequiosa di Pisa spettasse ad Augusto e non a Giulio Cesare.
Io lâaccennai allâArticolo Luni (Volume II pagine 939 e 940) allorchĂŠ citando gli autori della rettificazione dei confini delle colonie, non volli passare sotto silenzio una notizia registrata in quei libri relativamente ai limiti delle colonie militari dedotte nella Campania e nelle Maremme toscane. ImperocchĂŠ ivi si legge che, in origine da Augusto fu ripartita ai veterani deâsuoi eserciti una parte deâcampi e delle selve nella regione della Campania e lungo tutta la via Aurelia (cioè Aurelia vecchia nella Maremma piĂš vicina a Roma, e Aurelia nuova, ossia di Emilio Scauro nella Maremma pisana). Nelle quali campagne si posero allora semplicemente deâ termini di legno sacrificali. SennonchĂŠ qualche tempo dopo lâImperatore (ERRATA : Adriano) Trajano fece sostituire ai termini di legno di quelle colonie altri dl pietra, sui quali fu scolpito il numero progressivo fino al confine dellâagro di ciascheduna di esse.
Sebbene le espressioni in quel libro indicate non specifichino alcuna colonia marittima lungo la via Aurelia, tale come fu quella di Pisa, vi ha però buona ragione per credere che anco la pisana Colonia Ossequente fosse una delle 28 colonie militari distribuite da Augusto per tutta Italia, dodici delle quali furono indicate da Frontino, due dal Sigonio, cinque altre dai marmi Gruteriani e una da quelli pubblicati dal Noris. â Quindi rispetto alla qualitĂ del terreno ripartito ed alla quantitĂ deâveterani dallâImperatore Augusto regalati, ne diede un indizio Dione Cassio nella sua Storia (Lib. 51), e lâiscrizione Anciriana pubblicata da Grutero.
Questâultimo marmo infatti ne avvisa, che nellâanno 723, o 24 a Roma, sotto il quarto consolato di Ottaviano Augusto, e nellâanno 789, o 740 sotto i consoli M. Licinio Grasso e Gneo Lentulo Augure a poco piĂš di 200,000 soldati furono assegnati dei predj parte pubblici, parte comprati e parte estorti ai municipj.
In ogni modo a Pisa faceva duopo di avere gente laboriosa e forte, onde coltivare le sue vaste campagne e fornire sufficienti operaj alla marina, nel cui porto molte volte il governo di Roma faceva imbarcare le sue legioni per la Liguria marittima, per la Gallia Narbonese, per le Spagne e piĂš spesso ancora per le isole di Corsica e di Sardegna.
Quindi è che molti coloni militari di Pisa dovettero far parte dei collegi dei fabbri navali e deâfabbri tignarj attinenti entrambi a quellâarsenale, della cui stazione fa fede sopra tutte unâiscrizione Gruteriana relativa a M.
Nevio Restituto della TribĂš Galeria che fu soldato della X coorte pretoriana, e che con suo testamento assegnò 4000 sesterzj al collegio dei fabbri navali della STAZIONE ANTICHISSIMA PISANA, affinchĂŠ ognâanno fossero celebrati al suo sepolcro i parentali, e in caso dâinosservanza nominò esecutori di ciò i fabbri tignarj di Pisa con facoltĂ di ritirare dai fabbri navali la moneta a tal uopo dal testatore assegnata.
Donde si scuopre che nella colonia pisana esistevano due collegj, coâsuoi decemviri, i decurioni ed i fabbri destinati alla costruzione navale. Oltre di ciò altri marmi della colonia indicano i questori, i flamini augustali ed i pontefici minori, mentre spettavano al municipio di Pisa gli edili pisani aventi lâonore del bisellio ed i curatori deâcalendarj, uno dei quali fu anche augustale, siccome lo fu quel L. Papirio Augustale in Pisa ed in Lucca, del quale feci passeggera menzione agli Articoli FOSSE PAPIRIANE e MASSACIUCCOLI.
Cotesti sacerdoti Augustali furono decretati nelle cittĂ dellâimpero quando tutto lâorbe romano innalzava per adulazione al divo Augusto ancora vivente are, fani e tempj, fino a che nel primo anno dellâimpero di Tiberio i sacerdoti Augustali furono in modo di collegio perennemente costituiti e confermati.
Era riservato peraltro alla capitale dellâorbe romano il collegio dei pontefici, cui fu ascritto il giovinetto Cajo Cesare Augusto figlio di M. Agrippa e di Giulia Augusta, adottato dallâavo Ottaviano imperatore insieme collâaltro fratello Lucio Cesare Augusto che fu ascritto al collegio degli Augustali di Pisa , della cui colonia militare fu anco patrono. â E qui cade il destro di rammentare i famosi decreti funerarj che i decurioni della colonia di Pisa fecero registrare in due grandi tavole di marmo, illustrate dal Noris nellâopera che ha per titolo Cenotaphia Pisana, e poco innanzi dallâerudito professore pisano Giovanni Pagni, il cui lavoro in gran parte conservasi inedito nella biblioteca Magliabechiana di Firenze.
Cotesti decreti funerarj furono ordinati dai Pisani in due tempi diversi, il primo per la morte di Lucio Cesare e il secondo un anno dopo quando morĂŹ Cajo Cesare, nati da Giulia Augusta a M. Agrippa, adottati ancor fanciulli dallâImperatore Ottaviano, per cui eglino furono di buon ora insigniti di onorificenze e di magistrature sacre e profane. Ma uno di essi Cajo Cesare, dopo aver dato prove di valore e di belle speranze, morĂŹ in oriente sotto il consolato di Sesto Elio Catone, e di C. Senzio Saturnino, cioè nel quarto anno dellâEra Volgare e 756 di Roma, quando lâaltro fratello, Lucio Cesare, stato Patrono della Colonia Giulia Pisana Ossequiosa , un anno innanzi era mancato ai vivi in Marsilia nel tempo che andava agli eserciti in Spagna: Ambo fato breves (scriveva di essi L.
Floro), sed alter inglorius, Massiliae quippe Lucius morbo solvitur. Che la morte di Lucio Cesare precedesse quella del fratello, lo disse Dione nelle sue sinopsi edite dal Zonara, ma niuno disse quando accadesse; solo lo attesta il decreto pisano deâsuoi parentali, dove è indicato lâanno e il mese della sua morte avvenuta verso la fine di agosto dellâanno 755 di Roma. Essendochè Lucio Cesare da qualche settimana non era piĂš tra i vivi, quando nel di 19 settembre dellâanno 755 di Roma i decurioni della colonia pisana, volendo imitare il senato di Roma, decretarono annuali esequie da farsi ai Mani di L. Cesare figlio di Cesare Augusto Padre della Patria, Pontefice Massimo, nella sua XV PotestĂ Tribunizia, la quale potestĂ cadde appunto nellâanno 755 ab Urbe Condita .
Lo che concorda assai bene con la testimonianza di Svetonio, il quale nella vita di Augusto, al Capitolo 65 scrisse: che questo Imperatore perdĂŠ Cajo e Lucio nello spazio di 18 mesi; giacchĂŠ tanti appunto ne corsero dal mese di agosto 755, epoca della morte di Lucio Cesare, al 21 febbrajo 757 Urbe Condita giorno della morte di Cajo Cesare, precisamente indicato nellâaltro decreto pisano. â (NORISII, Cenotaphia pisana . Dissert. II. capitolo. 15).
Strabone che scriveva la sua opera storico-geografica poco dopo la morte dei due fratelli adottati da Augusto, cioè fra lâanno di Roma 770 e 772, corrispondenti ai 18 e 20 dellâEra Volgare, dopo visitata cotesta contrada, indicò meglio di ogni altro la situazione topografica della cittĂ di Pisa nel modo in cui era a quella etĂ , voglio dire sulla confluenza dei fiumi Arno e Serchio; aggiungendo, che il restante dellâalveo da percorrere da Pisa al mare era allora di soli 20 stadj. E siccome il greco geografo nelle sue misure fece uso comunemente dello stadio olimpico, otto dei quali formavano un miglio romano, ne conseguita, che 18 secoli indietro lo sbocco dâArno nel mare doveva essere distante da Pisa intorno a due miglia e mezzo romane, pari a due miglia geografiche di 60 al grado.
Quindi lo stesso autore soggiungeva, essere stata una volta cotesta cittĂ assai felice tostochè essa primeggiò fra gli Etruschi per gloria dâarmi; e poichĂŠ anche al tempo del greco scrittore Pisa mantenevasi nobile ed opulenta cittĂ , dove per copia di vettovaglie, per opere in marmi, come ancora per materiali ad uso navale si abbondava, dei quali materiali non solo nei tempi della Repubblica romana erasi fatto gran uso, ma si adoperavano negli edifizi di Roma e nelle grandiose ville che nei contorni di quella capitale con magnificenza asiatica sâinnalzavano. Tali espressioni di Strabone appellano senza dubbio alla ricchezza dei marmi che fino dal tempo suo somministrare dovevano non tanto il Monte Pisano, quanto ancora i monti di Campiglia e le cave lunensi di Carrara, paesi sotto posti al prefetto dellâEtruria romana; sicchĂŠ di quei marmi si ornarono molti edifizj della cittĂ di Pisa, siccome lo manifestano i frammenti di lapide, le colonne, i capitelli ed i sarcofagi, che ad onta delle barbariche incursioni, dellâignoranza dei tempi e del lasso di tanti secoli mostransi tuttora in cotesta cittĂ muti ma espressivi testimoni di tal veritĂ .
Degli edifizj però di Pisa romana, ad eccezione delle arche, di molte iscrizioni lapidarie e dedicatorie, di non pochi torsi, di teste e altri frammenti di statue, attualmente non restano ivi sopra terra altro che meschini residui di terme, descritti da varj autori, e due colonne di marmo con i loro respettivi capitelli rimaste in posto, e che appartennero probabilmente al vestibolo di un tempio pagano eretto sotto gli imperatori Antonini, le quali veggonsi appoggiate al muro della distrutta chiesa di S.
Felice in Pisa. Da coteste sole vestigia di romani edifizi è dimostrato che il piano di essa cittĂ 16 o 17 secoli indietro era piĂš basso almeno 4 braccia fiorentine, pari a otto piedi romani rispetto al piano attuale. â Vedere qui appresso, CERCHJ DIVERSI DELLA CITTAâ, e PISA, COMUNITA.â.
Per quanto poi i due decreti della colonia pisana relativi ai parentali di Lucio e di Cajo Cesari rammentino i bagni pubblici, i giuochi circensi, gli scenici ed altre cose da far credere che in Pisa fino dâallora esistessero terme e circhi, pure non è da assicurare che gli avanzi delle Terme tuttora esistenti spettino allâepoca di Ottaviano Augusto, e molto meno che risalghino a quella della repubblica romana.
Ma le iscrizioni piĂš copiose superstiti dei tempi antichi riferiscono allâepoca dellâImperatore Adriano, o del suo successore Antonino Pio, che fu anche preside o correttore di quel monarca in Toscana. â Io non starò a rammentare qualmente spetta alla presidenza di Antonino Pio la sostituzione deâtermini di pietra e di marmo a quelli di legno nelle colonie militari marittime di Pisa, di Luni, Cosa, eccetera; nĂŠ starò a cercare se Adriano o piuttosto il suo successore fu quello che fece innalzare in Pisa terme, teatri, anfiteatri o quali altri pubblici edifizj, dirò bensĂŹ che fu opera ordinata da Antonino Pio imperatore quella dellâingrandimento e ricostruzione della Via Aurelia nuova, ossia di Emilio Scauro , la quale strada non solo egli fece ornare di colonne milliarie, ma volle ancora che per memoria del suo autore fosse chiamata, anzichĂŠ Aurelia nuova, Via Emilia , siccome adesso in tutto il Compartimento pisano costantemente si appella. Al che aggiungerò essere conosciuta abbastanza dagli eruditi fra le colonne milliarie quella esistente tuttora in Val di Fine presso Rosignano in un luogo che dal marmo milliario prese il nomignolo che porta attualmente di Marmigliajo , siccome vi se ne trova unâaltra da quella non molto distante in luogo appellato il Crocino. â Vedere (ERRATA: MARMIGLIAJO) RAMAZZANO.
Ma piĂš completa di tutte alla distanza di un miglio dalla prima esisteva una terza colonna trasportata di lĂ nel camposanto di Pisa, nella quale, oltre i titoli e il nome dellâautore di quel restauro, leggesi incisa la distanza delle miglia da Roma a detta colonna, al pari che nellâaltra, ma nella prima vi è lâepoca in cui fu la via ripristinata. Lo che avvenne nel secondâanno dellâimpero di Elio Antonino Pio, quando egli era console la terza volta, vale a dire (ERRATA: nellâanno 992-93) nellâanno 892 o 893 di Roma, ossia nel 140 di GesĂš Cristo. Eccone la copia: (ERRATA: CAES. L. AEL.) CAES. T. AEL.
ADRIANUS ANTONINUS AUG.
PIUS. P. M. TR. P. VI. COS. III. IMP.
II. PP. VIAM AEMILIAM VETU STATE DILAPSAM RESTITUEN DAM. CUR. A. ROMA M. P.
CLXXXVIII.
Nellâaltra colonna milliaria, stata collocata della precedente un miglio piĂš vicina a Roma, si legge semplicemente: VIA AEMILIA A ROMA M. P. CLXXXVII.
Io non credo che a queste frequenti colonne milliarie della grande strada di Emilio Scauro riferire volesse Rutilio Numaziano, allora quando egli nel recarsi a piedi dal Porto Pisano di Triturrita a Pisa vide lungo quella via vicinale frequenti pietre milliarie; sicchĂŠ il nobil poeta, dopo aver detto: Ipse vehor Pisas qua solet ire pedes, aggiungeva: Intervalla viae fessis praestare videtur Qui notat inscriptus millia crebra lapis.
(Itiner. Lib. II.) Ă chiaro che doveva esso riferire ad una via diversa dalla grande strada aperta anticamente da Roma al foro Aurelio, poscia continuata per Pisa, la quale passava per Val di Fine e Val di Tora, e per ciò disgiunta affatto dal Porto Pisano, da dove ai tempi di Rutilio staccavasi per Pisa una via municipale fiancheggiata da colonne milliarie. â Forse ad una di coteste colonne spettava il marmo dottamente illustrato dal Chimentelli nella sua opera de Honore Bisellii, e che egli trovò giacente ed inosservato nel portico della chiesa di S. Pietro in Grado fra Livorno e Pisa. Dico che non doveva esso appartenere alla Via Emilia restaurata dallâImperatore Antonino Pio, anche perchĂŠ quel cippo indicava la distanza di quattro miglia dalla cittĂ di Pisa e non da Roma. Essendochè nella Via Emilia di Scauro al pari che nelle grandi strade militari scolpivasi il numero delle miglia a partire da quello aureo della capitale del mondo romano.
Aggiungasi che nel cippo di S. Pietro in Grado si leggeva lâepoca in cui esso fu ordinato vale a dire, sotto i tre imperatori Valente, Graziano e Valentiniano II, corrispondente presso a poco allâanno 376 dellâE. V., non piĂš che quarantâanni innanzi che passasse per quella via Rutilio Numaziano. Ma lo scopo principale della gita pedestre di Rutilio da Triturrita a Pisa fu ad oggetto di visitare la statua innalzata dal popolo pisano nel foro della stessa cittĂ a Claudio Numaziano suo padre in benemerenza di aver egli con soddisfazione governato quei sudditi mentre era consolare della Toscana sotto gli ultimi Imperatori dâoccidente. Il qual magistrato equivalente al preside delle 17 provincie di Italia fu instituito dallâImperatore Adriano sino da quando la Toscana formava con lâUmbria una sola provincia; di che abbiamo una prova nella Notitia dignitatum imperii occidentalis, della qual opera si crede autore Sesto Rufo , dicendosi ivi, che il preside della Toscana e dellâUmbria era sottoposto al vicario di Roma, dal quale dipendevano altri otto presidi, o correttori di altrettante provincie dellâItalia. Cotesta ultima divisione politica si mantenne sino allâinvasione dei Goti, sotto il cui dominio i titoli di presidi o correttori si mutarono in quelli di prefetti, e poi di duchi.
2. PISA SOTTO IL DOMINIO DEâGOTI E DEâLONGOBARDI Lâultimo addio a Pisa romana ed ai suoi reggitori lo dava il patrizio Rutilio Numaziano quando, nellâanno 415 al 416 dellâEra volgare, fuggiva da Roma minacciata di restare preda di varie orde di barbari che irrompevano a vicenda dalle Alpi nellâItalia; per modo che il nobile francese volendo far ritorno alla sua patria, per sicurezza maggiore preferĂŹ allâimpeditissimo viaggio terrestre quello marittimo partendo da Roma per la foce del Tevere, e di lĂ costeggiando sopra una feluca il littorale toscano. â (RUTIL. NUMAT. Itinerar. Maritt.) Dalle poche parole che quel poeta lasciò scritte di Pisa si comprende che questa cittĂ nel principio del secolo quinto era sempre fiancheggiata e racchiusa fra i due fiumi Arno e Serchio (Auser) che ivi confluivano. â Che se Pisa non si mantenne in seguito costante sede dei capi della toscana provincia, essa però conservava molto dellâantico lustro, siccome lo diede a conoscere Numaziano stesso nel costume ad imitazione di Roma dai Pisani conservato, come quello di erigere statue agli uomini piĂš benemeriti dello Stato.
Quale poi la cittĂ di Pisa si rimanesse dopo la discesa deâbarbari in Italia, allorchĂŠ lâimpero dâoccidente ricevette lâultima scossa da quella stessa possanza di guerra che sulle rovine delle vinte nazioni lo aveva innalzato, quale fosse precisamente lo stato suo, non si saprebbe in tanta scarsitĂ di memorie e di meno guaste tradizioni plausibilmente ravvisare.
Il feroce Attila con i suoi Unni aveva portato la desolazione nellâItalia, quando alla testa di unâaltra razza di barbari (gli Eruli) nellâanno 478 di GesĂš Cristo per distruggere lâimpero di occidente vi capitò il re Odoacre, sconfitto esso stesso a vicenda dodici anni dopo da Teodorico re deâGoti, il quale costrinse quel re degli Eruli a rinchiudersi in Ravenna, e dopo tre anni di assedio (anno 493) a cedere il regno ad un piĂš valente conquistatore che fece della cittĂ di Ravenna la sua capitale ed una novella Roma.
Dalle lettere del re Teodorico raccolte dal dotto suo segretario Cassiodoro si può dedurre, che sotto quel saggio monarca la marina dâItalia, sia mercantile come da guerra, trovavasi in decadenza. Volendo però Teodorico rimetterla in piedi per far fronte alle forze navali deâGreci, decretò che nei porti del regno si fabbricassero mille bastimenti a guisa di galere (dromoni) capaci non solo di trasportare le merci, ma ancora di opporsi con successo ai navigli deânemici; e ordinava nel tempo stesso al prefetto navale di riunire sollecitamente un numero competente di marinari per formarne lâequipaggio, esclusi i pescatori. â A favorire lâindustria di questi ultimi appella unâaltra lettera di Teodorico diretta al prefetto stesso navale, cui comandava di far toglier di mezzo in alcuni fiumi dellâItalia le siepi, o le serre poste specialmente nel Mincio, nellâOglio, nel Serchio e nel Tevere, sicchĂŠ niuno ardisse mai piĂš di chiudere con tali ostacoli il passo alle barche pescherecce, sul riflesso che rusticani lavori non dovevano impedire la libertĂ dei fiumi mentre lâutile deâ privati non poteva mettersi a fronte di quello di una libera navigazione o della pesca, nĂŠ al pubblico interesse. â (CASSIOD., Epist. Varior. Lib. V. Epist. 17 e 20.) Da questâultima lettera molti dotti hanno arguito che a quellâetĂ , cioè sulla fine del secolo quinto, il Serchio (Auxer) non solo fosse navigabile, ma che avesse un corso suo proprio fino al mare. Peraltro le espressioni dellâepistola predetta non basterebbono a decidere il quesito, che sotto il regno di Teodorico il fiume Auxer (tradotto in Serchio), cessasse di essere tributario dellâArno, e che esso sboccasse direttamente nel mare Mediterraneo, siccome non sboccarono mai direttamente nellâAdriatico i due fiumi del Mincio ed Oglio che influiscono entrambi nel maggior fiume dâItalia.
Sembrami appunto per questo, se non mâinganno, che il Poâ ed altri grossi fiumi dellâItalia superiore non furono in quelle lettere nominati per lâimpossibilitĂ di opporre al loro corso impetuoso serre od altri ostacoli di simil fatta.
Mancato però il genio di Teodorico, la risorta marina al pari di molte altre opere di quel benemerito principe disparvero dallâItalia e dalla Toscana in guisa che le navi mercantili non azzardarono far piĂš lunghi tragitti. Cotesta trascuratezza nei successori di Teodorico per la difesa delle coste del regno facilitò ai Greci la discesa nella penisola che ricuperarono lâimpero.
Pisa con il restante della Toscana era in mano deâGo ti quando Narsete generale dellâImperatore Giustiniano, dopo la vittoria nellâUmbria sopra il re Totila riportata, mosse porzione del suo esercito verso lâEtruria. Tutte le cittĂ , meno Lucca, accolsero senza ostacolo i vincitori, i quali non pare che alterassero gran fatto il sistema organico delle gotiche magistrature, mentre conservarono le cariche e ufizj di provincia e di municipio che la vinta nazione aveva introdotto, o mantenuto, comâerano eglâimperatori dâoccidente, con la differenza però che i Greci invece deâprefetti di provincia sostituirono comunemente i duchi. Infatti uno di questi ultimi magistrati restò, o fu dato a Lucca dopo la sua onorevole capitolazione.
Se Pisa anchâessa fino dâallora avesse un duca proprio,o se quello di Lucca presedesse allâuna e allâaltra cittĂ , niuna memoria lo manifesta, nĂŠ anche dopo lâarrivo deâLongobardi dai quali furono espulsi i Greci dallâalta Italia, dalle provincie dellâUmbria e della Toscana, senza dire della conquista piĂš lontana da essi lungamente mantenuta del ducato di Benevento.
I soli esarchi, che a nome deglâimperatori dâoriente dopo Narsete risedettero in Ravenna, ed il pontefice in Roma, poterono a forza di armi, e talvolta per via di tregue o di paci a breve durata mantenersi in stato. â Era sul principio del secolo VII quando le cittĂ di Pisa e di Sovana in maremma governavansi quasi a repubblica, tostochè il Pontefice S. Gregorio Magno a quel tempo inviava colĂ gente incaricata dâindurre entrambi quei Comuni a favorire la causa dellâimperatore Maurizio di Costantinopoli. Ma nulla di buono il sommo gerarca per allora ottenne dai Pisani; chè anzi lo stesso Papa dovĂŠ informare lâesarca di Ravenna esservi nel porto di Pisa preparati i dromoni, o galere, per escire in corso contro le navi deâGreci e contro i sudditi dellâImperatore. â (S.
GREGORII MAGN. Lib. XIII Epist. 38. Smeragdo Patricio et Exarco).
Dalle quali cose risulta, che Pisa dopo lâingresso deâLongobardi in Italia continuò per molto tempo a mantenersi libera piuttosto che suddita dei Longobardi, benchĂŠ questi gia da 45 anni avessero fermato il piè in Italia. â Quando un loro duca stabilisse la residenza in Toscana, per guardare specialmente i confini lungo il littorale, non vi è dato sicuro da dirlo; siccome non potrebbesi asserire che quel duca Allovisino rammentato allâanno 686 in un diploma dato in Pavia dal re Cuniperto relativamente alla fondazione della chiesa di S. Frediano in Lucca, fosse duca di Toscana piuttosto che di altra provincia del regno: e nettampoco se questi o altri duchi longobardi suoi coetanei tenessero costantemente la loro sede in Lucca. â Vedere lâArticolo LUCCA.
â Comunque fosse, è certo però che allâespulsione deâLongobardi dallâalta Italia per opera di Carlo Magno, trovavasi in Pisa un duca militare e politico incaricato di guardare e difendere dalle scorrerie piratiche dei Greci la spiaggia toscana. Esisteva pure a questâultima epoca in Pisa al pari che in Lucca il palazzo e la corte dei duchi, siccome a Pisa al pari che a Lucca dai re Longobardi era stato concesso il diritto di batter monete di egual bontĂ e valore.
Delle quali veritĂ fanno testimonianza non solamente varj documenti pisani dei secoli VIII e IX, ma due lettere del pontefice Adriano I allâImperatore Carlo Magno, le quali ci scuoprono che il duca Allone longobardo, conservato, o nominato dal nuovo re al governo di Lucca e di Pisa aveva lo special incarico di custodire e difendere la spiaggia toscana dalle scorrerie e rapine dei Greci.
Ă altresĂŹ vero che qui non si tratta del periodo del regno deâLongobardi in Toscana, ma dei primi anni del conquistatore sopranominato. Alla qual difficoltĂ rispondere si potrebbe, che ignorando noi dal principio del secolo VII fino alla cacciata deâLongobardi il sistema politico del governo di Pisa sia credibile che al duca di Lucca fosse affidata la difesa di tutta la costa marittima toscana, e che essendo in Pisa e nel suo porto il principale emporio ed il maggiore arsenale della Toscana, non si potrebbe ragionevolmente insistere a impugnare come non verosimile la congettura, che anche allora la cittĂ di Pisa venisse contemplata dai Longobardi come punto centrale delle operazioni governative e militari di quella marca.
GiĂ allâArticolo LUCCA (Volume II. pagina 824) io diceva, che se la storia non fu generosa abbastanza per indicarci il tempo preciso della conquista della Toscana fatta dai Longobardi, essa per altro ne ha in qualche modo ricompensato col mostrarci fino dai primi anni del regno di Carlo Magno in Lombardia un duca di Pisa e di Lucca nella persona medesima e al tempo stesso. Tale fu il duca Allone testĂŠ rammentato, a carico del quale il Pontefice Adriano piĂš di una volta ebbe a reclamare al suo sovrano, e specialmente in una lettera riportata al numero 65 del codice Carolino, colla quale il Papa informava Carlo Magno di non aver potuto indurre il duca Allone ad armare tante galere da tenere in freno e dar la caccia ai Greci; nel tempo che questi facevano molto danno colle loro navi alle spiagge toscane, imbarcando gli abitanti che abbandonavano un paese afflitto (diceva egli) dalla miseria e dalla carestia.
E qui cade il destro di richiamare alla memoria una legge del re Rachi scoperta dallâillustre amico mio Carlo Troja nel famoso codice del monastero della Cava presso Salerno, dove si parla delle provincie del regno Longobardo confinanti con gli stati esteri, che fino dâallora designavansi sotto il nome di Marche.
Dalla qual legge fu stabilito che ai confini delle Marche vi dovessero essere delle guardie, sia perchĂŠ i nemici non vi potessero inviare spioni (Scolcas mittere) sia per arrestare i fuggiaschi; sia per non permettere lâingresso nel regno ad alcuno senza ordine in scritto, ossia passaporto (lettera del re). â Vedere lâArticolo CHIUSA.
â (PROGRESSO DELLE SCIENZE Volume I. Fascicolo I. Napoli 1832).
Conosciuta pertanto lâesistenza delle Marche sotto il regno deâLongobardi, sempre piĂš la lettera del Pontefice Adriano I ne convince che lâautoritĂ del duca Allone, nei primi tempi almeno del regno di Carlo Magno in Italia, non si limitava al solo ducato di Lucca, tosto che Pisa e molta parte delle toscane maremme dipendevano da un solo governatore. Lo che accadeva nel tempo che il re Carlo assegnava un duca minore alle cittĂ di Firenze e di Chiusi comprese pur esse nella Toscana deâLongobardi, Unâaltra lettera (la 55 del codice Carolino) fu diretta da PP. Adriano I a Carlo Magno col mezzo dellâabate Gunfredo cittadino di Pisa; nella quale dopo aver ringraziato quel Magno conquistatore di aver liberato dallâostaggio e restituiti i beni allâabate predetto, gli notifica lâostacolo che lo stesso abate incontrava per parte del duca Allone, il quale, anzichĂŠ restituirgli i presidj confiscati, aveva tesi lacci alla vita di lui nellâoccasione di ritornare in Toscana. II quale abate Gunfredo io riconobbi essere uno dei figli dellâabate S. Walfredo nato da Radgauso cittadino pisano, che sino dal 754 fondò nei suoi beni la badia di S. Pietro a Palazzuolo in Maremma.
â Vedere gli Articoli ABAZIA DI MONTEVERDI, ASILATTO e BOLGHERI.
Ma unâaltra gloria nel secolo VIII può vantare la cittĂ di Pisa, quella di essere stata culla al primo lettorato italiano che conta la storia in quei tempi dâignoranza; intendo dire di Pietro Diacono, il quale professò le belle lettere in Pavia nel palazzo stesso di Carlo Magno, di cui divenne anche maestro, benchĂŠ Pietro fosse giunto allâetĂ senile; e lui stesso può anche dirsi il primo professore italiano che Carlo Magno chiamasse a insegnare le belle lettere in Francia; sicchĂŠ a buon diritto il du Boulay, nella sua Hist.
Univ. Parisien., ebbe a confessare che il pisano Pietro Diacono fu meritatamente il primo istitutore delle regie scuole in quel regno.
3. PISA SOTTO I MARCHESI DI TOSCANA Un fatto di qualche entitĂ per la storia politica della Toscana mi sembra quello di trovare sul principio del secolo IX applicato il titolo di conte a quei governatori medesimi, i quali verso la fine del secolo precedente appellavansi duchi; come anco di riscontrare i soggetti stessi decorati del doppio incarico di conte speciale di una cittĂ e di duca di una provincia.
Per spiegarmi meglio io rammenterò due fatti, sebbene siano stati annunciati allâArticolo LUCCA (Volume II pag. 825).
Wincheramo, successore di Allone nel ducato della Toscana, o almeno di una sua gran parte, innanzi lâ810, stando ai documenti superstiti lucchesi, si qualificava col titolo di duca; mentre in tre placiti proclamati in Lucca dopo il detto anno Wincheramo si sottoscriveva conte, o, si voglia dire, capo del governo di quella stessa cittĂ .
Un simile esempio trovasi poco dopo rinnovato nel duca Bonifazio I che a Wincheramo successe col titolo di conte di Lucca e di duca della Toscana. In riprova di ciò sarebbe un istrumento dellâaprile 813 scritto in Lucca, nel quale Bonifazio è qualificato dai Lucchesi illustrissimo conte nostro , mentre nel marzo dellâanno precedente egli aveva celebralo un altro giudizio in Pistoja come duca.
Esser doveva suo figlio quel conte Bonifazio II, cui nellâ828 fu affidata dallâImperatore Lodovico Pio una onorevole commissione dopo che venne nominalo di lui prefetto e governatore nella Corsica, quando Bonifazio II come duca mandava ordini ai conti delle cittĂ della marca di Toscana per recarsi coi loro soldati, mettendosi lui alla testa, contro i pirati affricani. â Ed era, io credo, lo stesso Bonifazio II quello che si sottoscriveva col titolo di conte, allorchĂŠ nellâ823 in Lucca prestava il suo consenso alla sorella Richilda figlia del fu conte Bonifazio; la qual donna era stata eletta in badessa di uno di quei monasteri. Viceversa nei placiti e istrumenti scritti in altre cittĂ della Toscana i due Bonifazj qui sopra nominati si qualificavano talora solamente duchi, ed altre volte col doppio titolo di duchi e di conti.
Che lâingerenze deâconti equivalessero a quelle di giudice, o governatore di una cittĂ e suo contado, forniscono ragioni per crederlo oltre i documenti dal Muratori in prova di ciò riportati, quello di trovare un Aganone conte di Lucca successore immediato del conte Bonifazio II. Il quale Aganone sembra che esercitasse la carica di conte di Lucca (dallâ838 allâ844) e poscia in Pisa (loc.cit.), e ciò nel tempo stesso che presedeva al governo della Toscana lâillustrissimo duca Adalberto I figlio del duca e conte Bonifazio II.
Da tutto ciò pertanto ne conseguita che non sempre il personaggio stesso disimp egnava in Toscana il duplice incarico di duca e di conte. Infatti nel dicembre dellâ858 troviamo Adalberto I nella corte regia di Lucca presedere come duca di Toscana un giudicato, assistito dalle due principali dignitĂ ecclesiastiche e politiche della cit tĂ cioè, da Geremia vescovo di Lucca, e dal fratello di lui conte Ildebrando figlio del fu Eribrando. Allâincontro pochi anni dopo (anno 865) sotto il duca Adalberto II incontriamo in Lucca un conte Winigi, probabilmente quello stesso personaggio di origine francese che due anni dopo risiedeva in Siena insignito della dignitĂ medesima di conte di quella cittĂ e provincia, e che ivi divenne stipite dâillustre e potente consorteria di magnati. â Vedere ABAZIA DELLA BERARDENGA, ASCIANO, ecc.
Finalmente trovo il duca Adalberto II, che ad imitazione di suo padre, dellâavo e del bisavo si appropria lâuna e lâaltra dignitĂ , cioè, di conte della cittĂ e distretto di Lucca, nel tempo che era decorato della piĂš estesa prerogativa di duca della Toscana. â A questâultimo titolo di duca dâallora in poi si dovĂŠ aggiungere lâaltro di marchese, equivalente a governatore civile e politico di qualche marca. (loc. cit.) Tale ci si presenta un editto dellâImperatore Lodovico II dato lĂŹ 18 dicembre 871 e pubblicato dal Fiorentini nelle memorie della contessa Matilde, con cui quel sovrano, ad istanza di Gherardo Vescovo di Lucca,che reclamava dei beni tolti alla sua mensa, nominò in giudici a quel placito i vescovi di Pisa, di Pistoja e di Firenze, non che Adalberto illustre conte e marchese, insieme col conte Ildebrando e Ubaldo fedele dellâImperatore.
Dondechè dal duca Adalberto II in poi, tutti quelli insigniti della carica di duca si qualificarono indifferentemente marchesi e duchi della Toscana, o dei Toscani. Frattanto non dissimulerò che, per quanto esista piĂš dâun istrumento, in cui il conte di Lucca viene qualificato duca e marchese della stessa cittĂ ; che, sebbene qualche volta si legga nelle memorie, che Lucca fu capo di tutta la Marca dl Toscana, non mancano altre scritture, nelle quali si dichiara intorno a quellâetĂ anche la cittĂ di Pisa capo della provincia di Toscana. â (LIUTPRANDI, Histor. Lib. 21 Cap. 4). â Concluderò pertanto col Muratori, che i duchi e marchesi della Toscana, abitando in una piuttosto che in altra delle cittĂ sopraindicate, conferivano a quella della piĂš assidua loro residenza il diritto di appellarsi capitale della marca ducale, ossia del marchesato di Toscana.
Ma per tornare alla storia speciale di Pisa sia da sapere che, nellâanno 926,vi sbarcò venendo dalla Francia meridionale il re Ugo figlio della regina Berta e di Teobaldo re di Provenza; e che, appena si propagò il di lui arrivo, accorsero a Pisa da varie parti dellâItalia magnati, ambasciatori, principi, i quali coi delegati apostolici inviati dal Pontefice Giovanni X, recatisi di lĂ in Pavia proclamarono e incoronarono Ugo in re dâItalia.
GiĂ da qualche anno questo monarca reggeva la penisola quando al marchesato di Toscana subentrò un figlio spario, il marchese Oberto salico , padre del gran conte Ugo, che fu poi di Oberto stesso successore finchĂŠ visse (anno 1101) nel marchesato medesimo. Era madre di quel marchese Ugo la contessa Willa nata da un Bonifazio di legge ripuaria forse anchâesso marchese di Toscana. La qual contessa, per istrumento dato in Pisa nel 31 maggio del 978, fondò nei suoi possessi la badia fiorentina, mentre 9 anni innanzi la principessa medesima era in Lucca, dove per contratto del dĂŹ 8 luglio, anno 969, fece acquisto da un tale Zanobi della chiesa di S. Stefano situata presso le antiche mura di Firenze, dove poi la contessa Willa fece costruire la chiesa e cenobio della badia preaccennata. Arroge che il governo di Pisa anche in quel tempo era preseduto da un conte, mentre trovavasi in essa cittĂ un conte Rodolfo, rammentato in tre carte pisane del 949 e 964 edite nelle AntichitĂ italiane dal Muratori.
Comecchè dai fatti testĂŠ accennati si possa dedurre, che la madre del marchese Ugo abitasse talora in Lucca, tal altre volte in Pisa e in Firenze, nel tempo che il gran conte Ugo suo figlio reggeva la Toscana in qualitĂ di marchese, contuttociò questo principe, il quale figurò dallâ870 sino al principio del secolo X alla testa del governo toscano, fece della cittĂ di Lucca piuttosto che di Pisa la sua sede principale, sicchĂŠ in Lucca si coniarono monete dâargento col suo monogramma e titolo di marchese aventi nel rovescio il nome della stessa cittĂ . â Vedere LUCCA.
Volume II pag. 834 e 835.
Non dirò se cotesta preferenza accordata dai marchesi di Toscana alla cittĂ di Lucca piuttosto che a Pisa, quando questâultima continuava a contemplarsi quasi capitale della Toscana, servisse mai a fomentare quelle civili discordie che poi si accesero con tanto danno fra le due popolazioni limitrofe.
Ma chi concorse a dargli fuoco, donde avesse origine il primo fatto dâarmi fra Pisa e Lucca nel 1003 battagliato, donde cotesto fatto, che può riguardarsi come un albore del risorgimento dei municipj italiani nel medio evo, traesse per avventura alimento, ciò sembra ancora da dimostrare. â Che se io non mâ inganno a partito, quella guerra, la quale a confessione del Muratori fu la prima a presentarsi negli annali deâmunicipj italiani, trasse lâorigine, piuttosto che da dissapori cittadineschi, da causa piĂš generale, piĂš elevata. Intendo dire della sollevazione che dopo la morte dellâImperatore Ottone III ebbe principio nellâItalia superiore, per cui fu eletto un re italiano nella persona di Arduino marchese dâIvrea, mentre i principi della Germania, dopo avere con lâarmi alla mano disputato fra essi innanzi di eleggere in re di Alemagna il duca Arrigo di Baviera, volevano che la corona dâItalia si ponesse in testa di uno di loro nazione.
Ognuno sa quanto furono lunghe ed atroci le guerre civili che insorsero in Italia per combattere in favore o contro quei due pretendenti allo stesso trono, guerre le quali diedero occasione alle cittĂ dâItalia di mettere a prova le loro forze, onde assicurarsi di non aver piĂš bisogno di un principe straniero, giacche niuna legge, nessun patto obbligava glâItaliani a dipendere da coronati di oltremonti.
Oltrediciò un privilegio inviato dal re Arduino da Pavia a Lucca nel dĂŹ 20 agosto del 1002 per favorire un monastero di quella cittĂ , solo fra i diplomi di Arduino che conti la Toscana, fa credere, che i Lucchesi prendessero le difese del re italiano, mentre i Pisani erano per il monarca alemanno. Alla qual congettura danno valore le espressioni di unâantico cronista pisano sotto lâanno 1002 (stile comune). Avvegnachè se, al dire del grande annalista Muratori, non prima del 1004 cominciarono nellâalta Italia le guerre di partito che turbarono il regno di Arduino; tostochè egli per due anni restò pacifico fino a che varie cittĂ , principi e vescovi di quella contrada non vacillarono nella fede per gettarsi piĂš o meno apertamente a favorire il re alemanno; non fu però cosĂŹ del popolo lucchese, il quale, al dire di un cronista pisano allâanno 1002 assistito da un esercito sceso di Lombardia si avanzò ostilmente fino a Pappiana nel territorio di Pisa, di dove peraltro dai Pisani lâoste fu respinta fino a Ripafratta. â (BREVIAR. PIS. in Script. R. Italic. T. VI.) Un altro cronista pisano riporta il fatto allâanno dopo (1004 stile pisano) dicendo: Anno 1004 fecerunt bellum Pisani cum Lucensibus in Aqualonga et vicerunt illos. â Vedere lâArticolo ACQUALONGA.
Se è vero pertanto che questa sia la prima azione ostile che ci somministra la storia di una cittĂ della penisola che si muove contro la sua vicina, soggiunge il prelodato Annalista: noi cominciamo a scorgere che le popolazioni delle cittĂ dâItalia al principio del mille giĂ alzavano la testa e si attribuivano, ovvero si usurpavano il diritto regale di muover guerra.
Ma la vittoria deâPisani fu ben presto amareggiata dalla comparsa di altri piĂš fieri nemici, tostochè lâanno dopo dalla parte del mare si presentò un numeroso stuolo di Saraceni che penetrò nella loro cittĂ mettendola a sacco e fuoco. Ă un frammento di cronica pisana, in cui fu registrato allâanno 1005 (stile pisano) il fatto con queste semplici parole: fuit capta Pisa, a Saracenis. â Il Tronci ed il Volterrano con altri piĂš moderni scrittori hanno fatto alla breve frase dellâantico annalista pisano un lungo commento accompagnato da qualche contraddizione, dicendo; che Mugeto re deâSaraceni, fattosi giĂ padrone della Sardegna, avendo inteso che i Pisani colla loro armata navale erano passati in Calabria contro i barbareschi, che pure vinsero a Reggio nellâagosto del 1004 (stile comune), profittò dellâoccasione in cui la cittĂ di Pisa trovavasi sprovveduta di combattenti per dirigersi con grossa armata navale alla foce dâArno e di lĂ coi suoi Mori correre addosso alla cittĂ di Pisa che prese, dandogli il sacco e bruciandone la porzione situata alla sinistra del fiume. La qual porzione di cittĂ si suppone che si chiamasse Chinzica, perchĂŠ una valente donna di tal nome della famiglia Sismondi, vedendo il pericolo della patria, corse di lĂ al palazzo del comune, e fatto dar nella campana a martello, i Saraceni spaventati da tanto allarme e frastuono fuggissero dalla cittĂ tornando sui bastimenti carichi di preda. Soggiungono di piĂš, che liberata Pisa per tale effetto, il Comune decretasse lâerezione di una statua alla matrona benemerita, e che fosse indicata col nome di Chinzica la parte abbruciata della cittĂ . â Il Muratori per altro su tal proposito fece osservare altro essere la sconfitta a Reggio di Calabria deâSaraceni, altro lâessersi Mugeto impadronito di Pisa, sebbene di ciò non resti vestigio che dia qualche appoggio maggiore a cotesti fatti.
â Ecco come per un mal inteso zelo di patria si alterano i fatti delle storie municipali.
Frattanto non è da tralasciare lâavviso che nelle carte pisane dei primi anni del regno di Arrigo I fino al 1014 mancano le indicazioni relative al re dâItalia, cioè, fino a che questo sovrano non ricevĂŠ dal Pontefice Benedetto VIII la corona imperiale. Infatti nel suo ritorno da Roma Arrigo I emanò presso Pisa tre diplomi, due dei quali dati nella villa di Fagiano, uno in favore del vescovo e capitolo di Volterra e lâaltro della badessa e monastero di S. Salvatore di Lucca, segnati con le note cronologiche seguenti: Datum anno dominicae Incarnationis MXV (stile pisano) Indict. XII, anno Domini Henrici Imperatoris Augusti regnorum XII, imperii ejus I. Actum in Comitatu pisano in villa, quae dicitur Fasiano. Il terzo diploma in favore dellâabate e monaci Cistercensi della badia a Settimo presso Firenze ha le nostre medesime con la data però di altra villa suburbana di Pisa. Actum Papiano . â Vedere lâArticolo PAPPIANA nella Valle del Serchio.
Cotesti privilegj imperiali, mancando del giorno e del mese, non danno a conoscere quando e quanto tempo a un dipresso lâImperatore Arrigo I soggiornasse in Pisa o nei suoi suburbj, benchĂŠ sia da credere che ciò accadesse fra il 26 marzo, giorno in cui lo troviamo in Roma, e la Pasqua di Resurrezione dellâanno stesso 1014 dallâImperatore Arrigo celebrata in Pavia. â (MURAT.
Annal. allâanno 1014).
A quel tempo peraltro la Toscana era governata in nome di Arrigo I da un marchese Ranieri, il quale succedere dovette ad un Marchese Bonifazio figlio che fu di un conte Alberto di legge ripuaria; e ciò nel tempo stesso in cui varie città della Toscana erano presedute da un conte.
In prova di ciò può vedersi nelle AntichitĂ italiane un placito a favore della badia aretina con la data dellâanno 1016, mese di ottobre, indizione XIV, anno terzo dellâimpero di Arrigo, che principia: Dum Raginerius marchio et dux Tuscanus placitum celebraret in civitate Aretina cum Hugone comite ipsius comitatus. Che questo marchese Ranieri figlio di un Conte Guido fosse lâautore piĂš remoto dellâillustre famiglia deâmarchesi del Monte S.
Maria, lo dimostrai allâArticolo MONTE S. MARIA, e a quello di LUCCA, dove lo incontrammo fra il 1026 e il 1027 per far fronte alle armi dellâImperatore Corrado I. â Dopo questâultima epoca quel toparca, o mancò di vita, o piuttosto cadde in disgrazia di quellâImperatore, tostochè nellâanno 1028 era alla testa del governo di Toscana il marchese Bonifazio di origine o legge longobarda quello stesso Bonifazio che fu padre della gran contessa Matilda natagli dalla seconda moglie, la contessa e marchesa Beatrice.
In questo mezzo tempo i Pisani uniti ai Genovesi fecero le prime imprese della Sardegna (anno 1016) dove vinsero Mugeto re deâSaraceni, il quale due anni innanzi con gran stuolo di navi aveva sbarcato molti Mori nella spiaggia di Luni, devastando affatto la giĂ cadente cittĂ e depredando tutto il suo vicinato â Le cronache pisane riportano sotto lâanno 1016 la spedizione dei Pisani e dei Genovesi in Sardegna, ma da quel che segue si conosce essere ciò accaduto nellâanno dopo; giacchĂŠ nel 1017 (stile pisano) il Pontefice Benedetto VIII spedĂŹ a Pisa il cardinal decano vescovo dâOstia per animare quel popolo a cacciar di Sardegna il re Mugeto, siccome fu lâanno appresso con felice successo eseguito, allorquando quel capo corsaro con i suoi fu costretto a tornare in Affrica dai Pisani e Genovesi che sâ impadronirono, se non di tutta, almeno della parte piĂš littoranea di detta isola. â Ma non tardò fra i due popoli alleati a insorgere discordia tale che fu la prima foriera di ripetute guerre terribilmente accanite.
Che sebbene i Genovesi facessero ogni sforzo per scacciar dalla Sardegna i loro rivali, ciò non ostante i Pisani alla fin fine restarono padroni dellâis ola.
Tale fu il principio luminoso che ebbe la potenza pisana nel medio evo, tuttochĂŠ la Toscana continuasse ad esser soggetta ai marchesi. â NĂŠ mancò a celebrare cotesto avvenimento la tromba epica di un poeta pisano, Tolomeo Nozzolini, che cantò la sua Sardigna recuperata in ottava rima per farne 18 canti, che videro la luce nel 1632 in Firenze a dispetto di Apollo e delle Muse. â Non andò guari però che Mugeto coi suoi Saraceni tornò piĂš forte dallâAffrica nella Sardegna, (anni 1020 e 21) per ritogliere ai Pisani le sue perdute possessioni. Allora questi ultimi si associarono di nuovo ai Genovesi per vendicare in comune le crudeltĂ novelle del feroce barbaresco. Fu felice al pari della prima la seconda spedizione dei due popoli italiani, perchĂŠ malgrado lâardore e la rabbia di queâMori prevalse il coraggio deâcollegati, i quali costrinsero il re corsaro a cercare unâaltra volta lo scampo nella fuga. II ricco tesoro di Mugeto caduto nelle mani deâvincitori fu ceduto ai Genovesi in ricompensa delle spese e fatiche da essi sofferte; giacchĂŠ, al dire dei cronisti pisani, il Comune di Genova non avrebbe allora acquistato alcun diritto sulla Sardegna, mentre gli annalisti di questa repubblica asserivano il contrario. â (BREVIAR., PISAN. in Script.
R. Ital. T. VI. â MANNO, Storia della Sardegna T. II. â MURAT. Annal. ad ann. 1021.) Fu allora, soggiunge il Tronci neâsuoi annali, che i Pisani, avendo fortificata la cittĂ di Cagliari e gli altri luoghi piĂš importanti dellâisola, divisero il governo di Sardegna nei quattro giudicati, o reami, di Cagliari, cioè, di Torres, di Gallura e di Arborea, o per dir meglio col Muratori e col Manno, essi vi serbarono la maniera stessa di regime che aveva giĂ da molto tempo la Sardegna, obbligando solamente i giudici delle quattro provincie di sopra nominate a riconoscere lâalto dominio dei conquistatori. â Che anzi da un fatto intorno allâanno 1065 narrato da Leone Ostiense (Cronic. Lib. VII. cap. 15) si scorge, che i Pisani miravano con qualche malumore i Sardi sudditi di Barisone dâArborea, uno deâgiudici o regoli di quellâisola, in guisa chè (soggiunge Muratori) si può sospettare che molto piĂš tardi la potenza pisana fissasse il piede nella Sardegna.
Infatti la storia delle invasioni di Mugeto e delle conquiste di detta isola, a confessione del diligentissimo Cavaliere Manno, trovasi involta in gravi dubbiezze; e quasichè non bastasse ai Pisani di aver cacciato dalla Sardegna il feroce Mugeto, si aggiunge, come essi con numeroso naviglio lo andassero a rintuzzare fino nel suo nido nativo sulle coste dâAffrica; e che allora (anno 1034) una flotta pisana dopo essersi impadronita della cittĂ di Bona, fece dono allâimperatore della corona tolta al regolo affricano.
Al qual fatto glorioso riferisce una iscrizione in marmo esistente nella facciata del duomo di Pisa sotto quella che rammenta la conquista, non saprei dire se prima o seconda, dellâisola di Sardegna, pubblicata nelle due edizioni della Pisa illustrata dal Morrona, il quale assegnò lâanno MXXXIIII allâiscrizione superiore.
Fondato su di ciò anche lâannalista Tronci lasciò scritto, che i Pisani, dopo avere ricevuto il vessillo di S. Pietro dal delegato della S. Sede, corsero e invasero tutta la Sardegna, di dove lo stesso Mugello fuggĂŹ prima che vi sbarcassero i suoi nemici; lo che secondo quellâannalista sarebbe accaduto nel 1033 dellâEra cristiana (stile comune).
Il Muratori ed il Manno hanno qualche ragione da dubitare della veritĂ di questâultimo fatto, o almeno dellâepoca, e piĂš che altro delle circostanze, le quali furono dagli storici genovesi diversamente raccontate, tostochè dissero il re Mugeto fatto prigioniero nel conflitto accaduto in Sardegna, e che i Genovesi, ai quali era stato dai Pisani consegnato, fecerâ omaggio di lui come del miglior trofeo della vittoria, e non della sua corona allâImperatore. â (FOLIET. Genuens. histor. Lib.
I.). Chi potrĂ infine conciliare tutto ciò con altro frammento di cronica riportato nelle note alla vita di Papa Gelasio, nel quale leggesi: che i Pisani, divenuti padroni della Sardegna, ritornarono in patria conducendo dietro al trionfo lo stesso re Mugeto, il quale gia nonagenario ebbe poco stante a morire prigioniero nella cittĂ di Pisa ? â (MURAT. Script. R. Ital. T. III. P. I.) Pertanto tutti cotesti armamenti, cotante imprese gloriose al popolo pisano si faceva sotto gli occhi del marchese Bonifazio, che a nome dei re dâItalia allora presedeva al governo della Toscana. â Ne qui terminarono le gesta marittime del popolo di Pisa, poichĂŠ, se nellâanno 1058 i Toscani sotto il comando del Marchese Goffredo di Lorena (il secondo marito della contessa Beatrice) combatterono in favore della S. Sede contro Riccardo principe di Capua nella speranza di cacciarlo dalla Terra di Lavoro; se un nuovo esercito guidato dal marchese predetto fu di lĂ respinto dai nemici insieme col suo duce; se quattrâanni dopo lo stesso duca Goffredo conduceva a Roma dalla Toscana un corpo di truppe a difesa del legittimo pontefice Alessandro II contro lâantipapa Cadalao; se cotesto duca nel 1066 vi tornò con tante forze toscane per abbattere lâinsolenza del conte Riccardo e deâ suoi Normanni al punto che questi ultimi dovettero ripararsi dentro la cittĂ dâAquino e abbandonare al nemico tutta la Campania romana; se, io diceva, in tutte azioni militari comandate da un marchese di Toscana i Pisani, benchĂŠ non siano nominati, dovettero far parte comâ è credibile dellâesercito marchionale, bisogna ben credere che la cittĂ di Pisa fosse in uno stato prosperoso tostochè il suo governo armava nel tempo stesso (anno 1062) numeroso naviglio per spedirlo nel mare di Sicilia in soccorso ai fratelli Roberto e Ruggieri conti di Normandia? E poichĂŠ allora il C. Ruggieri non potĂŠ cosĂŹ presto assediare per terra i Saraceni in Palermo, la flotta pisana a vele gonfie andò ad urtare nella catena che serrava quel porto, e rottala, entrò francamente dentro dove sâimpadronĂŹ di sei navi cariche di varii oggetti, cinque delle quali si crede date alle fiamme, menando a Pisa la piĂš copiosa di tesori; sicchĂŠ poi con quelle ricchezze fu dato principio (anno 1063) alla magnifica fabbrica della Primaziale. â Anche di cotesta gloriosa impresa leggesi tuttora ricordo scolpito in marmo nella facciata della stessa cattedrale pisana â (MURAT., Annal. ad ann. 1063.
â MORRONA, Op.cit. ecc.) Aggiungasi che in quegli anni medesimi abitavano nella stessa cittĂ conti e visconti, i quali diedero il casato allâillustre antichissima prosapia deâConti di Donoratico e della Gherardesca, non meno che alta celebre famiglia dare Visconti.Tali furono quei figli del conte Teudice autore di numerosa figliuolanza, quel visconte Sigherio padre dâIldebrando, di Pietro e di altro Sigherio, quel Gherardo figlio di Ugo di Gherardo Visconti, soggetti che figurarono in Pisa nel secolo XI, e piĂš ancora i discendenti loro neâtempi successivi.
Mancato di vita nel 1069 Goffredo marchese di Toscana, la contessa Beatrice vedova di lui continuò a governare, prima sola, poi con la figlia Matilda e col di lei marito Goffredo il Gobbo nato al Marchese Goffredo di Lorena dalla prima moglie. Infatti troviamo la stessa Beatrice nel 17 gennajo dellâanno 1073 insieme col duca e marchese Goffredo suo genero risedere in Pisa nel palazzo regio, dove i personaggi medesimi, assistiti da Ugo Visconti, da Guido vescovo di Pisa e da altri vescovi e magnati della Toscana, pronunziarono un placito in favore del monastero di S. Ponziano di Lucca.
Dal lodo qui sopra accennato si comprende bene che il giovine Goffredo dopo maritato alla gran contessa era stato ammesso al governo della Toscana, finchĂŠ nel mese di febbrajo dellâanno 1076 il gobbo marito fu visto perire di morte violenta senza lasciar figliuoli, probabilmente con poco dispiacere della suocera, della moglie e di Papa Gregorio VII, sul riflesso che quel duca era troppo partigiano di Arrigo IV. Ma due mesi dopo la contessa Matilda si trovò orbata anche della sua madre, donna di animo virile e di gran prudenza. â La qual principessa essendo morta in Pisa, fu onorevolmente sepolta in nobilissimo sarcofago di greco scalpello. NĂŠ si deve tacere lâimproperio scagliato da Donizone ai Pisani, perchĂŠ un cotanto illustre matrona anzi che nella sua rocca baronale di Canossa nella cittĂ di Pisa fosse stata tumulata. Contuttociò quella monacale diatriba giova alla storia a meglio conoscere quanto allora Pisa fosse mercantile e da quali e quante genti di religioni e contrade diverse frequentata.
Per modo che bisogna credere che nel secolo XI esistesse in cotesta cittĂ un ricco emporio con porto franco aperto anco agli infedeli del piĂš lontano oriente; cosa che parve a Donizone unâindegnitĂ dicendo: Qui pergit Pisas videt illic monstra marina, Haecurbs Paganis, Turchis, Libycis quoque Parthis Sordida, Chaldaei sua lastrant littora tetri.
Prosperando di tal maniera in Pisa la mercatura, fia molto facile a concepirsi il perchĂŠ quel popolo, non solo rapporto al commercio ed alla sua marina, quanto rispetto alla costruzione di pubblici grandiosi monumenti innalzati nella sua patria, precedesse gli altri popoli e cittĂ della Toscana e della maggior parte dellâItalia.
II sarcofago della contessa Beatrice dalla muraglia laterale del duomo nel 1810 fu trasportato nel vicino magnifico camposanto, e nel dĂŹ 8 febbrajo si apri lâurna alla presenza del Maire, dellâoperajo, del pittore Carlo Lasinio, del Prof. Sebastiano Ciampi, di due altri antiquarii e del notaro che descrisse i pochi avanzi ivi rimasti. Alla qual funzione per caso si trovò presente fra gli estranei il compilatore di questo Dizionario. â (MORRONA , Pisa illustrata, Edizione II. Volume II. â GRASSI, Descrizione Storica e Artistica di Pisa , Parte Artistica, Sezione I.) Rimasta sola al governo di Pisa, di Lucca e di tutta quanta la Toscana, la gran contessa Matilda, essa diede presto a conoscere il suo valore nelle dispute religiose e nelle difficili questioni politiche, nelle quali trovavasi involta in quellâetĂ anco lâItalia, a partire massimamente dallâanzidetto anno 1076, alloraquando il Pontefice Gregorio VII ebbe a fulminare dal Laterano scomuniche terribili contro lâImperatore Arrigo IV ed i numerosi suoi partigiani, ecclesiastici e secolari.
Non starò qui a ripetere, come cosa troppo vieta e non affatto al nostro proposito, il viaggio della contessa Matilda a Roma, la compagnia che nel 1077 fece al Pontefice prima in Piemonte, poi nel contado di Reggio per onorarlo nella inespugnabile sua roccia di Canossa, dove seguĂŹ con Arrigo IV quella scena che fece allora e che farĂ grande strepito nei secoli avvenire. Spetta bensĂŹ alla storia parziale e contemporanea di Pisa un altro fatto relativo al suo commercio, e tale da provare che, se Venezia a quellâetĂ era lâemporio dellâoriente, Pisa figurava fra le prime cittĂ dellâItalia occidentale.
Imperocchè a quella stessa epoca i Pisani avevano giĂ adottato alcune regole commerciali per decidere le controversie marittime, le quali furono approvate nel 1075 dal Pontefice Gregorio VII, e confermate sei anni dopo dallâImperatore Arrigo IV, allâoccasione che questo monarca nel 1081 in Pisa stessa sottoscrisse un trattato fra lâImpero e quella ComunitĂ . Col quale atto pubblico, oltre varie esenzioni a favore della cittĂ di Pisa e suo contado, Arrigo IV prometteva, ET CONSUETUDINES, quas (Pisani) habent in mari, sic eis observabimus, sicut illorum EST CONSUETUDO .... Legem non faciemus de Pisanis hominibus, nisi de suprascriptis locis (de alia civitate, castello, villa, vel de alio signoratico) vel EORUM SENIORES, qui offensio nem fecerint; legem faciant prius Pisanis hominibus. Fodrum de castellis PISANI COMITATUS non tollemus, nisi quomo lo fuit consuetudo tempore Ugonis Marchionis.... Nec Marchionem aliquern in Tuscia mittemus SINE LAUDATIONE HOMINUM DUODECIM ELECTORUM in colloquio facto sonantibus campanis, etc.
Il Muratori, che fu il secondo dopo lâUghelli a pubblicare questo documento, vi riconobbe, egualmente che in un altro diploma di Arrigo III del 1055, il seme della rinascente libertĂ delle cittĂ italiane; e forse fu il primo a dedurre con giusta critica la conseguenza importantissima, che fin dal tempo che regnava in Italia Arrigo III i diritti e prerogative di conte potessero trasferirsi nel corpo decurionale delle cittĂ italiane, lasciando quasi intatti quelli del marchese. â Ă altresĂŹ vero che nel diploma di Arrigo IV a favore del Comune pisano, non solo manca qualsiasi menzione del conte di Pisa, ma nettampoco vi si rammenta la contessa Matilda marchesa di Toscana, perchĂŠ ribelle ad Arrigo stesso, siccome non è rammentata la contessa Beatrice di lei madre, nĂŠ il padre suo Marchese Bonifazio, nĂŠ qualche altro marchese loro antecessore. Vi si parla per altro dei tributi che il ComunitĂ di Pisa soleva pagare agli Imperatori come sovrani dâItalia al tempo del Marchese Ugo, il quale, como ho detto, governò la Toscana negli ultimi 30 anni del secolo X, e nel primo anno del secolo susseguente. Ma quello che piĂš importa e il sentire in quellâatto la promessa di Cesare di non nominare nĂŠ dâinviare dâallora in poi alcun marchese in Toscana senza lâapprovazione dei dodici eletti (i 12 consoli, o 12 anziani) di Pisa chiamati nel consiglio del popolo a suono di campana.
In conclusione il diploma di Arrigo IV del 1081, oltre a confermarci il fatto solennissimo che la cittĂ di Pisa fin dâallora aveva un regolamento col titolo di Consuetudini di Mare, ci scuopre anco che il suo magistrato civico si eleggeva dal popolo in pubblico consiglio e che si componeva di 12 buonuomini conosciuti allora col nome di Consoli poscia di Anziani, vale a dire, tre per ogni quartiere della cittĂ .
Sebbene nel privilegio suddetto manchi la data del giorno e del mese, non sarĂ difficile a rintracciarsi qualora si considera che Arrigo IV era in Lucca nel 25 luglio del 1081 dove accordava un privilegio di produzione a quella cittĂ stato indicato dal Fiorentini, ed il cui originale ivi conservavasi nel Monastero di S. Giustina. Del qual diploma innanzi tutti aveva fatto commemorazione Tolomeo neâsuoi annali lucchesi, mentre un altro diploma dato alla luce nelle antichitĂ italiane (Diss. 31) dimostra, che lâImperatore Arrigo IV era in Lucca fino dal giorno 19 luglio di quel medesimo anno.
E siccome dalle memorie della contessa Matilda del Fiorentini costa che lo stesso Arrigo trovavasi allâ assedio di Roma anche nel dĂŹ 23 giugno dellâanno 1081, è facile concludere, che il documento pisano di sopra rammentato dovĂŠ sottoscriversi tra la fine di giugno e il 18 luglio. In una parola da quel privilegio imperiale apparisce, come in unâetĂ , in cui si mancava affatto di leggi che servissero di norma al commercio marittimo, i Pisani avevano usi e consuetudini tali da assicurare ai mercanti la giustizia nelle liti relative agli intricati interessi di mare. â Le quali leggi e consuetudini, a giudizio di molti scrittori, servirono posteriormente di norma a varie altre potenze e cittĂ libere che a similitudine di Pisa col nome di Consolato di mare le ordinarono.
Contuttociò la baldanza dei pirati affricani non cessava dâinfestare le coste dellâItalia, sicchĂŠ sapendo quanta fosse la bravura e potenza nelle cose marittime dei Pisani e dei Genovesi il Pontefice Vittore III riescĂŹ a rappacificare gli animi loro in guisa che essi, avendo armato un poderoso naviglio, lo diressero nelle coste dellâAffrica. Lâimpresa fu eseguita nel 1088, cioè un anno dopo la morte del pontefice che lâ aveva promossa, quando le flotte cristiane investirono la cittĂ di Tunisi che con sommo coraggio venne espugnata da quei crociati, i quali estesero la loro escursione sopra altri luoghi di quel littorale.
Nella quale impresa, a detta degli antichi annalisti pisani, restò ucciso Ugo figlio di Uguccione Visconti di Pisa, comecchè i vincitori tornassero in patria con ricchissima preda.
Goffredo Malaterra nella sua cronica, parlando deâmercatanti pisani che in Affrica ebbero a soffrire molte ingiurie, aggiunge, come per vendicare lâonore nazionale un esercito veleggiasse da Pisa ad espugnare la cittĂ di Tunisi, di cui sâ impadronĂŹ, meno la torre maggiore dove quel re si ritirò. Dice anco di piĂš, che i Pisani, non avendo forze sufficienti a ritener Tunisi, esibirono a Ruggieri conte di Sicilia il possesso di quella cittĂ , ma che il conte trovandosi in pace col Tunisino non volesse accettarla.
Però cotesto regolo affricano venne a patti obbligandosi di pagare ai Pisani una grossa somma di denaro, e di cessare dal correre colle sue navi sopra le isole e nelle coste dâItalia, oltre al dovere rilasciare liberi tutti i Cristiani che riteneva in schiavitĂš. â (MURAT. Annal. ad ann. 1088.) Era in quel tempo vescovo della chiesa pisana quel Daiberto nato dallâillustre stirpe deâLanfranchi deâRossi di Pisa, il quale potrebbe chiamarsi un genio del suo secolo. Egli nellâanno 1088 successe nella cattedra pisana a Gerardo, cui si deve la fondazione del distrutto Monastero di S. Rossore, edificato nel 1084 pei Benedettini nei beni della chiesa maggiore di Pisa posti nella Selva marittima o del Tombolo, detta oggi di S.
Rossore, il qual monastero in detta epoca era vicino alla foce dâArno. â Vedere appresso, COMUNITAâ DI PISA.
Fu Daiberto il primo che accrebbe nuove glorie alla sua patria; sia allora quando dal pontefice Urbano II con bolla del 39 maggio 1091 fu dichiarato Primate dellâisola di Corsica; sia allorchĂŠ con altra bolla del 20 aprile 1092 la chiesa pisana venne innalzata allâonore di metropolitana; sia quando Daiberto mediante indulgenze e preci spirituali (5 ott. 1094) incoraggiava i manifattori pisani, i quali prestavano la loro opera gratuita nella fabbrica del grandioso duomo di Pisa 31 anni prima incominciato; sia allorchĂŠ nel dicembre dellâanno 1094 quel prelato con la contessa Matilda accolse in Pisa il Pontefice Urbano II mentre passava in Lombardia; sia finalmente allorchĂŠ lo stesso Daiberto invitava i suoi concittadini ad unirsi armati alla seconda crociata, della quale fu campione quel Goffredo che diĂŠ argomento allâepica tromba del Tasso; sicchĂŠ i Pisani, dopo preparate 120 navi, dopo avere al principio dellâanno 1099 eletto il loro arcivescovo in duce di quella santa impresa, salparono dalle sponde dellâArno verso la Palestina.
Fra i documenti relativi alle spedizioni fatte dai Pisani in Terra Santa esiste nelle antichitĂ italiane una lettera al Pontefice Pasquale II diretta nel 1100 da Daiberto arcivescovo di Pisa delegato della S. Sede in oriente, scritta da esso lui in nome ancora, del duce Goffredo, del conte Raimondo di S. Egidio e di tutto lâesercito di quella crociata. Essa consiste in una relazione sulla conquista di Gerusalemme e sopra altre vittorie dai Cristiani contro glâinfedeli riportate. In conseguenza di ciò papa Pasquale nellâanno medesimo inviava una epistola ai Consoli di Pisa per ringraziarli dellâajuto da questo popolo generoso fornito nella conquista di Gerusalemme, della qual cittĂ Daiberto era stato eletto di corto in patriarca.
Reduci quindi dallâoriente i Pisani con le piĂš insigni suppellettili del loro trofeo portavano in patria alcune reliquie di corpi santi dallâArcivescovo Daiberto e dallâinvitto duce Buglione state loro donate.
Il Fanucci nella storia dei tre celebri popoli marittimi dellâItalia ha dato minuta contezza delle imprese in quellâoccasione fatte nel levante dai Pisani e dai Genovesi, caldi sostenitori del nuovo regno di Gerusalemme e del principato di Antiochia. Anco il Dal Borgo ristampò nei suoi diplomi pisani due atti scritti nellâanno 1108, coi quali Tancredi, allora principe dâAntiochia, promise, e quindi concesse, ai Pisani diversi privilegj con stabilimenti in Antiochia e in Laodicea per il soccorso dai medesimi ricevuto nella conquista di questâultima cittĂ . Fra i quali privilegj citerò quello del 10 maggio dellâanno 1154, col quale Rinaldo e Costanza figlia giuniore di Boemondo principe di Antiochia, stando nel loro palazzo di Antiochia confermarono allâarcivescovo, ai consoli, ai senatori, ed al Comune di Pisa, non cha al loro console nella cittĂ di Antiochia, ed ai mercanti pisani stabiliti in Laodicea un vasto spazio di terreno, e la metĂ di tutti i diritti che erano soliti percepirsi dal sovrano nel principato predetto, tanto in terraferma come in mare.
Che simili privilegj fossero stati concessi ai Pisani dai primi re di Gerusalemme si deduce da un trattato di pace fatto in Accon (S. Giovanni dâAcri) lĂŹ a novembre 1156 fra i Pisani e Balduino IV re di Gerusalemme, pubblicato dal Tronci, dal Muratori e dal Cavaliere Dal Borgo, alloraquando quel re donava ai Pisani nella cittĂ e porto di Tiro il Viscontado, per erigervi tribunale e curia propria onde giudicare i suoi nazionali; meno che il re Balduino si riservava il giudizio nelle cause che portassero pena di morte. Inoltre concedeva uno spazio di terra presso Tiro, e in Tiro stesso un fondaco a forma del privilegio altra volta ai Pisani per il porto medesimo da Baldovino suo avo accordato. In fine lo stesso re Baldovino prometteva intromettersi mediatore fra i Pisani ed il suo fratello Almerico conte di Assalona.
Infatti con questo conte poco dopo, mediante istrumento pubblico sotto dĂŹ 2 giugno dellâanno 1157 rogato in Assalona, fu conclusa pace colla quale il conte Almerico, volendo aderire al re Balduino di lui fratello, concedeva in dono al popolo pisano, rappresentato da Villano suo arcivescovo e dai consoli di Pisa, la metĂ deâdiritti dâintroduzione, dâestrazione e vendita dei generi che i mercanti pisani avrebbero introdotto o estratto, tanto dalla parte di terra come da quella di mare dal porto dâJoppe.
Inoltre donava loro una piazza in Joppe per fabbricarvi case intorno e stabilirvi un fondaco, oltre uno spazio di terreno per costruirvi una chiesa previo il consenso del patriarca.
Qualche anno dopo il conte Almerico essendo succeduto al fratello Baldovino nel trono di Gerusalemme, con istrumento rogato nella cittĂ di Accon lĂŹ 15 marzo del 1165 donava ai Pisani uno spazio libero di terra posto fra la cittĂ e il porto di Tiro da possederlo perpetuamente a comodo del loro commercio. Per le quali libertĂ il re di Gerusalemme confessava di avere ricevuto dallâArcivescovo di Pisa per mezzo del suo siniscalco il prezzo di 400 bisanzi di oro.
Anche tre anni dopo il medesimo re Almerico V, con privilegio dato in Accon lĂŹ 18 maggio 1168, confermò ai Pisani la curia propria, ossia il consolato nel porto di Accon con il fondaco per i servigj a lui resi nellâassedio di Alessandria. I quali due ultimi privilegj furono anco confermati, nel 1182, dal re Balduino VI, nel 1187, da Raimondo conte di Tiro, nel 1189, da Guido VIII re di Gerusalemme, e, nel 1188 e 1191, da Corrado marchese di Monferrato e dalla sua consorte Isabella figlia del fu Almerico V re di Gerusalemme. Giova pure avvertire qualmente uno di quei documenti (del 1189) spiega il significato di Viscontado, ivi equivalente al consolato di mare. Et concedimus eis (Pisanis) Vicecomitatum, sive Consulatum pro regenda curia et eorum honore in Tyro.
Aggiungasi che sino del 1169, con privilegio dato in Accon lĂŹ 16 settembre, il re Almerico V aveva accordato ai Pisani commercio libero per lâEgitto a lui soggetto, ed una curia nella cittĂ del gran Cairo (Babilonia) con casa, fondaco, mulino, bagno e molte altre prerogative favorevoli alla loro mercatura.
Frattanto da tutti cotesti privilegi dei principi cristiani nel levante, e da altri dei giudici della Sardegna editi nelle antichitĂ dellâannalista italiano, si rileva che quei sovrani trattavano direttamente col Comune di Pisa senza fare la benchĂŠ minima menzione dei marchesi o marchesane che allora presedevano la Toscana nellâalta pulizia, nellâamministrazione dei beni della corona, nei giudizj, o placiti di ultimo appello, e in quelli relativi al regio diritto, nel tempo che le cause dâinteresse civile erano decise non piĂš dai conti, nĂŠ dai marchesi, ma dai consoli delle respettive cittĂ , terre e castella, sopra le quali lâ influenza governativa degli ufiziali dellâImpero qui sopra nominati andava ogni dĂŹ piĂš indebolendo a segno che terminò poi per annullarsi.
Rammenterei su questo proposito la copia di una sentenza deâconsoli pisani nelle antichitĂ italiane a favore di Pietro vescovo di Pisa del dĂŹ primo gennajo dellâanno 1112, data presso il foro della stessa cittĂ nella Curia appellata del Marchese.
Da questo e da altri consimili giudicati (uno deâ quali sotto il dĂŹ 2 dicembre 1136) mi sembra di vedere, che i vescovi quando erano attori in causa propria si separavano dal magistrato deliberante, del quale altronde facevano parte, ed anzi lo presedevano in tutti gli altri casi di azioni civili e governative. Infatti il trattato del 10 maggio 1154 dato in Antiochia, e di sopra rammentato, fu stipulato fra i due coniugi principi di Antiochia da una parte, e varj delegati del Comune di Pisa dallâaltra parte. II qual Comune era rappresentato, prima dallâarcivescovo, poi dai consoli, quindi dai senatori, finalmente da tutto il popolo pisano. Anche molto tempo innanzi, sino da quando cioè governava in Toscana la contessa Matilda, il Comune pisano senza il di lei consenso era rappresentato dallâarcivescovo e dai suoi consoli, nel tempo che abitavano in Pisa i conti ed i visconti, molti individui dei quali fino dâallora venivano eletti in consoli, o in giudici maggiori, ma piĂš spesso, esercitando il protettorato della chiesa pisana, assistevano con gli arcivescovi e con i consoli nelle cause o altri contratti spettanti allâinteresse dellâopera della primaziale. Nella collezione muratoriana, per tacere di tante altre pergamene dellâarchivio arcivescovile di Pisa, esistono molti documenti atti a dimostrare che gli arcivescovi pisani alla detta epoca si riguardavano quali capi civili ed ecclesiastici della comunitĂ e diocesi, siccome non mancano in quella raccolta molti fatti proprj a dimostrare la cosa medesima rispetto ai Comuni di Firenze, di Lucca, di Siena e di altre cittĂ .
4. PISA DURANTE LA SUA REPUBBLICA Quantunque sia difficile di contrassegnare lâanello di connessione fra il governo imperiale retto in Toscana dai marchesi e quello delle cittĂ costituite con regolamenti proprii in comune, o voglia dirsi in repubblica, nondimeno, considerando bene cotesto periodo dâistoria patria, sembra di trovare maggiormente vero quanto fu scritto allâArticolo FIRENZE, (Volume II. pagine 152 e 53), voglio dire, che le maggiori prove stanno a favorire il seguente fatto, che lo stabilimento cioè del Comune di Pisa come anche di altre cittĂ della Toscana tragga, se non lâorigine, il maggiore suo sviluppo dalle contes e suscitate dopo lâanno 1070 fra lâImperatore Arrigo IV ed il Pontefice Gregorio VII, mentre il secolo che immediatamente successe può dirsi a buon diritto per Pisa il secolo delle sue glorie.
Se i fatti relativamente alle conquiste marittime di sopra accennati, se gli usi o le consuetudini commerciali a favore dei Pisani da Arrigo IV nel 1081 approvate; se lâassedio nel 1078 dallo stesso monarca intorno a Firenze intrapreso per essere stato quel popolo partitante della corte romana; se le elargitĂ dallo stesso Cesare ai Lucchesi accordate dopo che questi mostraronsi favorevoli alla sua causa contro la marchesana di Toscana, se queste e molte altre prove di simil conio lasciassero ancora dubitare dello stabilimento fino dal secolo XI nelle cittĂ della Toscana di un governo municipale, a meglio dimostrarlo citerei quello della guerra dopo centâanni tra i Pisani e i Lucchesi riaccesa nel luogo istesso dove nel 1003 erano accadute fra quei due popoli le prime ostilitĂ , e dove per ben sei anni, dal 1104 al 1110, continuarono a battagliarsi, finchĂŠ per la mediazione dellâImperatore Arrigo V, resa piĂš valida da un esercito che lo accompagnava, potĂŠ ristabilirsi la pace fra quelle popolazioni dopo che lâoste pisana ebbe ritolto ai Lucchesi il poggio ed il questionato castel di Ripafratta, e dopo che i feudatarj del Cast. medesimo davanti allâarcivescovo, ai consoli e agli operaj della primaziale di Pisa ebbero giurato (anno 1109) di riconoscere dallâopera di detta chiesa il dominio diretto del controverso castello, suo poggio e territorio.
Avvertasi che cotesto secondo fatto di armi combattuto a cagione di Ripafratta precedĂŠ di qualche anno le prime scintille di guerra portate dai Fiorentini contro i castelli dei baroni del loro contado.
Ma lâimpresa piĂš gloriosa fu per i Pisani quella della guerra felicemente nel 1114 incominciata, e nel 1116 compita contro i Mori padroni delle isole Baleari.
Risoluti di estirpare dalle tre isole spagnuole (dâIvica, di Majorca e di Minorca) quel sciame feroce e famelico di Saraceni che con le sue abituali piraterie portava lâallarme e la desolazione sulle coste italiane, i Pisani prepararono un copioso e ben fornito armamento marittimo composto, dicesi, di 300 barche equipaggiato di numerose falangi, di armi, di macchine da guerra e di vettovaglie; sicchĂŠ ottenuta dal Pontefice Pasquale II lâapprovazione, e messo alla testa del naviglio il loro arcivescovo Pietro Moriconi, mossero le vele dalla foce dellâArno verso le Baleari.
Sbarcati in una delle tre isole (di Evizza, o dâIvica) riuscĂŹ ai Pisani nellâanno 1114 di conquistare la stessa cittĂ omonima atterrandone le mura e la rocca, e conducendo prigione quel comandante. Di lĂ lâarmata vincitrice andò a sbarcare nellâisola di Majorca, la di cui capitale fu presa dopo aver sostenuto con lunghe fatiche e combattimenti circa un anno lâassedio con la strage di molte migliaja di Mori. Quindi per togliere di lĂ quel nido di corsari, al dire di alcuni annalisti pisani, la cittĂ stessa fu distrutta, aggiungendo che anche lâisola di Minorca dovĂŠ subire la stessa sorte. â Cotesta guerra venne diffusamente narrata in un poema epico da Lorenzo Vernense, o Vornense, (non so se di Vorno presso Lucca) che accompagnò allâimpresa lâarcivescovo pisano in qualitĂ di diacono. â Provvisti pertanto i vincitori di copioso bottino, dopo aver resa la libertĂ ad un gran numero di Cristiani ivi tenuti oppressi da durezze inaudibili, i Pisani colmi di giubbilo e di gloria nellâanno 1116 rientrarono trionfanti in patria, portando seco fra i prigionieri piĂš distinti la moglie e il figlio di uno di quei re Saraceni, morto in Majorca nel tempo dellâassedio, e tenevano avvinto al carro il re deâMori di lui successore. Nellâanno innanzi a cotesto trionfo dei Pisani, sotto dĂŹ 24 luglio del 1115, aveva terminato il corso di sua vita nel castel di Bondeno in Lombardia la celebre contessa Matilda principessa resasi insigne negli annali del medio evo per politica, per pietĂ e per valore.
Ricordano Malespini, copiato da tutti gli altri istorici fiorentini, riporta sotto lâanno 1117 lâimpresa fatta dai Pisani nelle isole Baleari, contrariato in ciò dagli annalisti pisani, i quali tacquero un altro aneddoto, quello cioè, che poco dopo la partenza da Pisa dellâarmata navale, appena questa passava davanti a Vada, i Lucchesi vennero ad oste verso Pisa. Di che i Pisani che stavano nella flotta avendo ricevuto novella, per paura che i Lucchesi non occupassero la terra, mandarono ambasciadori a pregare i Fiorentini, i quali erano molto loro amici, affinchĂŠ piacesse ai medesimi di guardare la cittĂ di Pisa, confidandosi di essi come di fratelli. Per la qualcosa i Fiorentini mandaronvi gente dâarmi e puosonsi ad oste fuori della cittĂ a due miglia, con ordine che alcuno non ardisse di entrare nella cittĂ Âť... Poco appresso lo stesso storico soggiunge: ÂŤ Tornata lâoste deâPisani con vittoria dal conquisto di Majorca, ringraziarono i Fiorentini e dissono: quale segno, ovvero cosa volessono del conquisto recato da Majorica, o le porte di metallo, o le due colonne di porfido? e i Fiorentini chiesono le colonne, e i Pisani mandarono le dette colonne aâFiorentini coperte di scarlatto; e per alcuno si disse, che innanzi che le mandassino per invidia le feciono affocare;e le dette colonne sono quelle che sono diritte innanzi alla porta di S. Giovanni Battista. Âť (R. MALESPINI, Ist. Fior. Cap.
76. â G. VILLANI, Cronic. Lib. IV. Cap. 31.) LâAmmirato ripetendo il racconto, in quanto al sospetto che quelle colonne fossero state dai Pisani affocate, egli arguĂŹ che potesse probabilmente di lĂ esser nato proverbio, che chiama i Fiorentini ciechi; se non fu piuttosto qualche altra causa come quella che fece esclamare lâAlighieri contro i suoi concittadini, Vecchia fama nel mondo li chiama orbi.
Nella guisa stessa il buon Villani chiamò cieco il Comune di Firenze per essersi quei Signori lasciati ingannare da Mastino della Scala nella compra di Lucca.
Comunque sia, è certo che le cittĂ di Pisa, di Lucca, di Firenze ecc. sino dal declinare del secolo XI agivano, come ho gia detto, di libero arbitrio, senza ricorrere al beneplacito deglâImperatori, nĂŠ allâassistenza deâMarchesi di Toscana.
Frattanto i Pisani nel breve periodo di 56 anni avendo compito quel magnifico tempio che formò e formerĂ sempre lâammirazione delle genti e piĂš ancora dei cultori delle arti liberali, potendo dirsi il duomo di Pisa uno deâ piĂš purgati modelli architettonici del suo secolo, quel tempio, dico, con gioja della popolazione fu nel giorno 26 di settembre del 1118 consacrato dal Pontefice Gelasio II, che in tal circostanza fra gli altri privilegj confermò alla chiesa pisana il primaziato spirituale sopra i vescovi della Corsica. Ma ciò fu come un gettare fra i Pisani ed i Genovesi nuovo guanto di disfida che servĂŹ di esca a reciproche aggressioni marittime. A rappacificare pertanto coteste due inferocite repubbliche non vi volle meno che lâintervento di S. Bernardo e lâinfluenza del pontefice Innocenzo II, venuti entrambi nel 1132 a Pisa, dove il Papa con unâapposita bolla innalzò la chiesa di Genova alla dignitĂ arciepiscopale, sottoponendo alla medesima tre vescovati della Corsica, che distaccò, dice la bolla, per il bene della pace dallâarcivescovato di Pisa; mentre a questo viceversa assoggettò il vescovato di Massa Marittima, e due chiese vescovili della Sardegna oltre il titolo di primate e di delegato apostolico in questâultima isola.
Non dirò se fu effetto di cotesta riconciliazione fra i due popoli, o del concilio generale tenuto in Pisa, la guerra portata nel 1135 per la parte di terra dallâImperatore Lotario II e dalla flotta pisana per la via di mare contro Amalfi, allora una delle cittĂ piĂš considerevoli dellâItalia meridionale, dove si è creduto dai piĂš che i vincitori ivi scuoprissero e che portassero a Pisa il prezioso codice del diritto romano, noto sotto nome delle Pandette di Giustiniano. Ne starò a rammentare cotesto libro come il piĂš glorioso resultato di quella militare impresa tostochĂŠ molti dotti giureconsulti, fra i quali il profondo Savigny, che aderĂŹ allâopinione del Padre Abate Grandi (Istoria del Diritto romano nel medio evo Volume II. capitolo 18.), conclusero, che i Pisani conoscevano, e che dovevano possedere le Pandette innanzi il 1135.
Comunque fosse di ciò, non erano i codici ciò che volevano lâImperatore e il Papa, ma sivvero lâuno il dominio, lâaltro il diritto dellâinvestitura del regno delle due Sicilie. SennonchĂŠ, sopraggiunte le gelosie politiche, queste condussero allo scioglimento della lega, in modo che Lotario II, mentre ritornava in Germania, sdegnato mostrossi verso i Pisani. Che per altro il suo sdegno contro un popolo costantemente ben affetto alla causa imperiale fosse mal ponderato, lo scrisse a Lotario stesso lâeloquente abate di Chiaravalle nella sua epistola 140, di cui a onore dei Pisani ed a maggior lume della storia del medio evo giova qui riprodurre il concetto.
ÂŤ Mi sorprende, scriveva S. Bernardo a Lotario II, come voi abbiate formato deâpensieri contrarj ad uomini meritevoli veramente di doppio onore. Io dico dei Pisani, che primi e soli fin qui hanno alzato il vessillo contro glâinvasori dellâImpero...... Io dirò come appunto dicevasi del santo re Davidde: quale mai fra tutte le cittĂ trovarne una come Pisa, fedele nellâuscire armata, fedele nel ritornare, sostenitrice dellâImpero? Non furono forse i Pisani che fugarono dallâassedio di Napoli quel potentissimo nemico, il siciliano tiranno? Non sono stati i Pisani quelli che nellâimpeto loro espugnarono Amalfi, Revello, la Scala e la Fratta, cittĂ opulentissime e munitissime, che fino ad ora dicevansi inespugnabili? Quanto sarebbe stato meglio di lasciare senza tanto inimico la fedele cittĂ di Pisa, sia per aver essa con grande amore accolto e conservato il Pontefice, sia per il servigio che ha prestito allâImpero? Veggo accaduto il contrario.
Hanno avuto grazia quelli che offendevano, ed il vostro sdegno quelli che vi servivano. Forse voi non sapevi bene coteste cose. Ora che vi son note mutate animo e parole; ed uomini tali degni di essere molto piĂš onorati dai regii favori, ricevano quanto si sono meritati. I Pisani hanno meritato molto, essi possono ancora molto meritare. Ad un uomo saggio qual voi siete ho su di ciò scritto abbastanza, ecc. Âť E chi non ritrova in questa sola lettera del santo di Chiaravalle la chiave piĂš sicura e piĂš veritiera della politica costantemente tenuta dalla repubblica pisana? quella, cioè, di combattere per la propria gloria senza mai perdere di mira la difesa dellâImpero? Un simile elogio, come vedremo, fu ripetuto al popolo pisano da altri Imperatori succeduti a Lotario II, stantechè il governo di Pisa professo, come si è detto, la stessa massima fino alla caduta della sua repubblica.
Ma i consigli dellâabate di Chiaravalle non poterono ottenere il loro intento, perchĂŠ Lotario II assalito da fiera malattia, allorchĂŠ nelle gole delle Alpi noriche abbandonava lâItalia, ivi morĂŹ nel dicembre dellâanno 1137.
Fu dopo cotesto avvenimento, quando i Pisani condussero coi Genovesi la pace di Portovenere (anno 1138, e poco dopo con Ruggieri re di Sicilia, cui succedettero altre convenzioni pacifiche collâimperatore di Costantinopoli, rese carissimi ai Pisani da un sacro dono fatto alla loro chiesa maggiore unitamente ai privilegj di un piĂš esteso potere e di una giurisdizione speciale al console pisano nella capitale di quellâimpero accordata.
Frattanto quale importanza avessero allora i governatori imperiali, che sotto il titolo di marchesi spedivansi in Toscana, lo dirĂ quel marchese Engelberto, che nel 1134, benchĂŠ ai Pisani da S. Bernardo raccomandato (Epist.
130) fu nei campi di Fucecchio dai Lucchesi combattuto e scacciato: quellâEngelberto medesimo a sostegno del quale lâimperatore Lotario II nel 1137 aveva inviato il suo genero duca Arrigo con un corpo di truppe per rimetterlo sul seggio marchionale della Toscana. A buon diritto pertanto diceva il Muratori neâ suoi annali, che i popoli italiani, dopo che le cittĂ loro ebbero preso forma di repubblica, non si sentivano piĂš voglia di avere un marchese, o duca, o altro qualsiasi superiore che a nome dei Cesari loro comandasse.
Forse da cotesto evento ripullulò fra i Pisani e i Lucchesi quella guerra, che involse nel conflitto altre cittĂ e terre della Toscana. Tale si fu la guerra del 1144 quando i Pisani, entrati in lega con i Fiorentini, inviarono i loro armati per favorire il marchese Ulderico sottentrato ad Engelberto che combatteva i Sanesi, i Lucchesi ed il conte Guido di Modigliana, lâ ultimo deâ quali fino dal 1137 al marchese di lui predecessore erasi ribellato. â Tale si fu lâ altra piĂš sanguinosa e piĂš lunga guerra incominciata in quello stesso anno 1144 fra il Co mune di Pisa e la Repubblica di Lucca a cagione di alcune castella del loro contado, e specialmente per il castello di Aghinolfo presso a Montignoso, e per quello di Vorno alla base settentrionale del Monte Pisano.
Fra cotanti trambusti e conflitti municipali nellâ anno 1145 innalzavasi al soglio pontificio un monaco Cistercense, Frate Bernardo, al secolo Pietro di Paganello, o deâ Paganelli da Monte Magno, che da Papa prese il nome di Eugenio III.
Pisano di nascita, piuttostochè di famiglia religiosa, si pretende che fosse Eugenio III, il quale dal claustro deâ SS. Vincenzio e Anastasio alle Tre Fontane fu chiamato a sedere nella cattedra di S. Pietro. â Vedere MONTEMAGNO LUCCHESE, e MONTEMAGNO PISANO.
â Uno deâ primi pensieri di Eugenio III fu quello di riconciliare i due Comuni di Lucca e di Pisa; e vi riuscĂŹ, sebbene cotesta fosse da dirsi anzichĂŠ pace una tregua di breve durata. Ma lâ affare piĂš importante per Eugenio III e per il suo maestro S. Bernardo era quello di organizzare la terza crociata, a sommovere la quale il buon Papa recossi in Francia con lo stesso abate di Chiaravalle.
In mezzo pertanto alle turbulenze e nimicizie reciproche delle cittĂ di Toscana, rese ancora piĂš feroci ed ostinate daglâ interessi commerciali; in mezzo al rallentamento progressivo del potere regio e dei marchesi imperiali, si eleggeva dai principi tedeschi in re ed imperatore (anno 1152) Federigo I figlio del duca Federigo di Svevia e di Giulitta, nata da Arrigo il Nero duca di Baviera della casa Guelfo Estense. Erano coteste due famiglie sovrane giĂ da lunga pezza emule fra loro, in guisa che dagli aderenti di entrambe nacquero le due fazioni ghibellina e guelfa , che apportarono immensi guai allâ Italia e specialmente alla Toscana. E comecchè dal matrimonio suddetto, che partorĂŹ un imperatore in Federigo Barbarossa, lo storico Frisigense credesse che lâ unione di due schiatte principesche di massime opposte dovesse far cessare le nimicizie per tanti anni mantenute, e che le due fazioni fra i popoli da esse governati si estinguessero; comecchè di ciò avesse dato speranza lâImperatore Federigo istesso quando nominò in marchese di Toscana e dellâ Umbria il duca Guelfo VI figlio di Arrigo il Nero , zio materno di Cesare, investendolo di tutti i beni, chiese e corti che avevano formato il ricco patrimonio della contessa Matilda, per diritto che al duca Guelfo VI come nipote di quella marchesana si perveniva, mediante il matrimonio contratto e la donazione fatta da essa Matilda al duca Guelfo V suo marito; contuttociò, appena che Federigo I, nel 1154, calò con numerose falangi a prendere la doppia corona, in Italia videsi cangiare affatto la scena a danno dei municipj. Fu allora che quel potente monarca, mal soffrendo la perdita dei diritti imperiali, sparse lo spavento fra i popoli italiani che giĂ governavansi a comune. â Non è mio scopo rammentare quanto il Barbarossa fece in Lombardia; come le cittĂ dâItalia atterrite dallâumiliante capitolazione di Milano, appena intimate, ubbidissero ed inviassero i loro deputati alla gran dieta di Roncaglia, nĂŠ come quellâImperatore, assistito da insigni professori di giurisprudenza, dimostrasse la violazione fatta dalle cittĂ italiane dei diritti e regalie dovute allâImpero; mi limiterò soltanto a dire che, sebbene Pisa, Lucca, Firenze, Siena ed altre cittĂ e terre della Toscana non avessero fatto parte della Lega lombarda, pur non ostante al comparire di quel potente monarca i consoli ed altri rappresentanti dei popoli testĂŠ nominati si recarono a giurare ubbidienza a quel monarca, con la promessa di pagare annualmente le regalie che allâImpero si pervenivano.
AllâArticolo LUCCA (Volume II. pagine 842, 843.) accennai, a quali condizioni lâImperatore Federigo I nella seconda sua discesa in Toscana con diploma del dĂŹ 9 luglio 1162 concedesse ai consoli della repubblica di Lucca il privilegio di governare in suo nome la loro cittĂ , cui spettava il contado delle sei miglia. Rapporto al quale contado due anni innanzi il Marchese Guelfo VI aveva condonato ai Lucchesi ogni regalia marchionale ed i beni allodiali che ivi possedeva la contessa Matilda sua zia. â Rispetto però alla sottomissione del popolo pisano ai voleri di Federigo I, piĂš dâuno credĂŠ che avesse luogo qualche eccezione in favore di loro. Avvegnachè mentre i Pisani assistevano con le loro forze lo stesso Imperatore contro la lega delle cittĂ lombarde, come ancora per ricuperare al sovrano medesimo le due Sicilie, contuttociò i Genovesi, rivali irrequieti deâ primi, andavano insinuando a Barisone giudice di Arborea in Sardegna di domandare a Federigo I, che a titolo di feudo dellâImpero volesse degnarsi dâinvestirlo in re di tutta lâisola; mentre per lo contrario i Pisani alla corte imperiale di Pavia rintuzzavano le mire dei Genovesi al punto che alcuni scrittori misero in bocca degli ambasciatori di Pisa alcune ardite parole che si leggono negli annali del Tronci.
Con tutto ciò Barisone nel 1164 per mano di Federigo stesso fu incoronato in Pavia in qualitĂ di re della Sardegna. Ma il nuovo coronato non trovandosi in istato di pagare le 4000 marche dâargento da Federigo volute, poco stette ad essere condotto bello e incoronato prigioniero in Germania, e poi di lĂ rinviato e consegnato ai Genovesi che il debito contratto da Barisone sborsarono, e quindi ritennero sotto guardia il ridicolo sire perchĂŠ non potĂŠ allâepoca stabilita rimborsare i suoi creditori. CosĂŹ dovette svanire pei Genovesi tutto il frutto deâsacrifizj fatti a favore di un uomo, il quale in quella sua gloria teatrale ogni cosa doveva agli altri fuorchĂŠ la propria stoltezza. â (MANNO, Storia di Sardegna T. II.) Ma le libere parole dagli ambasciatori pisani fatte dire ad un monarca della tempra di Federigo I, o non furono tali come da alcuni storici vennero scritte, o fu un enfatico rilievo creato da un mal inteso zelo di patria. Imperocchè ciò non concorderebbe col racconto di piĂš vecchi cronisti, i quali dopo la scena di Barisone, discorrendo del modo per cui allora fra i Pisani ed i Genovesi si riaccesero le antiche animositĂ , soggiungono, che i primi, volendo assistere i giudici di Sardegna nemici di Barisone, armarono in loro soccorso sei galere capitanate dai consoli e da altri fra i piĂš valenti cittadini di Pisa; e che ciò non bastando, il Comune stesso deliberò spedire allâImperatore Federigo I, dopo essere ritornato in Germania, alcuno deâ suoi consoli alla testa di unâambasceria incaricata di avvalorare le ragioni antiche della loro patria sopra la Sardegna con piĂš potente mezzo delle parole, quale si fu lâofferta di 15,000 fiorini dâoro. â (BREVIAR. PIS. ad ann. 1165. â ANNAL. GENUENS.
in Script. R. Italic.T. VI.) Infatti lâespediente preso da Pisani riescĂŹ felicemente, poichĂŠ Cesare, dopo aver convocato a tal uopo i principi dellâImpero, investĂŹ della Sardegna il Comune di Pisa col cerimoniale, dice il Tronci, di porre in mano del console pisano, in segno del restituito potere, il gonfalone imperiale unitamente al diploma che conteneva la revoca di tutti i diritti a Barisone, a Guelfo VI marchese di Toscana, e finalmente ai Genovesi giĂ dallâImperatore accordati. â (TRONCI, Annal. pis.) Cotesto privilegio dellâinvestitura della Sardegna dato in Francoforte nel 17 aprile 1165 dovĂŠ recare grandissima allegrezza ai Pisani, cui era riescito di adoperare felicemente le armi medesime dei loro rivali. â Ma di altre armi ancora eglino fecero uso, quando intorno allâepoca stessa sâ impadronivano di una nave genovese naufragata sulle coste della Sardegna. Ciò servĂŹ dâimpulso a nuova e piĂš rabbiosa guerra fra i due popoli marittimi, nella quale i Genovesi, per far danno ai loro rivali anche dalla parte di terraferma, tornarono a collegarsi con i Lucchesi, i cui fatti di armi per amore di brevitĂ mi dispenserò di riferire.
â Fu solo nellâanno 1174 che terminò, o piuttosto che restò sospesa cotesta guerra, allorchĂŠ tornava in Italia per la terza volta lâImperatore Federigo I. Il quale nel tempo che dimorò in Pavia impose ai due popoli, genovese e pisano, lâassoluto divieto di guerreggiare fra loro assegnando nel tempo medesimo fra Genova e Pisa divisa la sovranitĂ della Sardegna, di quellâisola che ottâanni innanzi lâImperatore stesso aveva concesso per intiero ai Pisani. â Però questa volta Cesare abbisognava del soccorso e delle flotte di tutti due popoli nella mira di portare la guerra non solo a Roma, ma anche in Sicilia e nel regno di Napoli.
Per effetto di ciò nello stesso anno 1175 dai consoli pisani furono restituite al capitolo e vescovo di Lucca tutte le pievi e beni delle Colline inferiori e di Val dâEra, state tolte dallâoste pisana alla mensa vescovile lucchese. â Vedere MILIANO (PIEVE DI) MONTE CASTELLO, PIETRO (SANTO), ecc.
Fu pure nella stessa occasione quando Federigo proibĂŹ ai Pisani di batter monete ad imitazione di quelle di Lucca.
Però un tale divieto, avendo incontrato qualche difficoltĂ , venne modificato con altro trattato concluso fra i Lucchesi e i Pisani nel 16 giugno del 1181, mercĂŠ cui il lucro delle zecche respettive doveva ripartirsi fra i due Comuni, a condizione per altro che i Pisani non dovessero fabbricare piĂš monete col conio lucchese. â Vedere Lâ Articolo LUCCA Volume II pag. 844.
Arroge che una consimile concordia venne conclusa tre anni dopo (6 luglio 1184) fra i Lucchesi e i Fiorentini. â (TARGIONI, Sopra il fiorino di suggello, Nota 5).
Era giĂ scorso qualche tempo dacchĂŠ lâImperatore greco Manuello Comneno aveva espulso da Costantinopoli i Pisani, allora quando questi si rappacificò con loro (15 dicembre del 1171) restituendo ai Pisani i fondachi e tuttociò che aveva tolto ai medesimi con la promessa di pagare al Comune di Pisa per 15 anni continui 500 bisanzi dâoro. Sul qual proposito rammenterò un privilegio del 16 marzo, anno 1161, col quale Federigo Barbarossa concedeva allâopera della Primaziale di Pisa, ed i consoli di quel Comune le confermavano il diritto dellâembolo, delle stadere e del consolato in Costantinopoli.
Allâoccasione pertanto del trattato di sopra indicato la Repubblica di Pisa aveva inviato in quella capitale il celebre giureconsulto Burgundio pisano, il quale molti anni innanzi aveva assistito a un contratto rogato in Pisa lĂŹ 23 dicembre 1148 (Arch. Arciv. Pis.), e nel 1179 al concilio lateranense in Roma.
E qui rispetto al tempo merita di esser indicata lâepoca della prima pietra posta nel dĂŹ 9 agosto del 1174, per innalzarvi sopra il campanile torto di Pisa, sul quale cadrĂ il destro discorrere in fine del presente articolo. Vuole pure lâordine storico che si rammentino i privilegj commerciali fra il 1170 e il 1181 dai Pisani ottenuti nei porti e cittĂ dellâEgitto, della Siria e di Tessalonica, ora Salonicchi, senza dire di tanti altri riportati negli annali del Tronci. Ai quali trattati potrebbe aggiungersi la convenzione fra i Pisani e i Cornetani del 1 settembre 1174, e un altra stabilita nel novembre del 1179 fra i consoli del Comune di Pisa e quelli della cittĂ di Grasse in Provenza. â (MURATORI Ant. M. Aevi. Diss. 49). A far parola di quella societĂ di negozianti pisani per numero e per capitali imponente, sebbene sotto il modesto titolo degli Umili, la quale aveva in Accon uno deâ suoi principali stabilimenti mercantili. â (TRONCI, Annal.
pis.) Ma la notizia della perdita della cittĂ santa di Gerusalemme dispose gli animi deâCristiani a prendere di nuovo la spada e la croce per ritorla dalle mani degli infedeli. A tale effetto Gregorio VIII appena eletto papa (ottobre del 1187) venne a Pisa per pacificare cotesto popolo con i Genovesi, verso i quali Pisa era sempre in guerra a cagione della Sardegna; e quantunque Gregorio VIII fosse stato sorpreso in Pisa dallâultima sua malattia, pure la pace fra le due repubbliche fu conseguita mediante un trattato giurato lĂŹ 13 febbrajo del 1188 sotto Clemente III di lui successore. In conseguenza di ciò, essendo stata la navigazione per la Sardegna reciprocamente assicurata, e le possessioni con i paesi respettivi in detta isola guarentiti, Clemente III potĂŠ indurre le due potenze marittime a concorrere unite alla santa spedizione.
Fu allora che lâarcivescovo Ubaldo si pose alla testa della flotta pisana, la quale rinforzata dai navigli deâVeneziani e dei Genovesi veleggiò nel mare della Palestina per soccorrere Guido di Lusignano dai Saraceni stato espulso dal trono gerosolimitano. Lo che accadeva nel tempo in cui il Marchese Corrado di Monferrato alla testa di molti fedeli e della societĂ mercantile degli Umili tentava di liberare dallâassedio la piazza dâAccon. â Quantunque per il giro di due anni succedessero ripetute prove di costanza e di valore, non fu però che allâarrivo dalla Francia del re Filippo Augusto e dallâInghilterra del re Riccardo, Cuor di Leone, che la cittĂ di Tolemaide, ossia di Accon, comunemente appellata di S. Giovanni dâAcri, dalle armi deâCristiani venne ricuperata.
Intanto alcuni storici pisani, fra i quali il piĂš volte citato Tronci, riportano allâanno 1190 la riforma del governo della loro patria, supponendo che in quellâanno il Comune di Pisa al reggimento dei consoli e dei senatori sostituisse quello degli anziani. I quali ultimi dâaccordo col consiglio di credenza, dovevano deliberare sugli interessi piĂš gravi, tanto politici come economici, della repubblica, mentre il potestĂ era incaricato di presedere al comando degli eserciti ed alla giustizia; meno negli affari commerciali, la cui ispezione dipendeva da una speciale magistratura, appellata piĂš tardi del Consolato del mare.
Per altro lâepoca del reggimento degli anziani sostituiti ai consoli, come quella della sostituzione dei potestĂ ai rettori del Comune di Pisa, non è cosi facile a precisarsi.
Anche il Muratori nelle sue antichitĂ italiane riporta molti fatti tendenti a confermare piuttosto che a schiarire simili dubbiezze. Citerò per molti un trattato concluso nellâanno 1214 fra il Comune di Pisa e quello di Gaeta, nel quale non sono nominati punto nĂŠ poco gli anziani , sivvero i sapientissimi consoli dellâuniversitĂ e comunitĂ di Pisa .
Lo stesso dicasi di unâaltra convenzione commerciale conclusa nel maggio del 1221 fra il Comune di Arles in Provenza e quello di Pisa, per la mediazione dei potestĂ e consoli respettivi. â (MUR. Op. cit. Diss. 49.) Lo schiariranno meglio i varj Statuti pisani che quanto prima un professore di quella universitĂ si propone di dare alla luce col corredo dâutili illustrazioni.
Frattanto lâImperatore Arrigo VI, a confermare le massime da S. Bernardo allâImperatore Lotario II esternate, con diploma del 30 maggio 1193, â dichiarava i cittadini pisani fedelissimi suoi e sempre allâImpero devotissimi per i magnifici e molteplici servigj da loro resi. Inoltre quel Cesare volle aggiungervi le seguenti lusinghiere espressioni; che rispetto alla fedeltĂ e probitĂ verso gli Augusti la cittĂ di Pisa fino dalla sua origine si distinse superiormente alle altre. In vista di ciò lâImperatore Arrigo VI desiderando remunerare il popolo pisano, non solo confermava a favor di quella Repubblica i privilegj concessi dallâAugusto suo padre, ma ancora rilasciava nelle mani del potestĂ Teudice, presente ed accettante per il popolo pisano, tutto quanto questo Comune riteneva di cose spettanti allâImpero, sia nella cittĂ di Pisa e suo distretto, come pure nelle isole. Oltre di ciò Arrigo stesso confermava ai Pisani la giurisdizione sopra tutti i paesi del loro contado con i confini ivi designati, estendendoli, rispetto al littorale occidentale della Toscana, sino al promontorio del Corvo. Finalmente concedeva diverse franchigie ai negozianti pisani stabiliti nellâItalia inferiore e nellâisola della Sicilia.
Con elargitĂ pari a quella usata ai Pisani lâImperatore Arrigo VI spediva diplomi a favore deâGenovesi, affinchĂŠ continuassero di buona voglia a coadiuvarlo con i loro navigli nellâimpresa altra volta da altra tentata di cacciare il conte Tancredi dalle Sicilie dovâ egli regnava. Ma lâodio inveterato tra i Genovesi ed i Pisani fu origine in quellâoccasione di molti sconcerti. Infatti i Genovesi dopo aver combattuto insieme coi Pisani in favore di Cesare, si separarono in collera, ed unirono la loro squadra a quella di Arrigo conte di Malta per assalire Siracusa precedentemente dai Pisani presidiata; sicchĂŠ dopo ostinatissima resistenza questi furono costretti a consegnarla ai loro rivali (anno 1194). Invano nellâanno dopo i Pisani tentarono di riguadagnare Siracusa, comecchè essa poi, benchĂŠ da Arrigo VI ai Genovesi promessa, non toccasse nĂŠ agli uni nĂŠ agli altri. Accadeva ciò nel tempo medesimo in cui quel monarca (anno 1195) dichiarava il di lui fratello Filippo duca e marchese di Toscana, cui concedeva nel tempo stesso lâusufrutto dei beni marchionali della gran contessa Matilda.
La dichiarazione di guerra fra le due repubbliche marittime testĂŠ accennata si estese anche sopra le isole di Corsica e di Sardegna. Raccontano i continuatori degli annali genovesi, che i Pisani, in onta dei loro rivali, avevano fabbricato il castel di Bonifazio in Corsica convertito in nido di corsari, e che nel 1195 da un naviglio armato di Genovesi fu investito e preso. Che sebbene lâanno dopo questi ultimi fossero assaliti da uno stuolo di navi pisane, non solamente essi conservarono la conquista, ma si recarono con una numerosa flottiglia a sbarrare truppe nel giudicato di Cagliari in Sardegna, di cui allora era padrone un principe amico deâPisani, Guglielmo marchese di Massa Lunense e di Livorno â Vedere LâArticolo LIVORNO, e MASSA DI CARRARA.
Cotesto giudice mediante un esercito riunito di Sardi, Catalani e Pisani, fece ogni sforzo per opporsi allo sbarco dei Genovesi. Ma lâeffetto riescĂŹ contrario allo scopo, stantechè le masnade del marchese Guglielmo furono messe in fuga dai Genovesi che posero a sacco e fuoco il palazzo di quel giudice situato nel castello di S. Gillia.
Malgrado tale sconfitta il marchese Guglielmo non solo seppe mantenersi in signoria nel giudicato calaritano e amico deâPisani, ma egli riescĂŹ anco ad accozzare tanta milizia da assalire il giudicato di Arborea, usando nel tempo stesso molta severitĂ verso lâarcivescovo di quella cittĂ . (MANNO, Stor. di Sardegna, Tomo II. Lib. 8).
Se possono asserirsi gloriose e prospere molte imprese dai Pisani nel correre del secolo XII eseguite, se queste anche nella prima metà del secolo successivo continuarono ad accrescere lustro e fortuna alla loro città , cambiò totalmente la scena sul declinare del mille duecento, e specialmente dopochÊ la città di Pisa dovÊ trangugiare il calice amarissimo spaventevole di un popolo inasprito, da leve invisibili potentissime mosso e diretto, e a danno di genti antagoniste sollevato.
Ma per non perdere il filo della storia dirò, che non fu solo il giudicato di Arborea in Sardegna oggetto dâinquietudine ai Pisani, mentre anche quello di Gallura da Lamberto Visconti potente cittadino di Pisa allora governato, risvegliò le lagnanze, del Pontefice non tanto contro quel giudice, ma eziandio verso il governo pisano che lo proteggeva. NĂŠ a punizione di questo governo Innocenzo III arrestò lâinterdetto se non allora quando la repubblica di Pisa inviò al Papa una solenne legazione che esibiva di costringere il giudice di Gallura a ubbidire agli ordini dâInnocenzo III. â (BALUZI, Epist. Innoc. III.
Tomo II. Lib X n° 117.) Nondimeno Lamberto Visconti per qualche altro mese resistĂŠ alle minacce pontificie ed a quelle della sua repubblica, per cui lo stesso Pontefice scrisse altra epistola allâarcivescovo di Cagliari accagionandolo di tiepidezza e malafede rispetto al sedicente giudice di Gallura; e quando Lamberto Visconti ebbe a cedere a tanti fulmini spirituali, per essere ribenedetto fu accolto dal Papa a condizione che la con sorte sua, la suocera e la popolazione di Gallura restassero sottoposte allâanatema fino a che non rendevano compiuta soddisfazione alla S.
Sede. â (MANNO, Oper. cit. T. II Lib. 8.) NĂŠ qui terminarono li sdegni dellâirritato Innocenzo III contro i Pisani, poichĂŠ sembra che in lui si ridestasse il sopito malumore allorchĂŠ nel 1211 il Comune di Pisa porse qualche ajuto allâImperatore Ottone IV nellâoppugnazione della Sicilia, sicchĂŠ interdetto si estese non solo contro quel monarca, ma ancora contro i governi e popoli che lo avevano ajutato.
Succeduto a Innocenzo Onorio III, e giunta lâoccasione di una quarta crociata, riescĂŹ questo Papa di riconciliare i Genovesi coi Pisani disponendoli a unire insieme le loro forze navali per spingerle in Terrasanta e nellâEgitto.
Le discordie però insorte fra i varj duci dellâesercito cristiano furon cagione che lâimpresa, per quanto bene incominciata, terminasse senza il bramato effetto, non ostante che Onorio III avesse indotto Federigo II a recarsi egli stesso alla guerra santa in Palestina.
Ereditarj però erano lâodio e lâemulazione fra i Genovesi e i Pisani, e dovunque essi incontravansi poco ci voleva a far nascere lite fra loro. Quindi e che, dopo lâultima poco felice crociata, dopo il malgarbo fatto dallâImperatore Federigo II ai Genovesi, allorchĂŠ questi nel 1221 vennero da lui cacciati di Siracusa che da qualche tempo possedevano, si suscitò nellâanno stesso dentro il porto di Accon una fiera mischia fra i mercadanti delle due repubbliche colĂ stabiliti. â (MURAT. SCRIPT. R. ITAL.
T. VI. Annal. Genuens. lib. 7.) Non prima del 1213 dovette cessare di vivere in Cagliari il giudice Guglielmo Marchese di Massa, essendochĂŠ un istrumento pisano del 30 agosto 1213 (ab Incarnatione) lo dĂ vivente insieme con donnicella Giorgia madre sua, quando cotesta donna per procura faceva acquisto di alcuni beni posti nella villa di Ulmiano presso i Bagni di S. Giuliano. â (ARCH. ARCIV DI PISA, Carte di San Matteo.) Al Marchese Guglielmo succedè nei due giudicati di Cagliari e di Arborea la sua figlia primogenita, donnicella Benedetta la quale vivente il padre, erasi sposata ad un Barisone figlio di Pietro giudice di Arborea. Allora i Pisani (anno 1215) di consenso della marchesa Benedetta spedirono un poderoso naviglio alla volta di Cagliari, dove edificarono la rocca, che appellarono Castro calaritano. Dopo che dal castello suddetto si potĂŠ dominare la sottoposta cittĂ , i Pisani sparsero per tutta la provincia le loro soldatesche. La qual cosa apparisce da una lettera di donnicella Benedetta diretta al Pontefice Onorio III, con la quale scusavasi verso il Papa di essere stata costretta a permettere al governo di Pisa di fabbricare il castel di Castro ; protestandosi pel restare, châessa riconoscerebbe, come giĂ aveva fatto poco tempo innanzi, il supremo dominio della S. Sede in tutti i suoi stati. â (MURAT., Ant. M. Aevi Diss. 71.) Dallâaltra parte Ubaldo, figlio che fu del giudice Lamberto Visconti, invadeva il giudicato di Gallura, di dove le sue milizie si avanzarono anche nella provincia di Cagliari, assistite da Mariano figli del fu Comita giudice di Torres che aveva riconsegnato al visconti la terra di Gallura nellâatto di maritare al prenominato Ubaldo la sua figliuola Adelasia. â (MANNO, Storia di Sardegna T: II Lib. 8).
Frattanto i cronisti fiorentini, e innanzi tutti Ricordano Malespini, che può dirsi il primo anello della collana storica toscana, raccontando da quel ridicolo motivo prendesse origine lâinimicizia fra i Pisani e i Fiorentini, per la questione cioè di un cagnolino promesso agli ambasciatori di entrambi i Comuni, egli soggiunge, che nellâanno 1222 nel mese di luglio, i Fiorentini andarono a oste in quel di Pisa a Castel del Bosco, dove accadde una scaramuccia, e quella bastò a recare fra i due popoli giĂ amici disgustose amarezze, cui tennero dietro combattimenti atroci, ostinati e crudeltĂ inaudite.
Allâinimicizia deâPisani coi Fiorentini e Genovesi poco stette ad aggiungersi lo scoppio di unâaltra guerra coi Lucchesi.
Comecchè Pisa si ritrovasse allora in mezzo a tre potenti nemici, pur non ostante il suo governo ebbe coraggio e forza da equipaggiare una flotta di 52 galere per mandarla contro lâimperatore Federigo II nella nuova spedizione in Oriente (anno 1228), e ciò nel tempo stesso che inviava un esercito nella Garfagnana sotto Barga dove ruppe le armi riunite dei Lucchesi e deâFiorentini.
Non corse però molto che accadde in Sardegna, intorno al 1234, lâuccisione di Barisone III giudice di Torres, nato dal giudice Mariano da donnicella Agnese, altra figlia del giudice Guglielmo Marchese di Massa e conseguentemente sorella di donnicella Benedetta, signora di Cagliari e di Arborea. Ai reclami presentati da donna Adelasia, sorella dellâucciso Barisone contro gli autori di cotesto omicidio, restò commosso il Pontefice Gregorio IX, cui accresceva fastidio lâidea che i Pisani, potendosi giovare del diritto trasfuso nel Visconti per le sue nozze con Adelasia sorella del giudice Barisone, volessero invadere anche il giudicato di Torres, tanto piĂš che il giudice di Gallura aveva dichiarato il Comune di Pisa tutore e difensore dei propri figli e di tutte le sue ragioni e possessioni. Ben presto perciò Ubaldo trovossi involto nellâanatema dellâinterdetto finchĂŠ non protestò (anno 1237) di sottomettersi agli ordini del Papa per le sue terre di Sardegna. Alla sottomissione del giudice Visconti consentĂŹ anche la consorte Adelasia col sottoporre al supremo dominio della S. Sede il giudicato di Torres e tutte le terre e castella di sua ereditĂ poste nella Corsica, in Livorno, in Pisa ed in Massa Lunenese.
(Oper. Cit.) Lâanno dopo però (1238) il giudice Ubaldo avendo cessato di vivere, il Pontefice Gregorio IX scriveva lettere consolatorie alla vedova giudichessa Adelasia collâoffrirle il conforto di un novello sposo nella persona di un altro gentiluomo pisano, Guelfo di Ugolino Porcari, vincolato per cognita affezione alla romana Sede.
Ma la principessa era giĂ tratta ad altri pensieri, poichĂŠ Federigo II, che nutriva fiducia di riconquistare la Sardegna allâimpero, udita la morte del giudice di Gallura, si adoprò in modo da indurre la vedova di lui a darle la mano di sposa al suo figlio naturale Enrico, conosciuto comunemente col nome dâEnzio. Quindi appena furono contratti cotesti sponsali, lâimperatore elevò il novello giudice di Gallura alla dignitĂ di Re di Sardegna. La nozze peraltro di Adelasia con Enzio non riescirono felici per nessuno deâ due sposi, poichĂŠ la principessa videsi spogliata di ogni partecipazione al comando, e peggior sorte toccò al suo marito, mentre Enzio, se allâoccasione di un combattimento navale accaduto nelle vicinanze della Meloria, dove fece prigionieri i prelati francesi chiamati al concilio di Roma egli diede prove di valore, e si illustrò il proprio nome nelle guerre intraprese per conto dellâAugusto suo padre in Lombardia, altronde volle il destino che Enzio fosse fatto prigioniero dei Bolognesi, presso i quali dovĂŠ restare finchĂŠ visse. (dal 1249 al 1272). â Vedere MASSA DUCALE.
Frattanto che i Pisani fedeli allâimperatore dovevan sentire non senza rammarico Enzio nelle mani deâbolognesi, alcuni fra i giudici di Sardegna insorgevano contro gli antichi loro padroni. Ai quali regoli somministravano esca opportuna le censure fulminate al comune e cittĂ di Pisa., comecchè eglino non seppero sostenere le proprie pretensioni. Imperocchè intesa appena (anno 1242) la notizia che i Pisani con numerosa flotta veleggiavano verso quellâisola, essi fuggirono dalle residenze respettive; cosicchĂŠ il governo di Pisa, dopo aver confermato al nobile cittadino Ubaldo Visconti ed ai suoi figli i giudicati di Gallura e Torres, pose altre illustri famiglie pisane alla testa del restante di quei giudicati in questo modo; che i Visconti ebbero i giudicati di Gallura e Torres, ai conti di Capraja toccò quello di Arborea, mentre il giudicati Calaritano fu tripartito fra i Visconti giudici di Gallura e Torres, conti di Capraja giudici di Arborea, ed i conti di Donoratico e della Gherardesca, i quali si suddivisero in due rami prendendone ciascuno la sesta parte. (MURAT. In Scrip. R. Italic. Cronic. Pisana, Tomo XV).
Il Tronci neâsuoi annali riportava questo fatto allâanno 1249, (stile comune), quando non fosse da dubitare che le cronache pisane confondessero con un solo atto ciò che accadde in diversi tempi. Rispetto poi ai due giudicati di Gallura e di Torres, che essi restassero confermati nella famiglia Visconti di Pisa (comecchè il Tronci a uno sostituisca i Vernagalli), non ne lascia dubitare il fatto di trovare, lo stesso Ubaldo visconti intitolarsi Giudice di Gallura e di Torres fino allâanno 1237 (stile comune) mentre come tale egli per procura concorreva ad aderire alla convenzione stabilita nella chiesa di S. Dalmazio sotto S. Maria a Monte. â Vedere MARIA (SANTA) a MONTE.
In quanto spetta al giudicato di Cagliari, nel 1242 esso dipendeva dal giudice Chiann i, o Giovanni, che si disse anche marchese di Massa. Il quale ultimo titolo serve per avventura di una qualche ragione da dire che Chianni fosse stato uno degli eredi del giovinetto Guglielmo II figlio di donnicella Benedetta marchesa di Massa. La qual donna sino allâanno 1239 governò la provincia calaritana, mentre il piĂš antico documento del marchese Chianni sarebbe un suo testamento fatto in Cagliari nel 23 settembre 1254.
Dopo però lâanno 1254 Chianni mal soffrendo la potenza del conte di Capraja Guglielmo giudice di Arborea, e avviando di potergli far fronte, pensò gittarsi nelle braccia deâGenovesi, mediante due atti pubblici del 20 aprile e 25 maggio 1256, col metterli in possesso del castel di Castro, sottomettendosi per il resto allâarbitrio dei novelli amici. â (MANNO, Storia di Sardegna , T. II Lib. (.) E ben avventurata fu al prima navigazione deâGenovesi in appoggio del giudice raccomandato, poichĂŠ nellâimbattersi in alcune navi pisane (anno 1258) ebbero propizie le sorti della guerra, quantunque quellâincontro non tornasse del tutto favorevole ai primi, se è vero che i Genovesi in tal conflitto perdessero il momento propizio per sbarcare in Sardegna per soccorrere il loro amico.
Avvegnachè nel frattempo il conflitto accaduto fra i Pisani e i Genovesi, Chianni fu vigorosamente assalito dal giudice di Arborea e dai conti della Gherardesca capitani dei Pisani, sicchĂŠ nel sostenere un combattimento nella terra di S. Gillia egli cadde nelle mani deânemici che lo privarono barbaramente della vita, appena scorsi due anni dal testamento citato, col quale il giudice Chianni aveva istituito suoi eredi due suoi fratelli cugini, Rinaldo e Guglielmo.
Questâultimo personaggio, Guglielmo figlio di Rufo, nelle storie chiamato Guglielmo Cepola , succedè per ragioni ereditarie a Chianni nel giudicato calaritano. Ma non appena scorso lâanno dacchĂŠ le persone piĂš onorevoli eransi congregate in Cagliari al cospetto dellâammiraglio genovese per riverire in Guglielmo il successore legittimo di Chianni, quando questi nel gennajo del 12459, assalito da morbo repentino, chiuse in Genova la serie dei regoli calaritani.
Frattanto i Pisani con Guglielmo dâArborea stringevano vigorosamente dâAssedio il castello di Castro consegnato ai Genovesi da Chianni, mentre sette galere comandate da Guadaluccio cittadino di Pisa, impedivano ai nemici ogni provvisione di vettovaglie. â Invano i Genovesi armarono a tal uopo un flottiglia, e provocarono lâajuto della loro carovana orientale per recar soccorso agli assediati, poichĂŠ dalle forze pisane vigorosamente respinti, e quelli di dentro scorati ed affamati dovettero sino dallâanno 1257 rendersi col castello per vinti al giudice di Arborea.
â (CAFFAR. CONTINUAT. Annal. Genuens. In Script.
R. Ital. T. VI.) Ricaduta in tal maniera la rocca di Cagliari in potere dei Pisani, intesero questi prontamente a munirla di quella magnifica torre che insieme con la grandiosa chiesa di S.
Pancrazio alcuni anni dopo fu ivi innalzata; e contro la qual fortezza affatto inutili riuscirono posteriori tentativi dei Genovesi, comecchè posseditori nella stessa provincia del caste di S. Gilla. Ne miglior risultamento ottenne la spedizione di un secondo naviglio genovese, meno la preda di un legno pisano che salpava dalla Sardegna carico di denaro, oltre il supplizio di alcuni congiurati.
I Pisani adunque, i quali mercĂŠ lâerezione dellâospedale maggiore con bolla dellâanno 1257 (I aprile), dal Pontefice Alessandro IV venivano prosciolti dalle censure in cui erano incorsi, si confortavano di ritenere in loro potere la rocca piĂš importante châeglino stesso avevano edificata nellâisola di Sardegna. Allora il Comune di Pisa, dopo la morte dellâultimo giudice calaritano, cominciò senza ostacolo mediante tre nobili famiglie pisane ad esercitare libera signoria in detta isola, sul dominio del quale sembra che intervenissero anche i di lei arcivescovi.
â Avvegnachè un documento inedito scoperto nellâarchivio arcivescovile di Pisa contiene lâatto di giuramento di fedeltĂ prestato nel giorno 17 giugno 1266 (stile pisano) nelle mani dellâarcivescovo dal nobile Mariano donnicello dâArborea per sĂŠ e per Nicolao di Capaja figlio del fu Guglielmo conte di Capaja, giudice di Arborea e della terza parte del regno calaritano, di cui detto mariano ivi si qualifica tutore.
GiĂ da qualche tempo erano accadute le vittorie dei pisani nel giudicato di Cagliari quando quello di Torres, patrimonio della regina Adelasia, governavasi dal vicario del re Enzio, da quel donno Michele Zanche, tuffato dal poeta delle tre visioni nella quinta bolgia destinata ai barattieri piĂš famigerati della sua etĂ . (Inferno Canto XII).
E fu col nome infausto di Zanche che la serie si chiuse de giudici di Torres, essendochè dopo di lui quella provincia venne ripartita fra alcune potenti famiglie genovesi e pisane. â Accadeva tutto ciò nel tempo in cui il conte Ugolino di Donoratico, signore della sesta parte del giudicato di Cagliari, metteva innanzi le ragioni dei suoi nipoti nati dalla figlia del Re Enzio, maritata a Guelfo figliuolo del suddetto conte Ugolino.
In mezzo a codeste brighe politiche relative allâisola di Sardegna, ben altre piĂš serie ne insorgevano in terraferma fra i Genovesi, Fiorentini e i Lucchesi alleati fra loro a danno della Repubblica di Pisa.
A una cotanto trista condizione deâPisani sopraggiunse quella della scomunica fulminata dal Pontefice Innocenzo IV contro Federigo II e i di lui fautori. Alla morte pertanto dello stesso imperatore (anno 1250) i suoi nemici esultarono, sicchĂŠ i Pisani, oltre a vedere compromesso il loro commercio privilegiato colle Sicilie, dovevano combattere gli eserciti delle tre repubbliche riunite.
Unitisi allora in confederazione coi Senesi e Pistoiesi, invitati e accolti i fuorusciti di Firenze, con tali forze i Pisani non ricusarono misurarsi contro le preponderanti della lega avversa, sia nella Lunigiana, come nella Versilia, nel Val dâArno inferiore, nel pisano e in Val di Serchio. Lâesito però della guerra non riescĂŹ, nĂŠ poteva essere ai primi favorevole; onde il comune di Pisa indebolito da tante azioni sanguinose fu costretto rimettere alle dure condizioni che i fiorentini nel 4 agosto 1254 dettarono nel campo di battaglia ai vinti, i quali due anni dopo cederono alla stessa lega guelfa varie castella deâla Versilia, della Lunigiana, del Val dâArno superiore e di Val dâEra.
Eransi appena i pisani sbrogliati da tanta oste, allorchĂŠ vedendo che il partito imperiale, ossia deâghibellini, dopo al morte di Federigo II e di Corrado suo figlio trovavasi in Italia depresso, nĂŠ potendo operare con frutto a favor del piccolo Corradino, dovettero azzardare di prendere la determinazione di valersi dellâantico diritto degli italiani rispetto allâelezione dei Cesari, sebbene quel diritto fosse stato tolto dal Pontefice Innocenzo IV nellâultimo concilio di Lione. A tale effetto nel marzo del 1256 gli anziani di Pisa spedirono unâambasceria ad Alfonso il Saggio re di Castiglia, che in nome della Repubblica Pisana e di tutti i Ghibellini suoi amici, essendo sempre vacante lâimpero dâoccidente, acclamava quel monarca in re e imperatore deâRomani.
Accadeva tutto ciò nellâanno stesso in cui papa Alessandro IV proibiva agli elettori ecclesiastici di Germania di promuovere al trono deâCesari Corradino nipote di Federigo II, ed intimava la scomunica a chiunque diversamente operasse. Che se al re Alfonso, dopo accettata la corona imperiale, non riescĂŹ a mantenersela, cotesto fatto spiega bastantemente di per sĂŠ lâinfluenze ed il potere della Repubblica Pisana; per cui essa meritatamente consideravasi fra i piĂš rispettabili dominj nazionali che esistessero in quei tempi in italia. In vista pertanto della missione sopraindicata, il monarca aragonese rilasciò ai Pisani amplissimi privilegj dati sotto dâ17 marzo del 1256 (stile comune) nella sua Regia villa di Soria. â (TRONCI, Annal. Pis.) Da quei diplomi anche meglio si scuopre il sistema economico e le magistrature di cui allora componevasi il governo di Pisa, consistenti in un PotestĂ , in un Capitan del popolo , in 12 Anziani (sostituiti ai consoli maggiori) in 40 Senatori, in Capitani dei Militi, in Consoli di Mare, in Consoli dei Mercanti di terra, e in quelli delle Arti, da vedersi nei vari statuti, o brevi del Comune e del Popolo pisano, il piĂš antico deâquali tra i superstiti, reputo quello delle Costituzioni dâUso ridotte la rima volta a legge scritta sotto il 31 dicembre del 1160 (stile comune) e 1161 (stile pisano).
Non è però che il popolo pisano restasse inerte, tostochè nel 1257 per mezzo deâsuoi plenipotenziarj aveva stabilito coi Veneziani patti di alleanza contro i Genovesi, dopo che questi di corto avevano sorpreso e occupato il forte castello di Castro in Sardegna. â (MURAT. Ant. M. Aevi.
Dissert. 49.) In conseguenza di tale alleanza si videro i Pisani poco dopo correre con numeroso naviglio in ajuto dei Veneziani che i Genovesi avevano espulso da S. Giovanni dÏ Acri; sicchÊ le squadre delle due repubbliche collegate, veleggiando verso quel porto, posero a fuoco varj bastimenti genovesi, e demolirono un monastero dove i nemici si erano fortificati. Accadeva ciò quasi nel tempo stesso in cui altre forze dei pisani inviate in Sardegna, riconquistarono il perduto castello di Castro sopra Cagliari per fame degli assediati.
Mentre i Pisani nelle guerre marittime trionfavano in Palestina ed in Sardegna, mentre il loro commercio fioriva nelle Sicilie e nelle Spagne, tutte le cittĂ Guelfe di Toscana si collegavano insieme per combattere Pisa centro principale del partito Ghibellino. La cittĂ di Siena pertanto fu designata per quartiere generale di un potente esercito, alla testa del quale il Re Manfredi di Napoli aveva inviato con molti cavalieri tedeschi un valoroso capitano. Giunto il settembre del 1260, avvenne nei contorni di Monteaperto quella gran battaglia, che sbigottĂŹ lâItalia intiera per lâorribile scempio dei combattenti nella lega Guelfa. Dopo la qual vittoria i Ghibellini di tutti i paesi ferocemente vendicaronsi contro i seguaci del guelfismo; ed o Pisani come i piĂš caldi ed i piĂš numerosi del partito trionfante, corsero tosto a riprendere i castella châerano state loro dalla fazione contraria occupate.
In questo stato di prosperitĂ , il Comune di Pisa fece fabbricare di pietre il ponte piĂš orientale della cittĂ , ora appellato Ponte alla Fortezza , allora Ponte alla Spina, quindi nellâagosto del 1264 fu conclusa una tregua per ventâanni fra il popolo pisano ed il regolo di Tunisi ad oggetto di assicurare sulle coste dâAffrica la navigazione e di favorire ai negozianti pisani nuovi sbocchi al loro commercio.
Ma intorno alla medesima etĂ può fis sarsi la meta gloriosa della repubblica pisana: avvegnachè sei anni dopo la vittoria di Monteaperto accadde la battaglia di Benevento, dove il Re Manfredi, capo deâGhibellini, rimase ucciso ed i principali seguaci vittime del vincitore. I Pisani infatti furono dei primi a risentire della morte del Re Ghibellino i piĂš tristi effetti, tostochè non corsero molti anni che i negozianti di Pisa per ordine del Re Carlo dâAngiò vennero cacciati dalle Sicilie con rappresaglia sopra le loro merci, per la ragione che la repubblica pisana aveva caldamente invitato e poscia dâogni maniera favorito il Re Corradino, nella speranza di potergli riconquistare il trono avito. A sostegno dellâAngioino era il Pontefice Clemente IV, il quale non solo fulminava ai Pisani lâinterdetto, togliendo loro al sede archiepiscopale, ma meditava di dare un colpo anco piĂš forte al loro governo nella mira di recuperare i diritti della S. Sede sulla Sardegna, quando lusingava di donarla a Carlo dâAngiò dopo coronato in re delle Sicilie, e ciò poco innanzi che il Papa medesimo promettesse ad Arrigo di Castiglia, fratello di Alfonso il Saggio, lâinvestitura del trono sardo. Ne stette gran pezza a farsi innanzi pel trono di quellâisola un altro concorrente nella persona di Giacomo il Vittorioso re dâAragona con lâintenzione di mettere quella corona sul capo del figliuolo suo secondogenito.
Mentre fra i tre illustri postulanti pendeva il destino per lâacquisto della Sardegna, dallâaltro canto non quietavano punto le rivalitĂ ed i conflitti fra i nobili pisani signori nei giudicati di quellâisola.
Quindi il governo della Repubblica di Pisa, il quale continuava ad esser potente in Cagliari, dovĂŠ spedire in Sardegna commissarj incaricati di pacificare queâgiudici fra loro; frattanto che inviava a Sassari (anno 1272) per potestĂ un suo cittadino, Arrigo da Caprona. Ma nel tempo che gli anziano procuravano di fissare la pace nelle terre amiche della Sardegna, essi, forse per ricattarsi con i Genovesi, spargevano semi dâinquietudine e di ribellione nella vic ina Corsica. Cominciò allora (anno 1282) fra le due repubbliche una serie lacrimevole di ostilitĂ e rabbiose fazioni, fra le quali riescĂŹ fatale a Giovanni Visconti, giudice di Gallura, quella di una squadriglia pisana da esso capitanata per riacquistare a viva forza la rocca di S. Gillia in Sardegna.
Debolissimo lume somministrano le storie sarde per sapere con chiarezza la parte che prese nel governo il Giudice di Gallura al tempo che Pisa era retta dal conte Ugolino di Donoratico, fatto perire di fame con due figli e due nipoti. Si crede però che il Giudice di Gallura Giovanni Visconti fosse stato nemico dei conti Gherardeschi innanzi che divenisse loro aderente ed affine mediante il matrimonio (ERRATA : di Nino suo figlio) di Giovanni Visconti con una figliuola del conte precitato, e che costui, da ciò che meno velato apparisce, tenendo forse per la migliore via del giusto mezzo , facesse di tutto onde ridurre Pisa, se non decisamente a parte guelfa, almeno ghibellina-moderata, nella cui operazione politica il conte Ugolino si associò il giudice di Gallura.
Ma i piĂš violenti Ghibellini, fra le quali si contavano molte delle principali famiglie pisane, per tale improvvida odiatissima politica si adontarono in guisa che il Visconti ed il conte Ugolino nel 1274 con decreto di ostracismo furono confinati. Ma il Visconti sostenuto dalle forze del vicario regio di Carlo, da quelle deâFiorentini e deâ Lucchesi nemici di Pisa ghibellina, impadronissi a viva forza del castel di Montopoli. Che sebbene nel colmo della fortuna il Visconti fosse colto sollecitamente dalla morte (anno 1275), non per questo cessò la guerra di partito, a fomentare la quale concorrevano molti ambiziosi cittadini.
Uno di questi, il piĂš fiero di tutti, era il conte Ugolino della Gherardesca, che, adontato dallâesilio datogli nel 1274, se nâera partito da Pisa seguitato dai suoi fautori.
Quindi non corsero molti mesi, quando egli segretamente si collegò coi Fiorentini e Lucchesi, sicchĂŠ messosi alla testa di un buon numero di masnade di Corsi, si recò a devastare i contorni di Bientina, di Montecchio e di Vico nei confini del contado di Pisa. Ciò servĂŹ di preliminare alla battaglia che nel 2 settembre del 1275 ebbe luogo nei campi di Asciano fra lâesercito della lega guelfa della lega toscana ed i Pisani, dove piĂš migliaja di questi ultimi rimasero prigionieri. Per tal modo il popolo di Pisa sempre piĂš inasprito contro il conte Ugolino ne incendiò le case, nel tempo che il governo confiscava i suoi beni.
Frattanto alla nuova campagna i soliti alleati investirono e batterono i Pisani persino dentro le trincere del fosso Rinonico, talchĂŠ gli anziani di Pisa con la mediazione dei ministri pontificj ottennero dai nemici la pace, ma a condizioni assai gravose. Tali furono quelle di esentare i Fiorentini da ogni gabella nel Porto Pisano, di restituire ai Lucchesi le castella da essi anteriormente perdute, di ribandire il conte Ugolino, i Visconti e gli Upezzinghi con altri fuorusciti pisani, e di riconsegnare ai medesimi i beni e le rendite confiscate.
Accadeva cotesta pace nellâanno medesimo (1276) in cui celebravasi in Pisa un concilio generale dai Frati dellâordine deâPredicatori, intimato dal Pontefice Gregorio X, affinchĂŠ cotesti religiosi non predicassero piĂš contro il tributo delle decime, ma persuadessero i popoli a pagare scrupolosamente cotesta ecclesiastica imposizione.
Dopo agitazioni si fatte potĂŠ il governo pisano godere per qualche tempo di un poca di pace mercĂŠ cui il popolo meditò di eseguire un meraviglioso concepimento collâaffidare al migliore artista di quella etĂ (Giovanni Pisano) lâerezione del celebre Camposanto urbano, il quale era stato un secolo innanzi dai loro maggiori ideato, con lo scopo di riporvi una quantitĂ di terra del Monte Calvario di Gerusalemme fino dal 1200 dai crocesignati pisani nella loro patria portata.
Sembrò infatti allâautore della moderna descrizione di Pisa, che lâerezione del Camposanto, monumento unico nel suo genere in Italia, per fatalitĂ segnasse il confine della grandezza pisana.
Ai molti pregj che illustrano cotesta cittĂ univansi quelli di essere stata il terrore deâSaraceni, il sostegno costante deâCesari e di non pochi Pontefici, innanzi che la tracotanza di potenti cittadini e piĂš che altro le municipali gelosie fiaccassero le forze di una si potente Repubblica e innanzichĂŠ Pisa restasse per molti anni orbita di migliaja deâsuoi piĂš coraggiosi cittadini.
Uno dei primi colpi alla pisana potenza fu quello minato dai Genovesi col trarre a sĂŠ lâamistĂ deâ piĂš potenti signori della Corsica e della Sardegna.
Preparavansi in tal maniera quella guerra atroce che dal 1282 in poi riempĂŹ sventuratamente gli annali delle due cittĂ di sanguinose azioni battagliate fino alla lagrimevole fatalissima della Meloria.
Erano i Pisani intenti a riparare i danni che giĂ da quel tempo il loro commercio risentiva, facendo pronti ed opportuni apprestamenti nellâarsenale quando il governo di Pisa elesse in potestĂ Albertino Morosini personaggio nobilissimo di Venezia, e per ammiragli delle sue flotte Andreotto Saracini e il conte Ugolino della Gherardesca; quello stesso conte che pochi anni innanzi era stato esiliato dalla patria come sospetto di guelfismo. Correva lâanno 1284, anno di tristissima memoria per i Pisani, e che segna lâepoca in cui tra Pisa e Genova si decise del diritto di preminenza sul dominio marittimo. A questi intenti agognando i Pisani misero in ordine 72 galee con altri minori legni, sui quali montò il fiore della nobiltĂ e gran parte della cittadinanza. Con sĂŹ poderoso naviglio si entrò fastosamente dallâArno in mare; e avendo colto il tempo che una flottiglia da guerra genovese era andata in Sardegna, la flotta pisana corse a dare il guasto alla riviera ligustica, presentandosi persino davanti al porto di Genova a balestrare a ingiuriare quegli avversarj.
Probabilmente lâazione piĂš che lâeffetto dovĂŠ muovere a ira maggiore i Genovesi; i quali richiamando dalla Sardegna e dalla Corsica la navi sparse, riunirono 88 galee con altri piccoli legni, sicchĂŠ contale flotta usciti da Genova recaronsi in traccia della pisana, e trovatala in vicinanza dello scoglio della Meloria, nel dĂŹ 6 agosto 1284, seguĂŹ quella disperata battaglia, della quale forse in tutti i secoli di mezzo non era accaduta in mare la piĂš sanguinosa, piĂš ostinata, piĂš fatale.
Grande fu la mortalitĂ dallâuna e dallâaltra parte, ma sommo, incalcolabile divenne il danno alla Repubblica pisana, la quale non solo perdĂŠ la metĂ del suo naviglio, ma piĂš migliaja di cittadini di varie classi restarono preda del vincitore che li volle per molti anni prigioni propria casa; in modo che allora si disse per proverbio: Chi vuol veder Pisa vada a Genova.
Ă certo frattanto che la Repubblica pisana dopo la perdita di moltissimi cittadini coraggiosi e potenti, non potĂŠ alzare piĂš il capo, e tanto andò declinando che con tutto il coraggio e con tutti i mezzi dei suoi figli doviziosj e appassioni, Pisa dovĂŠ perdere la propria libertĂ prima dâogni altra repubblica di Toscana.
Ad accrescere nei Pisani la desolazione si aggiunse la subitanea partenza di tutti i mercanti fiorentini, cui presto tenne dietro lâostilitĂ manifestata dalle varie cittĂ e terre della lega guelfa toscana; le quali dopo la disfatta della Meloria si staccarono dalla momentanea amicizia del Comune di Pisa per aderire con suo danno ad una nuova confederazione di cui faceva parte la repubblica di Genova.
Ben presto ne conseguĂŹ, che i Fiorentini dal lato di levante, i Lucchesi verso settentrione ed i Genovesi per la via di mare, nellâestate del 1285 mossero le loro armate a danno del popolo pisano.
Che se la guerra venne sospesa con i primi, ciò fu per consiglio del conte Ugolino, al quale sino dal febbrajo dellâanno seguente associò in qualitĂ di capitano del popolo in suo (ERRATA: genero Nino) nipote Nino (Ugolino) Visconti giudice di Gallura. â Lâopera piĂš importante che per avventura accadesse nel primo anno della dittatura del conte di Donoratico e di Nino Visconti mi sembra quella della riforma deâStatuti del Comune di Pisa sotto il titolo di Breve Pisani Comunis, dove in calce al Cap. 61, del Libro IV, quei due uffiziali maggiori sono nominati, e sopra i quali statuti debbo tornare a parlare allâArticolo COMUNITAâ di PISA.
Erano in questo stato le cose di Pisa, quando il suocero e il (ERRATA: genero) nipote suddetti tergiversando nella conclusione della pace con Genova per riavere i prigionieri della Meloria, lâarcivescovo Ruggiero unitosi ai capi della fazione ghibellina, secolari e sacerdoti, dopo aver questi segretamente adunato un numero di soldati, allo spirare di giugno del 1288 levossi la popolazione a rumore, da primo (al dire di alcuni cronisti) contro il capitano del popolo Nino di Gallura per cacciarlo di signoria con intelligenza tacita del conte assentatosi pochi giorni innanzi per recarsi alla sua villa di Settimo.
Vedendo pertanto Nino Visconti che lâattruppamento deârivoltosi andava crescendo, deliberò di escire da Pisa coi suoi seguaci armati, sicchĂŠ nellâultimo giorno di giugno del 1288 il capitano di Pisa in mezzo a un numero di soldati a cavallo escĂŹ dalla cittĂ per la porta Calcesana, mentre poche ore dopo (stando al detto di alcuni storici) dallâopposta ripa dellâArno ritornava in Pisa il potestĂ conte Ugolino. â Ma giĂ lâarcivescovo Ruggiero era entrato nel palazzo del popolo acclamato in potestĂ dai Sismondi, dai Gualandi e dai Lanfranchi, capi della fazione ghibellina, con lâintenzione, dicevano essi, di porre un freno alla prepotenza del conte di Donoratico, cui i rivoltosi volevano dare un compagno del loro partito.
Per quanto io mi sia dato premura di ricercare in varj archivi pubblici le prove di tuttociò, nel desiderio di schiarire un periodo tuttora oscuro e controverso quanto importante della storia pisana, sventuratamente non vi sono riescito.
Che però dovendo limitarmi a ripetere ciò che racconta uno deâ cronisti pisani, il quale si mostra degli altri alquanto meglio informato, e giovandomi di ciò che asseriva un contemporaneo scrittore degli annali genovesi, dirò che nella mattina, del 1 luglio 1288 (stile comune) il conte Ugolino e lâarcivescovo furono insieme per trattare sulla riforma del governo, ma non sâaccordando fra loro cosĂŹ per fretta, fissarono di tornare a colloquio verso lâora di nona. In questo frattempo lâarcivescovo e gli altri capi ghibellini furono avvisati che Nino, detto il Brigata, nipote del conte Ugolino, e parente, come dirò appresso, dellâarcivescovo Ruggiero, si preparava ad introdurre in cittĂ per via dellâArno qualche centinajo di uomini da un capitano di Bientina appositamente condotti. Allora la fazione deârivoltosi temendo di essere sorpresa a tradita, innanzi che le genti del conte si mettessero dentro Pisa, fu gridato allâarme , e da quelli della parte dellâarcivescovo dato nella campana del Comune, mentre lâaltra del popolo chiamava i pisani a difesa del conte Ugolino. Ben presto la mischia fra i due partiti incominciò per le strade della cittĂ e sempre piĂš sanguinosa si rese dallâora di nona fino a sera. Alla fine i seguaci del conte rinculando si rinchiusero nel palazzo del popolo, ed ivi dai loro feroci nemici con fuoco ed altri mezzi investiti, dovettero darsi prigionieri. Erano fra questi il conte Ugolino, con due figliuoli e due nipoti, i quali dopo essere stati collati e sostenuti, furono messi aâferri e guardati piĂš di venti giorni nel palazzo stesso posto nel Castelletto fino a che, essendosi acconcia la prigione della torre dei Gualandi dalle Sette vie, vi si rinchiusero il conte Ugolino, Gaddo ed Ugoccione suoi figliuoli con Nino, detto il Brigata, ed Anselmuccio , due nipoti dello stesso conte. â (MURATORI, Fragment.
Hist. In Script R. ital. Tomo XXIV.) Lâarcivescovo Ruggiero dal giorno innanzi gridato potestĂ , tenne lâufizio per soli quattro mesi, i primi due, del luglio e agosto, personalmente, gli altri due mesi, del settembre ed ottobre, mediante il suo vicario Buonaccorso Gubetta. Dissi lâarcivescovo Ruggiero potestĂ di Pisa per 4 e non come altri scrissero per 5, stantechè nel novembre del 1288 (stile comune) esercitava lo stesso ufizio Ildino di Romagna, capitano del popolo pisano, il quale tenne quella carica per un anno. Finalmente nel mese di maggio dellâanno 1289 (stile comune) trovò potestĂ di Pisa messere Gualtieri di Brunforte.
Di cotesti uffiziali superiori è fatta menzione in un codice sincrono dove furono registrati i nomi degli anziani tratti dalle borse ogni due mesi, a partire da luglio del 1288 (stile comune) sino allâanno 1406.
Da quel codice si rileva, che la prima tratta degli anziani cominciò al tempo del venerabile padre Ruggiero per misericordia divina arcivescovo di Pisa, PotestĂ Rettore e Governatore del Comune e popolo pisano, lâanno 1289, del mese di luglio (stile pisano).
Altro documento del tempo sarebbe una sentenza data nel 12 maggio 1289 (stile comune) nella curia deâMaleficj di Pisa posta nella piazza di S. Ambrogio, essendo potestĂ messer Gualtieri di Brunforte. â (ARCH. ARCIV. DI PISA). Questo Gualtieri scrisse lâanonimo autore della cronica pisana edita dal Muratori (Script. Rer. Ital. Tomo XXIV), châera entrato in ufizio di potestĂ a Pisa sino dal dicembre del 1288 (stile comune), e che vi stette sei mesi, perchĂŠ ai 13 maggio del 1289 giunse ad Asti per la via di Genova il conte Guido di Montefeltro stato investito della doppia qualitĂ di potestĂ di Pisa e capitano generale di guerra per il tempo di tre anni, sebbene il codice della comunitĂ di Pisa ci dia il principio del governo del conte Guido da Montefeltro nel mese di novembre del 1289 (stile comune). Soggiunge inoltre il cronista, che quando il conte Guido arrivò a Pisa erano morti di fame alla Torre deâGualandi dalle Sette vie Gaddo e Uguccione, due figliuoli del conte Ugolino, e che gli altri morirono in quella medesima settimana.
Frattanto donna Capuana figlia di Ranieri conte di Panico e sorella di un conte Ugolino di Panico, stato potestĂ di Modena, essendo rimasta vedova dellâinfelice Nino di Donoratico, denominato il Brigata, dovĂŠ rifugiarsi con due piccoli figliuolini presso la famiglia deâconti di Panico, mentre le altre linee della casata Gherardesca poterono restare impunemente in Pisa o nel suo contado.
Arroge che lâannalista genovese, Giacomo Doria (ANNAL. GENUENS Lib. X) racconta, come dopo la prigionia del conte Ugolino e la fuga del giudice di Gallura, lâarcivescovo Ruggiero e gli altri che in quel lagrimevole periodo governavano Pisa invitarono il Comune di Genova a spedire alcune galere al porto pisano, perchĂŠ volevano consegnarli il detto conte coi figli e nipoti prigionieri. Dondechè da questi soli fatti sembra poter conchiudere, che la vendetta deâPisani, giusta o ingiusta che fosse, si limitò alla sola famiglia del conte Ugolino; che se i figli e nipoti del conte furono innocenti rispetto alle cessioni delle castella (cui aveva acconsentito tutto il popolo pisano adunato in duomo) non furono però cauti abbastanza da non prender parte nella sommossa del 1 luglio 1288; che nĂŠ i figli; nĂŠ i nipoti erano in una etĂ novella, come li chiamò Dante nel piĂš bel canto che uomo scrivesse giammai. Per tal guisa vinto lâanimo della passione, si è visto come una robusta poesia sappia paralizzare la severitĂ dellâistoria, onde accrescere delitto a un popolo e infamia a un arcivescovo, perchĂŠ lâuomo del giusto mezzo fidossi troppo di colui che come parente, e forse per influenza del conte stesso innalzato dallâarcidiaconato di Bologna allâarcivescovato di Pisa, nĂŠ verso i figli, nĂŠ verso i nipoti, e nettampoco col suo benefattore seppe usare alcuno atto di virtĂš civile o cristiana. Se non fu unico però lâAlighieri a dichiarare lâarcivescovo di Pisa traditore fu unico bensĂŹ fra i coetanei ad accusare lo stesso Ruggiero di aver dato lâempio consiglio di vietare il cibo ai Gherardesca suoi prigionieri mentre non vi è pagina storica che in ciò lo addebitasse, nĂŠ Roma potĂŠ per tale addebito quel prelato condannare; mentre altri incolpavano di tal crudeltĂ il furibondo popolo. Della qual cosa non mancano orribili e tragici esempi in tutti i tempi, con tutti i popoli, fra i piĂš caldi partiti, quando si arma una popolazione mossa da convincimento di opinione politica o religiosa.
Comunque sia, un fatto piĂš concludente, che potrebbe difendere lâarcivescovo Ruggiero, oltre lâasserto dello storico contemporaneo, Giacomo Doria di sopra citato, si è quello di vedere lo stesso prelato chiamato a Roma, quindi pacificamente ritornato alla sua sede arcivescovile di Pisa, siccome lo dimostrano le carte di quellâarchivio.
Che anzi nel maggio dellâanno 1289 la curia deâMalefici di Pisa pronunziò sentenza con penale contro tutti i Comuni dellâisola dâElba, qualora dentro il termine di 20 giorni non avessero pagato al Venerabile Ruggiero arcivescovo pisano ed alla sua mensa il tributo di dieci anni arretrato pei falconi che i detti comuni inviare dovevano agli arcivescovi di Pisa.
A meglio provare la permanenza di Ruggero nellâesercizio della sua dignitĂ arcivescovile gioverĂ citare un breve, col quale quel prelato eccitava la caritĂ dei suoi diocesani a voler soccorrere di elemosine lâospedale deâTrovatelli di Santo Spirito posto in Pisa nel quartiere di Chinsica. Il quale breve incomincia: Rogerius divina et apostolica gratia Pisanus Archiepiscopus, Sardinae Primas, et Apostolica sedis Legatus, etcâŚ, e termina: Datum Pisis apud Archiepiscopatum, Anno MCCLXXXXV. Indictione VII, sexto Kalendas Augusti, consecrationis nostrae anno XVI.
Importantissimo poi è un istrumento del dĂŹ 8 ottobre 1295 rogato in Pisa presso lâarcivescovato perchĂŠ si scuopre la famiglia dellâarcivescovo Ruggiero che non apparteneva, come finora si è creduto, agli Ubaldini del Mugello, ma invece ai conti di Panico del contado bolognese.
Avvegnachè lâistrumento testĂŠ accennato tratta dellâenfiteusi di cinque predj di dominio diretto della mensa di Pisa che lâarcivescovo Ruggerio concedeva senza retribuzione di canone ad Ubaldino nipote dello stesso Arcivescovo, e figlio del conte Bonifazio di Panico di lui fratello, per tenerli a usufrutto egli, i suoi figli ed eredi maschi in perpetuo. â (ARCH. ARCIV. Di PISA).
Che questo Baldino di Panico nipote dellâarcivescovo fosse presente alla sommossa di Pisa del 1 luglio 1288, ce lo da a divedere lâautore anonimo della cronica pisana edita dal muratori negli Scrittori delle cose italiche (T.
XXIV.); mentre il Savioli neâsuoi annali bolognesi ci assicura, che donna Capuana moglie di Nino, denominato il Brigata, nasceva da un Ranieri, pur esso conte di Panico. â (Vedere TROJA, Veltro Allegorico).
Ma se il poeta delle tre visioni si mostrò acerrimo nemico deâPisani e del loro arcivescovo Ruggiero, altrettanto sembrò benevolo verso (ERRATA: Nino Visconti genero) Nino Visconti nipote e collega di Governo del conte Ugolino di Donoratico; poichĂŠ mentre cacciava Ruggeiro fra i piĂš solenni traditori nellâAntenora, a Nino usò la gentilezza di chiamarlo gentile e di porlo nel Purgatorio, dove Dante figurò dâincontrare la sua ombra dicendo: Ver me si fece, ed io ver lui mi fei; Giudice nin gentil quanto mi piacque Quando ti vidi non esser fra i rei.
(PURGAT. Cant.
VIII.) Ma gli odj dei popoli limitrofi crebbero contro i Pisani dopochè questi collegaronsi con gli Aretini. Allora i Fiorentini, stretta di nuovo alleanza coi Genovesi e coi Lucchesi, corsero sopra Porto Pisano (settembre 1290), dove furono investite e conquistate le quattro torri col fanale, quindi vennero affondate delle navi cariche di pietre alla bocca del porto per chiudere lâingresso ai bastimenti di grossa portata. â Vedere LIVORNO e PORTO PISANO.
Comecchè i Pisani non avessero forze proporzionate da misurarsi con tanti nemici, pure pel senno del conte Guido da Montefeltro loro podestà e capitano generale di guerra essi poterono schermirsi con sufficiente successo.
Ma giunto lâanno 1292 i Fiorentini, si erano preparati ad aprire contro i Pisani una piĂš imponente campagna, quando un loro esercito composto di 8000 soldati a piedi e di 2500 cavalieri, nel mese di giugno, mosse la marcia verso Pisa nel tempo stesso che il conte Guido da Montefeltro con 800 soldati di cavalleria, diretti con strategica bravura, procurava difendere questa cittĂ .
SennonchĂŠ nel 1293 per risse cittadine in Firenze essendosi mutato regime a danno deâgrandi, si accelerò la pace coi Pisani, che fu conclusa lĂŹ 12 luglio dello stesso anno in Fucecchio, fra il comune di Firenze ed i popoli della taglia guelfa di Toscana, nella quale meditava anche Nino di Gallura nipote dellâinfelice conte Ugolino da una parte, ed il Comune di Pisa coi suoi aderenti dallâaltra parte. Le condizioni del trattato furono la restituzione scambievole dei prigionieri; franchigia di gabelle in Pisa e suo dominio pei fiorentini e per tutti i popoli e signori della taglia guelfa; abbattimento delle fortificazioni che il conte Guido da Montefeltro fatto avesse in essa cittĂ e suo contado; espulsione deâGhibellini forestieri che fossero fatti cittadini pisani dopo la partenza del Giudice di Gallura; ribandimento di questâultimo signore, e restituzione dei beni a lui ed agli altri guelfi fuorusciti col permesso del libero ritorno in patria. â Fra i guelfi si eccettuarono i conti Guelfo e Lotto di Donoratico coi figli e nipoti come discendenti del conte Ugolino. â Restarono pure esclusi dal ribandimento alcuni deâconti di Montecuccari e di Collegalli con altri individui della casa Upezzinghi, salvo un capitolo speciale che servi forse di appendice allo stesso trattato di pace relativo al perdono deâconti Guelfo e Lotto di Donoratico, ma che però non ebbe effetto.
Finalmente in quellâatto fu stabilito che i Pisani per 4 anni dovessero eleggere in loro potestĂ e capitano del popolo uno nativo dei paesi della lega guelfa toscana, purchĂŠ non fosse stato dei ribelli deâcollegati. â (AMMIR. Stor. Fior.
Libro IV. â Dal BORGO, Dissert. e Diplomi pisani.) In vigore del quale trattato mo lti fuorusciti guelfi, fra i quali, il Giudice Nino di Gallura, tornarono a Pisa ed al libero possesso de loro beni. Ma poco andò che Nino Visconti si riallontanò dalla patria per recarsi a Genova dove fu ben accolto e fatto cittadino. Quindi dopo essersi unito ad altri amici, quel giudice navigò in Sardegna con animo dâindurre i potenti dellâisola a scuotere il giogo pisano, osteggiando prima di tutto contro il giudice di Arborea. Ciò sarebbe accaduto secondo uno storico sardo nel 1297, e due anni dopo secondo li scrittori pisani e genovesi.
Ma il giudice di Gallura lâanno 1300 cessò di vivere lasciando allâunica sua figliuola Giovanna, natagli da donna Beatrice dâEste, oltre una ricca ereditĂ , i paterni diritti sul giudicato di Gallura.
Appella a cotesta figlia di Nino Visconti il colloquio figurato da Dante nel Purgatorio, allorchĂŠ Nino diceva al poeta: Quando sarai di lĂ dalle larghe onde Di a Giovanna mia, che per me chiami LĂ dove aglâinnocenti si risponde.
(PURGAT. Canto 8).
Siamo giunti alla fine del secolo XIII, quando i Pisani trovandosi assaliti dai Genovesi con sempre piĂš insistenti forze navali, tanto in Sardegna, come nella Corsica e lungo il littorale toscano, dovettero tornare a comprare da essi una pace umiliante, con la quale furono forzati di rilasciare ai loro emuli lâintiero dominio della Corsica, ed il giudicato di Torres con al cittĂ di Sassari (la sola indipendente di tutta la Sardegna) esentandoli da ogni dazio nel restante dellâisola come pure in quella dellâElba, in Pisa e nel suo contado.
Allâincontro si limitava ai Pisani la giurisdizione littoranea, togliendo via quella che ottennero pere concessione imperiale dalla bocca del Serchio al promontorio del Corvo. Infine il comune di Pisa dovĂŠ obbligarsi a pagare lire 160.000 ai Genovesi, promettendo questi dal lato loro di rimandare a Pisa queglâinfelici prigionieri della Meloria, che dopo 16 anni erano restati tuttora in vita.
Uscivano appena i Pisani da cotesto travaglio che se ne affacciava incontro un altro non meno doloroso. Era di poco salito sul trono pontificio Bonifazio VIII, il quale intento a far cessare fra la casa regnate dâAragona e quella dâAngiò di Napoli ogni contenzione rispetto al possesso della Sicilia, concludeva con Giacomo II re dâAragona un trattato, in cui per condizione segreta eravi la promessa di dare a questo monarca la Sardegna, mentre per la sua parte lâAragonese rinunziava ad ogni suo diritto sullâisola della Sicilia.
Coteste trattative preliminari, al dire di Giovanni Villani, si fecero nel principio del 1296, mentre per asserto di un piĂš vecchio scrittore, Tolomeo da Lucca, il trattato non avrebbe avuto luogo sennonchĂŠ nel luglio del 1299. Infatti fu dopo una segnalata vittoria dagli Aragonesi riportata nel mare di Sicilia, quando Giacomo II ottenne dal Pontefice Bonifazio il gonfalone della chiesa con lâinvestitura dellâisola di Sardegna, previa la protesta di riconoscere il supremo dominio della S. Sede, di assisterla colle sue forze in Italia, e di pagare alla Camera apostolica lâannuo censo di 2000 marche dâargento.
Ma quellâatto di investitura dovette trattarsi con la massima segretezza e senza la minima saputa dei Pisani, se è vero che questi nel 1301, lusingandosi probabilmente di evitare un pericolo che li minacciava, o piuttosto sperando di liberasi dallâinterdetto cui si trovavano avvolti, caddero in un precipizio maggiore, se è vero, io dico, che i pisani eleggessero in loro potestĂ lo stesso Papa con lâannuo onorario di 4000 fiorini dâoro, e che Bonifazio VIII, accettando cotale offerta, per tal mezzo avesse liberata dalle censure la cittĂ di Pisa, dove da alcuni storici si ammette lâinvio di un vicario papale in governatore di quella repubblica.
Frattanto Giacomo II conoscendo che lâacquistato diritto non bastavagli, se non giungeva a cacciare dalla Sardegna i Pisani che pure vi signoreggiavano, deliberò combatterli concitando contro essi prima di tutto la rivalitĂ deâFiorentini e dei Lucchesi. â Erano in questo stato gli affari politici, quando il Comune di Pisa, nel 1308, volendo evitare un pericoloso cimento, ebbe ricorso ad un ausiliatore assi piĂš potente e piĂš efficace, quale si è lâoro.
Infatti in quellâanno essendo stati da Pisa inviati in Aragona ambasciatori con tre galere e con molta moneta, questi ruppero la foga al nemico allettato anche dallâofferta fatta al re Giacomo della carica di Capitano della repubblica pisana, sebbene punto, o brevissimo tempo per mezzo di un suo vicario lâesercitasse. â (G.
VILLANI, Cronac. Lib. VIII, Cap. 105. TRONCI, Annali pisani.) Che i Pisani fidassero nella pace promessa dallâAragonese rispetto alla Sardegna, lo dice la chiesa maggiore di Cagliari da essi in quel tempo fondata, e lo chiarisce anche meglio lâordine dato dagli anziani nel 1314 per inviare un giureconsulto in Sardegna che tenesse a sindacato i diversi ufiziali al servizio del comune di Pisa, tanto nella provincia di Cagliari, come in quella di Gallura. â (DAL BORGO, Diplomi pisani, pag. 315).
Frattanto a rincorare il partito del governo ghibellino scendeva con grandâanimo in Italia nellâanno 1311 Arrigo di Lussemburgo per essere incoronato a Roma Imperatore. I Pisani, che si ripromettevano da questo sovrano il ritorno allâantico splendore, procurarono con tutti i mezzi di favorire le buone disposizioni mostrate da quel monarca a vantaggio del partito ghibellino.
Infatti il Comune di Pisa mandò sollecitamente ad Arrigo di Lussemburgo 60.000 fiorini dâoro, ed altrettanti ne promise al suo arrivo in Pisa. Ognuno può immaginarsi la gioja e lâaccoglienza fatta da un popolo ghibellino ad un imperatore ghibellinissimo, nel suo ingresso in Pisa, dove sâintrattenne 46 giorni continui, (dal dĂŹ 6 marzo al 22 aprile del 1312.) Sono troppo note le belliche imprese di questo monarca inutilmente tentate nellâassedio di Firenze e quelle ne contorni di Siena, dove nel 24 agosto 1313 in breve ora morĂŹ. â Dolenti i Pisani per tale disavventura non lasciarono di onorare le ossa di quellâImperatore, il cui cadavere fu cotto e spolpato nel suo passaggio da Suvereto, dove restò due anni innanzi che venisse trasportato a Pisa, e costĂ rinchiuso in un apposito sarcofago con gran dolore della popolazione, la quale dopo aver speso somme immense presentiva la trista sorte che gli sarebbe toccata.
Vedendo per tal caso gli anziani di Pisa la cittĂ esposta allâira di tanti nemici, pensarono di offrire il comando della medesima a diversi principi del loro partito. Ma questo progetto essendo andato a vuoto, si ricorse al valoroso Uguccione della Faggiuola lasciato dallâImperatore Arrigo VII luogotenente in Genova, il quale accettò lâofferta di potestĂ e capitano del popolo pisano. Questâuomo bellicoso e intraprendente assoggettò assai presto ai suoi voleri anche la cittĂ e territorio di Lucca. Accorreva a reprimere tanta baldanza una numerosa armata di Fiorentini, di Sanesi e di altri popoli della lega guelfa toscana, a rinforzo della quale non pochi soldati inviava il re Roberto da Napoli. Ma Uguccione li vinceva tutti nella memoranda battaglia di Montecatini in Val di Nievole (29 agosto 1315); in quella luminosa giornata che rese sempre piĂš orgoglioso ed esigente il Faggiuolano, sicchĂŠ Uguccione si tirò addosso lâodio dei suoi governati a segno, che in una mattina stessa a furia di popolo trovossi cacciato da Pisa e da Lucca. (11 aprile 1316).
Cascetto da Colle, popolano arditissimo, e il conte Gaddo (Gherardo) della Gherardesca furono i primi che in Pisa si muovessero ed incoraggiassero la popolazione ad oggetto di liberare da tale oppressore la patria. â Era il conte Gaddo nato da un conte Bonifazio detto il Vecchio, che fu prigioniero dei Genovesi innanzi al fatale sconfitta della Meloria, e che alla morte di lui accaduta nel 1313 fu generalmente compianto per le sue virtĂš e per ricordi cospicui di beneficenza che in Pisa lasciò.
La rimembranza di un ottimo padre, la ricchezza della famiglia, i buoni servigj dal figlio stesso resi ultimamente alla patria, fecero si che il conte Gaddo fosse amato ed accettissimo ai suoi concittadini, di maniera che nel 1316 agli fu acclamato signor di Pisa dai discendenti immediati di coloro che avevano fatto perire nella torre della fame il cugino del di lui padre.
Saggi furono i provvedimenti del novello signore, che procurò ai suoi amministrati una quiete stabile, riformando abusi, ricomponendo milizie, restituendo vigore alle magistrature e un maggior rispetto alle leggi. Il conte Gaddo chiese ed ottenne la pace a favorevoli condizioni da Roberto re di Napoli, dai Fiorentini e dalle altre città guelfe della Toscana. Per stare in maggiore armonia col suo potente vicino, Castruccio degli Antelminelli capitano e signore di Lucca, lo stesso conte stabilÏ il matrimonio fra il proprio figlio Bonifazio novello e Sancia Antelminelli figliuola del suo potente vicino.
Mentre però tutto tendeva a riparare i danni sofferti ed a migliorare la sorte deâPisani, nel tempo che questi nutrivano grandi speranze e le piĂš belle lusinghe, tutto fu troncato dalla morte repentina del conte Gaddo accaduta nellâanno 1320; nĂŠ seppe ripararvi il di lui zio paterno, il conte Ranieri della Gherardesca acclamato e sostituito nellâistesso ufizio al nipote.
Non corse infatti molto tempo a presentarsi occasione propizia al re dâAragona per la conquista della Sardegna, quando il governo di Genova si esibĂŹ di ajutarlo nellâimpresa con la speranza di accrescere stato in quellâisola, di menomarvi e forse di annientarvi la potenza pisana. Cominciò nel 1323 con mezzi barbari a ribellarsi dai pisani il giudice di arborea, il quale, oltre il tenere la cittĂ di Orestano, era signore quasi di una terza parte della Sardegna quando offriva allâAragonese non solamente tutte le sue milizie, ma prometteva di piĂš lâajuto dello scellerato Brancadoria di lui amico e confederato. (G.
VILLANI, Cronich. Lib. IX, Cap. 198. â MANNO. Stor.
di Sardegna, Lib. IX) Arroge che lâinfante don Alfonso secondogenito del re Giacomo stava nei porti di Valenza e di Catalogna preparando un numeroso naviglio per conquistare la Sardegna, mentre il comune di Sassari dichiaravasi pronto a giurare fedeltĂ ed obbedienza al re dâAragona.
Appena giunse lâavviso agli Anziani di Pisa di quanto dallâAragonese meditavasi, eglino spedirono in Sardegna 700 cavalieri con corrispondente fanteria destinata a rinforzare le guarnigioni, nel tempo che salpavano da Pisa molte galere a soccorrere i castelli dalla parte del mare.
Cotesti soccorsi però riescirono inutili poichÊ le forze superiori di Giacomo II, il tradimento del giudice di Arborea, la dedizione della città di Sassari ed il timore degli altri isolani, resero vani, tardivi o troppo deboli i ripari presi per conservare la Sardegna alla repubblica di Pisa.
Nel tempo che le truppe pisane erano dalle aragonesi in Cagliari assediate mancò di vita (anno 1325) il conte Ranieri della Gherardesca signore di Pisa, assai poco amato dai suoi concittadini. Allora la guarnigione di Cagliari intavolò con gli assediati una onorevole capitolazione, cui tennero dietro condizioni di pace, sebbene questa riescisse di corta durata.
Alla nuova rottura di guerra vollero i Pisani ritentare la sorte, ma anche cotesta volta essa riescĂŹ loro contraria, sicchĂŠ per la seconda volta eglino (anno 1326) furono costretti ad abbandonare al re di Aragona lâultimo possedimento del Castel di Castro sopra Cagliari, limitandosi quel trattato a dar qualche preferenza ai Pisani rispetto al commercio con la Sardegna.
Ma oltre la sopra accennate, altre sventure si apprestavano a Pisa alla discesa in Italia di Lodovico di Baviera; il quale pretendeva sanzionare i suoi diritti allâimpero a dispetto di Roberto re di Napoli, e di Papa Giovanni XXII che con tutti i mezzi se gli opponevano.
Gli Anziani di Pisa che dopo savio consiglio avevano deciso di restar neutrali, limitandosi ad offrire 60000 fiorini dâoro al preteso imperatore, ebbero il dispiacere di sentire arrestatigli ambasciatori inviati a fargliene lâofferta; nĂŠ passo gran tempo dacchĂŠ Pisa si trovò assediata dalle truppe del Bavaro e da quelle del capitano Castruccio suo fedele. In conseguenza di ciò i pisani dovettero soggiacere a dure condizioni, come furono quelle di avere a sborsare 100000 fiorini dâoro, accogliere nella cittĂ i fuorusciti pisani, e ricevere per vicario imperiale quel Castruccio medesimo, che due anni dopo il suo ritorno da Roma ripassando da Pisa ne prendeva la signoria senza riguardo alcuno allâamico imperatore.
Alla morte però di Castruccio, benchĂŠ i pisani cacciassero dalla loro cittĂ i figliuoli di lui, non poterono godere il frutto della libertĂ riacquistata, tostochè il Bavaro, appena ritornato a Pisa in compagnia dellâantipapa, aggravò questo popolo di contribuzioni esorbitanti, alle quali tennero dietro le pontificie censure.
Ma appena Lodovico ritornò in Germania, Pisa scosse il giogo della guarnigione tedesca e del vicario imperiale, per opera specialmente del conte Bonifazio novello, piĂš noto col nome di conte Fazio della Gherardesca. Infatti mercĂŠ sua fu ristabilita in Pisa lâindipendenza del governo (anno 1329), e le vertenze col re di Napoli, col Pontefice e con gli altri popoli della Toscana non tardarono a essere ripianate.
Lâesito felice di queste operazioni tendenti a sopire fra i Pisani ogni contesa, la liberazione dallâinterdetto ottenuta dal Pontefice Giovanni XXII, ed altri non pochi benefizj accrebbero al conte Fazio riputazione, nel tempo che tuttociò destava rancore nei capi delle principali fazioni pisane, i quali tentarono, sebbene senza effetto, (anno 1335) dâindisporre contro lui il basso popolo eccitandolo alla rivolta. Per modochè se da un lato i comune di Pisa accresceva al conte sicurezza e onorificenze, dallâaltro si aumentava lâaffezione dei cittadini verso un uomo che invitava da ogni parte dâEuropa personaggi dottissimi a cuoprire la cattedre nellâuniversitĂ da esso eretta in Pisa.
Lo che accadeva nel tempo in cui il conte Fazio fondava spedali e case per gli orfanelli, abbelliva la cittĂ di nuovi edifizj, aumentava fondi allâopera delle quattro piĂš sontuose fabbriche sacre; faceva edificare il ponte a mare, escavare nuovi fossi di scolo per migliorarne lâaria e il suolo, ecc. Dondechè alla morte di un signore tanto cotanto benefico e premuroso (anno 1341) profondi fu il duolo dei Pisani, pentiti forse che i loro avi avessero troppo barbaramente straziato cinque persone ascendenti di cotanto nobile e benemerita prosapia.
Lâultimo atto della volontĂ del conte Fazio fu quello di destinare molta parte del suo ricco patrimonio, mancando la sua discendenza diretta, siccome accadde assai presto, in vantaggio della pia casa della Misericordia di Pisa, stabilimento forse il piĂš antico in simile genere esistente in Toscana. â Vedere appresso: Stabilimenti di beneficenza .
Tanta fu lâaffezione dai concittadini suoi contemporanei al conte Fazio dimostrata, che il consiglio generale di Pisa acclamò in nuovo signore i di lui figlio conte Ranieri, per quanto fanciullo di soli 11 anni.
Correva appunto lâanno 1341, quando i Fiorentini patteggiavano di acquistare Lucca da Mastino della Scala, la qual cosa penetrata dai Pisani, ed eglino, non potendosi accordare con lo Scaligero, innanzi che i Fiorentini compissero la folle compra di Lucca, avevano cautamente provvisto ad impedirne lâeffetto col soldare gente dâarmi, col stringere alleanza e ricevere milizie dal duca di Milano e dai signori di Mantova, di Reggio e di Padova, nemici di Mastino signor di Lucca e di Verona, per tacere di altri soccorsi ottenuti dai dinasti e dai popoli di parte ghibellina amici del Comune di Pisa. Con simili forze collettizie i Pisani mossero incontro al nemico rompendo le strade del territorio lucchese, onde impedire ai Fiorentini il dominio della cittĂ da essi comprata. E prima di tutto gli Anziani mediane lo sborso di 3000 fiorini dâoro ottennero dalle guarnigioni che vi stavano per lo scaligero i castelli del Cerruglio e di Montechiaro in Val di Nievole; quindi avanzandosi col grosso dellâesercito, a dĂŹ 22 agosto del 1241 si posero allâassedio intorno a Lucca.
Non operarono di meno i Fiorentini, i quali, appena unite le loro genti a quelle dei popoli e principi amici, fecero cavalcare tutta lâoste nel contado pisano e furono, dice i Villani, 3600 cavalieri e piĂš di 10000 pedoni che sâinnoltrarono devastando il paese fino al borgo delle Campane (circa un miglio presso a Pisa) e poi si rivoltarono per la Val dâEra, andando a Ponsacco e facendo senza contrasto grandi arsioni per piĂš giorni, di dove poscia lâoste del contado pisano retrocedĂŠ alle sue castella del Val dâArno di sotto, finchĂŠ di la prese la via dellâAltopascio per andare ad accamparsi in vicinanza di Lucca.
Non dirò come fra i due eserciti, venuti a battaglia, quello pisano riportasse vittoria (2 ottobre 1341) perchĂŠ ognuno può trovarla descritta in Giovanni Villani. Il quale storico aggiunse, che i Fiorentini volendo seguitare la loro folle impresa di levare i Pisani dallâassedio di Lucca, raccolsero nuova e numerosa soldatesca a piedi e a cavallo, e il dĂŹ 25 marzo 1342 mossero quellâesercito verso la cittĂ ; e siccome lâeffetto non corrispose al desiderio, dopo alcune trattative concluse fra le parti belligeranti, i Lucchesi dovettero aprire le porte ai nemici.
Cotesta pacificazione per altro destò amarezze nel signor di Milano, il quale in vista deâsoccorsi dati pretendeva essere dai pisani rimborsato. Allora fu che i figliuoli di Castruccio e Giovanni Visconti si provarono a rivoluzionare Pisa e Lucca; e allora il vescovo di Luni potĂŠ occupare con le genti di Luchino Visconti suo cognato alcuni paesi di Lunigiana e della Versilia, parte dei quali si tenevano dai Pisani, e parte furono dai Fiorentini amichevolmente consegnati a quel prelato.
Liberata la Repubblica di Pisa mediante lo sborso di 80000 fiorini dâoro anche da questa guerra, era sperabile che il suo popolo fosse una volta per godere di qualche sorta di quiete e di tranquillitĂ . Ma invece i partiti si riaccesero piĂš violenti di prima per la morte repentina del conte Ranieri figlio del magnanimo conte Gaddo della Gherardesca; e fu allora, che in Pisa, a similitudine deâBianchi e deâNeri in Pistoja, vennero in campo i cosiddetti Raspanti ed i Bergolini, alla testa delle quali sette erano per i Raspanti i Gherardeschi, mentre fra i campioni deâBergolini figuravano i Gambacorti.
A tali disavventure si aggiunse lâorribile peste del 1347 e 1348 preceduta dalla carestia, due flagelli che spopolarono non solo Pisa ma quasi tutta Europa.
Dopo la morte del predetto conte Ranieri signore e capitano generale di Pisa, la stessa cittĂ sollevata e divisa dai partiti restò in balia di quello deâBergolini che acclamò Andrea Gambacorti in capitano del popolo e signore della cittĂ . SennonchĂŠ la fazione opposta, alla venuta in Pisa del re Carlo IV (anno 1355), riprese animo, quando i Gambacorti per giusto mezzo proposero, e il partito avverso non si oppose, di dare la signoria di Pisa allo stesso monarca alemanno.
Questi accettò lâofferta; ma le durezze deâsuoi soldati fecero presto accorgere i capi delle due fazioni del commesso errore, e di aver sacrificata la libertĂ della patria alle individuali passioni; dondechè i Gambacorti ed i Gherardeschi accordatisi fra loro, poco dopo furono davanti a Carlo IV per fargli sapere, che essendo cessato il motivo per cui gli avevano affidato la signoria della loro patria, supplicavano sua maestĂ a degnarsi a restituire alla loro patria i privilegi, ai quali era stato rinunziato.
Credette Matteo Villani che lâImperatore di buona voglia a tale inchiesta acconsentisse dopo aver interpellato se a cotesto avviso fosse stato conforme il voto del popolo. â (MATTEO VILLANI, Cron. Libro II.) Tornato Carlo dallâincoronazione di Roma, si sparse voce poco dopo châegli fosse per liberare la cittĂ di Lucca dalla schiavitĂš cui giĂ da alcuni anni era tenuta. Alla qual vociferazione i Pisani mostraronsi naturalmente scontenti; sicchĂŠ Carlo insospettito per varj accidenti che in quel tempo accaddero in Pisa dove allora dimorava, e credendosi poco sicuro in questa cittĂ , dopo aver fatto decapitare cinque supposti complici della famiglia Gambacorti, se ne partĂŹ per la Germania, lasciando Lucca dipendente come lo era dai Pisani. Questi allora strinsero alleanza coi Fiorentini, e poco appresso coi Sanesi e Perugini. Ma non corse gran tempo ad insorgere nuovi dissapori tra i governi di Firenze e di Pisa, quando questâultimo con la mira di accrescere le rendite dello stato credĂŠ potervi riescire con abolire (anno 1356) lâantico patto che esentava i Fiorentini dalle gabelle di Pisa e del Porto Pisano.
Ma dopochè il governo di Firenze prese la determinazione di aprire un trattato di commercio coi Sanesi per servirsi del loro porto di Talamone, i reggitori di Pisa si accorsero del commesso errore, cui credettero riparare con altro errore, mediante cioè una guerra di rappresaglia, sia facendo armare varie galere (anno 1357) per tentare di chiudere il porto di Talamone, sia stringendo lega coi Genovesi per contrastare ai Fiorentini lâingresso ed egresso dallo stesso porto. Ma questi ultimi con la loro costanza vinsero lâimpolitica misura senza cambiare la risoluzione presa di un difficile, lungo e dispendioso trasporto delle loro merci a Talamone; e ciò nĂŠ anche dopo che il governo di Pisa pubblicò la riforma che riammetteva il vecchio patto d'esenzione a favore dei Fiorentini.
Per 5 anni continuarono tra i due popoli, sebbene indirettamente, le ostilitĂ dalla parte di terra con assistere e inviare che fecero i Pisani deâsoccorsi ai nemici deâFiorentini, mentre questi proteggevano tutti i Gambacorti esiliati da Pisa; e tanto andò finchĂŠ nel 1361 vennero i due governi a un aperta rottura.
La guerra per mare riescĂŹ felicemente per i Fiorentini, i quali con le loro squadriglie scorrendo tutto il littorale toscano, impossessaronsi dellâIsola del Giglio, investirono il Porto Pisano, ruppero la catene che ne chiudevano lâingresso, e mandarono i pezzi a Firenze per appiccarli nei luoghi piĂš esposti della cittĂ . Anche la guerra dalla parte di terra incominciò nelle colline del Val dâEra con fortuna avversa alla Repubblica di Pisa e con al perdita di molti castelli, finchĂŠ alcuni deâ capitani stranieri al servizio del Comune di Firenze, pretendendo che fosse duplicata loro al paga, ed il governo loro negandola, staccarono i loro compagni dâarme dallâesercito fiorentino, sicchĂŠ con mille soldati a cavallo formarono una delle solite compagnie di masnadieri, che dallâinsegna da essi inalberata di un cappello fu chiamata la compagnia del Cappelletto. Questo incidente dovĂŠ arrestare i progressi deâFiorentini, i quali però, dopo aver cambiato comandante e preso al loro servizio il valoroso Pietro Farnese, nella Battaglia di S. Giovanni alla Vena (anno 1363) fecero prigioniero il capitano dellâesercito nemico con molti soldati pisani, mentre il restante venne disperso e incalzato fino presso le mura di Pisa; e fu nella stessa campagna, che un altro corpo di truppe pisane restò vinto davanti a Barga nella Garfagnana.
Morto però il bravo capitano Farnese, anche la fortuna cambiò per i fiorentini, cui concorse la poca capacitĂ del nuovo condottiero (Rinuccio Farnese) e lâerrore di non voler la signoria di Firenze prendere al soldo una compagnia di soldati in gran parte tedeschi e inglesi, che poco dopo recossi a servire la repubblica di Pisa.
Con cotesta razza di masnade i Pisani si resero quasi padroni della campagna scorrendo e depredando ville e borghi, senza tralasciare i soliti insulti, come quello di correr palj, batter moneta, e impiccare asini coi nomi dei piĂš illustri personaggi nemici. Di poi lâesercito pisano unito alla compagnia forestiera sâinnoltrò nel Chianti, e di lĂ scendendo nel Val dâArno superiore dopo aver saccheggiato la terra di Figline, mise in rotta allâIncisa lâesercito fiorentino; fino a che quellâarmata carica di preda mosse verso Val di Pesa. Riesciti vani alcuni tentativi di pace, nellâanno 1364 la guerra fra Pisani e Fiorentini ricominciò con piĂš calore, avendo i primi parecchie migliaja di soldati a piedi capitanati da Anichino di Mongardo, cui si unirono seimila soldati a cavallo per la piĂš parte di compagnie forestiere capitanati dal valente capitano inglese Giovanni Augut. Donde avvenne che un esercito come cotesto, assai piĂš forte del fiorentino, prese il di sopra, dominando a sua voglia, e scorrendo senza contrasto il contado intorno alla cittĂ di Firenze, tentando di prenderla dâassalto per accrescer confusione tra gli abitanti. Grande fu il guasto recato al territorio fiorentino, e lunga la stazione dellâesercito pisano e delle sue masnade nei contorni di Firenze; dalla quale cittĂ le truppe mercenarie, mediante il segreto sborso fatto loro di 100000 fiorini dâoro, a poco a poco si andarono ritirando; per effetto di che le compagnie medesime si obbligarono dal canto loro di non molestare per cinque mesi le truppe del Comune di Firenze. Infatti un esercito fiorentino poco dopo, avendo fatto unâescursione nella pianura fra il Porto Pisano e Pisa, obbligò il governo di questa cittĂ a dirigere le sue forze verso quel porto onde indurre i nemici alla ritirata.
Tuttociò servi ad accrescere sempre piĂš lâanimositĂ tra i due popoli; poichĂŠ la signoria di Firenze comandò che un esercito piĂš fresco e piĂš numeroso si avanzasse verso Pisa, siccome infatti avvenne, quando pose gli accampamenti a Cascina. I Pisani non minori di numero tenevano sempre al loro servizio Giovanni Augut, uno deâ piĂš saggi ed esperti ufiziali della sua etĂ .
Contuttociò in virtĂš della strategica usata in quel cimento da un prevedente commissario fiorentino (Manno Donati), lâesercito pisano fu piĂš volte ributtato dallâassalto che diede allâedilizio della Badia di S. Savino, finchĂŠ i Fiorentini, da assaliti fatti assalitori, nel 28 luglio del 1364, riportarono sopra i pisani una luminosa vittoria che tuttora si festeggia in Firenze con il palio di S. Vittorio.
Tanta sventura accoppiata ad un gravissimo dispendio obbligò gli Anziani di Pisa a soffocare lâira in esso sempre crescente contro i Fiorentini. Si dovĂŠ allor cercare di venire ad una trattativa, giovandosi della mediazione del Pontefice. Il congresso fu aperto a Pescia, dove i Pisani inviarono quel virtuoso giurisperito Pietro dâAlbizzo da Vico, che generosamente rifutò la proposizione di farlo signore di Pisa.
Non fu rifiutata però la stessa signoria da un cittadino dellâAlbizzo piĂš ambizioso e piĂš vile, voglio dire da Giovanni di dellâAgnello, uomo borghese del partito deâRaspanti , il quale col patrocinio di Bernabò Visconti signor di Milano riescĂŹ a farsi eleggere doge di Pisa nel tempo che a Pescia si concludeva un pace a condizioni poco favorevoli a quella cittĂ . In vigore del quale trattato il nuovo doge si obbligò a sborsare ai Fiorentini centomila fiorini dâoro, oltre la restituzione reciproca delle terre e castella come anco deâprigionieri fatti in quella guerra.
Per quanto però la repubblica di Firenze avesse lâaria di vincitrice, pure cotesta guerra era stata dannosa ad ambedue i popoli, e solo avevano guadagno le masnade straniere, diventate a quellâetĂ il vero flagello dei popoli italiani.
Due anni dopo lâinnalzamento di Giovanni dellâAgnello al ducato di Pisa comparvero in Italia due grandi personaggi che misero molti governi in qualche apprensione. Io parlo del pontefice Urbano V determinatosi di riportare la sede apostolica a Roma e dellâimperatore Carlo IV che il Papa medesimo aveva invitato per raggiungerlo a Roma. Arrivò Urbano V col suo numeroso seguito davanti al Porto Pisano senza sbarcare, servito dalle galere pisane, venete e napoletane, e solamente scese a terra sulla spiaggia di Corneto, da dove passò a Viterbo.
NĂŠ il ritorno dellâImperatore Carlo IV in Italia riescĂŹ ai Pisani molto piĂš proficuo di quello delle altre due volte, per quanto appena arrivato cesare a Lucca (settembre del 1368) venisse corteggiato dal doge pisano Giovanni dellâAgnello, il quale faceva tutti i suoi sforzi per sostenersi in signoria. Avvenne però che mentre questi era andato su un cavalcavia di legno che comunicava fra il palazzo degli Anziani e la chiesa di S. Michele in Foro , il cavalcavia rovinasse, e che il doge cadendo si rompesse una coscia. Volò a Pisa la fama che il loro signore era morto, e ciò bastò perchĂŠ il popolo oppresso, a quella notizia si sollevasse contro lâAgnello, e che costrinse i suoi figli a prendere la fuga. Per tal guisa i Pisani tornarono a governarsi con gli Anziani, eleggendone sei dalla fazione deâRaspanti, e sei da quella dei Bergolini, mentre lâImperatore stava spettatore di coteste scene in Lucca, la cui cittadella dellâAugusta tenevasi in custodia dai suoi soldati, mentre per il resto il popolo lucchese continuò ad essere dominato dalle autoritĂ pisane.
Però al suo ritorno a Pisa, che cadde nellâottobre del 1368, Carlo IV fu accolto con applausi, cui tenne dietro lo sborso fatto alla camera Aulica di non poche denari innanzi che Cesare proseguisse il cammino per Siena, di dove per sollevazione popolare fu costretto a fuggire. Ma nel secondo ritorno a Pisa, Carlo avendo inteso che anche costĂ regnava il solito malumore delle fazioni, poichĂŠ i fuorusciti gli avevano dato a credere che il malcontento era diretto contro la sua augusta persona, egli, che aveva davanti agli occhi il caso recentissimo di Siena, lasciò Pisa per passare a Lucca, dove gli Anziani mandarono ambasciatori collâincarico di persuadere Cesare alle buone intenzioni della cittĂ di Pisa, e ciò nel tempo in cui il cardinale Guido delegato di Urbano V consigliava istantemente Carlo IV a liberare il popolo di Lucca dalla schiavitĂš pisana.
Al quale intento i Lucchesi piĂš facilmente pervennero mercĂŠ nuove generose offerte di denaro, colle quali essi finalmente sotto dĂŹ 6 aprile del 1369 ottennero da Carlo IV il privilegio che gli restituiva la libertĂ , per quanto dovettero restare un altrâanno sottoposti al suo vicario imperiale. â Vedere LUCCA.
Sino al 1355 molti individui della famiglia Gambacorti, allâoccasione della prima venuta a Pisa di Carlo IV, erano stati cacciati in esilio come faziosi. Ma nel 1369 i Pisani mancando qualche malcontento per essere mancanti delle risorse delle risorse che a esso forniva il loro Porto Pisano innanzi che fosse abbandonato dai Fiorentini, il governo degli Anziani che sperava nel ribandimento deâGambacorti dâottenere il ritorno delle merci fiorentine al loro porto, ricorse allâespediente piĂš sicuro per vincere lâimperatore quello dellâoro, onde rimediasse al male stesso da lui fatto col richiamare, siccome richiamò, a Pisa tutti i Gambacorti, fra i quali Piero che consideravasi il capo della famiglia. Il ritorno di questâuomo in patria fu per i Pisani unâallegrezza, per esso un trionfo, trovandosi acclamato ed accolto generalmente con gran favore. Poco infatti tornò a concludersi la pace colla Signoria di Firenze. Della quale il principale e piĂš importante articolo fu, che le merci deâFiorentini nel territorio pisano fossero esenti da ogni sorta di dazio, o altro qualsiasi aggravio. E fu in seguito a quellâaccordo che il governo della Repubblica Fiorentina dette ordine di far la prima strada carreggiabile che passa per la Golfolina lungo lâArno per andare a Pisa.
Ma cotesta amicizia piacque poco al signore di Milano e nemico il piĂš pericoloso delle repubbliche di Toscana; come colui che tentava di rimettere in seggio il deposto doge di Pisa, e conseguentemente cacciar di nuovo da questa cittĂ il capo deâBergolini con tutti i Gambacorti.
Al qual intento una notte lâAgnello con le genti del signor di Milano si provò di dare la scalata alle mura di Pisa dalla parte orientale, ma esso con i suoi sgherri fu bravamente respinto dal popolo "dai soldati che allâuopo i Fiorentini avevano poco innanzi a Pisa inviato". â (CRON. PIS. In Script. Rer. Ital. T. XV.).
Rimase però piĂš stabilmente alla testa del governo e piĂš potente di prima Piero Gambacorti, tostochè fu dichiarato capitano generale, difensore del popolo e del Comune di Pisa collâautoritĂ medesima châebbe il conte Fazio della Gherardesca. Realmente il Gambacorti durante il suo governo fu un modello di saviezza; modestissimo per natura, era suo scopo di tenera la cittĂ contenta, il popolo unito e la nobiltĂ onorata, di estendere per quanto poteva il commercio deâPisani sulle coste dâAffrica e dellâArcipelago, dâincoraggiare lâindustria con premi ed onori, oltre fondare monasteri, abbellire la cittĂ di grandiosi palazzi riedificando di nuovo il Ponte vecchio.
Inoltre devesi al Gambacorti il progetto di una federazione fra i principi e le Repubbliche, quasi modello di quella che si è vista con piĂš successo riprodotta alla nostra etĂ . Avvegnachè lo scopo mirava ad un fine lodevolissimo, comâera lâespulsione dallâItalia delle compagnie o masnade forestiere, per assicurare non solo libertĂ del commercio terrestre, ma anche la pace fra ipopoli e le potenze collegate. In un secondo luogo tutte le controversie che potevano insorgere fra le potenze comprese nella federazione dovevano definirsi, non piĂš dalla ragione dellâarmi, ma da mature deliberazioni emesse dai delegati dei governi facienti parte della giurata alleanza.
Se cotestâatto solenne concluso in Pisa nel dĂŹ 9 ottobre del 1388 (stile comune), ebbe troppo breve durata, se ne deve attribuir la colpa alla malafede ed alla smisurata ambizione del piĂš potente fra i collegati a Giovanni Galeazzo nuovo signor di Milano, il quale cercando a illaquenare quanti piĂš popoli e cittĂ egli poteva, mal sopportava chi i Fiorentini, spina dei Visconti la piĂš pungente e dolorosa, servissero di appoggio costante al Gambacorti signor di Pisa. Infatti non istette guari ad appagarsi il maligno dispetto che Giovanni Galeazzo sentiva nellâanimo, allora quando un vecchio ambiziosissimo, un ingrato e infedele segretario di Piero Gambacorti, quello stesso Jacopo di Appiano che piĂš volte aveva rivelato al Visconti predetto importantissimi segreti dello stato, colui servĂŹ di molla la piĂš potente al Conte di virtĂš Giovan Galeazzo per togliere di seggio e di vita il Gambacorti. Lo che si eseguiva dallâAppiano nel mentre egli presentava la destra al suo signore, come segno di fedeltĂ , imitando lâApostolo traditore col bacio dato al divino maestro, per essere quello il segnale ai suoi sgherri, affinchĂŠ tosto il Gambacorti trucidassero (anno 1392 di luglio), onde poi lâAppiano, assistito dalle genti del signore di Milano suo protettore, a viva forza del governo di Pisa sâimpadronisse.
SennonchĂŠ un grido dâinfamia si levò in Italia contro lâassassino del Gambacorti, la di cui aurea bontĂ non che la generositĂ con la quale aveva elevato ed innalzato quel servo dâIacopo serviva di un grande contrapposto allâatroce ingratitudine di lui per eccitare lâorrore universale, talchĂŠ perfino le muse di quel tempo non mancarono di esecrare la crudel perfidia. â (PIGNOTTI, Stor. di Toscana Lib. IV. Cap. 7).
Fattosi lâAppiano signore di Pisa proscrisse tosto le famiglie aderenti ai Gambacorti, ruppe la pace con Firenze e con Lucca, mentre il Conte di VirtĂš, Giovan Galeazzo Visconti, colui che se non vinceva i nemici colle armi li vinceva quasi sempre collâartifizio, mirava allâacquisto assoluto di Pisa con la mira di vincere e conquistare la Repubblica Fiorentina portandole la guerra in casa. Dondechè piĂš tardi sotto pretesto di congedare dal suo servigio alcune compagnie di masnade, queste nel 1397 si avviarono verso Pisa, e con intelligenza dellâAppiano introdussero in cittĂ una mandata di 300 soldati a cavallo che unironsi alle truppe milanesi giĂ innanzi introdottevi sotto apparenza di ausiliarie del nuovo signor di Pisa. Nellâanno 1398 essendo mancato di vita il vecchio Iacopo di Appiano, succedette pacificamente nel governo il suo figlio Gherardo stato riconosciuto vivente il padre dai Pisani e dalle milizie in capitano generale di quel Comune. Era ben lontano Gherardo dal possedere lâastuta accortezza del genitore, nĂŠ il coraggio e il valore di un suo fratello, persuaso dal duca milanese Giovan Galeazzo della somma difficoltĂ di conservare il dominio di Pisa, da quel codardo che egli era, prese la vituperevole risoluzione di vendere la patria per 200,000 fiorini dâoro allo stesso duca di Milano riservandosi il dominio di Piombino e di altre castella di quei contorni non che delle Isole dâElba, Pianosa e Montecristo. â Al vociferarsi di una vendita cotanto vergognosa, prima i Pisani, poscia i Fiorentini, tentarono di rimuovere Gherardo Appiano da simile divisamento, consigliandolo invece a rendere la libertĂ alla sua patria; per la quale opera i Fiorentini esibivano allâAppiano un prezzo eguale e forse anche maggiore di quello statogli offerto dal duca di Milano. Al quale generoso consiglio rispose Gherardo di non essere piĂš in tempo a revocare la sua parola, tanto piĂš che le genti armate di Giovan Galeazzo, a tal uopo introdotte in Pisa, erano capaci a impedirlo. In conseguenza di ciò lâiniquissimo contratto della vendita e della schiavitĂš di Pisa e suo contado fu consumato nel febbrajo del 1399.
Da ciò pertanto ne conseguĂŹ che una repubblica potente, una cittĂ a Firenze rivale, si rendesse ligia al piĂš potente e pericoloso deâFiorentini.
Infatti appena eseguito cotal mercato, arrivarono a Pisa mille soldati a cavallo con duemila fanti, cui teneva dietro il governatore inviato dal duca di Milano per occuparsi prima di tutto del modo di rimborsare al piĂš presto il suo padrone della somma obbligata dallâAppiano. CosĂŹ tristamente terminò il secolo XIV per i Pisani, i quali anche con piĂš tristi augurj videro incominciare il secolo XV.
Dopo mancato di vita (anno 1402) Giovan Galeazzo duca di Milano, cui non facea ribrezzo verun delitto, purchĂŠ risultasse in suo vantaggio, Pisa col suo contado fu lasciata in ereditĂ dâun di lui figliuolo naturale, Gabbriello Maria Visconti, il quale colla madre recossi tosto a prenderne il possesso per avere dai sudditi novelli oro e non amore.
A cagione delle vessazioni, che sino dai primi tempi del suo governo si fecero ai Pisani dal tiranno Visconti, il malcontento deâsudditi era giunto presso che al colmo, quando i Fiorentini entrarono in speranza di cacciare da Pisa Gabbriello Maria coi suoi. Infatti non corse molto che questi con genti armate per sorpresa assalirono di notte quella cittĂ (anno 1404). Che sebbene il tentativo non riuscisse, pure non mancò dâingelosire il governo di Genova non piĂš rivale degli oppressi Pisani, sivvero deâFiorentini, coi quali nei tempi trascorsi erasi unito a danno della Repubblica di Pisa. Quindi è che i Genovesi dopo aver persuaso Gabbriello Maria a mettersi sotto la protezione del re di Francia, cui erano anchâessi raccomandati; dopo aver fatto consegnare alle truppe del maresciallo francese alcune fortezze, e specialmente quelle di Livorno, il governo medesimo di Genova, cambiando improvvisamente politica, visitò offrire la cittĂ e territorio di Pisa ai Fiorentini nella speranza di averli alleati contro i Veneziani, e ciò nel tempo stesso che dallâaltro canto persuadeva il signor di Pisa di vendere ai Fiorentini cotesta cittĂ col suo territorio per liberarsi in tal guisa da moltissimi imbarazzi che gli si facevano conoscere qualora egli pretendesse di conservare cotesto stato in mezzo a tanti nemici.
Tali trattative però non furono segrete a segno che non si trapelassero dai Pisani; nei quali essendosi risvegliato lâodio antico contro i Fiorentini, cui si volevano dare in mano, tosto si ribellarono al Visconti, il quale dopo un conflitto fra il popolo e la guarnigione (21 luglio 1405) fu costretto a refugiarsi nella cittadella vecchia sul ponte a mare, quindi per Arno fuggirsene in Lunigiana. Giunto a Sarzana fu conchiuso il contratto, in vigore del quale Gabbriello Maria, mediante lâimborso di 206.000 fiorini dâoro, pagabili a rate, doveva consegnare ai Fiorentini la cittadella vecchia di Pisa con le fortezze di Ripafratta e di S. Maria in Castello. Avute in potere coteste rocche, i Fiorentini reputarono agevol cosa impadronirsi della cittĂ di Pisa; ma nel tempo che il governo di Firenze dava le disposizioni opportune per ottenerne lâeffetto, ecco giungere al senato la notizia, che la cittadella vecchia di Pisa per vigliaccheria dei soldati della guarnigione era stata assalita e presa dal popolo.
Al che si aggiunse un orgogliosa ambasciata deâPisani, per la quale si richiedeva ai Fiorentini la restituzione dei fortilizj di Ripafratta e di S. Maria in Castello, esibendo il rimborso del prezzo che avevano pagato. La perdita fatta della cittadella unita allo scherno suddetto irritò piĂš che mai i reggitori della repubblica fiorentina perchĂŠ deliberassero concordemente di fare la conquista di Pisa.
Si nominarono a tal uopo i Dieci di Balia per la guerra, si assoldò un valente capitano per lâarmata di terra ed un rinomato ammiraglio per chiudere con una flottiglia il Porto Pisano. Dal canto loro i Pisani fecero i maggiori sforzi per assoldare gente dâarmi e provvedere la cittĂ di vettovaglie; richiamarono dallâesilio Giovanni Gambacorti figlio di Gherardo e nipote del bravo Piero, che nominarono capitano del popolo; procurando cosĂŹ pacificare gli animi dei cittadini divisi in fazioni, in guisa che le famiglie deâBergolini come quelle deâRaspanti giuraronsi amicizia con le piĂš sacrosante promesse di unirsi insieme a difesa della patria. Prova la piĂš solenne di quanto possa lâodio di una popolazione, allorchĂŠ da una sua vicina stimasi soperchiata! Frattanto essendo tornati a Firenze gli ambasciatori spediti dal governo al re di Francia, e sentito che non si voleva da quel monarca, nĂŠ ricevere nĂŠ proteggere i Pisani, cresceva sempre piĂš fiducia nei Fiorentini di aver presto a sottomettere Pisa. E dopo aver richiesto lâajuto deâSanesi, del legato di Bologna, del conte Malatesta, e dellâOrsini conte di Sovana, i quali tutti inviarono a Firenze delle genti armate, che marciarono verso Pisa sotto il comando generale di Bertoldo Orsini.
Per le quali cose, e per altre anche piĂš violente misure, non rimanendo ai Pisani quasi piĂš speranza di salute fuorchĂŠ nella difesa, dettero ordine che fosse fornita di vettovaglie la cittĂ col far provvista di grano dalla Sicilia in maggior copia del consueto, e col praticare ogni diligenza possibile in assoldar genti atte alla difesa, essendo nel resto la cittĂ stimata per sĂŠ stessa fortissima, e il popolo deciso a non volere la signoria deâFiorentini.
Erano le concitazioni fra i due popoli al massimo grado pervenute, allorchĂŠ giungessero dalla Sicilia in bocca dâArno cinque navi cariche di grano. Ma le sette galere pisane che le scortavano, assalite da una squadra di legni genovesi e catalani al soldo deâFiorentini, furono poi da un vento procelloso gettate verso il golfo della Spezia, mentre le cinque navi di granaglie rompevano negli scogli della Meloria. Non fu dai fiorentini trascurata alcuna diligenza per vincere il nemico, guardando Arno di sotto e di sopra Pisa, onde impedire che arrivasse alla cittĂ bloccata qualsiasi soccorso, nel tempo stesso che altre milizie mobili scorrevano per il contado pisano a impadronirsi dei castelli.
Frattanto i Dieci di Balia avendo conosciuto che per insignorirsi di Pisa era necessaria chiudere la cittĂ per la via del fiume, inviarono al campo (marzo 1406) due deâ loro colleghi Maso degli Albizzi e Gino Capponi, i quali deliberarono che il grosso dellâesercito si accampasse a S.
Piero in Grado.
Stavano nel campo deâFiorentini sotto Pisa due arditi e valorosio generali, Muzio attendolo detto Sforza, ed il Tartaglia, nel tempo che si costruivano sulle ripe dellâArno due bastie con un ponte di legno, il quale doveva attraversare il fiume. Ma i Pisani profittando di una piena che accadde nel marzo di quellâanno medesimo, mandarono a seconda della corrente varie grosse travi, le quali col loro urto ruppero il ponte, sicchĂŠ la bastia della ripa destra del fiume restò separata dallâesercito senza gente che la difendesse. Allora lâAttendolo ed il Tartaglia coraggiosamente passarono lâArno con pochi uomini scelti, al cui valore riescĂŹ di conservare lâisolata incompleta bastia.
Non per questo la Signoria di Firenze mostravasi soddisfatta che lâassedio di Pisa convertito in blocco procedesse cotanto lentamente, comecchè per la strettezza delle vettovaglie avesse cagione di sperare che i Pisani non fossero per fare lunga resistenza. Che però richiamò dal campo Maso degli Albizzi e Gino Capponi, e vi mandò per nuovi commissarii Vieri Guadagni e Jacopo Gianfigliazzi. Costoro bramando mostrarsi piĂš attivi dei loro predecessori, incoraggiando le truppe con tutte le possibili allettative, ordinarono un assalto alla cittĂ .
I soldati, benchĂŠ non lâintendessero a questo modo, essendo la cittĂ forte di mura e il popolo unito a difenderla infino alla morte, nondimeno stimolati da tante generose promesse, accettarono lâinvito; e la notte che seguiva il giorno 9 di giugno (1406) in sul primo sonno si accostarono alla cittĂ dalla parte meridionale nel quartiere di Chinsica per dar lâassalto al bastione di Stampace, fra le mura di S. Egidio e la porta a Mare. Al primo segnale delle sentinelle accorsero da ogni parte su quelle mura i Pisani, uomini e donne, e nel cimento che ne conseguĂŹ gli assalitori furono con tal impeto e coraggio dal bastione respinti da far comprendere quanta rabbia e dispetto i Pisani contro i Fiorentini conservassero.
Vista da questi la difficoltĂ di aver Pisa per assalto, i Dieci comandarono che si seguitasse a stringerla per assedio, e tosto rimandarono al campo il commissario Gino Capponi, quello che fin dal principio della guerra aveva dimostrato maggiore intelligenza e vigore. Una delle prime cure del Capponi fu di riappacificare due valenti capitani dellâesercito, Muzio Attendolo Sforza ed il Tartaglia, persuadendo lo Sforza ad accamparsi con le sue squadre dalla parte opposta dellâArno sopra Pisa, donde poteva danneggiare grandemente le raccolte, e in ogni occasione ricevere soccorso dal quartiere generale di Vico Pisano, mentre il rimanente dellâesercito per stringere meglio la cittĂ si era postato nel lato sinistro dellâArno dirimpetto a Culignola, 3 miglia toscane a un circa sopra Pisa.
Che sebbene la stagione estiva del 1406 avesse reso insalubri e guaste le campagne deâcontorni di Pisa, non fu peraltro rallentato lâassedio, per modo che dentro la cittĂ cresceva ogni giorno la fame.
Nel tempo che gli assediati, privi di speranza di ognâestero soccorso, soffrivano con grande esasperazione ogni sorta di privazioni della vita piuttosto che assoggettarsi aâ nemici da tanto tempo odiati, pure Giovanni Gambacorti, vedendo la mancanza assoluta dei viveri da sostenere piĂš a lungo la cittĂ , insinuava ai suoi la necessitĂ di capitolare cogli assedianti. Frattanto per mezzo di un cittadino pisano, Bindo delle Brache, Giovanni Gambacorti aprĂŹ trattative segrete col commissario Capponi, comecchè le condizioni principali si riferissero a vantaggio del capitano e signore di Pisa e della sua famiglia. Infatti la segretezza con cui cotesta capitolazione fu maneggiata, lâessere stati i Gambacorti sempre amici dei Fiorentini, ed il premio di 50,000 fiorini dâoro che ricevette dal Comune di Firenze il mezzano Bindo delle Brache, diedero motivo di accrescere il sospetto a carico del capitano generale del popolo pis ano, come se egli fosse un traditore della patria, Ratificate le condizioni dalla Signoria di Firenze, e consegnati gli ostaggi, la mattina del 9 ottobre 1406 i Pisani dovettero trangugiare il calice della schiavitĂš. Gino Capponi, uno dei Dieci che ebbe la parte piĂš importante in cotesto acquisto, nel prender possesso di Pisa spiegò vigilanza, risolutezza e vigore, minacciando di far impiccare ognuno che ardisse rubare. Infatti egli stesso lasciò scritto, che i soldati entrarono in Pisa con tanta modestia e disciplina, come se eglino avessero avuto a comparire ad una rivista nella cittĂ propria. â â (G. CAPPONI Comment.) Essendochè il cadere sotto il dominio dei Fiorentini parve ai Pisani cosa molto grave, per quanto nel giro di pochi anni eglino fossero stati tiranneggiati dallâAgnello, dallâAppiano e da Gabbriello Maria Visconti, non saprei dire quanto gli uomini imparziali fossero per lodare cotanta insistenza nei Fiorentini per voler soggiogare un popolo che amava la sua indipendenza. â â Fatto è che i Pisani erano a cotal segno da cruda fame estenuati da non sentire forse a prima vista il peso della loro schiavitĂš, quando videro che lâingresso delle truppe nemiche veniva accompagnato da carri di vettovaglie e da pane in tanta dovizia da poter ristorare i loro corpi smunti ed afflitti.
5. PISA SOTTO IL GOVERNO DI FIRENZE SINO AI GIORNI NOSTRI La conquista di unâinsigne cittĂ dopo una lotta coraggiosa, e per i soccombenti degna di miglior sorte, se da un lato fu dannosa alla dignitĂ e allâamor patrio deâPisani, altrettanto rallegrò e fu festeggiato con pompe sacre e profane dai Fiorentini, persuasi di non aver fatto maggiore acquisto eglino che nel commercio fondavano la loro potenza. Ed in vero, se le ricchezze dei Fiorentini non erano state mai tanto copiose quanto allâepoca della conquista di Pisa, se la Signoria di Firenze dopo la compra di Livorno (anno 1421) procurò di diventare una potenza marittima; se a tale scopo essa destinò Pisa a residenza di un general di galere e del magistrato deâconsoli di mare, i Fiorentini però non poterono mai giungere a mettere insieme tanti legni da guerra e tanta gente da montarli per vincere, o almeno per stare a fronte delle due superstiti repubbliche marittime dellâItalia. â Vedere LIVORNO.
à altresÏ vero che la conquista di Pisa aumentò immensamente la riputazione politica della Repubblica fiorentina, fino da quando con la sua mediazione procurò di togliere uno scisma nella chiesa tentando di pacificare, sebbene con poco successo, due antipapi in un concilio aperto nel 1408 nella città di Pisa.
Ma la guerra nella quale innanzi tutto a cagione di Lucca sâimpegnarono i Fiorentini, dovĂŠ far montare in qualche speranza il popolo pisano di liberarsi dallâodiato giogo.
Infatti appena si seppe a Firenze che Niccolò Piccinino nella primavera del 1431 era giunto di Lombardia in Lunigiana con numerosi armati, e che di lĂ penetrato nelle vicinanze di Pisa erasi in pochi giorni impadronito della bastia di Nodica in Val di Serchio, della rocca della Verruca e deâcastelli di Calci e di S. Maria al Trebbio nel Monte Pisano, i reggitori della Repubblica Fiorentina ebbero ragione di temere che la cittĂ di Pisa cadesse nelle mani del loro nemico, tanto piĂš che lâaspra maniera con cui il suo popolo era tenuto dal governo, ne forniva sufficiente ragione.
Fondati i Dieci di BalĂŹa nella politica trista, ma pur troppo vera, che nemico naturale di rado è fedele, e venuti in cognizione di una congiura che maneggiavasi dai Pisani per dare la cittĂ in mano al Piccinino, furono progettati dei provvedimenti crudeli anzichĂŠ onesti. Tale sarebbe quello raccontato dal Poggio nella sua istoria fiorentina (Lib. VI.), di chiamare a Firenze quasi tutta la nobiltĂ pisana. Tale lâordine anche piĂš grave da frate Andrea Billi milanese e da Pietro Giustiniano veneto nelle loro memorie storiche raccontato, dove dal Giustiniano si cita un ferocissimo editto del governo di Firenze, in cui si comandava che, innanzi di finir di consumare una candela accesa, tutti i cittadini dai 15 ai 60 anni dovessero partire da Pis a; editto reso anco piĂš incredibile dal frate milanese, poichĂŠ senza verecondia al santo ministero faceva complice ed esecutore di cotanto orrendo comando il fiorentino Giuliano deâRicci, allora arcivescovo di Pisa, che finse qual furibondo andare per le strade, entrare nelle domestiche abitazioni e strappare senza misericordia i figli di braccio alle madri, i fratelli dalle sorelle, col dire loro le piĂš ingiuriose parole: abi proditor Pisanae!!! ComecchĂŠ qualcuno prestasse fede al caliginoso racconto di un uomo, che non solo azzardava scrivere male di un arcivescovo illustre e pio, ma anche con poco rispetto di un Bernardino da Siena, insigne per santitĂ , con tuttociò non si potrebbe negare che a quellâepoca i Fiorentini non andassero esenti da una tal quale amarezza ed odio verso i Pisani. Che ciò sia vero, lo dice per tutti una lettera, resa ormai troppo pubblica dalla celebritĂ di un romanzo istorico (Luisa Strozzi), dove al capitolo XXVI, intitolato Pisa, lâautore discorrendo della situazione di questa cittĂ al secolo XV annunzia cosa incredibile come quella che i Fiorentini davano ai loro commissarj segrete istruzioni tendenti a rendere sempre piĂš inferma e desolata la cittĂ e campagna di Pisa. E per chi ne dubitasse, ivi si riporta in nota un infame periodo di lettera scritta da Firenze dai Dieci di BalĂŹa, nel di 24 gennajo 1431 (stile fiorentino).
Io dubitando, come ognuno dubiterebbe, di tanta malignitĂ apertamente da quel magistrato di guerra dichiarata, volli convincermene ricercando nellâarchivio delle Riformagioni di Firenze la filza III deâDieci di BalĂŹa nel detto romanzo citata. Che sĂŠ la lettera non è in data del 24, sivvero del 14 gennajo 1431, nĂŠ in quella filza e neanche nel citato archivio, trovasi però in quello segreto Mediceo unita al carteggio dellâanno 1431 al 1432 di Averardo deâMedici allora commissario in Pisa.
I Dieci di BalĂŹa, i di cui nomi si possono leggere nella storia dellâAmmirato, dopo aver in detta lettera discorso sopra affari relativi alla guerra di Lucca, fra i quali uno era quello di procurare ad ogni modo di riconquistare e di fare atterrare il castel lucchese di Ruoti verso Compito, termina con le parole seguenti: âQui si tiene per tutti che il principale e piĂš vivo modo che dar si possa alla sicurtĂ di cotesta cittĂ sia di votarla di cittadini pisani; e noi nâabbiamo tante volte scritto costĂ al capitano del popolo, che ne siamo stanchi; et rispondeci ora lâultimo, essere impedito dalla gente dellâarme e non avere il favore del capitano (loro). Vogliamo che ne sia con lui ed intenda bene ogni cosa, et diale modo con usare ogni crudeltĂ ed ogni asprezza . Abbiamo fede in te, et confortianti a darvi esecuzione prestissima, che cosa piĂš grata a tutto questo popolo non si potrebbe fare. Data Florentiae die 14 Januarii, hora XV.â Chi fosse poi quel capitano delle genti dâarmi che contrariava gli ordini dei Dieci ricusando condiscendere ai barbari suggerimenti di quel magistrato sanguinario, ce lo diede a conoscere lâAmmirato nella sua storia fiorentina, quando al Lib. XX dice, che il Cutignola, uno deâcomandanti pei Fiorentini alla guerra di Lucca, nellâultimo gonfalonierato di quellâanno (gennajo e febbrajo 1431 stile fiorentino) si ridusse con le sue genti dâarme alle stanze a Pisa; nel qual tempo passarono quietamente le cose.
Ma la tremenda istruzione inculcata dai Dieci al commissario di Pisa dovĂŠ rimanersi senza effetto, sia perchĂŠ gli annalisti pisani non ne fecero menzione veruna, sia perchĂŠ altre lettere, dopo quella del 14 gennajo 1431, scritte dai Dieci di BalĂŹa al commissario Averardo deâMedici, non dicono piĂš parola rispetto a provvedimenti presi o da prendersi contro i Pisani (loc. cit.); sia finalmente perchĂŠ uno storico fiorentino degno di fede e contemporaneo, quale si fu Domenico Boninsegni, ne avvisava, che intorno a quel medesimo tempo giunsono in Porto Pisano, per ordine dato ai mercanti dal Comune di Firenze, tre navi cariche di grano e orzo (1700 moggia) con altre vettovaglie, lo che fu mantenimento di Pisa in quel tempo di carestia; e parve che tutto il paese ne risorgesse. â (D. BONINSEGNI, Stor. fior. allâann.
1432.) Che nei primi anni della conquista fatta di un popolo con grandissime spese ed ostacoli, se questo cade in sospetto di tenere qualche aderenza al nemico, non sia per essere dai vincitori tiranneggiato ed oppresso, nĂŠ io nĂŠ altri lo negherĂ , poichĂŠ di simili casi la storia di tutti i secoli e di tutti i paesi fornisce anche alla nostra etĂ tristi esempj; ma dopo assicurata alla repubblica fiorentina la conquista di Pisa, e specialmente dopo terminata la guerra di Lucca (1439), che si continuassero a mandare da Firenze ai governatori di Pisa istruzioni contrarie al pubblico ben essere ed alla salubritĂ dellâaria, questo è ciò che a me non sembra dimostrato.
NĂŠ tampoco direi che dasse a consimili accuse un certo appiglio il preambolo di una provvisione dellâaprile 1475, quando la Signoria di Firenze affidò al magistrato dei consoli di mare la cura deâfossi, canali, ponti e strade di Pisa e della sua troppo uliginosa campagna, tosto che in quella provvisione vi si trova lâordine di scegliere persone del paese come piĂš capaci di conoscerne i bisogni e di suggerire i rimedj piĂš opportuni.
AllâArticolo COMUNITAâ DI PISA qui appresso si troveranno prove indubitate dello stato palustre di Pisa e deâ suoi contorni nei secoli XII, XIII e XIV per le cause medesime dei ristagnamenti dâacque. Arroge che non mancano documenti atti a dimostrare, che innanzi la riformagione del 1475 il governo di Firenze cercò di porre qualche riparo a cotesti difetti del suolo. Fra le varie provvisioni dalla Signoria deliberante a sollievo deâPisani citerò quella del 23 dicembre 1419, che esentava da ogni imposta reale e personale tutti i forestieri (eccettuati i Fiorentini) insieme alle loro merci per 20 anni purchĂŠ si recassero ad abitare familiarmente in Pisa. â (PAGNINI, della Decima Tom. IV. Pag. 45.) Tali sono i decreti della repubblica fiorentina che ordinavano di restaurare e aver cura del Bagno di Monte Pisano e di quello a Acqua (23 agosto 1454, e 31 marzo 1460); tale la provvisione del 31 marzo 1463, che assegnava 800 fiorini per ripulire la bocca dâArno, altre per costruire la cittadella nuova e rassettare la vecchia con le sue torri. Tali furono gli ordini del 29 giugno 1468, e 16 febbrajo 1471 per fabbricare la cittadella nuova, lâarsenale (tersana) onde mettervi delle galere allora fatte, o in costruzione, ecc. â (GAYE, Carteggio inedito dâArtisti, Volume I Appendice II.) Vero è che dopo poco la pace di molti anni succeduta a una lunga guerra per causa di Lucca, il commerc io e le ricchezze dei Fiorentini si accrebbero in ogni parte dâEuropa, nelle coste dâAffrica e dellâAsia, con tale e tanto profitto che, al dire del Pignotti, tolta Venezia, nel secolo XV Firenze si riguardava la piĂš ricca cittĂ dâItalia, dove circolavano non meno di due milioni di fiorini dâoro, ossia di gigliati, in denaro contante.
Che se il governo della Repubblica Fiorentina fece in quel secolo troppo poco a benefizio della cittĂ di Pisa e deâ suoi abitanti, trascurando specialmente il nettamento ed iscavazione deâfossi e canali, acciocchĂŠ non peggiorasse la campagna insieme con lâaria, è altresĂŹ vero che lo scolo dellâacque, il bonificamento deâpaduli, il tenere asciutte il piĂš possibile quelle campagne, a giudizio di molti e fra questi il celebre Antonio Cocchi, non potrebbe produrre il desiderato effetto del miglioramento dellâaria se non dopo il corso di molti anni. E quantunque lo storico Flavio Blondo scrivesse: che Pisa 40 anni dopo la sua schiavitĂš e sottomissione ai Fiorentini era ridotta spopolata, ed esinanita di ogni sorta di lavori e di risorse, con tuttociò non devesi passare sotto silenzio un fatto giornaliero che succede tuttora in Pisa ad onta della somma sorveglianza ed abilitĂ deglâingegneri, e di tante spese fatte intorno alle sue mura settentrionali, sia con lâapprofondare i fossi, sia col rialzare i campi contigui, sia col fabbricare pozzi e cisterne, perchĂŠ vediamo e meglio di noi lo veggono i Pisani, che non solo le acque piovane, ma le infiltrazioni di quelle perenni, penetrano e scorrono pochi palmi sotto la superficie del suolo, in guisa da formare il tormento degli idraulici anco neâluoghi che son bassi e meno depressi della cittĂ .
Non si può altronde senza mancare alla veritĂ omettere un altro fatto, quello cioè che i beni dei ribelli della cittĂ e contado pisano nel secolo XV servivano, anzichĂŠ a lavori idraulici necessarissimi per Pisa e i suoi dintorni, a pagare le spese delle fortificazioni ivi ordinate. Lo che risulta da alcune provvisioni della Signoria di Firenze del 1430 e del 1444, con le quali si dava ordine agli uffiziali della cittĂ e territorio pisano di far costruire due fortezze, una alla Porta del Parlascio di Pisa , e lâaltra nel castel di Vico Pisano. â Ciò non ostante venne piĂš tardi a mitigare cotanta asprezza unâaltra deliberazione governativa dellâanno dellâanno 1472, con la quale si procurò ristabilire in Pisa il ginnasio nellâantico suo splendore, allorchĂŠ la Signoria nominò quattro uffiziali dello studio fiorentino e pisano, preseduti dal promotore di sĂŹ utile misura, da Lorenzo deâMedici detto il Magnifico. Fu allora che a tal fine assegnaronsi sul tesoro della Repubblica lâannua somma di 6000 fiorini; fu allora che la Signoria di Firenze impetrò ed ottenne dal Pontefice Sisto IV mediante bolla data lĂŹ 12 gennajo del 1475, la concessione di altri 5000 ducati dâoro a carico dei benefizii ecclesiastici del dominio fiorentino; e tuttociò ad oggetto di supplire a piĂš decorosi stipendj da darsi ai professori che da varie parti dâItalia si conducevano allo studio pisano. â Che il governo di Firenze per tal via cercasse di giovare e di popolare di gente onorata la cittĂ di Pisa, lo dicono abbastanza lĂŹ statuti dagli uffiziali dello studio nel 1478 pubblicati, coi quali si prescriveva a tutti coloro che volessero adire ad impieghi pubblici nel dominio fiorentino, a quelli che bramassero laurearsi in dottori per esercitare la medicina, o trattar le cause nel foro, e ad altri nazionali lâobbligo di recarsi allâuniversitĂ di Pisa sotto pena di fiorini 500 per coloro che andassero a studio fuori di Stato. Finalmente lo dice il palazzo della Sapienza che sino da quel tempo dâordine della Signoria di Firenze si edificava in Pisa, affinchĂŠ si potessero riunire in uno solo, apposito e decente locale le scuole di tutte le facoltĂ . â (FABRONI, in vita Laurent. et in Histor. Accad. Pis. P. II.) Anco nellâarchivio diplomatico di Firenze esistono varj istrumenti di quellâepoca proprj a far meglio conoscere le premure del governo fiorentino nel provvedere di buoni soggetti lo studio pisano.
Tale è un contratto del 19 maggio 1477 fatto in Pavia, col quale il procuratore degli uffiziali dello studio di Firenze e di Pisa stabilĂŹ le condizioni per condurre allâuniversitĂ pisana maestro Lazzero del fu Francesco Dataro di Piacenza dottore di medicina, che allora leggeva nello studio di Pavia, con lâassegno di 500 fiorini dâoro lâanno e collâ esentare da qualunque gabella gli oggetti di uso proprio. Tale è un altro contratto concluso dal procuratore stesso il 24 maggio 1477 nella cittĂ di Casale in Piemonte per condurre a leggere il giuscanonico nello studio di Pisa col salario di fiorini 400 dâoro lâanno il dottor Giorgio del fu nobil Arrighetto Nati da Asti. Altra simile misura fu presa dai riformatori dello studio nel giorno 14 maggio del 1480, per chiamare a Pisa in lettore di medicina maestro Girolamo della Torre di Verona, che allora professava nellâuniversitĂ di Padova. NĂŠ meno degli altri importante mi sembra un mandato di procura scritto in Roma lĂŹ 8 maggio del 1482 a nome del celebre medico maestro Pier Leoni figlio di Leonardo da Spoleto, (quello che poi ebbe la sventura di medicare nellâultima malattia Lorenzo deâMedici). La qual procura fu inviata a Firenze a Tommaso Soderini, affinchĂŠ in nome dello stesso Pier Leoni concludesse con gli uffiziali dello studio i patti per una cattedra di medicina nellâuniversitĂ di Pisa.
Finalmente rammenterò un altro istrumento del 9 luglio 1490, col quale i riformatori dello studio predetto nellâatto che Giovanni da Milosen in Francia prendeva la laurea dottorale in Pisa fu nominato lettore di giuscivile pei giorni festivi allâuniversitĂ pisana. â (ARCH. DIPL.
FIOR. Carte dellâArch. Gen. di Firenze.) In questo mezzo tempo però i Fiorentini non tralasciavano di prendere misure di difesa nella cittĂ di Pisa, tostochè ordinarono la costruzione della cittadella nuova. Alla quale fortezza appellano varie provvisioni della Signoria: una fra le altre del 29 giugno 1468 che assegnava 1500 fiorini dâoro per lâerezione di detta opera, mentre con provvisione del 16 febbrajo 1471 (stile fior.) queâSignori eleggevano in capomaestro della cittadella nuova predetta maestro Lorenzo di maestro Domenico fiorentino. â (GAYE, Carteggio di Artisti inedito, Volume I. Appendice II) Le quali misure dovettero vieppiĂš dal governo sollecitarsi dopo scoppiata la congiura deâPazzi, nella quale malamente figurò un Francesco Salviati fiorentino allora arcivescovo di Pisa (anno 1478).
Contuttociò le cose passarono quiete per fino a che non scese in Toscana alla testa di un numeroso esercito francese (anno 1494) il re Carlo VIII. Allora Piero deâMedici, di natura affatto diversa da quella di Lorenzo suo padre, partorĂŹ la rovina di sĂŠ, deâsuoi e di Pisa.
Imperocchè, spaventato dal pericolo che poco innanzi aveva temerariamente disprezzato, consentĂŹ di suo mero arbitrio a fare consegnare nelle mani deâcapitani del re francese le fortezze di Sarzana e Sarzanello, di Pietrasanta e Motrone, di Pisa e di Livorno, le quali Carlo VIII si era obbligato per iscritto di restituire ai Fiorentini dopo la conquista del regno di Napoli.
In questo modo per la temeritĂ e lâimprudenza di un cittadino la Repubblica di Firenze restò priva degli antemurali del suo dominio; ed i Pisani stanchi e indispettiti di soggiacere ad un governo che li teneva in durissima schiavitĂš, animati anche segretamente da Lodovico il Moro signor di Milano, sollecitati e pressochĂŠ inebriati dal piacere di vedersi in mezzo a soldatesca straniera nemica deâFiorentini, i Pisani, io diceva, ricorsero popolarmente a Carlo VIII per essere rimessi in libertĂ , querelandosi gravemente del barbaro modo con cui dai Fiorentini erano governati. â â Uno storico fra i piĂš distinti, quale si era Francesco Guicciardini, discorrendo del ricorso che i Pisani ebbero a Carlo VIII, dice, che nel racconto delle ingiurie ricevute dai Fiorentini, il loro asserto veniva confermato da alcuni cortigiani di quel monarca, sicchĂŠ il re disse di esser contento che i Pisani ritornassero liberi. Alla qual risposta il popolo di Pisa, dato piglio alle armi, tosto abbattĂŠ dai luoghi pubblici lâinsegne deâFiorentini, rivendicandosi a libertĂ , non ostante che quel re contrario a sĂŠ medesimo, o ignorando quali gravi cose concedesse, mentre da una parte dichiarava i Pisani liberi consegnando loro la cittĂ della vecchia, dallâaltro lato ordinava che restassero in Pisa gli uffiziali deâ Fiorentini, ritenendo per sĂŠ la cittadella nuova. E qui lo storico prenominato a ragione rimproverava lâimprudenza del governo di Firenze, il quale avrebbe potuto facilmente impedire le cose testĂŠ raccontate; tostochè i Fiorentini sospettosissimi in ogni tempo della fede dei Pisani, eglino che si aspettavano addosso una guerra di tanto pericolo, non chiamarono a casa loro per ritenerli in ostaggio i cittadini principali di Pisa.
Ma è medesimamente manifesto, come la notte innanzi che i Pisani si sollevassero contro il governo di Firenze, alcuni dei caporioni della cittĂ comunicando al cardinale di S. Pietro in Vincola (poi Papa Giulio II) quello che avevano nellâanimo di fare, egli rispondesse loro con gravi parole, dicendo; che considerassero bene essere desiderabile e preziosa cosa la libertĂ , e tale da meritare di sottomettersi ad ogni pericolo, quando almeno in qualche parte sâ ha speranza verisimile di sostenerla; ma che eglino riguardassero piĂš addentro le conseguenze che cotesta misura in processo di tempo poteva partorire, essendo fallace consiglio il lusingarsi che un re di Francia volesse conservar loro la promessa libertĂ , perchĂŠ dai casi accaduti per i tempi passati si poteva facilmente giudicare del futuro, ed esser grande imprudenza lâimprendere a sostenere per speranza incertissime una guerra certa con inimici tanto piĂš potenti di loro, e tanto a Pisa vicini comâerano i Fiorentini, i quali a parer di lui finchĂŠ avessero spirito non cesserebbero mai di molestarli. â Tali furono le quasi profetiche parole che lo storico Francesco Guicciardini pose in bocca del Cardinale Giuliano della Rovere rispetto alla libertĂ richiesta e voluta dai Pisani.
In mezzo a tanta confusione di poteri Carlo VIII col grosso del suo esercito lasciò la città di Pisa avviandosi a Firenze irresoluto circa la forma di governo da darsi a quella popolazione.
Troppo lungo sarebbe il dire le particolaritĂ che accompagnarono il doloroso periodo della libertĂ rivendicata dai Pisani, i quali pur troppo si trovarono nel caso previsto del cardinale di S. Pietro in Vincola, talchĂŠ un eloquente scrittore deânostri tempi ebbe a proferire una solenne veritĂ : non esservi cioè condizione piĂš deplorabile di quei popoli che liberi una volta caddero sotto la dominazione di una repubblica: peggio poi, se tollerar non potendone il giogo, lo scossero, e che sono costretti a tornarvi colla violenza.
Reduce il re Carlo dellâimpresa di Napoli (anno 1495), innanzi di valicare lâAppennino di Pontremoli, fu pressato dai Fiorentini a dare esecuzione allâobbligo contratto di riconsegnare le fortezze di Sarzana, di Pietrasanta, e di Livorno, ma in special modo premeva loro la restituzione di quelle di Pisa; mentre allâopposto i Pisani scongiuravano quel monarca a voler mantenere la sua parola per non farli ritornare sotto i loro abominati nemici.
Quindi senza nulla decidere Carlo VIII invitò i sindaci della Repubblica Fiorentina a recarsi ad Asti, e là finalmente il re di Francia consegnò loro il decreto della restituzione delle due cittadelle di Pisa previo un aumento di sussidj da pagarsi alle sue truppe dal governo di Firenze.
Ma ad onta degli ordini regj ricevuti dagli ambasciatori della Repubblica fiorentina, il comandante francese di Pisa ricusò di cedere loro le fortezze sopraindicate. Atteso però il richiamo dallâItalia dellâarmata francese, quello stesso comandante, dopo aver consigliato i Pisani a domandar soccorsi ai Veneziani e al duca di Milano, allora nemici della Repubblica Fiorentina, si obbligò dirimpetto ai sindaci del Comune di Firenze consegnare le due cittadelle di Pisa mediante lo sborso di 14000 fiorini, ammesso il caso che il re di Francia dentro cento giorni non fosse rientrato con le sue genti in Italia.
Giunti frattanto in Pis a i soccorsi dei Veneziani e del duca di Milano innanzi che scadesse il tempo della consegna delle fortezze da farsi ai Fiorentini, le cose mostraronsi di primo slancio prospere ai Pisani, i quali presero con grande ardire lâoffensiva su tutti i punti del loro contado ajutati poco dopo (anno 1496) da altre genti dâarmi condotte in Italia dallâImperatore Massimiliano I. Questo monarca, appena giunto a Pisa, si dispose a intraprendere lâassedio di Livorno che tosto con le forze sue e quelle della lega investĂŹ, tanto dalla parte di terra come da quella di mare, ed il cui esito fu giĂ in questâopera indicato allâArticolo LIVORNO.
Insorta poi discordia fra i capi delle truppe veneziane, milanesi e imperiali, ciascun dei quali sembra che operasse col disegno di impadronirsi di Pisa, disgustato Massimiliano tornò in Germania, il duca di Milano richiamò le sue truppe, essendo i Pisani rimasti con poca soldatesca deâVeneziani, i soli amici che potessero contare contro piĂš potenti nemici. Allora i Fiorentini non solo riacquistarono in breve tempo i castelli del contado pisano, ma di piĂš inviarono unâarmata di 18.000 combattenti ad assediare Pisa; dove poco dopo giunsero rinforzi ai Fiorentini da Bologna, da ForlĂŹ e da altri luoghi della Romagna. Arroge che non stette mo lto a sentirsi come i Veneziani allettati dallâoro deâFiorentini, per trattato dellâaprile 1499 si ritirarono dalla Toscana.
Contuttociò i Pisani, avendo deliberato di patire ogni estrema fortuna e la morte istessa, anzichĂŠ tornare sotto lâodiato giogo dei Fiorentini, si armarono con ogni possibile sforzo a difesa propria. Infatti nei primi sette anni eglino vi riescirono; poichĂŠ in un settennio Pisa sostenne mirabilmente tre assedj e altrettanti assalti (1499, 1503 e 1505) nei quali le donne non meno degli uomini mostrarono fermezza, coraggio e valore; in guisa che la Signoria di Firenze essendo entrata in sospetto di qualche intelligenza fra gli assediati e il comandante generale deâFiorentini, Paolo Vitelli, fece arrestarlo nel campo, e condottolo nel palazzo deâSignori lasciarvi tosto la vita.
In questo stesso periodo tentarono i Fiorentini niente meno che di deviare per intiero lâArno da Pisa onde portare in quel popolo maggior desolazione. Scavaronsi a tale oggetto due profondi e larghi canali presso la torre di Fasiano (quattro miglia sopra la cittĂ ) nelle mira dâintrodurvi le acque dellâArno e di lĂ dirigerle al mare per la via di Coltano e di Calambrone. Al qual uopo venne costruita sul letto del fiume una gran diga, dove erano giĂ state impiegate 8000 opere quando sopraggiunse una piena che rovesciò la diga, colmò i lavori, e fece sĂŹ che i Fiorentini dovessero rinunziare ad un progetto troppo azzardato.
Riferisce poi specialmente al fatto medesimo di voltar lâArno a Fasiano una lettera dal commissario Francesco Guiducci diretta lĂŹ 24 luglio 1503 ai Dieci di BalĂŹa dal campo di Pisa, colla quale informò quel magistrato di guerra di esservi stato con Alessandro degli Albizzi, uno dei Dieci di BalĂŹa, con lâingegnere Leonardo da Vinci e con altri, fra i quali il governatore; e che veduto il disegno, dopo varie discussioni si concluse, essere quellâopera molto a proposito, o si veramente Arno volgersi qui, o restarvi con un canale, per cui almeno si vieterebbe che le colline dai nemici non potessero essere offese. â â (GAYE, Oper. Cit. Volume II .) Non meno importanti a illustrare la storia dellâultimo assedio di Pisa sono le lettere seguenti: due delle quali scritte dal commissario Antonio Giacomini ai Dieci di BalĂŹa sotto dĂŹ a 2 e 3 giugno 1504. In esse si dĂ avviso qualmente era giunto al campo contro Pisa la mattina stessa del 2 giugno Antonio da Sangallo, il quale di poi fu mandato a Librafratta col governatore per pigliar appunti come sâabbia a conciar cotesto luogo di Librafratta. â â (Oper. Cit. Volume II.) Frattanto essendo ritornato da Roma a Firenze lâarchitetto Giuliano da Sangallo, fu subito dal gonfaloniere Pier Soderini inviato al campo davanti a Pisa ai commissari, perchĂŠ non potevano riparare che i Pisani non mettessero dentro per Arno vettovaglie. Giuliano nellâinverno del 1505 disegnò ed alla primavera successiva del (ERRATA: 1406) 1506 col fratello Antonio diresse la costruzione di un ponte di barche incatenate fra loro, in maniera che gli assediati non potevano ricevere sussistenza, nĂŠ dalla parte del mare, nĂŠ dalla parte di terra, per essere stato chiuso il passo alle barche anche di sopra a Pisa. â Tali provvedimenti avendo reso ognor piĂš difficile la provvista delle vettovaglie, delle quali in Pisa si mancava quasi affatto, allora il capo del popolo Giovanni Gambacorti ricorse a un rimedio barbaro, quello cioè di cacciar fuori i vecchi, le donne e altre bocche inutili. Ma codesto atto dâinumanitĂ ne provocò dal lato degli assedianti uno piĂš crudele quando i commissarj fiorentini misero bando che qualunque uomo venisse fuori dalle porte di Pisa fosse impiccato, e alle donne scorciati i panni sopra il ventre e bollate nella gota.
Nel maggio dellâanno 1508 lo stesso Antonio da Sangallo ritornò al campo, al quale i Dieci di BalĂŹa, gli 11 dello stesso mese, da Firenze dirigevano la seguente lettera.
âNel tempo che staranno le genti nostre in prima in Val di Serchio, di poi dallâaltra banda, ristringeraiti un dĂŹ col signor Marcantonio a conferire insieme dove si potesse fare una bastia sotto a Librafratta che stessi bene, per poter a questi due luoghi, o a uno di essi tener piĂš stretti i nemici nostri, e vedi innanzi tu parta di farne buon ritratto.â â Rispondeva Antonio da Sangallo ai Dieci di BalĂŹa dal campo in Val di Serchio sotto dĂŹ 17 dello stesso mese ed anno dicendo âSono stato col signor Marcantonio, e dopo molti ragionamenti fatti fra noi, non mi pare che sia proposito far niuna di queste bastie, cioè a Librafratta e ancor alla Badia a S. Savino. Ma siamo cavalcati insieme tutto il Lungarno dalla banda di Val di Serchio insino alla torre che sta in sulla foce (dellâArno).
E perchĂŠ costà è un luogo elevato da terra circa braccia sei, quivi ci fermeremo a fare la bastia e âl ponte. Quando saremo dalla parte di costĂ dovâè la torre, vedremo et esamineremo piĂš interamente il luogo et di tanto si darĂ avviso alle VV. SS.â Il dĂŹ 26 maggio di detto anno scriveva dal campo ai Dieci di BalĂŹa il commissario generale Niccolò Capponi avvisando queâ signori, che âAntonio da Sangallo se ne verrĂ domattina, e da lui intenderanno quello bisogna fare a Librafratta per potervi tenere piĂš numero di cavalliâ â (GAYE, Oper. cit. Volume II.) Dopo lâinutilitĂ di tanti tentativi i Fiorentini sospesero per qualche tempo le operazioni militari contro Pisa, ma non sospesero i maneggi politici accompagnati da offerte di oro per aver lâassenso dei re di Francia e di Spagna, i quali cominciavano a risguardare lâimpresa deâ Fiorentini contro Pisa come oggetto di speculazione finanziera.
Trascorse cosĂŹ circa un anno, nel qual periodo di tempo i Fiorentini, avendo attirato al loro partito anco le repubbliche di Genova e di Lucca, si disposero a bloccare Pisa col sistema usato da Gino Capponi nel 1406, cioè, di chiudere con navi e batterie le foci dellâArno, del Serchio e del Fiume Morto, e di stabilire tre campi trincerati, cioè, a S. Piero in Grado, per la parte dâArno, a bocca di Serchio per la parte di mare, a Mezzana e a Ripafratta, per la parte del monte, senza tralasciare dâinviare altre colonne mobili a custodire nelle campagne tutte le vie dalle quali potevasi vettovagliare la cittĂ .
Per tal modo i Pisani stretti da ogni lato, indeboliti da lunga guerra, privi di ogni genere di sussistenza e dalla fame estenuati, dopo aver sostenuto con costanza e coraggio 14 anni e mezzo di guerra, sentirono con gran pena avvicinarsi lâora fatale di dover cedere alla necessitĂ e darsi per vinti in potere di odiatissimi nemici. Le condizioni della capitolazione furono stabilite nel 4 giugno 1509 alla presenza dei Dieci di BalĂŹa e di Niccolò Machiavelli segretario della Repubblica, ratificate il giorno dopo dalla Signoria. Esse contenevansi in 48 capitoli, nei quali si trattava anche della restituzione ai Pisani fuorusciti, niuno eccettuato, di tutti i loro beni e rendite arretrate, delle franchigie relative al commercio e manifatture pisane e di altre esenzioni di tasse e gabelle che anteriormente al 9 novembre 1494 erano state ai Pisani dal Comune di Firenze concedute. â (DAL BORGO, Docum. Pis.) Dopo concluso tutto ciò, lâesercito degli assedianti nel dĂŹ 8 giugno del 1509 entrò pacificamente in Pisa, fra quella popolazione taciturna, avvilita ed estenuata. E quantunque i Fiorentini da tanta nimistĂ e da molte ingiurie fossero esacerbati, pure osservarono religiosamente le fatte promesse, col recare seco pane e vettovaglie a ristorare quel popolo affamato, nel tempo stesso che il vincitore a quel che sembra evitava di suscitare nei Pisani cagioni nuove di rammarico, e conservava loro i consueti magistrati, scelti per altro dalla Signoria di Firenze.
Ma in questa seconda ed ultima resa di Pisa molte famiglie di nobili, di mercanti e di cittadini distinti anzichĂŠ sopportare lâavvilimento di una tale schiavitĂš, emigrarono volontariamente allâestero e specialmente a Napoli e a Palermo, dove tuttora es istono molti discendenti di quelle casate.
A sentimento dello storico Guicciardini lâImperatore Massimiliano dovĂŠ sentire con pena la sottomissione deâPisani, nella persuasione, o che il dominio di Pisa gli avesse a essere potente istrumento a molte occasioni, o che il consentirla ai Fiorentini gli avesse a fare ottenere da loro quantitĂ non mediocre di danari; in una parola può dirsi che cotesta cittĂ in quel tempo fosse lâoggetto dellâaviditĂ di molti potentati.
Una della prime operazioni fatte dai Fiorentini appena entrati in Pisa fu di sollecitare a Giuliano e ad Antonio da Sangallo il compimento della cittadella nuova, detta poi fortezza alle Piagge. Infatti nel dĂŹ 11 settembre 1509 il gonfaloniere perpetuo Pier Soderini scriveva a Pisa a Giuliano da Sangallo nomine D. Antonii, cosĂŹ: Ho letto la vostra alla Signoria della quale ho preso piacere intendendo che voi sollecitate forte cortesia opera (della cittadella). â La Signoria vorrebbe che voi faceste lâaltra parte del muro, e lo tiraste su al pari dellâaltro con piĂš prestezza che si può. Però fate diligenza di condurre tutto il muro di verso il ponte alla Spina allâaltezza di quello dellâaltra parte. â (GAYE Oper. Cit. Volume II).
Con due altre lettere del 20 e 26 settembre del 1509 lo stesso Pier Soderini sollecitava Giuliano da Sangallo a tirar su quel muro presso il ponte alla Spina sullâArno, come pure di murare la porta che metteva in sul ponte predetto, e lâaltra porta, e lâaltra porta da entrare in cittĂ âet con sollecitudine (scriveva) tirate su perchĂŠ il tempo se ne vaâ. â Anche nel 1511 Giuliano da Sangallo continuava a dirigere i lavori alla cittadella e alla porta S.
Marco, come rilevasi da due lettere dei Dieci di BalĂŹa scritte da Firenze lĂŹ 2 gennajo e 13 febbrajo 1510 ad Alamanno Salviati commissario a Pisa; mentre nel 28 dicembre dello stesso anno i Dieci di BalĂŹa scrivevano da Giovanni Battista Bartolini commissario in detta cittĂ rispetto alla costruzione della cittadella nuova, il qual commissario aveva detto, che perduta Pisa è perduta ancora la cittadella, e ciò contro il sentimento dellâarchitetto Giuliano da Sangallo. Che però desiderosi di chiarirne da tanta perplessitĂ , i Dieci inviarono a Pisa Niccolò Machiavelli, il quale nel dĂŹ 5 gennajo dellâanno 1511 tornato a Firenze rese conto della sua missione rispetto ai lavori della cittadella nuova a quelli della porta per la quale si riesciva in sul ponte alla Spina , rapporto anco al rivellino fra la porta S. Marco e quella della fortezza , al muro ecc. verso la Porta nuova (di S. Marco).
Dopo le quali cose i Dieci scrivevano al detto commissario quanto appresso: âNiccolò (Machiavelli) ancora ci ha riferito in quanta debolezza si trovi la cittadella vecchia, ed avendone parlato con Giuliano da Sangallo, e parendoci il rimedio che ci mette innanzi lungo e dispendioso, ci è solo occorso in questa parte di alleggerire detta cittadella vecchia di tutte quelle cose che fossero di molta importanza, quando venissero in mano deâ Pisani, et però se in detta cittadella si trova artiglieria di piĂš metteretela in cittadella nuovaâ. â (GAYE, Oper.
cit. Volume II.) Queste lettere frattanto manifestano chiaramente la premura del governo di Firenze nel fortificarsi in Pisa per timore di perdere una terza volta la cittĂ a cagione di sollevazione degli abitanti, comecchè una buona parte deâ suoi cittadini avesse giĂ espatriato.
La prova piĂš evidente di tale emigrazione la dimostra una lettera scritta nel dĂŹ 31 marzo del 1511 da Alessandro Nasi commissario di Pisa ai Dieci di BalĂŹa, cui diceva: âIeri furono da me Giuliano da Sangallo e il provveditore della cittadella nuova, e riferirono, come per ordine di chi ha carica dellâentrate della dogana era stato loro dimostrato, châella diminuiva in modo che bisognava scemare i maestri e gli operai alla muraglia.â â (GAYE, Volume cit.) Tutto ciò accadeva sotto il gonfalonierato perpetuo di Pier Soderini. Per altro allâoccasione dellâesaltamento al pontificato del Cardinale Giovanni deâMedici, Pisa dovĂŠ risentire un qualche sollievo nel ravvivamento della decaduta sua universitĂ , a sussidio della quale Leone X destinò le decime ecclesiastiche di tutto il dominio fiorentino. Quindi per opera specialmente di un altro pontefice della stessa prosapia deâMedici (Clemente VII) fu estinta anco la repubblica fiorentina, quando appena di 24 anni era spirata la pisana, siccome dallâopera del duca Cosimo deâMedici può ripetere dopo altri 24 anni la repubblica sanese la sua fine. SicchĂŠ in grazia del governo di Firenze e di due individui fiorentini in meno di mezzo secolo caddero lâuna dopo lâaltra sotto il dominio di una famiglia cittadina le tre piĂš distinte repubbliche della Toscana.
Due anni dopo la sua caduta Pisa fu scelta, come luogo piĂš confacente ad un concilio, sia per la comoditĂ che offriva a molti prelati che dovevano recarvisi dalla Francia e dalla Spagna, sia per la confidenza che il re di Francia e lâImperatore Massimiliano, promotori di quel concilio, avevano neâFiorentini ed in Pier Soderini, allora gonfaloniere perpetuo della Repubblica. Dallâaltro canto il Pontefice Giulio II dopo avere intimato per lâanno dopo un concilio generale in S. Giovanni Laterano a Roma, dichiarava questo di Pisa un conciliabolo, sicchĂŠ interdisse i Fiorentini nel cui dominio era stato permesso e favorito. Quindi lo stesso Pontefice strinse lega col re Cattolico e coi Veneziani, i capitoli della quale trattavano principalmente della conservazione dellâunione della chiesa, dellâabbattimento del concilio pisano e deâ suoi difensori. Ed attribuendo gran colpa di ciò al governo di Firenze, non pareva alla lega che si potesse tenere migliore e piĂš pronta via, a voler condur la cosa ad effetto, di quella di rimuovere il gonfaloniere perpetuo dal governo di Firenze e dâintrodurvi di nuovo lâespulsa casa deâMedici. Della quale essendo allora capo il cardinal Giovanni, successore poscia a Giulio II nel papato, non si dubitava che questo porporato non agognasse lâultima ora di vita al governo repubblicano di Firenze per rimettervi in potere la sua famiglia.
Negli ultimi istanti della Repubblica Fiorentina Pisa dovĂŠ accogliere fra le sue mura il prode guerriero fiesolano, Francesco Ferrucci, per accozzarvi un piccolo esercito che quasi per intiero perĂŹ alla battaglia di Gavinana. I Pisani in quellâemergente soggiacquero a severe misure militari e si trovarono in pericolo di veder impiccare i cittadini piĂš facoltosi, o di dover perire della morte stessa del conte Ugolino di Donoratico, se a richiesta del comandante non somministravano denaro per pagare i soldati, vettovaglie e materiale per provvedere il suo esercito. NĂŠ a queste sole misure, benchĂŠ violente, sâarrestava il Ferrucci, poichĂŠ memore della congiura stata poco innanzi scoperta in Pisa, a causa della quale perdĂŠ la vita il complice Jacopo Corsi capitano del governo, eseguivasi dal fiesolano quello che altre volte fu semplicemente dai Dieci di BalĂŹa progettato, lâallontanamento da Pisa di tutti i cittadini capaci di portar arme, oltre i molti deâ piĂš distinti che per sicurezza erano stati chiamati a Firenze. SennonchĂŠ due giorni dopo la partita dellâesercito del Ferrucci, i Pisani dovettero non senza giubilo sentire la notizia della battaglia di Gavinana, la quale decise della sorte di Firenze parificandola, se non peggio, a quella di Pisa, e quindi sottoponendo entrambe le cittĂ coi loro contadi al dominio assoluto di un solo padrone, spettante a famiglia giĂ di Firenze cittadina.
Sebbene il duca Alessandro deâMedici governasse con pari tirannide Fiorentini e Pisani, e si mostrasse per tutto di vita anzichĂŠ no licenziosa e vituperevole, non ostante i Pisani, per lâodio che nutrivano contro Firenze, accolsero con smodato plauso il duca Alessandro fino al punto di qualificarlo con adulatoria iscrizione al suo ingresso in cittĂ , il Salvatore di Pisa .
Pure i Pisani al pari deâ Fiorentini non ebbero ragione da lodarsi del nuovo signore, sotto del quale si vide il magistrato comunitativo di Pisa fare un umiliante decreto sotto il dĂŹ 6 dicembre del 1535, che diceva, come in mancanza di uno studio nella loro cittĂ , dovĂŠ risolversi a raccogliere lâannua somma di cento ducati, 50 dei quali forniti dallâopera del Duomo, 25 dalla Pia Casa della Misericordia, e 25 dalla ComunitĂ di Pisa, per poter mantenere quattro giovani pisani a studiare legge o medicina in un pubblico ginnasio forestiero; sul riflesso, dice il decreto: âche la cittĂ di Pisa, oltre i danni infiniti occorsogli, e per la malignitĂ deâ tempi dai Pisani patiti, era mancante quasi del tutto, e del continuo mancava di uomini e massime di letterati e bene istruiti in qualche virtĂš. E conoscendo di tale difetto esserne polissima cagione la povertĂ grande di queâ pochi cittadini che oggi vi restano, inabili non che altro a nutrire i proprj figli anzi che a indirizzarli in virtĂš, e a tenerli a studio fuori della cittĂ , come nelle altre è solito farsi, perciò ecc.â â (DAL BORGO, Diplomi pisani.) Tale era il deperimento di fortuna e di soggetti nella cittĂ di Pisa, allorachè fu innalzato al trono Cosimo I deâ Medici, principe di eminenti qualitĂ e di una politica raffinata fornito, in guisa che in mezzo ai piĂš grandi ostacoli seppe progredire di grandezza collâindorare ai sudditi le catene che indossavano. â POS. sono infatti i Pisani fra i popoli a Cosimo I soggetti dirsi deâ primi che risentissero dalle sue leggi, ordini e provvedimenti economici, solidi vantaggi e felici resultamenti.
Avvegnachè una delle prime cure di Cosimo fu la ripristinazione dellâabbandonata universitĂ pisana (anno 1543), alla quale assegnò rendite stabili e nuove, riordinò i suoi statuti, eresse e accreditò varie cattedre chiamando dallâestero celebri professori, ampliò il locale della Sapienza per il convitto, e concedè agli esteri privilegj e immunitĂ .
A questi aggiunse altri provvedimenti per richiamare a Pisa deâ bravi maestri, e dei numerosi studenti; cui susseguirono nel 1547 ordini diretti a migliorare lâaria con lâistituzione dellâUffizio denominato deâ Fossi, al quale Cosimo I aumentò le risorse con assegnare ingerenze piĂš estese di quelle che nei tempi trascorsi su tale rapporto ai Consoli del Mare fossero state accordate.
In quale stato poi di spopolamento fosse la cittĂ di Pisa alla metĂ del secolo XVI lo dirĂ il Censimento posto in calce del presente articolo a confronto di tre altri di epoche assai posteriori. â Vedere anche il Censimento della Popolazione della COMUNITĂ DI PISA.
La terza operazione, con cui Cosimo I procurò di favorire i Pisani fu quella di stabilire la residenza del nuovo ordine cavalleresco di S. Stefano e P. M., da esso nel 1561 fondato, e ciò in vista di procurare decoro e concorso maggiore alla cittĂ , di accrescere sicurezza al commercio marittimo deâ sudditi, ed una maggiore stabilitĂ al suo trono.
Succeduto al Granduca Cosimo il figlio primogenito Francesco I, Pisa ricadde nel languore; lo che a parere dello storico del Granducato fu in gran parte prodotto della politica deglâinquisitori, la quale sembrava diretta principalmente ad abbattere e forse anche a distruggere nella Toscana le due universitĂ di Pisa e di Siena.
Avvegnachè, oltre lâodio che glâinquisitori fomentavano fra i professori di quei ginnasii, eglino poterono imporre nellâanimo di Francesco I tanto da ottenere un regio exequatur per consegnare nelle forze del Papa (anno 1582) tre professori dello studio pisano. â Con tutto ciò il secondo Granduca rispetto allâUffizio dei Fossi di Pisa proseguĂŹ le operazioni ed ordini lasciati dal di lui padre, aggiungendovi qualche provvedimento creduto piĂš confacente allo scopo.
Ma eccoci allâeroe della dinastia Medicea, eccoci al successore di Francesco I, a quellâanimo invitto di Ferdinando I, il quale mostrò costanza imperterrita nelle maggiori calamitĂ dello stato, a colui che ebbe il contento di vedere il primo in Toscana la gloria del principe collegata al benessere deâsudditi; ed i Pisani finchĂŠ starĂ in piedi la loro maravigliosa cattedrale benediranno la memoria di Ferdinando I per il suo gran cuore di averne riparato sollecitamente la perdita a cagione di un incendio notturno (nel 24 ottobre 1595) consimile a quello che ai giorni nostri in gran parte distrusse la basilica di S. Paolo fuori di Roma.
Per le cure di Ferdinando I vennero anche allacciate le copiose polle dâacqua saluberrima nel poggio di Asciano, e dato principio ai lunghi acquedotti che per cinque miglia di cammino conducono quelle acque sopra archi a dissetare i Pisani.
Per opera di Ferdinando I fu edificato in Pisa il collegio che conserva il suo nome, giĂ destinato a ricevervi i giovani che inviavansi allo studio pisano dalle cittĂ e terre del Granducato.
Per lui fu innalzata col disegno del Buontalenti la Loggia di Banchi sulla piazza meridionale del ponte di Mezzo; alla quale Loggia posteriormente venne sovrapposta la fabbrica dellâUffizio deâFossi.
Fu per suo ordine edificato nel Lungarno di Pisa il palazzo granducale, e fu suo lâindulto famoso del 10 giugno 1593 a favore deglâindividui di qualunque nazione in favore di coloro che si recassero a stabilire domicilio a Livorno e a Pisa.
Fu per volere di Ferdinando I che venne allo studio pisano quellâOstilio la cui scuola nel 1592 frequentò il giovinetto Galileo. â Fu per ordine di quel Granduca aperto il Fosso, o Canale deâNavicelli ad oggetto di rendere piĂš spedito e piĂš sicuro il trasporto delle merci fra Pisa e Livorno senza che escissero come per lâaddietro per bocca dâArno in mare. â Per esso finalmente i Pisani furono in festa quando vennero depositati nella chiesa dei cavalieri di S.
Stefano i trofei riportati alla conquista della cittĂ di Bona nellâAffrica (1607) donde recarono bandiere, cannoni e un migliajo e mezzo di schiavi.
Il Granduca Cosimo II figlio di Ferdinando I, appena escito dalla minor etĂ , governò i suoi sudditi camminando scrupolosamente sulle paterne tracce, e recando a somma sua cura il mantenere in credito lâuniversitĂ di Pisa, ed il bonificamento delle vicine campagne.
Ma tutto cominciò a declinare appena avvenuta la sua morte nella fresca etĂ di 32 anni (1621). Essendochè, rimasta la Toscana sotto la reggenza di due granduchesse, lo stato deteriorò a segno che si ridusse uno spettacolo di miserie, e la trascuratezza degli spurghi deâfossi fece in Pisa accrescere i danni della peste che per due volte (anni 1630 e 1633) apportò un doppio esterminio. In mezzo a tanta calamitĂ prese le redini del governo Ferdinando II figlio primogenito di Cosimo II e fratello del protettore degli scienziati, del fondatore dellâaccademia del Cimento, il cardinale Leopoldo, nome sempre caro a tutti i Toscani.
La cittĂ di Pisa pertanto, che sino dai tempi di Cosimo I era stata destinata a residenza invernale della corte granducale, sotto Granduca Ferdinando II dovĂŠ risentire un qualche sollievo, quando nella sua universitĂ recavano lustro un Chimentelli, un Marchetti ed un Borelli.
Eppure chi lo crederebbe? Che dove professavano cotesti uomini, dove risiedeva un cardinal Leopoldo deâMedici, dove viveva il sommo Galileo, stato maestro nelle scienze allo stesso Ferdinando II, un Pontefice avesse portato a tal segno lâindiscretezza da esigere che quel divino ingegno nellâetĂ sua settuagenaria si dovesse mandare in Roma per trofeo dellâipocrita ignoranza e della nera malignitĂ ? â (GALLUZZI Stor. Del Granducato).
MorĂŹ Ferdinado II lasciando alla Toscana in Cosimo III suo primogenito un verme divoratore di ogni prosperitĂ , nel fratello cardinale un moderatore zelante, fino a che visse, dellâuniversitĂ pisana. Frattanto è opinione di molti che uno dei colpi fatali fosse portato ai Pisani dagli scrupoli di Cosimo III allorchĂŠ negò agli Ugonotti, cacciati dalla Francia per la revoca dellâeditto di Nantes, il permesso di venire a stabilirsi in uno deâsubborghi di Pisa, disposti a bonificare e rendere piĂš fertili le sue campagne, a montare fabbriche e manifatture di drappi, di seterie ecc. Lo che si negava nel tempo che in Livorno e in Pisa si accordavano privilegj alla nazione ebraica.
Ciò non ostante Cosimo III nutrendo qualche passione per la storia naturale ebbe il merito di accrescere lâorto botanico di Pisa e di molte piante esotiche e rare, di non pochi oggetti minerali e fossili il museo contiguo; e fu sotto il lungo regno di Cosimo III che lo studio pisano ebbe un bel novero di professori distinti, fra i quali un Magalotti, un Dempstero, un Bernardo Averani, un Redi, un Noris, un Gianetti, per tacere di tanti altri e per non aggiungere lâelogio fatto allo stesso Cosimo III dal Montfaucon che lo ritrovò peritissimo nello studio delle scienze divine.
Sotto il piĂš breve ma piĂš agitato regno del Granduca Giovan Gastone il piĂš che vi sarĂ da avvertire per Pisa, credo sia quello di trovarsi insieme nello studio pisano un Valsecchi, un Grandi, un Gualtieri, un Pompeo Neri, un Giuseppe Averani, i di cui nomi bastano a rendere illustre qualunque piĂš celebre universitĂ .
Terminata nel 1737 la casa granducale Medicea, apparve per fortuna della Toscana un astro piĂš splendente e una luce piĂš benefica colla dinastia Austro-Lorena felicemente regnante. â Il Granduca Francesco II di questo nome, e primo come Imperatore, portò fra noi e lasciò nella sua successione per istinto magnanimo di prosapia una serie di opere di giustizia, di moderata libertĂ , dâordine, di cristiane virtĂš, di amorevolezza, di decoro e di crescente prosperitĂ .
Infatti sino dai primi anni del Granduca Francesco II la cittĂ di Pisa migliorò non solo nellâamministrazione governativa, ma ancora nei comodi pubblici e nel suo materiale, sia che si riguardino le Terme pisane di nuove e piĂš comode fabbriche adornate; sia che uno rammenti che a lui si deve la continuazione del magnifico Lungarno di Pisa alla destra del fiume fra il ponte di Mezzo , e la piazza di S. Matteo; e sia che si volga lâocchio al nobile impulso che mercĂŠ di lui fu dato allâagraria e specialmente alle campagne pisane col sistema utilissimo di affittare e dividere fra i privati le vaste e malsane tenute della Corona nella pianura meridionale di Pisa.
Succeduto nel granducato a Francesco II il suo secondogenito Pietro Leopoldo, senza pericolo di adulare dirsi può, che non vi fu mai paese, che avesse piĂš grandi obblighi al suo al suo principe, quanto la Toscana a Pietro Leopoldo. E Pisa, dove lâAugusta e numerosa famiglia di quellâAugustissimo passava la stagione invernale, fu una delle cittĂ la quale durante i 25 anni del suo glorioso governo e preferenza dâognâaltra risentĂŹ il profitto delle benefiche cure sparse su di essa a larga mano per migliorare colle sorti pubbliche le private. Quindi ben si addiceva ai Pisani il pensiero di far scolpire da abile mano in dimensioni gigantesche e innalzare nel centro di una gran piazza il meritato simulacro a tale sovrano con il seguente veridico elogio: A PIETRO LEOPOLDO QUARANTâANNI DOPO LA SUA MORTE.
Chiamato nel 1791 Leopoldo I a salire sul trono imperiale e reale, i destini alla Toscana propizi lasciarono il di lui secondogenito nato in Pisa nel 1769, Ferdinando III, Principe sagace, clemente e moderato, che governò i Toscani in due periodi diversi: il primo circondato da disturbi politic i che lâobbligarono nel marzo del 1799 a ritirarsi in Germania, lasciando la Toscana in mano ai Francesi, che presto venderono e settâanni dopo ritolsero alla Spagna ed allâInfante di Parma per unire il piccolo regno al grande Impero, finchĂŠ caduto il colosso che lo sosteneva (anno 1814), il Granduca Ferdinando III tornò in Toscana desideratissimo dai suoi sudditi e sempre mai contornato dallâamore di ogni ceto, dâogni colore, di ogni etĂ ; ma troppo presto rapito da invida morte, non intiero però, avendo lasciato nellâAugusto suo figlio riunite insieme le paterne ed avite virtĂš. Sotto il governo del Granduca Leopoldo II Pisa ha ottenuto grandi benefizi, sia dai provvedimenti legislativi come dalle opere pubbliche da Esso ordinate col lodevolissimo fine di migliorare le condizioni morali, fisiche ed economiche del paese e deâ suoi abitanti. â Fra le varie migliorie citerò una piĂš regolare direzione data alle acque, la costruzione di nuovi ponti, lâapertura di nuove strade, la rettificazione delle vecchie, tanto regie come provinciali e comunicative. Una di queste, la strada ferrata Leopolda, il cui primo tronco è giĂ in costruzione, deve avvicinare di tempo se non di spazio la cittĂ di Pisa al porto di Livorno, siccome ravvicinerĂ egualmente Pisa e Lucca lâaltra strada ferrata che sta progettandosi da unâaltra societĂ , senza dire della nuova e piĂš estesa montatura dellâUniversitĂ pisana.
Personaggi celebri pisani in fatto di scienze, lettere, arti e politica Una lunga lista fornirebbe questa città di uomini superiori ai contemporanei nelle scienze, nelle lettere, nelle arti ed in politica se si dovessero tutti annoverare; onde mi restringerò ai pisani sommi in fatto di arti, lettere, scienze ecc. senza dire di quei molti celebri per dottrine divine, per virtÚ cristiane e santità .
La serie incomincia nel secolo VIII da Pietro Diacono che fu maestro di belle lettere sotto Carlomagno in Pavia e poscia in Parigi, dove pure si distinse nel secolo X un maestro di teologia, Bernardo da Pisa ; mentre nel secolo XI senza dubbio tocca a Pisa lâarchitetto Buschetto, colui che diresse come autore, e come operajo presiedĂŠ alla costruzione del magnifico tempio della Primaziale. E fu sul cadere dello stesso secolo che Pisa ebbe in pastore un Daiberto dâanimo grande e di singolare valore.
Nel secolo XII Pisa ebbe la gloria di dare al mondo due insigni giureconsulti in Bulgaro e in Burgundio , oltre un famoso matematico in Leonardo Fibonacci, che introdusse il primo in Europa il sistema delle cifre arabiche e le operazioni di algebra scritte in apposito trattato. â Nel medesimo secolo Pisa vede nascere e fiorire due sommi architetti in Diotisalvi e in Bonanno, il primo che fu autore del bellissimo battistero pisano e lâaltro il fondatore del meraviglioso campanile. Lascio di aggiungere il glorioso S. Ranieri, lâarcivescovo Pietro Morioni, il cardinal Guido da Caprona, il Pontefice Eugenio III ed altri insigni pisani del secolo XII tutti celebri per cristiane virtĂš.
Anche nel secolo XIII Pisa fruttò alle belle arti italiane piÚ che ogni altra città , tosto che qua ebbe i natali un Niccola che fu il maestro e il restauratore del buon gusto nella scultura, il vero caposcuola del medio evo, e pel di cui merito comparvero nel secolo successivo molti distinti allievi in diversi luoghi della Toscana.
NĂŠ solamente Pisa diede nel secolo XIII in Niccola un sommo scultore e architetto, ma ancora in Giunta Pisano, il primo pittore italiano di distinzione.
Il qual Giunta figlio di Giuntino non fia da confondersi con altro Giunta pittore coetaneo da me scoperto fra le carte dellâopera di S. Iacopo di Pistoja, siccome fu indicato sino dal 1835 allâarticolo FABIANA nella Valle dellâOmbrone Pistojese. Avvegnachè il Giunta pittore pistojese era figlio di Guidotto da Piteccio, il quale, se può dirsi coetaneo del celebre Giunta Pisano, visse però sempre oscuro nella sua patria, dove lo ritrovo qualche anno dopo la morte di Giunta Pisano. â Vedere PITECCIO.
Toccano al secolo XIV li scultori e architetti pisani, Giovanni figlio di Niccola Pisano, Fra Guglielmo Agnelli e Andrea Pisano, tutti allievi distinti dello stesso caposcuola Niccola, per virtĂš dei quali sorsero alcuni altri distinti scultori e architetti, siccome furono Tommaso e Nino figli entrambi del suddetto Andrea Pisano .
NĂŠ alle sole belle arti si limita il novero degli uomini celebri pisani nei secoli XIII e XIV, mentre nelle lettere figurarono in Pisa un Domenico Cavalea, un Bartolommeo da S. Concordio, un B. Giordano e un Ranieri, comecchĂŠ questi due fossero nativi del castel di Rivalto, contado pisano. â In politica e giurisprudenza figurarono piĂš tardi in Pisa Michele di Lante e Pietro suo figlio, sebbene oriundi da Vico Pisano, siccome era oriundo da Buti il letterato Francesco di Bartolo che sotto il governo di Piero Gambacorti commentando spiegò la divina commedia nello studio pisano.
Ma lâuomo del secolo XIII che fra tutti i Pisani si rendesse il piĂš famigerato dalla penna inarrivabile di un sommo poeta fu il conte Ugolino della Gherardesca, noto per ingegno, per valore e per politica, ma piĂš noto per la sventurata sua morte assai peggiore di quella che era toccata a Napoli al conte Gherardo suo zio.
NÊ a dimenticare la crudeltà usata verso il conte Ugolino bastò la generosità con la quale i Pisani dopo 26 anni innalzarono al grado stesso di potestà i parenti di lui, cioè nel 1316 il conte Gherardo Novello, poi il Conte Ranieri suo zio, il conte Bonifazio Novello e finalmente il conte Ranieri nipote del primo; i quali tutti ottenerono dal popolo pisano i sommi onori, avendoli eletti per capi quas i assoluti della loro repubblica.
Fra i politici pisani del secolo XIV notissimi sono Andrea, Piero e Giovanni Gambacorti, Jacopo dâAppiano e Giovanni dâAgnello, mentre come letterato, politico e dotto i Pisani fanno suo il Pontefice Niccolò V, al secolo Tommaso Parentucelli, perchĂŠ di padre pisano e nato in Pisa nellâanno 1389 da padre medico, Bartolommeo, nel tempo che leggeva nello studio pisano.
La città di Pisa nei secoli posteriori diede molti artisti e scienziati, ma nessuno arrivò a pareggiare il merito de vecchi maestri di sopra nominati, se devesi eccettuare Galileo, il quale sebbene figlio di un nobile decaduto fiorentino e di una dama pesciatina, venne alla luce del giorno in Pisa nel 18 febbrajo 1564, colui che doveva vedere assai piÚ lungi di ogni altrui vivente della sua e di qualunque altra età .
Chi volesse poi conoscere una piĂš lunga serie deâpisani distinti legga il catalogo cronologico posto in calce al Volume III della Descrizione storica e artistica di Pisa di Ranieri Grassi.
PRINCIPALI EDIFIZI DI PISA Fra tutte le altre cittĂ della Toscana Pisa può dirsi la piĂš ricca di memorie e di avanzi di fabbriche che ci richiamano ai primi secoli del romano impero; sia che si osservino i ruderi delle sue Terme delle quali sussiste intiero il Sudatorio in un locale che quanto prima dallo zelante corpo decurionale di Pisa sarĂ acquistato per farvi intorno opportune perlustrazioni e ripari; sia che si rintraccino i nascosti fondamenti dellâAnfiteatro, del quale restò il nome ad una porta della cittĂ , ora chiusa, la porta del Parlascio; sia che si esamini il vestibulo di un tempio pagano tuttora in posto dove fu la chiesa di S.
Felice, senza dire di tante colonne di graniti e di marmi orientali, delle numerose basi e capitelli che le adornavano. Ma soprattutto qualificano lâimportanza di Pisa romana i molti sarcofagi e le iscrizioni superstiti, fra le quali superiormente insigni sono quelle dei due Cesari, Cajo e Lucio, figli adottivi di Augusto, illustrate dal Noris nellâopera Cenotaphia pisanae, che insieme a tanti altri frammenti antichi sparsi quĂ e lĂ veggonsi ora riuniti nel bel Camposanto di Pisa. â Ma se questa cittĂ e tuttora la piĂš doviziosa di monumenti antichi, essa con maggiore diritto ĂŠ da qualificarsi la culla dove risorsero mercĂŠ deâsuoi figli le arti belle per lâItalia, e dove si ammirano riuniti in un solo punto della cittĂ quattro edifizi dei primi secoli dopo il mille, ciascuno deâ quali farebbe onore alla stessa Roma; intendo dire del Duomo, del Battistero , del Campanile e del Camposanto.
Duomo di Pisa . â Quando uno vede la ricca e sublime facciata di questo tempio, e la trova distinta in cinque ordini di colonne con intagli squisiti di marmo; quando uno entra in chiesa e la vede scompartita in cinque navate sorrette da 58 colonne di granito, e di marmi fini con tale sveltezza di forme e squisitezza di lavoro, e quando specialmente uno pensa allâepoca in cui cotesto gran tempio fu edificato, quanto tempo vi sâimpiegò per compirlo, quale artista nazionale lo disegnò e lo diresse, non può fare a meno di stupire del coraggio, del valore e della potenza del popolo pietoso che lo innalzò, del merito originale dellâarchitetto che nella seconda metĂ del secolo XI lo disegnò, vale a dire in unâepoca nella quale i Pisani annunziarono i primi lâalba foriera alle belle arti da lunga etĂ abbrutite, e quasi spente in Italia.
Che lâarchitetto fosse nativo pisano e non come altri supposero dellâisole greche, lo dichiara per tutti un istrumento della Primaziale, rogato in Ripafratta nel di 2 dicembre dellâanno 1105 (stile pisano), nel quale Buschetto figlio del fu Giovanni giudice ĂŠ designato fra i 4 operai dellâopera del Duomo di Pisa, i di cui personaggi appellavansi Uberto, Leone, Signoretto e Buschetto. â (ARCH. DIPL. FIOR.. Carte della Primaziale di Pisa).
NĂŠ solo il novero degli artisti pisani di quella etĂ ĂŠ da limitarsi a Buschetto, tostochĂŠ contemporaneamente al duomo in Pisa si edificava la grandiosa chiesa di S. Paolo in Ripa dâArno, la cui facciata sorprende tuttora per la squisitezza, la varietĂ e la quantitĂ dei lavori di scultura e di ornato di cui ĂŠ fornita; e ciò nel tempo medesimo che sâinnalzavano le chiesa di S. Michele in Borgo, di S.
Margherita, di S. Matteo ec., per non dire di quella di S.
Piero in Grado fuori di Pisa; dondechĂŠ convien concludere che tanti lavori in un cosĂŹ breve periodo dovevano eseguirsi da molte mani e dirigersi da piĂš dâun maestro dâarchitettura e scultura.
Io non starò a intrattenere il lettore intorno al sublime edifizio del duomo di Pisa, poichĂŠ non vi è Guida, non vi è libro di belle arti italiane in cui non si trovi descritto e che non dia del suo interno e dellâesterno il disegno.
Meritano tuttavia sopra ognâaltra Guida di essere raccomandate quelle della Pisa illustrata del Morrona, e la descrizione storica e artistica di Pisa di recente pubblicata dal Grassi.
Dirò bensĂŹ che allâerezione della Primaziale contribuirono non tanto le ricche spoglie tolte dai Pisani ai Saraceni in Palermo, come ancora la munificenza dellâimperatore Arrigo IV e della potente marchese di Toscana, la contessa Matilde. â Ă un tempio a guisa di croce latina con piĂš ordini di colonne e sovrapposte gallerie, le quali formano una specie di loggiato intorno alla navata maggiore, che restò compito nel breve periodo di 56 anni.
â La sua lunghezza interna è di braccia toscane 162 e 1/2, la larghezza della crociata interna arriva a braccia 55 e 1/4, mentre lâaltezza della stessa navata ammonta a braccia toscane 57 e 1/2. Aggiungerò altresĂŹ, qualmente la facciata della Primaziale era adorna di tre porte di bronzo storiate, state fuse e distrutte dallâincendio del 25 ottobre 1595, le quali furono rifatte nel principio del secolo XVII sui disegni di Giovanni Bologna. Finalmente rammenterò che fu dallâoscillazione del lampadario di bronzo sospeso in mezzo a cotesta chiesa donde Galileo trovò la scoperta e dimostrò lâisocronismo nel moto dei pendoli.
Battistero di Pisa . â Non era che di pochi lustri compiuta cotesta Primaziale, quando i Pisani risolverono di erigere dirimpetto alla sua facciata una grandiosa rotonda con cupola per servire di battistero. Il qual edifizio per maestria e magnificenza di lavoro doveva sorpassare quanti altri in simil genere dai popoli cristiani erano stati fino allora a S. Giovanni Battista innalzati.
Fu dato lâincarico ad un architetto nazionale, Diotisalvi, che nellâagosto del 1152 (stile comune), ne gettò i fondamenti, a quello stesso Diotisalvi che disegnò la chiesa di S. Sepolcro in Chinsica nel quartiere dellâOltrarno di Pisa.
Se ignorasi lâepoca in cui il Battistero pisano fu terminato, è noto peraltro che la fabbrica dove sospendersi (non saprei dire a che punto) per lâesorbitanti spese che esigeva; alle quali però fu supplito mediante un volontario tributo deâcittadini.
Questa rotonda che si alza su di un basamento di tre scalini è repartita esternamente in tre ordini, nel primo deâquali girano 20 colonne, sui di cui capitelli voltano archi tondi intagliatissimi di marmo bianco. Ă cosa meravigliosa a dire come tutto questâordine fu eseguito nella prima metĂ del mese dâottobre dellâanno 1156, siccome fu scritto in un documento che dicesi del tempo.
Nel secondo ordine si contano 60 colonne piĂš piccole, staccate dalla parete per formare intorno un peristilio con capitelli e archi semicircolari, alternati da triangoli scorniciati di marmo lunense, ciascuno deâquali sorregge sulla punta superiore una statuina e nel centro una mezza figura piĂš grande, mentre nellâintervallo degli archi sorgono altrettanti tabernacoli fiancheggiati da due colonnine e terminati da tre sottili piramidi adorne di ribeschi e di delicatissimi intagli, il tutto di marmo di Carrara. Il terzâordine è scompartito in 18 pilastri alternanti con 20 finestre; sui quali sorgono deâ tabernacoli con tre colonnine che sorreggono altrettante piramidi, mentre sovrappone alle venti finestre un numero eguale di triangoli di marmo aventi in mezzo dei rosoni. â Da questo terzâordine staccasi la gran cupola formata a guisa di una pera che termina in un cupolino, sulla cui cima sorge una statuetta di bronzo rappresentante S.
Giovanni Battista.
La circonferenza esterna del Battistero, compreso lâimbasamento, è di braccia toscane 239; sopra lâimbasamento è di braccia toscane 195; lâaltezza totale della fabbrica, eccettuata la figura del Battista sulla cima del cupolino, ascende a braccia toscane 94.
Sebbene quattro porte scompartite in croce diano accesso al Battistero, una sola resta aperta (e non sempre), ed è quella dirimpetto alla facciata del duomo, la quale è anche la piĂš adorna di colonne, di bassorilievi, di lavori di ornato e di statue. Lâinterno del tempio ha nude pareti, divise in due ordini di architettura, il primo deâ quali è scompartito in 12 arcate a pieno sesto sostenute da otto grandi colonne e da quattro pilastri staccati dal muro.
Altro simile peristilio circonda la parte superiore del tempio, sopra il quale si alza la parete interna della cupola.
Nel mezzo della rotonda sorge il fonte battesimale di forma ottagonale intagliato di marmi; ma lâopera che richiama gli amatori del bello è il portentoso pulpito di Niccola Pisano. Questa composizione del secolo XIII, di forma esagona, della circonferenza di 14 braccia tutta di marmo statuario, è sorretta da nove colonne, alcune della quali premono il dorso ad animali feroci, o a figure umane insieme aggruppate. Dai capitelli delle sei colonne che formano le parti prominenti dellâopera esagona staccansi altrettanti archi, ciascuno dei quali è ornato di tre piccoli archetti con figurine scolpite in alto rilievo, mentre negli scompartimenti attornianti il parapetto veggonsi lavorate magistralmente 5 storie rappresentanti la nativitĂ del Salvatore, lâadorazione dei Magi, la presentazione al Tempio, la Crocifissione ed il Giudizio universale.
Quando Pisa non avesse altro da mostrare che il pulpito di Niccola consideratolo rispetto allâepoca in cui fu eseguito, si dirĂ sempre essere questo il piĂš felice slancio fatto dalla scultura nel suo risorgere in Italia; si dirĂ inoltre che il pulpito del Battistero pisano e quello del duomo di Siena meritano allâautore non chĂŠ alla sua patria il primato nelle tre arti sorelle, tosto che in Pisa nacquero e fiorirono quasi contemporaneamente un Niccola, un Giunta, un Buonanno.
Campanile pendente di Pisa . â Questa gran torre cilindrica fabbricata di marmo bianco e fasciata da 207 colonne, che sorreggono sette logge circolari; questa torre che a buon diritto è considerata fra i quattro piĂš insigni edifizi pisani nel medio evo, ha promosso sempre mai lo studio non meno che la curiositĂ di ogni classe di persone per la sua maravigliosa pendenza di braccia 7 e 1/2 in unâaltezza di braccia 93; talchĂŠ di prima giunta a chi vi passa vicino sembra che ad ogni istante sia per rovinare; nĂŠ saprei dire se fu ancora vinta la lite piĂš volte messa in campo sulla pendenza del campanile di Pisa; di crederla dovuta al caso piuttosto che allâarte; sicchĂŠ può dirsi di questa ciò che della torre mozza di Bologna diceva il sommo poeta nel Canto XXXI del suo Inferno: Quale pare a riguardar la Carisenda Sotto â l chinato, quando un nuvol vada Sovrâessa sĂŹ châella ân contrario penda.
Lascerò volentieri a giudici competenti la decisione sulla sua pendenza qualora non fosse decisa in ultima istanza, e solo mi limiterò a far poche parole degli artisti che la costruirono, resa anche piĂš celebre dal divino Galileo, quando egli dalla caduta deâgravi, cui per la sua pendenza la torre si presta, basò allâetĂ di 25 anni i fondamenti della dinamica.
Questo campanile per opera dellâarchitetto pisano Bonanno ebbe il suo principio nellâagosto del 1174 (stile comune), cioè 21 anni dopo la fondazione del battistero, e appena 76 anni dopo consacrata la Primaziale, ma sâignora lâepoca in cui restò terminato. Rispetto al suo primo architetto tutti convengono che fosse un maestro Bonanno cittadino pisano, ma non tutti ammettono che lâopera fosse incominciata pendente, per arte piuttosto che in seguito lo divenisse per avvallamento del suolo. Che se Bonanno fu solo a incominciarla altri maestri succederono a proseguire e a completare cotanta mole. Quando non lo dicessero i cronisti pisani e il Vasari, lo fa conoscere un documento inedito. I piĂš diedero per compagno a Bonanno un Guglielmo dâInspruck, o secondo altri un Giovanni Ennipontano tedesco, aggiungendovi anco un terzo artista in Tommaso figlio dello scultore Andrea Pisano, come quello che intorno alla metĂ del secolo XIV edificava nella torre pendente lâultimo ordine delle campane.
Che il campanile del duomo di Pisa continuasse a lavorarsi dopo la morte di Bonanno suo primo autore, e innanzi che nascesse Tommaso figlio dâAndrea Pisano, lo dichiara la protesta fatta nel 27 dicembre dellâanno 1233 (stile comune) da Benenato operajo dellâOpera del duomo di Pisa, quando egli nellâentrare in carica giurò di attendere alla riparazione della chiesa maggiore, e alla edificazione del suo campanile secondo la possibilitĂ e i mezzi della stessa Opera. â (ARCH. DIPL. FIOR. Carte della Primaziale).
E siccome tale promessa cadde 60 anni dopo principiata la torre in discorso, fia cosa facile a credere che lâedifizio stesso continuasse a fabbricarsi dopo il 1233 non piĂš dal primo autore, sivvero da altri architetti, come furono maestro Guglielmo dâInspruck o Giovanni Ennipontano tedesco, innanzi che nel secolo XIV un altro maestro nazionale, Tommaso dâAndrea Pisano, compisse lâopera.
Dimensioni diverse del Campanile pendente di Pisa.
Altezza del Campanile pendente, braccia 93 e 1/3 Circonferenza esterna alla base, braccia 83 e 2/7 Diametro interno del cilindro, allâingresso del campanile, braccia 12 e 3/5 Diametro interno nel restante del cilindro, braccia 13 e 1/4 Inclinazione esterna, braccia 7 e 2/3 Declinazione interna dalla linea perpendicolare, braccia 5 e 5/6 Larghezze varie del muro.
Alla sua base sopra terra, braccia 7 Al secondâordine, braccia 4 e 2/3 Al terzâordine, braccia 4 e 1/2 A tutti gli ordini superiori al terzo, braccia 4 e 1/4 Le 15 colonne del primâordine, alte braccia 13 e 1/2 sono addossate alla muraglia; le 30 colonne di ciascuno deâ sei ordini superiori (180 fra tutte) sono distaccate dal muro in guisa da formare altrettanti peristili passeggiabili. Si sale sino al settimo ordine per una scala di 293 gradini di marmo bianco, praticata nella grossezza del muro, al quale essa gira intorno a spirale.
Lâ8.vo ed ultimo ordine, circondato da 12 colonne con sei finestre grandi e sei piccole per le campane, è di un cerchio piĂš ristretto degli altri, talchĂŠ assai piĂš largo è il suo peristilio difeso da una ringhiera. Una scaletta di 37 scalini pure di marmo bianco conduce alla sommitĂ della terrazza del Campanile, anchâessa riparata intorno da un terrazzino di ferro al pari di quello dellâordine sottostante delle campane.
Camposanto pisano. â Se le tre fabbriche testĂŠ designate dimostrano a chiare note lâopulenza; la grandezza dâanimo e il valore dei Pisani sino dai primi secoli dopo il mille, questa del Camposanto, destinata a conservare le ceneri deâcittadini piĂš benemeriti della patria, a costituire il Panteon degli uomini piĂš illustri pisani; questâopera principiata nel secolo XIII si lascia indietro tutte le altre di simil fatta. â Non credo vi sia persona, la quale allâentrare in cotesto silenzioso recinto della morte non si senta rapita da una specie di estasi sublime, e a un tempo stesso da profonda ammirazione nel contemplare lâoriginalitĂ , la simmetria, lâalto scopo dellâopera, le varie bellezze artistiche e le tante raritĂ archeologiche delle quali trovasi decorata. DondechĂŠ il Prof. Rosini ebbe ragione a riferire, che il Camposanto di Pisa è il testimonio dellâarchitettura nel suo rinascimento, oltre che esso offre nelle sue grandiose pareti la storia della pittura nei secoli XIV e XV, dovendolo anche riguardare qual galleria di bassorilievi antichi nei numerosi sarcofagi ivi trasportati; molti deâ quali servirono di modello e di eccitamento a Niccola, a Giovanni e ad Andrea, tre scultori pisani superiori a tutti i loro contemporanei, che possono dirsi i veri precursori di Donatello, del Ghiberti e del Buonarroti.
Per due porte sâapre lâingresso allâedifizio, una delle quali sopra lâarchitrave è terminata da una tabernacolo di marmo con sei statue lavorate da Giovanni Pisano; lâarchitetto della fabbrica. Questa opera però quantunque fossero stati gettati i fondamenti nel 1278 secondo un iscrizione interna, non sembra che restasse compita prima dellâanno 1464.
GiĂ ho detto di sopra che la Repubblica pisana fino al 1200 aveva ideato di edificare un camposanto urbano degno di ricevere la terra portata dal monte Calvario; ma la sua esecuzione restò per allora nel desiderio, comecchĂŠ si sappia essere stato cinque lustri innanzi il 1200 dal potestĂ di Pisa progettato agli Anziani del Comune lâerezione di un camposanto presso la Primaziale, al qual uopo egli proponeva di chiedere al capitolo ed allâarcivescovo una porzione di orto del palazzo arcivescovile per fabbricarvelo.
Rispetto a quello che ora si ammira presso la chiesa Primaziale, nulla di piĂš semplice e di piĂš austero poteva immaginarsi dellâesterna sua architettura, nulla di piĂš nobile e di maggiore armonia della interna sua struttura, costĂ dove si veggono riunite leggerezza, uniformitĂ , buon gusto e delicatezza di lavoro, tanto nel pavimento a disegno, come neâpilastri e nei finestroni, i quali ultimi, uno a contatto dellâaltro, sono adorni di colonnine a spirale sostenenti graziosi archetti di stile gotico italiano, e che girano intorno al claustro interno rettangolare.
Eccone le varie misure interne.
La sua lunghezza, braccia 217 La larghezza, braccia 72 Lâaltezza dal piano alla soffitta, braccia 24 Il giro totale, braccia 578 La larghezza deâcorridori, braccia 18 Imponente quanto bella e semplice è la gran tettoia a cavalletti che sorregge la lacunare difeso da lastre di piombo. Ma soprattutto mirabili sono le pitture dei vecchi maestri che da capo a fondo ricuoprono le interne pareti, massime dove lavorarono Giotto, Orgagna e Benozzo Gozzoli fiorentini, Spinello aretino, Simone Memmi e Pietro Laurati sanesi. Le quali pitture furono con giudizio artistico descritte dal Prof. Rosini in un opuscolo piĂš volte ristampato unitamente allâindicazione deâmonumenti di scultura che per cura del Prof. Carlo Lasinio, zelantissimo conservatore, adornano a guisa di unâinsigne galleria questo sacro edifizio.
Chiesa di S. Paolo a Ripa dâArno. â Fra le piĂš belle chiese antiche che figurano in Pisa dopo i quattro monumenti qui sopra descritti, viene immediatamente questa di S. Paolo a Ripa dâArno. ImperocchĂŠ la sua architettura tanto interna quanto esterna ci richiama al secolo XI. Infatti essa era giĂ uffiziata, e lâannesso monastero nel principio del secolo XII abitato dai monaci Vallombrosani, siccome lo dimostrava il Pontefice Pasquale II in una bolla del 9 febbrajo 1115 a favore della Congregazione di Vallombrosa; alla quale appartennero la chiesa di S. Paolo a Ripa dâArno ed il monastero con i molti suoi beni fino allâanno 1565.
Cotesta chiesa, vasta anzi che no, disposta in croce latina, è ripartita in tre navate con colonne di granito orientale e capitelli variati di marmo, su cui posano archi a sesto intero, mentre le pareti, state già ornate di antiche pitture da Buffalmacco, da Cimabue, da Simone Memmi e da altri venerati maestri, furono ricoperte e deturpate con piÚ pennellate di calcina da imbianchini.
Nellâinterna facciata dalla parte destra entrando esiste unâiscrizione onorevole che i pisani misero al sepolcro del celebre loro concittadino Burgundio, morto lĂŹ 30 ottobre del 1194 (stile pisano), mentre il sarcofago che racchiudeva le sue ossa è rimasto abbandonato fuori della porta di fianco di cotesta chiesa.
Ma il piĂš bel lavoro apparisce meglio che altrove nella facciata stata scompartita sino dalla sua origine in quattro ordini nella parte di mezzo e in due ordini nelle sue fiancate.
A ben considerare la varietĂ deâmembri architettonici ivi esistenti; la forma e varietĂ degli archi, alcuni deâ quali a sesto intero ed altri a sesto semi acuto; a contemplare la diversitĂ del disegno del lavoro, dove piĂš dove meno squisito, sia negli ornati, come nelle cornici, neâfogliami e neâcapitelli, a riguardare cotanta bizzarria e varietĂ neâbassorilievi; tutto induce a credere che mo lti e di vario merito siano stati gli artisti che in cotesta facciata contemporaneamente si adoperavano quando ancora le arti belle profondi sonni fuori di Pisa dormivano.
Chiesa della Spina. â Questa chiesina è un gioiello che fa graziosa mostra di sĂŠ appena si passeggia nei grandiosi Lungarni di Pisa, giacchĂŠ ti sembra di vedere quasi un modellino di un gran chiesone qualâè il duomo di Milano, per le tante gugliette, tabernacoli, statuine, ed altri minuti e squisiti lavori di marmo che da cima a fondo ornano lâesterna fabbrica e specialmente la sommitĂ della facciata e delle sue pareti laterali.
Un oratorio anche piĂš piccolo esisteva costĂŹ quando nel 1323 la stessa chiesina, per deliberazione degli Anziani di Pisa suoi patroni, fu ingrandita con estenderne i suoi fondamenti fino alle logge deâGualandi per una lunghezza di 18 pertiche. Allora essa chiesa appellavasi di S. Maria del Ponte nuovo, perchĂŠ ivi presso esisteva un ponte, portato via da una piena dellâArno nel secolo XIV avanzato.
Qualche tempo dopo caduto il Ponte nuovo la stessa chesina prese il titolo di S. Maria della Spina per esservi stato riposto un frammento della Corona di spine del SS.
Redentore.
Bisogna convenire col Morrona dicendo che questa chiesuola è il piÚ bel monumento che fino ai giorni nostri si conservi in Italia in simil genere di architettura, la quale ripetuta assai piÚ in grande si ammira nel magnifico duomo di Milano eretto dal duca Giovanni Galeazzo Visconti nel tempo che fu signore di Pisa, dove da gran tempo innanzi esistevano due bellissimi esemplari, come sono il Battistero e la chiesa della Spina.
Lascio la descrizione dettagliata di questâultima e di tante altre chiese meritevoli di essere contemplate in questa cittĂ , come quella di S. Niccola per lâarte con cui è costruita la scala di quel campanile, la chiesa di S.
Francesco per la sua forma svelta e lâarco arditissimo di 30 braccia di corda che si alza nellâinterna crociata, non che per lâalto suo campanile, la metĂ del quale posa sopra due mensoloni sporgendi in un angolo del cappellone a destra della chiesa medesima, per i due grandiosi ed uniformi loggiati dellâannesso claustro per essere qui i sepolcri delle famiglie piĂš cospicue di Pisa. CosĂŹ lascerò le chiese di S. Michele in Borgo, di S. Caterina, e tante altre del medio evo, perchĂŠ la loro descrizione non è da richiedersi in questâopera nĂŠ da me, tostochĂŠ ognuno che il voglia può esserne istruito dal viaggio pittorico della Toscana del Fontani, dalla Pisa illustrata del Morrona e dalla descrizione artistica di Pisa del Grassi, tutti libri raccomandabili a chi brama conoscere meglio le opere di arti e gli edifizi piĂš belle di questa insigne cittĂ .
Altri edifizi piĂš segnalati di Pisa . â Non si può lasciare questa cittĂ senza rammentare i suoi impareggiabili Lungarni, i tre ponti che li attraversano, alcuni palazzi che li fiancheggiano, il luogo dove fu lâarsenale delle galere, la cittadella vecchia ecc. Quindi aggiungere una parola sulle sontuose fabbriche che adornano la piazza deâCavalieri, sulle pubbliche fonti di Pisa che ricevono dai lunghi acquedotti di Asciano acque saluberrime per tutta la cittĂ .
Ponti di Pisa . â Un ponte solo, quello di mezzo, anticamente cavalcava lâArno dentro Pisa, che a similitudine del ponte vecchio di Firenze sosteneva ed era fiancheggiato da botteghe di proprietĂ del Comune. Si disse anche questo di Pisa Ponte vecchio dopo costruito il secondo ponte allâingresso orientale dellâArno; il qual ponte coincide allâepoca della vittoria riportata dai Ghibellini nei campi di Montaperto. Si vuole che del secondo ponte facesse gettare le pile il ricco Ugone da Fasiano arcivescovo di Nicosia, fondatore del priorato di Nicosia nella valle di Calci. Presso al ponte stesso fu piĂš tardi edificata dai Fiorentini la Cittadella nuova, stata atterrata sul declinare del millesettecento, dopo aver dato al ponte il nome che porta tuttora di Ponte alla fortezza .
A questo al pari che allâaltro ponte vecchio neâtempi della repubblica pisana presedeva un personaggio distinto della cittĂ , sotto il titolo di pontonario, il quale amministrava i beni e riscuoteva lâentrate assegnate in dote a ciascuno di quei ponti, siccome apparisce da varie provvisioni degli Anziani, e dagli statuti del Comune di Pisa dellâanno 1286.
ComecchĂŠ la Cittadella nuova di Pisa fosse compita da Giuliano di Sangallo che ne diresse i lavori fra il 1509 e 1512, essa peraltro era in costruzione molti anni prima, poichĂŠ la Signoria di Firenze con provvisione del dĂŹ 8 novembre 1465 ordinò agli uffiziali del Canale di spendere tutti i denari che riscuotevano di gabella nella riparazione della rocca vecchia e di quella nuova di Livorno, e nelle torri fatte nel Porto Pisano e in quella della foce dâArno; e di poi che dovessero far compiere la Cittadella nuova di Pisa con le sue torri in modo da poterla ben difendere e guardare.
Arroge a ciò unâaltra provvisione della Signoria del 16 febbrajo 1471 (stile fiorentino) colla quale fu nominato maestro Lorenzo figlio di maestro Domenico da Firenze in capo maestro della Cittadella nuova di Pisa per provvedere e assistere agli edifizj che ivi erano da farsi. â (GAYE, Carteggio inedito di Artisti. Volume I.
Appendice II).
Ma la notizia da non omettersi è che poco dopo costruito il Ponte nuovo della Spina venne a farsi a traverso dellâArno, e quasi nel centro della cittĂ un terzo ponte sotto la chiesa, che poi si disse della Spina; il quale pur esso fu appellato Ponte nuovo. Infatti negli statuti pisani del 1286 al Lib. IV rubrica undici si rammentano entrambi, cioè, il Ponte nuovo della Spina e lâaltro Ponte nuovo che sino dâallora esisteva dirimpetto alla Via maggiore di S. Maria, e lâaltra di S. Antonio nellâOltrarno.
A qual epoca poi si fabbricasse lâultimo ponte di Pisa, quello cioè fra la Cittadella vecchia e la Porta a mare, non potrei accertarlo, quando non corrispondesse al ponte che nel 1331 fu edificato sotto il capitanato del Conte Fazio della Gherardesca, mentre Arrigo Dandolo di Venezia esercitava lâuffizio di potestĂ di Pisa. Al che gioverebbero le parole del Vasari dove dice, che il Ponte a mare un secolo dopo la sua costruzione venne restaurato da Filippo di Brunellesco per ordine della Signoria di Firenze.
Forse fu in quella circostanza che i provveditori del Comune di Pisa pel Comune di Firenze con provvisione del 10 aprile 1408 deliberarono di comprare dalle monache di Tutti i Santi, venute dal subborgo di Pisa ad abitare nel monastero e chiesa di S. Vito, tutti i mattoni dellâantica loro chiesa, monastero e case che furono atterrate e distrutte in tempo dellâassedio, per servire quei mattoni alla fabbrica dei fortilizj della Cittadella che si edificava dentro Pisa. â (ARCH. FIOR. DIPL. Carte del Mon. di S. Lorenzo alla Rivolta).
Il Ponte vecchio o di mezzo , famoso per il giuoco denominato del Ponte, perchĂŠ sopra di esso eseguivasi ogni triennio una lotta che era piĂš guerra che un giuoco non solo è il piĂš antico ponte, ma ancora il piĂš largo di tutti. Esso riposa sopra tre soli archi, mentre quello superiore della Fortezza ne ha quattro e il Ponte a mare cinque. â Si vuole che il Ponte vecchio fosse eretto la prima volta nellâanno 1040, poi rifatto nel 1261 con botteghe di legno sopra, finchĂŠ quelle taberne nel 1382 vennero disfatte quando il ponte per ordine di Piero Gambacorti fu restaurato e abbellito. Ma nel 1635 essendo caduto in Arno, fu riedificato nel 1640 con inusitato ardire ad un solo arco, il quale rovinò appena fu liberato dallâarmatura (1 gennajo 1644). Finalmente il ponte attuale di marmo devesi alla munificenza del Granduca Ferdinando II che ne affidò lâesecuzione allâingegnere dellâUffizio deâFossi Francesco Nave.
E specialmente sul Ponte di mezzo dove chi passa resta sorpreso alla vista dei bellissimi Lungarni pisani, e piĂš ancora quando da cotesto ponte si contempla la triennale luminara di Pisa nella notte del 16 al 17 giugno. Fanno al medesimo un bel corredo, alla coscia meridionale, le grandiose Logge di Banchi, le quali stanno in mezzo allâantico palazzo deâGambacorti, ridotto ad uso di dogana, alla pubblica torre ed al palazzo del governo, stato con magnificenza riedificato sopra due antichi palazzi, municipale e pretorio, col disegno del valente architetto pisano Alessandro Gherardesca; mentre dirimpetto alla coscia settentrionale dello stesso ponte apresi la principale strada di Pisa, quella del Borgo con i suoi portici, e presentasi ad esso di fronte col palazzo del Casino la piazza piĂš animata di Pisa, la quale fino dal secolo XIII portava il nome del Ponte, dove anco allora si adunavano gli oziosi artigiani ed il minuto popolo, siccome lo dichiarano gli statuti del Comune di Pisa del 1286 al Lib. IV rubrica 30. De Salariis magistrorum etc.
in cui si legge: Et quando habent laborerium (gli artigiani) non debeant ire ad Pontem veterem.
Edifizj pubblici intorno alla piaza deâCavalieri. â Dopo la piazza del Duomo, dopo i Lungarni di Pisa, per bellezza e per magnificenza viene la piazza deâCavalieri, artisticamente e storicamente descritta dal Morrona e dal Grassi. Questâultimo autore non solo ha rappresentato in disegno la piazza moderna, ma ancora quella piĂš antica degli Anziani colla Torre della Fame , giĂ deâGualandi alle Sette vie, torre infausta perchĂŠ servĂŹ di carcere e di tomba al conte Ugolino di Donoratico, a due figli e a due nipoti.
Ă fama che la torre predetta esistesse accosto allâarco sotto cui passa la strada che guida al Duomo, attualmente disfatta ed incorporata nel palazzotto dellâorologio.
Dicevasi delle Sette vie, forse dal numero delle strade che facevano capo in questa piazza; giacchĂŠ può dirsi costĂ il centro della vecchia cittĂ di Pisa, lâantico suo foro, fra le fabbriche maggiori degli uffizi pubblici dovâera il palazzo degli Anziani. Questâultimo però al tempo del conte Ugolino apparteneva alla casa di Oddone del Pace e consorti, tostochè piĂš dâun istrumento dellâarchivio Arcivescovile pisano dellâanno 1280 fu rogato in Pisa in domo Oddonis Pacis et consortum, in qua morantur Antiani populi pisani. Quindi non saprei spiegare come Vasari potĂŠ attribuire lâarchitettura del palazzo degli Anziani a Niccola Pisano, tosto che questâartista morĂŹ nel 1275. Comunque sia è certo, che Vasari fu lâautore del palazzo Conventuale deâCavalieri di S. Stefano, rifatto su quello degli Anziani, o di Oddone del Pace. Da cotesta residenza però era alquanto discosto il palazzo del PotestĂ , quello dove furono presi nel dĂŹ primo luglio del 1288 i cinque infelici individui di casa Gherardesca, poichĂŠ il palazzo pretorio trovavasi nella piazza di S.
Ambrogio; la qual chiesa serve attualmente per officina di falegname nella piazzetta del Castelletto precisamente dove è attualmente il Monte di PietĂ , mentre il palazzo degli Anziani, ossia del Comune di Pisa era nella piazza di S. Sebastiano delle fabbriche maggiori, nel luogo della qual chiesa fu fondata per ordine di Cosimo I quella conventuale deâCavalieri di S. Stefano papa e martire.
Rispetto ai pregi di questâultimo tempio, ed alle artistiche sue raritĂ ne parlarono a lungo il Vasari, il Baldinucci e piĂš di corto i due autori pisani testĂŠ nominati, cui si deve ancora al descrizione speciale degli altri edifizi destinati al servizio di quellâordine cavalleresco, che mostrano la grandezza dellâoggetto e la magnificenza di chi li ordinò.
Palazzo deâGranduchi, ed altri edificj pubblici di Ferdinando I. â Se Cosimo I fissò in Pisa la sede dellâordine militare deâCavalieri di S. Stefano collâinnalzare nella piazza di questo nome superbi palazzi e una chiesa sontuosa, il di lui figlio e successore, Ferdinando I, non solo incoraggiò il commercio deâPisani ristabilendo fiere e mercati, ma abbellĂŹ la cittĂ di sontuosi edifizj e di monumenti insigni. Citerò fra questi il grandioso collegio che tuttora mantiene il suo nome, i varj palazzi e la chiesa che fece terminare nella piazza deâCavalieri, la Loggia di Banchi o deâMercanti ed il palazzo granducale. Per ordine di Ferdinando I fu aperto il fosso deâNavicelli fra Pisa e Livorno, furono incominciati gli acquedotti che portano alla cittĂ salubri acque dalle sorgenti di Asciano, talchĂŠ i Pisani riconoscenti innalzarono a Ferdinando I un monumento sulla ripa destra dellâArno dirimpetto allo sbocco di via S. Maria, consistente in un gruppo di marmo rappresentante la cittĂ medesime sotto lâallegoria della feconditĂ nellâatto di essere sollevata dal Granduca suo benefattore. â Mossi da un simile scopo i Pisani moderni hanno provocato un appello agli uomini sensibili toscani ed Europei, i quali devoti e riconoscenti corsero per contribuire volenterosi alla spesa di una statua colossale di marmo da scolpirsi dallâabile artista Pampaloni e quindi innalzarsi, come è accaduto nel 1833, in una delle piĂš grandi piazze di Pisa col semplice, nobile e veridico titolo, come è questo: AL GRANDUCA PIETRO LEOPOLDO I QUARANTâANNI DOPO LA SUA MORTE.
Sebbene debbasi a Cosimo I lâidea ed il principio dellâarsenale Mediceo eseguito col disegno del Bontalenti nel Lungarno settentrionale pure un grande arsenale ivi esisteva fino dai tempi presso la chiesa di S. Vito, e quello che ora si vede fu terminato dal Granduca Ferdinando I, nellâanno 1588, primo del suo governo. Sopra sei o sette pilastri che sorreggono le arcate, in origine aperte, si leggono tuttora le memorie di alcuni fatti gloriosi spettanti ai Cavalieri di S. Stefano.
Dissi questâarsenale fabbricato nel luogo dove fu quello piĂš antico per lo stesso uso dai Pisani chiamato Tersana, mentre Targioni al Tomo II deâ suoi Viaggi pag. 53, fra i ricordi da lui trovati in un codice a Pisa lesse il seguente: Al 29 maggio 1541, Cosimo I diede ordine di assettare le Tersonaje (Tersana) a S. Vito dicendosi di voler fare le galere, e nel 1548 fu messa in mare la prima galera.
Infatti negli statuti deâ consoli della Repubblica Pisana del 1162 trattasi del sindacato da darsi ai consoli vecchi, ai camarlinghi, ai vigili del Comune, agli operai e maestri deâmuri, al custode della guardia di S. Vito, ed ai consoli del mare, i quali ultimi a quel tempo erano obbligati di far costruire ognâanno venti galere.
A questa Tersana (arsenale delle galere di Pisa) appella una provvisione deâSignori di Firenze del dĂŹ 8 novembre 1465 che ordinava agli uffiziali del Canale di far acconciare la cittadella vecchia di Pisa e le sue torri ad uso di Arsana o arsenale, soggiungendo ivi: e questo debbano aver fatto dentro lâanno 1467.
I quali lavori non essendo rimasti compiti al termine prescritto, con altra provvisione del 30 settembre 1468 fu ordinato, di dar compimento allâArsana di Pisa affinchĂŠ in essa si conservino le galere. Dalla qual provvisione si rileva che erano stati fatti nove archi dellâArsenale per mettervi al coperto altrettante galere, oltre dieci legni sottili giĂ terminati, mentre il lavoro di altre quattro galere era molto avanzato; le quali cose fu decretato che restassero compite dentro il mese di luglio 1469. â (GAYE, Carteggio inedito di Artisti Tomo I Appendice II).
Fra le opere di architettura non deve passarsi sotto silenzio la gran fabbrica del Sostegno innalzata presso la coscia sinistra del Ponte a Mare, lĂ dove entrano i navicelli nel fosso artificiale per trasportare le merci a Livorno e viceversa, opera ordinata dal Granduca Pietro Leopoldo insieme con la ricostruzione della tettoja affinchĂŠ le barche vi stassero al coperto.
Ma innanzi di escire dai Lungarni di Pisa, fra i palazzi che lâadornano, e che specialmente richiamano la curiositĂ del viaggiatore, non va lasciato il palazzo Medici presso S.
Matteo, ora del conte Pieracchi, prima abitazione di Cosimo I, dove gli storici dicono che accadesse la morte di don Garzia per mano dello stesso suo padre e dove alloggiò Carlo VIII re di Francia. NĂŠ debbono tacersi per merito architettonico il palazzo Lanfranchi, ora Toscanelli, e quello delle stanze Civiche al caffè dellâUssero per gusto di stile del secolo XV. Contasi pure fra le curiositĂ il palazzo di marmo deâLanfreducci, ora Upezzinghi, fatto colla direzione di Cosimo Pagliani, dove sopra lâarco della porta maggiore havvi un pezzo di catena, e nellâarchitrave scolpita a lettere cubitali la parola ÂŤALLA GIORNATAÂť. Rispetto alla catena è noto solamente che nel palazzo suddetto fu incorporata la chiesa di S. Biagio alle Catene di padronato della famiglia Lanfreducci. In quanto poi al motto ALLA GIORNATA non vi è tradizione nĂŠ memoria alcuna che ne indichi la ragione.
Non lascerò di accennare il grandioso palazzo arcivescovile riedificato di pianta presso lâantico episcopio sulla fine del secolo XVI dallâarcivescovo Carlo Antonio del Pozzo, accresciuto e decorato due secoli dopo dallâarcivescovo Angelo Franceschi, e sontuosamente addobbato dallâattuale arcivescovo Giovanni Battista Parretti. Mi limiterò soltanto a dire che nelle stanze terrene del suo grandioso cortile, circondato di un loggiato sorretto da colonne di marmo di Carrara, esiste il ricco archivio arcivescovile fornito di quasi 3000 pergamene, a partire dallâanno 720 fino al secolo XV avanzato, tutte cronologicamente disposte e copiate in varj volumi, con piĂš una riunione di molte altre membrane appartenute al monastero di S. Matteo di Pisa, e a piĂš conventi dâaltri paesi della Toscana.
ISTITUTI DI BENEFICENZA Pia Casa della Misericordia. â Pisa anche in genere di provvedimenti caritatevoli precedĂŠ le piĂš illustri cittĂ , se è vero che lâistituzione di cotesta pia Casa risalga allâanno 1053, comecchè non basti a provarlo una copia non molto antica dellâistrumento di sua fondazione, che ivi si tiene in mostra, e che attribuisce la prima fondazione e dotazione della stessa Casa a 12 generosi pisani stati eletti tre per ogni quartiere, segnati coi casati della famiglie, quando la cittĂ era ripartita per Porte, e quando non si era ancora introdotto lâuso deâcasati.
ChecchĂŠ sia, giova senza fallo cotestâistituto per far conoscere lâindole pia e caritatevole dei suoi fondatori e lo scopo generoso col quale in origine fu eretto, cioè, pel riscatto degli schiavi e per sovvenire le famiglie vergognose. Ma in progresso di tempo il suo patrimonio essendo stato accresciuto per generositĂ di nobili pisani, e specialmente per la vistosa donazione fatta nel 1341 dal conte Bonifazio della Gherardesca, la pia Casa della Misericordia potĂŠ estendere le sue beneficenze sopra molte altre opere misericordiose, fra le quali quella che tuttora si pratica di dotare proporzionatamente alla nascita e al destino non poche fanciulle spettanti a povere famiglie nobili o cittadine. â Vedere CASTELNUOVO DELLA MISERICORDIA.
A benefizio pure dei poveri da tre altri generosi cittadini pisani nel secolo XVII furono lasciati considerevoli legati sotto i nomi deâloro fondatori, Mezzanotte, Casiani, e Fancelli , coi frutti deâquali fra le altre cose si dotano ognâanno circa 80 oneste fanciulle.
Spedale di S. Chiara, giĂ della Misericordia di S. Spirito.
â Molti erano in Pis a ma tutti piccoli gli ospedali annessi a varie chiese innanzi che il Pontefice Alessandro IV nel 1257 accordasse ai Pisani lâassoluzione delle censure a condizione che fondassero un vasto ospedale da doversi terminare nel corso di cinque anni con la spesa di diecimila lire. DondechĂŠ appena eseguita cotesta fabbrica, le si diede il nome di Spedale nuovo di Papa Alessandro, poi della Misericordia di S. Spirito , ed ora dalla sua chiesa, di S. Chiara .
Vi vollero però circa 80 anni innanzi che lo spedale in dis corso restasse ultimato. In seguito il suo patrimonio fu accresciuto da legati pii e dalle rendite di minori spedali riuniti, nonchĂŠ dai beni di molte chiese e monasteri soppressi. Sul declinare del secolo XVIII furono sottoposti a quello di S. Chiara lo spedale deâ Trovatelli e lâannessa casa di Refugio deâpoveri. Ed ora per munificenza del Granduca LEOPOLDO II felicemente regnante, non solo ne è stata aumentata la dote, ma fu ampliata lâinfermeria degli uomini, edificata una nuova per le donne, e costruito un comodo teatro anatomico con annesso gabinetto fisico patologico.
Rispetto allo spedale deglâInnocenti, ossia deâTrovatelli, due ne esistevano in Pisa, uno sotto il titolo di S.
Domenico fondato nel 1218 nella via di S. Lorenzo alla Rivolta, lâaltro intitolato a S. Spirito nel quartiere di Chinsica, cui venne incorporato il primo per decreto arcivescovile del 26 settembre 1323 (stile pisano), finchĂŠ nel 1421 questâultimo fu traslocato vicino alla piazza del Duomo, presso la chiesa di S. Giorgio di Ponte o deâTedeschi, dove tuttora risiede.
La casa poi di Refugio per i poveri fu instituita ed aperta per cura del Granduca Pietro Leopoldo in origine nel soppresso monastero delle Convertite, quindi trasportata nel locale annesso allo spedale dei Trovatelli.
Non debbo omettere fra i pii stabilimenti di caritĂ due Orfanotrofi, uno pei maschi e lâaltro destinato alle femmine, col nome di pia Casa di CaritĂ , i quali furono fondati nel 1686, e sono mantenuti da una generosa societĂ di cittadini. Rammenterò anche la compagnia della Misericordia modellata in gran parte su quella caritatevolissima di Firenze. Accennerò il Monte di PietĂ fondato nel 1434 nel locale dove fu il palazzo pretorio della repubblica pisana, in luogo ora denominato il Castelletto. â A questi stabilimenti di pubblica beneficenza si collega una scuola infantile per i poverelli, la quale fu la prima di tutte che si eresse di simil genere in Toscana, cui si potrebbe aggiungere una scuola di reciproco insegnamento ed un istituto pei sordo muti fondato dal Granduca Ferdinando III nel 1817, aumentato e migliorato dallâAugusto suo figlio regnante LEOPOLDO II. Ma cotesti due ultimi istituti si collegano cotanto strettamente con quelli dâistruzione pubblica da doverli piuttosto ammettere nella serie seguente.
Stabilimenti dâistruzione pubblica â Pisa anche in questo rapporto potrebbe essere lâAtene della Toscana, quante volte si considerino le dovizie che racchiudonsi neâsuoi archivj pubblici, come quello arcivescovile, del capitolo, dellâopera del Duomo, dello spedale, della pia casa di Misericordia, oltre gli archivj di molte famiglie cospicue di Pisa, fra i quali doviziosissimo è quello del Cavaliere Roncioni; e quante volte si contemplino i molti vetusti monumenti di belle arti che costĂ in maggior nume ro che altrove si ritrovano; infine quando uno riflette ai comodi che presta Pisa agli studiosi con la sua universitĂ per il merito deâprofessori, per lâabbondanza di libri, di macchine e di esemplari esistenti nella pubblica biblioteca, nellâanfiteatro fisico, nel museo di storia naturale e nellâorto botanico.
Ammesso che Pisa sino dal secolo XII avesse un pubblico liceo, specialmente per le scuole di diritto umano e divino, ciò non ostante la prima instituzione, piuttosto che la restaurazione della sua universitĂ , devesi al conte Bonifazio Novello della Gherardesca nel tempo che reggeva Pisa (dallâanno 1329 al 1341). ImperocchĂŠ ad intuito di lui furono invitati al nuovo ginnasio i professori piĂš distinti di quel tempo; e fu allora che il concorso di studenti da varie parti di Europa accrebbe gente e celebritĂ alla cittĂ di Pisa, a favore della quale il Pontefice Clemente VI spedĂŹ una bolla nel 1345 che approvava e privilegiava cotesto santuario delle scienze. â Ma il ginnasio pisano, oltrechĂŠ mancava di un locale capace a riunire insieme un maggior numero di scuole, per la fortuna deâtempi andò talmente decadendo, dopo la dedizione di Pisa a Firenze, che i reggitori di questâultima cittĂ si determinarono di restituire alla prima la sua universitĂ . A tale effetto fu creata una deputazione di quattro distinti fiorentini, uno per quartiere, presieduti da Lorenzo deâ Medici, sotto il titolo di uffiziali dello studio fiorentino e pisano, incaricati specialmente di riattivare con decoro lâuniversitĂ di Pisa. A favore della quale i deputati a ciò nominati nel 1478 riformarono gli statuti dellâantico ginnasio, aumentarono i salari ai professori, chiamando a Pisa i piĂš famigerati dottori di quella etĂ ; finalmente diedero principio allâedifizio della Sapienza (anno 1493) stato poi nel 1543 grandiosamente da Cosimo I deâ Medici ampliato di comodi, di cattedre, e di onorari.
Fu poi sotto i fausti auspici di Leopoldo II che videsi innalzato nel centro del suo cortile il simulacro di marmo del divino Galileo nel giorno medesimo (1 ottobre 1839) che si apriva nella Sapienza pisana il primo congresso degli scienziati in Italia, grazie alla Sapienza e magnanimitĂ di tanto Principe.
Nulla dirò del Collegio Ferdinando istituito nel 1595 dal primo Granduca di quel nome per raccogliervi 40 studenti pensionati da varie cittĂ e terre della Toscana; nĂŠ tampoco parlerò degli altri due collegj Puteano e Ricci, fondati da due arcivescovi, il primo per mantenere otto alunni del Piemonte, lâaltro per altrettanti giovani di Montepulciano che venissero eletti per recarsi a studio in Pisa. â NĂŠ tampoco farò menzione di unâaccademia poetica sotto il titolo di Colonia Alfea, figlia dellâArcadia di Roma, giacchĂŠ la mania deâversi ha ceduto il posto alla mania del romanticismo.
Accademia di belle arti. â Era troppo giusto che una cittĂ come Pisa stata sede primigenia delle Belle arti, alla nostra etĂ avesse uno studio pubblico di disegno. Che sebbene questo nei secoli trapassati mancasse ai Pisani, sebbene lâattuale nato con modesti principj conti pochi anni di vita, pure lâaccademia delle Belle arti di Pisa progredisce tanto bene da correre giĂ in seconda linea con i primarj istituti di simil genere che da lungo tempo contano varie cittĂ cospicue dellâItalia.
Industrie manifatturiere della cittĂ di Pisa. â I Pisani sotto il felice governo dellâAugusto che regge i destini della Toscana hanno progredito talmente sotto il rapporto degli stabilimenti manifatturieri, che dal 1828 fino al 1841 sono state erette undici fabbriche di tessuti di cotone, lana e seta dove si trovano 348 telaj che lavorano quotidianamente e producono braccia 9.599.000 di drappi di varia qualitĂ , senza dire che una grandiosa stamperia dâindiane allâuso di Svizzera eretta nel 1827 ai Bagni di Pisa stampa da circa 10.000 pezze lâanno; che una manifattura di berretti e una filanda di lana messa in attivitĂ nel 1828 a Calci produce circa libbre 80.000 di lavoro; che due fabbriche di Terraglie esistono nel subborgo di Porta alle Piagge, e che una sega a macchina fu eretta nel 1831 dentro Pisa. Solamente giova avvisare che cotesti stabilimenti opificiarj danno lavoro ad un migliajo di persone deâdue sessi, e che mettono in giro nel commercio qualche milione di lire per anno.
CERCHI DIVERSI DELLA CITTAâ DI PISA Il giro piĂš antico di questa cittĂ può dirsi perduto nei monumenti storici, giacchĂŠ quello esistito intorno al mille, prima cioè che si racchiudesse in cittĂ il quartiere di Oltrarno, ossia di Chinsica, non sembra corrispondere alla situazione geografica dellâAntioca Alfea, nĂŠ alle memorie superstiti del secolo undecimo, le quali rammentano due luoghi della cittĂ vecchia allora fuori delle mura del secondo cerchio di Pisa.
Fino dalla prima pagina dellâarticolo presente dissi, che, se la posizione geografica di Pisa è appena variata da quella deâtempi vetusti, essa è molto diversa oggidĂŹ rispetto alla corografia del suolo sul quale riposa.
AvvegnachĂŠ la situazione attuale di questa cittĂ non corrisponde a quella descrittaci da Strabone e da Rutilio Namaziano, quando cioè, lâArno dalla parte meridionale, e lâAuxer (il Serchio, o piuttosto lâOseri) dalla parte settentrionale lambivano le mura innanzi che essi confluissero in un solo letto. Quindi ne conseguiva che Pisa essendo stata fiancheggiata, e quasi circondata da due fiumi, presentare doveva la sua fronte difesa dal lato di ponente e di settentrione onde resistere alle frequenti aggressioni deâLiguri, dai quali, per asserto degli storici antichi, i Pisani erano inquietati. Che nei tempi del romano impero la cittĂ medesima fosse situata piĂš verso settentrione e levante, e tutta alla destra dellâArno, lo dichiarano gli avanzi degli edifizi antichi, ed i nomi restati ai luoghi dove furono lâanfiteatro (Parlascio) leTerme ecc., e piĂš di tutto lo dimostrano due istrumenti pisani scritti nellâ11 marzo del 1029, e nel 14 agosto del 1031, nei quali sono rammentati due luoghi, allora rimasti fuori di Pisa, uno deâquali presso la chiesa di S. Lorenzo alla Rivolta, ora piazza di S. Caterina, e lâaltro neâcontorni della chiesa di S. Zeno, che si dicevano posti in quellâetĂ nella cittĂ vecchia. â (ARCH. DIPL. FIOR. Carte di S.
Michele in Borgo).
Io non saprei qual fede possa meritare una certa pianta della cittĂ di Pisa conforme era nellâanno 853, pubblicata dal Del Borgo nelle sue dissertazioni pisane, e delineata da un maestro Bonanno pisano. PoichĂŠ, se lâautore di quella pianta fu, come si suppone, quel Bonanno architetto che fondò nel 1174 il campanile pendente, lo chĂŠ vorrebbe dire disegnata quattro buoni secoli dopo, come si poteva riconoscere dopo sĂŹ lungo lasso di tempo lâandamento di quelle mura? e se fu disegnata intorno allâanno 853, o lĂŹ presso, perchĂŠ mettervi tante chiese di Pisa che nellâ853 non esistevano? come poi potevano scriversi tutti quei nomi in volgare, fra i quali il Gitto dâArno, il Circo navale, il Templo e le Therme di Hadriano, ecc., in unâetĂ in cui cotesta lingua nostra non era ancora in uso? ChecchĂŠ ne sia, è certo però che la cittĂ di Pisa, prima del mille non solo era di una piĂš ristretta periferia, ma aveva cambiato alquanto di direzione.
Lo dice la chiesa di S.Andrea Foris portae, e lo attestano tutte le carte del monastero di S. Michele in Borgo che dal millecentocinquanta collocano la stessa chiesa e monastero fuori di Pisa presso Porta Samuele; siccome erano fuori di Pisa nel secolo XI le chiese, e monasteri di S. Matteo e di S. Silvestro al pari dellâaltra di S. Pietro in Vinculis.
Che se anche qui non prendo abbaglio, a me non sembra tampoco persuadente lâantico cerchio della cittĂ di Pisa descritto nella storia inedita del canonico Roncioni, secondo il quale la Pisa romana sarebbe stata in mezzo ad un triangolo sĂŹ ma rovesciato, con la sua punta cioè volta a settentrione e la base sulla sponda destra dellâArno.
A seconda del Roncioni, le mura di Pisa passavano dal lato settentrionale fra la porta del Ponte dâOseri e quella al Parlascio, creduta lâantica Porta Latina. Allâincontro dalla parte di levante le mura urbane, a parere di quel canonico, incamminavansi dietro la chiesa di S. Caterina per comprendere nella cit tĂ il luogo della Rivolta, e di lĂ sino allâArno, lungo il quale trovavasi la cosĂŹ detta Porta Aurea, nome rimasto poi ad una vicina chiesa (di S.
Salvatore). Presso alla via maggiore di S. Maria le mura pisane voltavano la fronte a maestro per dirigersi alla porta del Ponte dâOseri onde compire il giro della cittĂ .
Ma se lâArno dentro Pisa non ha mai variato di letto, se il Serchio non deve, come io dubito, credersi lâAuser di Plinio e di Rutilio, nĂŠ lâEsar di Strabone, ma piuttosto una sua diramazione letteralmente tradotta dai Pisani in Oseri, allora cambia affatto la scena.
AvvegnachĂŠ mentre mancano documenti per assicurarci che il Serchio siasi vuotato tutto nellâArno davanti a Pisa, troppe memorie ci restano dei secoli posteriori al mille, dalle quali chiaramente si rileva che il fiume Oseri, staccato dal Serchio di quĂ dalla gola di Ripafratta, dirigevasi in Arno sopra, sotto ed anco dentro Pisa, innanzi di avviarsi direttamente in mare. â Vedere appresso COMUNITAâ DI PISA.
Per ciò che spetta allâantica configurazione di cotesta cittĂ , partendo dal fatto incontrastabile della sua posizione, qual era quella d trovarsi fra lâArno e lâAuser, mi sembra fuor di dubbio che il suo caseggiato dovesse largheggiare a proporzione che i due fiumi si discostavano dallâangolo dove confluivano. Lo che resta quasi confermato dagli avanzi superstiti di Pisa romana, a partire dal vestibulo di un tempio pagano appoggiato alle mura della profanata chiesa cattolica di S. Felice; lo dicono le terme, lâanfiteatro, il distrutto circo e palazzo dei Cesari verso il Duomo, le colonne di marmi orientali, i capitelli, le iscrizioni, i sarcofagi numerosi stati dissepolti dentro Pisa per lo piĂš alla destra dellâArno e a qualche distanza dallo stesso fiume. SicchĂŠ bramando tentare degli scavi di un interesse archeologico in cotesto suolo classico, di molte braccia rialzato dal terreno di trasporto, converrebbe meglio intraprenderli dalla parte settentrionale di Pisa, fra la porta murata di S. Zeno e lâaltra pur chiusa del Leone dietro il Duomo, qualora le acque dâinfiltrazione non ne accrescessero le difficoltĂ .
Rispetto poi al secondo cerchio di Pisa, come fu quello intorno al mille, giova avvertire, che allora la cittĂ in discorso repartivasi non per Quartieri, ma per Porte, dal Ponte che fu sullâOseri, e questo abbracciava una parte della cittĂ coi subborghi occidentali e settentrionali; mentre i subborghi orientali ed una minor porzione della cittĂ verso levante appartenevano al Terziere che si disse di Forisportae, stato piĂš tardi rinchiuso nel terzo cerchio, siccome lo fu il Treziere di Chinsica che comprendeva i borghi di Oltrarno rimasti rinchiusi nellâultimo cerchio della cittĂ .
Che dalla parte orientale del borgo di S. Michele al secolo XI fosse fuori di Pisa, oltre le carte di quella badia, lo prova un istrumento del 25 giugno 1051 (stile pisano) pubblicato dal Muratori, il quale fu rogato fuori della cittĂ di Pisa nel Borgo presso la chiesa di S. Felice.
Dalla parte meridionale le mura passavano presso la Porta Aurea dopo che lo stesso fiume aveva rasentato la chiesa e Monastero di S. Matteo. In quanto al giro dirimpetto a maestro dove correva un ramo del Serchio (Auxer), sembra che le mura del secondo cerchio lasciassero fuori la chiesa di S. Niccola, dove fu poi aperta la Porta a Mare. Lo che giova a dimostrarlo non solo il documento del 1103 citato aglâArticoli OSERI e PIOMBINO, ma un altro del 26 settembre 1147 (stile pisano) scritto in Pisa in Porta maris, presso la chiesa di S. Niccola, mentre diverse membrane della Certosa di Calci del 1051, 1061 e 1112 rammentano la chiesa di S. Vito situata allora nel borgo di Porta a Mare. â (Carte della Certosa di Calci).
SicchĂŠ intorno al mille, vale a dire, allâepoca del secondo cerchio si doveva entrare in Pisa per quattro porte principali: la 1.a dalla parte di settentrione per Porta del Ponte; la 2.a verso levante per la Porta Samuele; la 3.a dirimpetto a ostro per la Porta Aurea; e la 4.a verso ponente per la Porta a Mare.
Tale a un dipresso esser doveva il secondo giro delle mura di Pisa, quando i di lei abitanti erano saliti a tanta gloria da innalzare e compire nel breve corso di 56 anni due portentose chiese, il Duomo e S. Paolo in Ripa dâArno, e ciò poco innanzi che si gettassero i fondamenti di un magnifico battistero contemporaneamente ad un piĂš vasto giro di mura urbane.
Di questâultimo cerchio e dellâepoca approssimativa in cui fu incominciato ne abbiamo una dimostrazione sicura negli statuti deâconsoli del Comune di Pisa pubblicati nel dĂŹ primo gennajo del 1162, dai quali si rileva, che sino dâallora si edificavano i muri anche dalla parte di Oltrarno, o di Chinsica, per rinchiudere quel quartiere in cittĂ .
Da quelli statuti si scuopre altresĂŹ il modo allora praticato per il censimento deâbeni ed il movimento della popolazione di Pisa da doverlo rifare (almeno per la popolazione) ogni anno.
Frattanto uniformandomi io al maggior numero degli scrittori pisani, che segnano al 1152 il cominciamento del terzo giro delle sue mura sotto il consolato, o piuttosto sotto la presidenza del console Cocco Griffi, dirò, come, a partire dalla sponda destra dellâArno, dalla parte occidentale presso la Cittadella vecchia, le mura urbane dirigevansi alla Porta Degazia (della Dogana) attualmente chiusa, dalla quale si sbarcava in Arno e si andava al mare lungo la ripa destra del fiume. â Dalla Porta Degaziale mura, giunte alla torre dellâangolo, voltavano faccia da ostro a ponente sino passata la Porta al Leone, nel qual tragitto esistevano, e tuttora si veggono sei postierle tutte chiuse, siccome fu murata quella del Leone, dopo che il governo Mediceo fece aprire lâaltra sua vicina col nome di Porta Nuova, o di S. Maria.
Passata la Porta al Leone le mura voltando la fronte da ponente a settentrione dirigevansi alla Porta S. Zeno, ed in questo lato esistevano due porte appellate Porta del Ponte, e Porta al Parlascio , oltre due postierle, attualmente chiuse; in luogo delle quali lo stesso governo Mediceo fece aprire la Porta a Lucca.
Dal lato poi orientale le mura continuano fino allâArno avendo in cotesta linea, non solo la Porta S. Zeno, ma la Porta della Pace, talvolta appellata di S. Francesco dalla chiesa e convento costruiti lĂŹ dâappresso dal principio del secolo XIII, e la Porta Calcesana , pur essa murata, oltre quella alle Piagge, lâunica che resti aperta.
Dalla parte poi dâOltrarno, ossia nel quartiere di Chinsica, stando al cronista pisano Michele da Vico (MURAT. In Script. R. Ital. T.VI.) il principio delle mura a barbacani dovrebbe portarsi allâanno 1158, sebbene la prima porta di S. Martino in Chinsica, ossia di S. Marco, non si edificasse che un secolo dopo, cioè nellâanno 1253, mentre era potestĂ di Pisa Bonaccorso da Padule. Un tal vero è confermato dallâiscrizione che restò murata con la stessa porta dentro la Cittadella nuova, quando nel 1512 fu aperta la porta attuale di S. Marco alquanto piĂš discosta dallâArno col disegno di Giuliano da Sangallo. â Di costĂ le mura voltando ad angolo quasi retto da levante a ostro giungevano al bastione di Stampace davanti al fosso o canale deâNavicelli, lasciando chiuse in questo tragitto due antiche porte, dirimpetto alle vie di S. Antonio, e di S.
Egidio, o del Carmine. â Al bastione di Stampace, noto per lâassedio del 1509, voltando faccia da ostro a ponente le mura arrivavano sino alla ripa sinistra dellâArno, presso la quale era la porta di Ripa dâArno, chiamata piĂš tardi la Porta a Mare.
Tale era frattanto il cerchio terzo della cittĂ di Pisa, corrispondente al giro attuale, stato da me percorso dentro e fuori delle mura, costantemente accompagnato dal signor Rodolfo Castinelli ingegnere ispettore del Compartimento di Pisa. Il quale cerchio di figura quadrilatera percorre 4 miglia e quasi due terzi, compreso lâalveo dellâArno sotto e sopra la cittĂ . Vi si entra per sole cinque porte, di 20 che erano, tre delle quali alla destra, e due alla sinistra del fiume predetto; cioè, dal lato destro la Porta Nuova, o di S. Maria, presso la Porta al Leone dirimpetto al Duomo , la Porta a Lucca, accosto alla soppressa Porta al Parlascio e la Porta alle Piagge. Le due dellâOltrarno sono, la Porta S. Marco, ossia Fiorentina, e la Porta a Mare, oltre lâaccesso al Fosso deâNavicelli.
Peraltro che a questo terzo cerchio fosse dato principio molto prima dellâanno 1153 lo assicurano varj strumenti autentici degli archivi pisani, uno dei quali dellâanno 1140 (5 ottobre) dichiara la via maggiore di S. Maria situata dentro Pisa, per lasciare molti altri documenti della badia di S. Michele in Borgo, la quale verso la metĂ del secolo XII non era piĂš fuori di cittĂ . â (ANNAL. CAMALD.
Tomo II. e III.) Che se il terzo cerchio di Pisa fu incominciato prima del 1152, non ne consegue peraltro che restasse terminato nello stesso secolo XII, mentre nel Breve del conte Ugolino del 1286 al Libro IV nella rubrica 4. trattasi di compire i muri della cittĂ dalla parte di Chinsica e di restaurare la porzione giĂ terminata. CosĂŹ alla rubrica 9.
Dello stesso libro si fa parola di uno spazio libero da lasciarsi dentro e fuori delle mura nel quartiere di Chinsica e di contrassegnarlo con termini di pietra per distinguere il confine dal pomerio o carbonaja della cittĂ .
NĂŠ tampoco è da tacersi qualmente le mura dalla parte orientale e settentrionale di Pisa furono, se non costruite tutte di pianta, al certo continuate ad alzarsi di pietra concia del Monte Pisano, di una grossezza di quattro braccia a un circa. Le quali mura edificavansi nel secolo XIV con nuove porte e munivansi di merli a feritoja, e non biforcati che solevano distinguere la parte ghibellina, ma a guisa deâGuelfi, con fossi e bastioni per cura deâcapitani di Pisa, il conte Gaddo da Donoratico, ed il conte Ranieri suo nipote.
Di una torre innalzata per difesa della stessa cittĂ fra la Porta a Lucca e la Porta al Parlascio fa menzione una lapide stata ivi murata, che la dice: fatta lâanno 1321 del mese dâaprile al tempo del magnifico e potente signor Gherardo conte di Donoratico capitano generale del Comune e popolo pisano, essendo capo maestro Jacopo di Ridolfo, ed operajo Bindo del Bagno.
Spettano al conte Ranieri, nel tempo che era capitano generale di Pisa, dei lavori anco piĂš estesi, tanto rispetto alle porte come alle mura state edificate nella parte settentrionale ed orientale della stessa cittĂ .
A reminescenza delle quali opere citerò unâiscrizione stata murata accosto alla Porta al Leone, dove sotto lâarme gentilizia della famiglia Gherardesca si legge: Anno 1342. â Tempore magnifici et potentis viri Domini Ranerii Novelli hoc opus factum fuit.
Rispetto allâepoca delle mura orientali lo dimostra una deliberazione del primo luglio 1346, con la quale gli Anziani dichiararono il medesimo conte Ranieri padrone deâmuri e fortificazioni della cittĂ di Pisa, a partire dalla Porta al Parlascio fino alla porta Calcesana, per la ragione châegli aveva somministrato diecimila fiorini dâoro per innalzarle.
Anco una carta dello spedale di S. Chiara di Pisa del primo marzo 1330 rammenta un operajo della fabbrica deâ muri della cittĂ in messer Giovanni di Filippo Bucci. Il qual Bucci nel 1346 fece un pagamento a Cecco di Lemmo capomaestro deâ muri stati fatti dâordine dal potente uomo Ranieri Novello conte di Donoratico, capitano generale di Pisa e onorabile capitano di Lucca. â (ARCH. DELLO SPEDALE DI S. CHIARA DI PISA).
In quanto a strade urbane, questa cittĂ attualmente conta molte vie ampie e quasi tutte lastricate di pietra serena, mentre quelle antiche che scuopronsi fondando nuove case, erano coperte di mattoni per costa, senza dire delle strade che con largo marciapiede adornano i suoi inimitabili Lungarni.
NĂŠ qui si deve omettere una pratica di civiltĂ usata in Pisa sino dal secolo XIII, rinnovata per tutta Italia nel secolo in cui viviamo; intendo dire dellâuso da lungo tempo abbandonato dellâilluminazione notturna delle strade.
Basta leggere la rubrica 1. del libro IV del Breve Comunis Pisani, scritto nellâanno 1286, per concludere che Pisa fino dâallora praticava e forse fu la prima cittĂ dâItalia a introdurre il lodevole sistema dâilluminare di notte, non solo le strade piĂš frequentate, ma ancora il ponte vecchio, le vie minori ed i cosĂŹ detti chiassi o vicoli, e di assegnare a ciascuna via un numero respettivo di lampioni e di guardie notturne, previo il modo di repartirne fra il Comune e gli abitanti la spesa. Toccherò del clima e delle acque di Pisa allâArticolo che segue qui appresso della sua ComunitĂ .
CENSIMENTO della popolazione della CittĂ di PISA a quattro epoche diverse, divisa per famiglie (1) ANNO 1551: Impuberi maschi -; femmine -; adulti maschi -, femmine -; coniugati dei due sessi -; ecclesiastici dei due sessi -; acattolici dei due sessi -; numero delle famiglie 1636; totalitĂ della popolazione 8571.
ANNO 1745: Impuberi maschi 1535; femmine 1513; adulti maschi 2104, femmine 2776; coniugati dei due sessi 3331; ecclesiastici dei due sessi 958; acattolici dei due sessi 59; numero delle famiglie 2589; totalitĂ della popolazione 12406.
ANNO 1833: Impuberi maschi 2378; femmine 2231; adulti maschi 3760, femmine 4263; coniugati dei due sessi 6507; ecclesiastici dei due sessi 644; acattolici dei due sessi 515; numero delle famiglie 4733; totalitĂ della popolazione 20298.
ANNO 1840: Impuberi maschi 2603; femmine 2484; adulti maschi 3595, femmine 4655; coniugati dei due sessi 7039; ecclesiastici dei due sessi 627; acattolici dei due sessi 667; numero delle famiglie 4570; totalitĂ della popolazione 21670.
(1) N. B. In questo Censimento sono escluse 4 parrocchie suburbane deâTerzieri.
COMUNITAâ DI PISA La superfice territoriale di questa ComunitĂ , compresi quadrati 591,88 occupati dallâarca interna di Pisa, a tenore delle disposizioni sovrane del 1833, fu calcolata nel suo totale di 58973 quadrati agrarj, dei quali 2115 quadrati spettano a corsi dâacqua ed a pubbliche strade. In cotesto spazio abitava nel 1833 una popolazione di 37227 persone, la quale ripartitamente corrisponde a circa 527 abitanti per ogni miglio quadrato di suolo imponibile.
Il territorio della Comunità di Pisa è per la maggior parte in pianura, mentre dal lato di libeccio termina col lido del mare fra la bocca di Calambrone e quella di Fiume Morto. Dalla parte di ostro ha per confine la Comunità di Colle Salvetti, da prima mediante la fossa di Calambrone, poi per la Fossa Nuova, e finalmente per la Fossa Chiara .
Dirimpetto poi a scirocco si tocca con la ComunitĂ di Cascina mediante il Fosso Torale sino alla strada livornese che attraversa la Regia fiorentina a Navacchio.
Ma costĂ sottentra il territorio di Cascina fino allâArno dove attualmente si costruisce un ponte di pietra a tre arcate avente la testata destra nel territorio comunitativo di Vico Pisano, presso la confluenza del torrente Zambra di Calci . DondechĂŠ il territorio della ComunitĂ di Pisa non si ritrova che al ponte della Zambra sulla strada provincialeVicarese. CostĂ di fronte a levante si rientra in una porzione staccata della ComunitĂ di Pisa, che abbraccia cinque popoli del pievanato di Calci, a partire dal ponte suddetto sino alla sommitĂ piĂš alta del Monte Pisano, denominata del Monte Serra . â Vedere CALCI.
Sulla cima del monte lascia a levante il territorio della ComunitĂ di Vico Pisano e trova dirimpetto a grecale quello della ComunitĂ di Capannori spettante al Ducato di Lucca. Di conserva con questa percorre mezzo miglio lungo la giogana; sulla quale dopo voltata la faccia a maestro si tocca col territorio comunitativo deâBagni di S.
Giuliano riscendendo insieme per uno sprone meridionale sino al ponte predetto della Zambra, dopo lasciata al suo levante la Certosa di calci, mentre a ponente seguita a fronteggiare con la ComunitĂ deâBagni, che stacca il territorio di Calci da quello unito della ComunitĂ di Pisa; il quale si ritrova sulla ripa destra dellâArno, fra Cisanello e Ghezzano, due miglia circa a ponente della cittĂ .
CostĂ la superfice territoriale della ComunitĂ di Pisa fronteggia sempre con quella deâ Bagni, da primo dirimpetto a grecale, mediante la Fossa di Maltraverso , perfino a che volta la fronte a settentrione, quindi la ripiega a maestro e finalmente a ponente mediante il Fosso di Scorno, e di lĂ pel Fiume Morto ritorna al lido del mare.
La pianura di Pisa dalla parte di grecale fra il Serchio e la Seressa, ha per confine il Monte Pisano. Dirimpetto a settentrione e maestrale, alla destra del Serchio, è limitata dai poggi di Filettole, di Balbano e dal Monte di Quiesa (propagine australe dellâAlpe Apuana). Da levante a scirocco la stessa pianura è circoscritta dalla fiumana Cascina e dalle cosĂŹ dette Colline Pisane. Finalmente fra scirocco e ostro ha davanti i Monti Livornesi, i quali ultimi si perdono gradatamente sotto la pianura innanzi di arrivare al Ponte della Tora, in guisa che lasciano libero ai venti di ponente il passaggio sopra la cittĂ di Pisa.
In conseguenza di ciò se il clima di Pisa in generale è piĂš tiepido che nelle interne provincie della Toscana, lâaria però in molti mesi dellâanno suol esservi maggiormente agitata dal soffio impetuoso del libeccio.
La posizione accennata dei monti che da tre lati circoscrivono la pianura pisana, e piĂš che altro il piccolissimo declive della sua campagna, la qualitĂ polverulenta e mobile dello strato superiore del suolo, le arene marine ivi depositate, che a guisa di tomboli o dighe sâincontrano a molta distanza dal littorale; tuttociò fa sĂŹ che nella campagna pisana i corsi dâacqua siano pigri, frequenti i paduli, lâatmosfera umida, e tutta cotesta contrada bisognosa di unâindustria costante e intelligente per regolare le escavazioni, le arginature deâfossi e dei molti canali, dai quali perfino intorno alle mura della cittĂ trovasi in piĂš sensi retata.
Tale è la costituzione naturale della campagna di Pisa e del suo clima, dopo che la situazione materiale della cittĂ fu variata dallâantica; sia per non essere piĂš circondata da due fiumi; sia perchĂŠ il mare si è vistosamente da essa allontanato; sia finalmente per il progressivo interrimento del suolo su cui riposa.
GiĂ si è detto, che a partire dallâetĂ di Strabone e anco da quella di Aristotile, o di chi fu autore dellâopera de Mirabilibus, fino almeno alla discesa deâGoti in Italia, la cittĂ di Pisa giaceva sulla confluenza di due fiumi, lâArno e lâAuser; il primo alla sua destra, il secondo alla sua sinistra, in guisa che la natura piĂš che lâarte difendeva la vecchia cittĂ da tre lati, rimanendo essa allo scoperto, oppure difesa dallâarte verso il lato di levante.
Sembra però, siccome di sopra fu avvertito, essere tuttora indeciso, se il fiume Auser, che influiva in Arno davanti a Pisa dopo aver lambito le sue mura dalla parte di settentrione e di libeccio, fosse il Serchio intero, o piuttosto un grosso ramo, chiamato dai latini Auser , da noi Oseri, Osoli e Ozzori. Tali dubbiezze vengono indirettamente avvalorate dal silenzio degli storici, dei geografi e di tutti coloro che, ad eccezione di Strabone e di Rutilio, nĂŠ prima nĂŠ dopo di loro dissero qual fosse mai innanzi il mille lâandamento del Serchio nellâultima sua sezione, cioè, se tributario dellâArno, o direttamente del mare. Altronde che il Serchio fosse tributario dellâArno piuttosto che un fiume avente foce in mare, oltre le autoritĂ di sopra citate, lo dĂ quasi a conoscere in modo negativo Tolomeo nella sua geografia, dove si descrivono gli sbocchi dei fiumi nel mare toscano senza esservi indicata la foce del Serchio. Lo darebbe anco a dividere la naturale direzione che un dĂŹ tenere doveva cotesto fiume dopo aver trapassato la gola di Ripafratta, mentre adesso da ostro voltando faccia a ponente piegasi quasi ad angolo retto per dirigersi, prima a occidente, poscia a libeccio innanzi di vuotarsi nel mare a una distanza di circa 5 miglia dalla bocca dâArno.
La qual mutazione dâalveo del Serchio (seppure avvenne) dubito che fosse di una porzione del fiume, in modo da restare allâalveo antico ed al ramo minore il nome di Auser, tradotto in Oseri, Osoli e Ozzori, mentre il ramo maggiore, ossia quello piĂš occidentale, fu distinto col nome di Serchio; e ciò ad esempio del tronco principale dello stesso fiume, che sino dal secolo VII, se non prima, riscontravasi nella pianura superiore di Lucca, quando esso tripartito scendeva alla destra e alla sinistra della cittĂ , nella cui pianura in tre rami suddiviso si mantenne anco allâetĂ dello storico G. Villani. â Vedere LUCCA ComunitĂ , OZZORI, e SERCHIO.
CosĂŹ nella pianura fra Ripafratta e Pisa il nome stesso dâOseri divenne comune a piĂš dâ un canale, da cui ebbe e ritiene il vocabolo la contrada di Val dâOseri. Sul qual proposito giova pure avvertire che nel Breve del Comune pisano dellâanno 1286, al libro III de Operibus, si parla di un ramo dellâOseri che allora sboccava direttamente in mare, senza che ivi sia fatta menzione alcuna del Fiume Morto; mentre altri documenti citano lâalveo del vecchio Serchio dopo che questo fiume (forse lâOseri) era separato dallâArno.
AllâArticolo FOSSO DEâBAGNI DI S. GIULIANO, uniformandomi io a quanto fu scritto da valenti autori relativamente alla costruzione di quel canale che porta lâacqua ai mulini di Pisa, ne feci autore Lorenzo deâMedici detto il Magnifico, aggiungendo che Cosimo I lo compĂŹ, o piuttosto che lo rese piĂš utile al servigio delle mulina, siccome lo dimostra unâiscrizione in marmo posta sulla facciata dellâedificio delle Mulina dentro Pisa: Publicae utilitati providens Cosmus Med. Floren. Et Sen.
Dux II. A. D. MDLXVIII.
Ma il Breve del Comune pisano del 1286 chiaramente dimostra che un ramo dellâOseri sin dâallora passava dai Bagni di S. Giuliano e che esso era navigabile dalle scafe innanzi di sboccare in Arno presso le mura orientali di Pisa.
Arroge che negli statuti fatti dâordine della Signoria di Firenze peâConsoli del Mare, sotto dĂŹ 31 luglio 1475 rispetto ai fossi, ponti, fiumi, e vie di Pisa e del suo contado, alla rubrica 10, dove si descrive il corso deâfossi principali di maggiore utilitĂ per mantenerli netti, si rammenta pel primo il Fosso , ovvero fiume dâOsoli, il quale nasce al Bagno a Monte Pisano; 2°. il Fosso detto Martraverso che nasce in Osoli alla strada vecchia, et ritorna in detto Osoli al ponte della Tavola, ovvero alla strada del Pero; 3° il fosso di Scorno che comincia dal ponte alla Tavola ovvero alla destra di via del Pero e seguita sino al Fiume Morto; 4° i Fossi doppi che cominciano al condotto del Bagno e seguitando mettono in detto Osoli; 5°. Il fosso detto Marmigljajo, che comincia in detto Osoli al ponte Scornato dal canto di S.
Zeno, e seguitando ritorna in Osoli alla strada del Pero ; 6°. Il fosso detto Lavato, il quale è ramo dâOsoli et comincia al ponte Scornato dal canto di S. Zeno e ritorna in detto Osoli al canto al Lione ecc.
Inoltre ala rubrica 34 delli statuti medesimi dellâUffizio deâFossi di Pisa è registrata una provvisione della Signoria di Firenze, dalla quale si rivela che un ramo dellâOseri fino dâallora dirigevasi alla Porta alle Piagge dovâera un mulino fatto da un messer Lionello, che dice: item veduto come messer Lionello ha fatto uno mulino alla Porta alle Piagge di Pisa, al quale conduce lâacqua dellâOsoli pel fosso existente presso le mura di Pisa etc.
Quindi è che il Cocchi nel suo libro dei Bagni di Pisa avvisava i lettori, che coteste ed altre simili opere, benchÊ fossero state fatte con diligenza grande nÊ piÚ floridi tempi della repubblica pisana e mantenute in stato forse non dissimile dal presente, pure tale fu nei secoli XIV e XV la varietà della fortuna di Pisa che, avendo i lavori delle acque sofferta lunga e grande negligenza, giustamente si deve a Cosimo e a Ferdinando I la lode del miglioramento rispetto alla salubrità del suo territorio.
Per altro io aggiungerò che anche nei secoli anteriori al XIV Pisa cola sua campagna, era soggetta a frequenti alluvioni e ristagni perniciosi alla salute. NĂŠ mi limiterò al cronista pisano, il quale lasciò scritto che da mezzo settembre al 12 novembre del 1167 (stile comune) vi furono a Pisa nove inondazioni massime del fiume Arno, le cui acque allagarono con tale impeto la sua campagna meridionale, che ruppero il Ponte a Stagno; mi appoggerò piuttosto allo statuto del 1162 intitolato Breve usus e a quello del Comune di Pisa del 1286, il quale obbligava i potestĂ prima di entrare in carica di tenere a regola dâarte le cateratte delle chiaviche della cittĂ , e specialmente quelle del quartiere Oltrarno (Chinsica) per farle chiudere allâoccasione dellâescrescenze del fiume; come pure di rialzare la strada del borgo di porta S. Marco fino verso le ville di Fasiano e di Putignano nel modo comâera stata cominciata, e di costruire lungo lâArno un contrargine di difesa nel comunello di Fasiano.
Lo statuto poi del Breve usus voleva che i capitani del Val dâArno facessero aprire le vie carraje e tutte le fosse per dare sfogo nei tempi di piene alle acque dellâArno, acciocchĂŠ queste non traboccassero dalle spallette dentro la cittĂ .
Fra i doveri dei potestĂ di Pisa eravi anco quello di fare alzare gli argini dalla parte di settentrione dove fosse dâuopo nel fiume Oseri, di rivuotarne tutti gli anni il letto affinchĂŠ le sue acque non avessero a spandersi e a recar danno a quelle campagne. â (BREV. COMUN. PIS. Ann.
1286. Lib. IV. Rubr. 5. 15. 19. 48 e 67.) La stessa cura era prescritta per la Fossa Cuccia, per la Fossa di Martraverso e per la Fossa Vicinaja , o di Vicascio, e quella di Scorno ecc. fra il Monte Pisano e lâArno, tributarie tutte del Fiume Morto, mentre nel secolo XII la Fossa Cuccia dirigevasi in mare per il fiume Oseri. Negli statuti pisani del 1286, rispetto ai canali di scolo posti alla sinistra dellâArno, si ordina ai potestĂ ed ai capitani di Pisa di sorvegliare i lavori delle fosse di Fasiano, del Zannone, di Crespina , della Fossa nuova del Gonfo e di tutte le altre che influivano nella Fossa Vecchia di Carisio e nello Stagno. Inoltre dovevano obbligarsi di far vuotare il Fosso Rinonico con diversi altri fossi minori, dogaje e nugolaje di quella pianura meridionale. Finalmente alla rubrica 22 del Libro IV dello stesso Breve del Comune pisano, il potestĂ e il capitano del popolo provvedevano affinchĂŠ dallâarbitro pubblico (ingegnere) si restaurassero e si mantenessero in regola i pozzi comuni e gli abbeveratoi tanto di cittĂ come del contado.
Che poi sino dal mille si trovassero paduli intorno e perfino dentro alla cittĂ di Pisa, lo dichiarano vari documenti superstiti, fra i quali mi limiterò a tre scritti nel luglio dellâanno 730, nel maggio del 1085 e nel 24 luglio del 1099, tutti dellâArch. Arciv. Pis., come quelli che citano deâ paduli presso Pisa. Citerò inoltre un diploma del 1139 dellâImperatore Corrado II, col quale donò alla Primaziale il padule delle Prata (dâArsula) posto nel suburbio settentrionale della cittĂ ; finalmente rammenterò il nomignolo di una chiesa attualmente soppressa dentro Pisa, S. Pietro in Padule, senza dire dellâantica via di Padusoleri, situata presso a poco la via dellâOrto e del Padule presso il Duomo che rammentasi nel 28 settembre del 1249 in un istrumento spettante alla Primaziale.
Che se a tanti esempi di data piuttosto vecchia aggiungasi il continuo interrimento della pianura pisana colmata dalle torbe di grossi fiumi e da altri corsi dâacqua, ed accresciuta da una serie di tomboli spinti e poi abbandonati dalle procelle su di una spiaggia inclinatissima, non dovrĂ piĂš recar meraviglia il progressivo rialzamento del suolo di Pisa.
Infatti se uno immagina il livello di codesta cittĂ nella via di S. Felice fra il Borgo e la Pia zza deâCavalieri, come quando fu edificato il tempio pagano, di cui restano in posto due colonne di porfido orientale con i loro capitelli di marmo scolpiti a figure e a fogliami sul gusto introdotto dallâImperatore Adriano, i pavimento del cui vestibolo trovasi attualmente oltre 4 braccia sotto il lastrico della strada; se nello scavo del terreno che il Gonfaloniere della ComunitĂ di Pisa si degnò a mia istanza ordinare nei giorni 24 e 25 febbrajo del 1842, di fianco alle antiche terme e perfino dentro al superstite sudatorio, finchĂŠ in un punto oggidĂŹ superiore di braccia 8 e soldi 2 al livello del mare fuori del Sudario fu spinto lo scavo fino a braccia 4 e 1/2 sotto la superficie; se a quel livello fu trovata lâacqua dâinfiltrazione sotto uno strato di rozzo smalto (forse lâantico pavimento delle Terme); se i lastrici nelle vie di Pisa del medio evo fatti di mattoni per coltello e si scuoprono nel rifare i fondamenti delle case e palazzi nei lungarni e nellâinterna cittĂ si ritrovano dalle braccia 3 e 1/2 alle braccia 5 e mezzo sotto la superficie delle strade attuali; questi fatti soli possono servire di criterio per dover concludere, che anche le acque correnti dei fossi e deâfiumi, le quali attraversano la pianura pisana, per quanto il loro letto siasi rialzato, dovendo fare un piĂš lungo cammino prima di giungere al mare rallentarono necessariamente di moto a proporzione che si allontanò la spiaggia. ImperocchĂŠ se lo sbocco dellâArno in mare allâetĂ di Strabone, che vuol dire XVIII secoli e mezzo addietro distava solo 20 stadii olimpici dalla cittĂ di Pisa, corri pondenti a due miglia geografiche; se la foce medesima dellâArno nellâanno 1080 era vicina assai alla chiesa di S. Rossore quando essa fu fabbricata sulla ripa destra dellâArno in luogo ora appellato le Cascine Vecchie, mentre attualmente queste distano 3 buone miglia dal lido del mare; se finalmente per circa 4 miglia la campagna di Pisa verso la spiaggia è coperta di dune e tomboli di rena lasciata dalle traversie del mare, ne conseguita che il corso delle acque terrestri di secolo in secolo impigrĂŹ e la campagna di Pisa divenne ognor piĂš uliginosa. Infatti dalle recenti livellazioni risulta, che la soglia della cateratta maestra del Sostegno del fiume Arno fuori della Porta a Mare è un braccio fiorentino piĂš depressa da quelle del Mediterraneo; e dallo spoglio delle altezze delle acque del fiume suddetto, eseguito costantemente dallâUffizio delle Acque e Strade del Compartimento pisano, dallâanno 1825 a tutto il 1840, apparisce che il pelo dellâArno nelle massime piene salĂŹ a braccia 9 e soldi 10 sopra la soglia del Sostegno, e nelle massime depressioni dello stesso fiume, ad un braccio sopra la soglia, vale a dire al livello stesso del mare. Su qual proposito gioverĂ aggiungere alcune altezze del terreno stato in vari punti di Pisa livellato dallâIngegnere ispettore Signor Ridolfo Castinelli in tempo di acque basse del mare: Fondo del bacino del Campanile del Duomo, Braccia 0,60 Cantonata dello Spedale di S. Chiara allâingresso di via dellâOrto, Braccia 5,60 Prato del Duomo, alla Fonte, Braccia 4,96 Terreno di fianco alle Terme pisane, Braccia 8,10 Negli Orti di fianco a S. Caterina, Braccia 5,21 Fondo dellâOseretto fuori di Porta Nuova allâimbocco del fosso Marmigliajo, Braccia 0,32 Lungarno presso al Ponte di Mezzo, Braccia 8,94 Lascerò poi ai fisici e aglâidraulici la soluzione del quesito, se fu per le accennate, o piuttosto per altre cause che nella pianura pisana piĂš di una volta cambiarono di cammino il Serchio, lâOseri, ed anco lâArno sopra e sotto Pisa? Rispetto al fiume Serchio nella sezione pisana, oltre quanto si è detto poco sopra, giova aggiungere qualmente il suo letto è piĂš alto della pianura adiacente, in modo che il corso delle sue acque trovasi racchiuso fra due forti argini che lâ accompagnano fino al mare. Quindi avviene che non solo non possono confluire in esso i fossi e canali della pianura settentrionale e occidentale di Pisa, ma che le acque del Serchio quando traboccano entrano nei fossi di quella stessa pianura. Nella quale circostanza fu pure osservato che le acque debordando dal Serchio dirigonsi comunemente a sinistra piuttosto che verso la sua destra, quasi che cercassero (disse il Cocchi) lâantico loro alveo inondando i campi delle vicinanze di Pisa.
AllâArticolo FIUM E MORTO si disse, che anche questo corpo dâacque un di confluiva nel Serchio innanzi che dal matematico Cistelli gli fosse stato aperto uno sbocco suo proprio in mare tanto piĂš che nĂŠ il Fiume Morto, nĂŠ veruna foce di codesto nome trovasi, châ io sappia, indicata da alcun documento anteriore al secolo XIV.
Sono bensĂŹ rammentati diversi sbocchi del vecchio Serchio in Arno quando il fiume Oseri aveva una foce sua propria in mare e innanzi che cotesti due corsi dâacqua fluissero nella Fossa Cuccia. Sta a prova di tutto ciò un diploma del 1160 di Guelfo VI marchese di Toscana, confermato nel 1178 dallâImperatore Federigo I, e nel 1191 dallâImperatore Arrigo VI suo figliuolo, a favore del capitolo e chiesa di Pisa dove si parla della selva del Tombolo di S. Rossore compresa nei seguenti confini: A faucibus veteris Sercli usque ad flumen Arnum, et a Fossa Cuccii usque ad mare, sicut eadem fossa in directum respicit versus fluvium Auseris.
Dirò inoltre che mentre gli statuti del Comune pisano anteriori allâanno 1300 parlano della necessitĂ giornaliera di tener libero il letto dellâOseri fino al mare, usque ad fauces Ausers, in tutti gli altri statuti posteriori, incominciando da quelli del 1306, al Libro IV dove trattasi alla rubrica 67: De Ausere mundando et ampliando a Balneo Montis Pisani usque ad fauces fluminis Arni, si rammenta ai potestĂ ecc. lâobbligo di tener pulita la foce dellâOseri.
Un terzo di miglio innanzi che il fosso dellâAnguillara sbocchi nel Fiume Morto trovasi il cosĂŹ detto Porto delle Conche, dis tante tre buone miglia dalla riva del mare, dove nel secolo XVII fu scoperto un cippo di marmo lunense con caratteri deâmigliori tempi dellâimpero trasportato nel vestibolo del palazzo Roncioni in Pisa con lâiscrizione votiva ai Mani di Q. Largennio figlio di Q.
Severo edile di Pisa, stato illustrato dal Professor Chimentelli nella sua erudita opera De honore Bisellii.
Alla foce del Serchio esisteva fino dal secolo XII una torre rammentata allâanno 1171 negli annali lucchesi e negli statuti pisani del 1286, mentre la bocca dâArno era difesa da due torri. (ivi Libri IV. Rubriche 8 e 59.) â Vedere appresso .
In quanto al corso dellâArno nella sezione pisana, lungi dal riandare sulla irresoluta e forse irresolvibile questione messa in campo colle espressioni di Strabone, secondo i quali lo stesso fiume a quellâetĂ avrebbe dovuto correre diviso in tre alvei fra Arezzo e Pisa; lungi dal ridire come cotesto fiume dopo penetrato nel delta pisano fu rimosso nel 1558 dallâantico suo letto fra Bientina e Calcinaja; lungi dal rammentare le variazioni accadute lungo lâalveo medesimo nei contorni di Settimo, dove restarono i nomi di Arno vecchio e Arno morto fino al secolo XII ad alcune localitĂ del pievanato di S. Casciano, mi limiterò a dire una parola sulle variazioni del suo corso fra Pisa e il mare artatamente dopo il secolo XV eseguite fino alla nostra etĂ .
La pendenza di cotesto ultimo tragitto dellâArno essendo diminuita tanto da diventare, come dissi, nulla tra Pisa e il mare, ne portò la necessitĂ di dover dare al fiume un cammino il piĂš breve possibile, e conseguentemente di levarlo da quello assai tortuoso che faceva nei secoli della repubblica pisana.
La prima rettificazione fu eseguita anteripormente allâanno 1528 fra Barbaricina e la strada maestra di S.
Piero in Grado e Livorno. Dissi anteriormente al 1528, poichĂŠ con istrumento del 6 marzo di detto anno la famiglia pisana di Pone vendeva allâopera della Primaziale i pascoli dellâArno vecchio, in una localitĂ posta attualmente, parte nella campagna di Barbaricana alla destra dellâArno, e parte alla sinistra del corso attuale di questo fiume.
Nellâanno 1606 per motuproprio del Granduca Ferdinando I fu abbreviato il corso allâultimo tronco dellâArno avviandolo, al mare 2656 braccia piĂš a ponente dellâantica sua foce, quando era provveditore dellâUffizio dei Fossi Cosimo Pagliani.
Finalmente la rettificazione piĂš importante, quella che ha liberato Pisa da frequenti alluvioni, è stata eseguita nel secolo XVIII avanzato nel suburbio occidentale, circa mezzo miglio lungi dalla cittĂ . AvvegnachĂŠ lâArno formando gomito davanti a Barbaricina, nei tempi di piena tratteneva il corso libero alle acque, le quali straripavano non solo nelle vicine campagne ma ancora traboccavano dalle spallette dei Lungarni e dalle fogne della stessa cittĂ .
Lâingegnere Francesco del Nave nel 1653 fu il primo a proporne la rettificazione, applaudita da Vincenzio Viviani, piĂš tardi da Cornelio Meyer olandese, quindi raccomandata da Eustachio Manfredi e nel 1740 da Tommaso Perelli, fino a che nel 1771 venne eseguita per ordine del Granduca Pietro Leopoldo sulla relazione di Giuseppe Salvetti, assistendo al lavoro due ingegneri dellâUffizio deâfossi di Pisa, Francesco Bonbicci e Giovan Michele Piazzini, padre del vivente ingegnere Ferdinardo Piazzini, alla cui cortesia debbo le notizie testĂŠ pubblicate.
Per tali opere essendo stato scorcito fra Pisa e il mare il cammino dellâArno di un miglio allâincirca, ne è conseguito che le sue acque acquistarono in quel tragitto una velocitĂ maggiore, sicchĂŠ le campagne circostanti restarono meno inondate, e Pisa non fu piĂš sottoposta come prima alle frequenti alluvioni.
AllâArticolo ARNO (BOCCA Dâ) dissi, che quando la foce del fiume era circa quattro miglia (geografiche) discosta da Pisa, vi fu costruito un ospizio per soccorso dei passeggeri di mare. Del quale ospizio esistono alcune memorie sino al secolo XII, innanzi cioè che lo stesso locale fosse ridotto ad uso di monastero per vergini recluse con chiesa annessa avente il titolo di S. Croce, poi di S. Bernaro alla Foce dâArno.
Egli è certo che la Bocca dâArno sotto il dominio della repubblica pisana era difesa da due torri, rammentate piĂš volte nei citati statuti pisani del 1286 al Libro IV rubrica 59, e piĂš chiaramente ancora alla rubrica 8 dello stesso libro, dove si fa parola anco del borgo o villa della Foce dâArno con queste parole: Et idem faciemus (cioè il potestĂ e il capitano del popolo di Pisa) de Borgo, seu Villa de Fauce Arni, seu de occasantibus et habitantibus apud Faucem Arni inter duas turres, secundum formam Consilorum Pisani Comunis, etc. â La rubrica poi 59 tratta: De via qua itur ed monasterium S. Bernardi reactanda, a spese dei popolani di S. Giovanni deâGaetani, e di quelli di S. Pietro a Grado.
Ma collâ andare deâsecoli il viaggio da Pisa a Livorno per Arno essendo divenuto lungo e pericoloso, il Granduca Ferdinando I ordinò la costruzione del fosso, o canale deâNavicelli, a partire dalla riva sinistra del fiume fuori della Porta a mare di Pisa fino al suo termine davanti la fortezza vecchia di Livorno, mentre devasi al Granduca Pietro Leopoldo lâopera del Sostegno per facilitare lâingresso e lâegresso nel fosso dei Navicelli.
Fin qui le acque deâfiumi, deâ fossi e deâcanali che passavano, e che tuttora attraversano la pianura di Pisa, le quali acque, seppure servono ad irrigare i campi e al comodo di alcune arti e del commercio, non sono però servibili allâuomo per bevere.
E perchĂŠ lâinsalubritĂ deâpaesi piĂš che da altre cagioni nasce dallâimpuritĂ delle acque potabili, gli antichi abitanti di Pisa provvidersi di acque perenni di fontana conducendole in cittĂ dal Ponte Pisano per mezzo di acquedotti elevati sopra degli archi, otto dei quali si vedono tuttora in piedi. Di altri pure restano alcune vestigia fra Ripafratta e i Bagni di S. Giuliano in un sito appellato Caldaccoli, localitĂ probabilmente corrispondente allâAcqua longa, dove nellâanno 1003 accadde il primo fatto dâarmi fra i Lucchesi e i Pisani. â Vedere CALDACCOLI.
Stante poi allâuniversale rovina di tanti edifizj romani, ignorasi di quali acque i Pisani neâbassi tempi si servissero per bevere, comecchè di pozzi pubblici e di beveratoj per i cavalli si parli neâloro statuti dei secoli XII e XIII. â Non fia per altro da credere che nel medio evo ottima acqua potabile si adoprasse in Pisa, se fia vero che il maggior numero delle donne avesse nel notabile pollare, cui fece allusione Boccaccio nel suo Novelliere (Giorno II Novella 10 .), e tostochè dominavano costĂ i mali dipendenti da debolezza di visceri innanzi che a Pisa si bevesse unâacqua perenne, leggera e salubre condotta sopra archi dal poggio di Asciano con magnificenza regia per cura di Ferdinando I e Cosimo II Granduchi di Toscana. â Vedere ACQUEDOTTI DI PISA.
Vie antiche del territorio pisano . â Rispetto alle strade antiche che attraversavano la ComunitĂ di Pisa, dopo quella Emilia di Scauro , appellata nel medio evo Via Romea, dopo la Via Regia che diede il nome al paese littoraneo, ora cittĂ di Viareggio, dopo che lâantica strada da Pisa per Monte Pisano, e poi quella piĂš mo derna che da Ripafratta conduce a Lucca, dopo le strade antiche che da S. Piero in Grado guidavano a Bocca dâArno e al Porto Pisano, si contavano sino dal secolo XIII nel contado di Pisa molte altre vie, parecchie delle quali sono rammentate nel Breve detto del Conte Ugolino, e specialmente al libro IV. de operibus. Dal che apparisce che fino dal 1286 risedeva in Pisa un ingegnere in capo dei ponti, degli acquedotti e strade tanto per la cittĂ come pel suo contado. A questâultimo scopo appella fra le altre la rubrica 9. dello stesso libro relativa al mantenimento della Via Calcesana da Pisa alla pieve di Caprona passando per il ponte di Vicascio, mentre la rubrica 15 tratta della maniera di mantenere la strada maestra del val dâArno, oggi detta Fiorentina, quella Emilia da restaurarsi dallâoperajo generale, da S. Lorenzo in Piazza sino al Malmigliaro. Riguarda specialmente la strada di Porto Pisano la rubrica 17 dello stesso libro, mentre nella seguente si parla del tronco di strada che staccavasi dalla via Emilia per andare Scarlino, e dellâobbligo di ampliare un pezzo della via Emilia presso la torre di S. Vincenzio, facendo diboscare intorno il terreno. Altre rubriche dello stesso libro trattano del modo di mantenere la via delle Colline Pisane, come pure le vie di Val di Serchio, di Bocca dâArno ed altre strade suburbane.
Prodotti principali del territorio di Pisa . â Per ciò che riguarda i prodotti del suolo il territorio pisano fu sempre feracissimo; lo che è attestato da Strabone e da Plinio, il primo deâ quali asserĂŹ essere la cittĂ di Pisa rinomata per lâabbondanza delle grasce e alberi dâalto fusto buoni a fabbricar navi, sicchĂŠ, dopo avere i Pisani cassato di adoperare questi ultimi per uso della propria marina, spedivano quei legnami a Roma per i sontuosi edifizi e per le grandiose ville di quella gran capitale. â Il vecchio Plinio inoltre segnalò alcune uve pisane assai pregevoli, il suo grano gentile e il suo farro qualificato fra i migliori dâItalia.
Arroge a ciò qualmente il vicino Monte Pisano ricco di marmi, di acque minerali, e di quelle leggerissime da bevere, fino dai tempi antichi ha fornito a Pisa materiali opportuni alle sue fabbriche, e alla pubblica economia, siccome nei tempi piĂš vicini ai nostri ha dato lâolio il piĂš squisito ed i vini migliori.
Del resto Pisa non solo provvede dal Monte Pisano marmi per usi architettonici da costruzione, ma ancora pietre da lastricare e da far calcina forte, mentre il terreno della sua pianura, e il bel lettone lasciato per via dallâArno e dai numerosi fossi e canali della pianura pisana somministrano materia opportuna per ridurla in mattoni, tegoli e vasi di terraglie che danno lavoro a centinaia di famiglie. â Rispetto a ciò che il governo della repubblica pisana neâsuoi statuti del 1286 (Libro I. rubrica 165) ordinò che la terra da fornace non dovesse cavarsi in Pisa troppo vicino allâArno e alle strade.
Ma se questa terra di trasporto rende fertili le campagne di Pisa, il suo benefizio però non si estende fino ai tomboli aenosi, i quali si trovano, come fu detto, quasi quattro miglia innanzi di arrivare al lido attuale del mare. In generale la pianura pisana per la natura umida e pianeggiante del suolo è piĂš confacente alle grandi pasture, alle praterie artificiali. â Anche le sementi del mais, dei cereali e delle piante leguminose, quando le annate non siano troppo piovane, vi provano assai bene. â Pochi letami da quei villici si adoperano non tanto a cagione della buontĂ del terreno, quanto della troppa estensione dei poderi che una sola famiglia di contadini non può sempre nel giro di un anno coltivare per intiero, sicchĂŠ una parte ne lascia in riposo o a maggese.
Assai poco confacente sembra codesta pianura alle viti e agli alberi da frutto, perchĂŠ le prime per quanto rigogliose danno un vino debole e snervato, e gli altri della frutta insipide e acquose. Feracissima però riesce la stessa pianura alle piante di moro gelso, sicchĂŠ la propagazione di questi alberi fornisce sufficiente indizio alla crescente cultura e allevazione deâbachi da seta, prodotto non indifferente allâindustria agraria pisana.
Ma ciò che costituisce la maggior risorsa agricola di questa contrada sono i pascoli e i boschi; poichĂŠ i primi estesissimi somministrano deâ fieni sottili e teneri per allevare e ingrassare molto bestiame grosso e minuto; mentre i boschi occupano tuttora una gran parte della pianura littoranea fra la bocca di Calambrone e la foce del Serchio. Dissi tuttora, essendo che nei tempi antichi la macchi cuopriva quasi tutta la parte marittima pisana fra la Fossa di Carisio e Pietra S.. â Inoltre la foresta della Fagionaja presso le mura occidentali di Pisa stette in piedi fino al cadere del secolo XVIII al pari della macchia di Barbaricina, entrambe atterrate per migliorare lâaria dâordine del Granduca Pietro Leopoldo.
Il bosco poi di Stagno era cotanto folto ed esteso che il comune di Pisa fece unâapposita rubrica neâsuoi statuti del 1286 (Libro IV. rubrica 13) affinchĂŠ i potestĂ e i capitani del popolo ognâanno facessero tagliare e ripulire quella macchia, a partire dalla colonna (forse la miliaria illustrata dal Chimentelli) presso la chiesa di S. Piero in Grado sino allâospedale di S. Leonardo di Stagno in quella latitudine che avessero giudicato conveniente, come pure che fosse estirpata la macchia bassa nel lecceto spettante a detto spedale, affinchĂŠ non vi si nascondessero i malfattori.
Rispetto alla vasta pineta che fascia il littorale pisano, sembra che essa vi esistesse fino dai tempi di Rutilio Numaziano il quale, mentre aspettava la bonaccia di mare; si recò col suo ospite da Porto Pisano alla caccia deâcignali nelle vicine selve: Otia vicinis terimus novalia sylvis, Sectandisque juvat membra movere feris.
Instrumenta parat venandi villicus hospes, Atque olidum doctos nosse cubile canes.
Funditur insidiis, et rara fraude plagarum, Terribilisque cadit fulmine dentis aperi Quem Melaeagraeivereantur adire lacerti, Qui laxet nodis Amphitryoniadae .
(Itiner. Lib. I. vers. 621-28) Ancora oggidĂŹ chiunque capiti a Pisa può recarsi ad ammirare lâestesissima pineta delle RR. Cascine che occupa parecchie miglia quadrate fra lâArno, il Fiume Morto, le Cascine nuove e il lido del mare, lĂ dove vivono migliaia di quadrupedi, fra cignali, cammelli, daini, vacche, cavalli, ecc., sebbene la razza gentile deâcavalli della Corona attualmente sia stata portata nelle vaste praterie della real tenuta di Coltano al mezzo giorno di Pisa.
In quanto alle industrie manifatturiere della ComunitĂ di Pisa potrĂ darne unâidea quanto si è detto allâArticolo Industrie manifatturiere della cittĂ , cui sarebbero da aggiungere, per la campagna, oltre le moltissime fornaci di mattoni, e di embrici che si spediscono anco allâestero, molti fabbricatori di carri, varii fonditori di campane e ramai, la cui celebritĂ diede il nome al Borgo delle Campane fra Riglione e il Portone ecc. ecc..
CENSIMENTO della Popolazione della ComunitĂ di PISA a quattro epoche diverse.
TERZIERE di S. MARIA - titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Maria Maggiore, Primaziale; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: -; abitanti anno 1745 n° 687; abitanti anno 1833 n° 1345; abitanti anno 1840 n° 1518.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Frediano, Prioria; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Felice e di S. Margherita; abitanti anno 1745 n° 400 (S. Frediano), n° 793 (S.
Felice), n° 681 (S. Margherita); abitanti anno 1833 n° 2014; abitanti anno 1840 n° 2145.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Niccola, Prioria; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Lucia deâRicucchi e di S. Vito; abitanti anno 1745 n° 259 (S. Niccola), n° 212 (S. Lucia), n° 302 (S. Vito); abitanti anno 1833 n° 1715; abitanti anno 1840 n° 1828.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Sisto, Prioria; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con lâannesso di S. Sebastiano delle Fabbriche maggiori; abitanti anno 1745 n° 302 (S. Sisto), n° 259 (S.
Sebastiano); abitanti anno 1833 n° 1060; abitanti anno 1840 n° 1142.
- titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: Spedale di S. Chiara; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: già della Misericordia; abitanti anno 1745 n° -; abitanti anno 1833 n° 207; abitanti anno 1840 n° 222.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Stefano extra moenia; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1); abitanti anno 1745 n° 164; abitanti anno 1833 n° 552; abitanti anno 1840 n° 662.
- Totale popolazione anno 1551 del Terziere di S. Maria: abitanti n° 2321 TERZIERE di S. FRANCESCO - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S.
Andrea Forisportae; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: soppressa nel 1835 e riunita a S. Michele in Borgo; abitanti anno 1745 n° 485; abitanti anno 1833 n° 947; abitanti anno 1840 n° -.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Caterina (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: giĂ S.
Lorenzo alla Rivolta; abitanti anno 1745 n° 476; abitanti anno 1833 n° 989; abitanti anno 1840 n° 977.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Cecilia (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Marco in Calcesana e di S. Zenone; abitanti anno 1745 n° 587 (S. Cecilia), n° 166 (S. Marco), n° 39 (S. Zenone); abitanti anno 1833 n° 1431; abitanti anno 1840 n° 2031.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Marta (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Martino alla Pietra e di S. Silvestro; abitanti anno 1745 n° 234 (S. Marta), n° 180 (S. Martino), n° 253 (S. Silvestro); abitanti anno 1833 n° 1243; abitanti anno 1840 n° 1476.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Michele in Borgo (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Andrea Forisportae e di S. Paolo allOrto; abitanti anno 1745 n° 195 (S. Michele), n° - (S. Andrea), n° 842 (S. Paolo); abitanti anno 1833 n° 942; abitanti anno 1840 n° 1023.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Matteo (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 454; abitanti anno 1833 n° 367; abitanti anno 1840 n° 963.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Pietro in Ischia (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 193; abitanti anno 1833 n° 353; abitanti anno 1840 n° 343.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Pietro in Vinculis (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 149; abitanti anno 1833 n° 1332; abitanti anno 1840 n° 1404.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Michel deâScalzi; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1); abitanti anno 1745 n° 295; abitanti anno 1833 n° 1337; abitanti anno 1840 n° 1676.
- Totale popolazione anno 1551 del Terziere di S.
Francesco: abitanti n° 3424 TERZIERE DI CHINSICA - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S.
Martino in Chinsica (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con lâannesso di S. Andrea in Chinsica; abitanti anno 1745 n° 1020 (S. Martino), n° 516 (S.
Andrea); abitanti anno 1833 n° 1879; abitanti anno 1840 n° 1807.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: SS.
Cosimo e Damiano (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° -; abitanti anno 1833 n° 896; abitanti anno 1840 n° 1034.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Cassiano in S. Paolo (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 652; abitanti anno 1833 n° 712; abitanti anno 1840 n° 735.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Sebastiano in Chinsica nel Carmine (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con lâannesso di S. Egidio; abitanti anno 1745 n° 374 (S. Sebastiano), n° 271 (S.
Egidio); abitanti anno 1833 n° 963; abitanti anno 1840 n° 764.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Maria Maddalena (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 492; abitanti anno 1833 n° 694; abitanti anno 1840 n° 812.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Sepolcro (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con lâannesso di S. Cristofano in Chinsica; abitanti anno 1745 n° 99 (S. Sepolcro), n° 458 (S.
Cristofano); abitanti anno 1833 n° 729; abitanti anno 1840 n° 894.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Cristina (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 361; abitanti anno 1833 n° 480; abitanti anno 1840 n° 552.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Giovanni deâGatani; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1); abitanti anno 1745 n° 145; abitanti anno 1833 n° 1583; abitanti anno 1840 n° 2234.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Marco alle Cappelle; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1); abitanti anno 1745 n° 1020; abitanti anno 1833 n° 2604; abitanti anno 1840 n° 2950.
- Totale popolazione anno 1551 del Terziere di Chinsica: abitanti n° 3689 -Totale popolazione dei Terzieri anno 1551: abitanti n° -Totale popolazione dei Terzieri anno 1745: abitanti n° -Totale popolazione dei Terzieri anno 1833: abitanti n° -Totale popolazione dei Terzieri anno 1840: abitanti n° CHIESE DI CAMPAGNA - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Barbaricina; titolo delle cure succursali: S. Apollinare abitanti anno 1551 n° 1249; abitanti anno 1745 n° 247; abitanti anno 1833 n° 1216; abitanti anno 1840 n° 1364.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci; titolo delle cure succursali: S. Andrea a Lama abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Bartolommeo, S.
Giovanni Evangelista, S. Michele e S. Salvatore); abitanti anno 1745 n° 202; abitanti anno 1833 n° 269; abitanti anno 1840 n° 342.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci; titolo delle cure succursali: S. Bartolommeo a Trecolli abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S. Giovanni Evangelista, S. Michele e S. Salvatore); abitanti anno 1745 n° 142; abitanti anno 1833 n° 199; abitanti anno 1840 n° 224.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci; titolo delle cure succursali: S. Giovanni Evangelista (Pieve) abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S.
Bartolommeo, S. Michele e S. Salvatore); abitanti anno 1745 n° 1474; abitanti anno 1833 n° 1764; abitanti anno 1840 n° 1844.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci; titolo delle cure succursali: S. Michele abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S.
Bartolommeo, S. Giovanni Evangelista e S. Salvatore); abitanti anno 1745 n° -; abitanti anno 1833 n° 1000; abitanti anno 1840 n° 1266.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci; titolo delle cure succursali: S. Salvatore a Colle abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S.
Bartolommeo, S. Giovanni Evangelista e S. Michele); abitanti anno 1745 n° 187; abitanti anno 1833 n° 334; abitanti anno 1840 n° 327.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Canniccio; titolo delle cure succursali: S. Giusto; abitanti anno 1551 n° 278; abitanti anno 1745 n° 251; abitanti anno 1833 n° 676; abitanti anno 1840 n° 377.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Cisanello; titolo delle cure succursali: SS. Biagio e Giusto; abitanti anno 1551 n° 223; abitanti anno 1745 n° 315; abitanti anno 1833 n° 386; abitanti anno 1840 n° 837.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: In Orticaja; titolo delle cure succursali: S. Ermete; abitanti anno 1551 n° 118; abitanti anno 1745 n° 213; abitanti anno 1833 n° 569; abitanti anno 1840 n° 607.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: In Grado; titolo delle cure succursali: S. Pietro; abitanti anno 1551 n° -; abitanti anno 1745 n° 129; abitanti anno 1833 n° 779; abitanti anno 1840 n° 801.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Oratojo; titolo delle cure succursali: S. Michele; abitanti anno 1551 n° 149; abitanti anno 1745 n° 375; abitanti anno 1833 n° 778; abitanti anno 1840 n° 852.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Putignano; titolo delle cure succursali: S. Bartolommeo; abitanti anno 1551 n° 147; abitanti anno 1745 n° 485; abitanti anno 1833 n° 1410; abitanti anno 1840 n° 1578.
- titolo della parrocchia compresa nella ComunitĂ di Pisa: Riglione (*); titolo delle cure succursali: SS. Ippolito e Cassiano con lâannesso di S. Donato a Montione; abitanti anno 1551 n° 124; abitanti anno 1745 n° 592; abitanti anno 1833 n° 1332; abitanti anno 1840 n° 1367 - Totale popolazione anno 1551: abitanti n° 11692 - Totale popolazione anno 1745: abitanti n° 19228 Entrano nella ComunitĂ di PISA le seguenti frazioni di popolazioni provenienti da altre ComunitĂ limitrofe - nome del luogo: Pieve di Caprona, ComunitĂ donde proviene: Vico Pisano, abitanti anno 1833: n° 62, abitanti anno 1840: n° 72 - nome del luogo: Ghezzano, ComunitĂ donde proviene: Bagni di S. Giuliano, abitanti anno 1833: n° 87, abitanti anno 1840: n° 88 - nome del luogo: Madonna dellâAcqua, ComunitĂ donde proviene: Bagni di S. Giuliano, abitanti anno 1833: n° 124, abitanti anno 1840: n° 157 - nome del luogo: Nicosia, ComunitĂ donde proviene: Vico Pisano, abitanti anno 1833: n° 290, abitanti anno 1840: n° 353 - Totale popolazione anno 1833: abitanti n° 37649 - Totale popolazione anno 1840: abitanti n° 41648 N. B. La Parrocchia di Riglione contrassegnata con lâasterisco (*) negli anni 1833 e 1840 mandava fuori della ComunitĂ di Pisa: anno 1833 abitanti n° 422, anno 1840 abitanti n° 442 - RESTAVANO anno 1833: abitanti n° 37227 anno 1840: abitanti n° 41206 (1) N. B. Nel presente CENSIMENTO DELLA CITTAâ DI PISA sono comprese ancora le quattro parrocchie suburbane deâTerzieri di CittĂ : cioè S. Stefano extra moenia, S. Michele degli Scalzi, S. Marco alle Cappelle, e S. Giovanni al Gatano, giĂ detto dei Gaetani.
MOVIMENTO della Popolazione della ComunitĂ di PISA dallâAprile del 1818 a tutto Aprile del 1840.
- anno 1818 popolazione: 30,718 numero dei nati: maschi 594, femmine 528, totale 1112 numero dei morti: maschi 562, femmine 547, totale 1109 numero dei matrimoni: 198 numero dei nati da ignoti genitori: 149 centenari: 1 - anno 1819 popolazione: 30,606 numero dei nati: maschi 611, femmine 522, totale 1133 numero dei morti: maschi 605, femmine 506, totale 1111 numero dei matrimoni: 283 numero dei nati da ignoti genitori: 146 centenari: - - anno 1820 popolazione: 31,111 numero dei nati: maschi 608, femmine 623, totale 1231 numero dei morti: maschi 551, femmine 495, totale 1046 numero dei matrimoni: 316 numero dei nati da ignoti genitori: 162 centenari: - - anno 1821 popolazione: 31,593 numero dei nati: maschi 657, femmine 632, totale 1289 numero dei morti: maschi 611, femmine 527, totale 1138 numero dei matrimoni: 240 numero dei nati da ignoti genitori: 134 centenari: 1 - anno 1822 popolazione: 32,187 numero dei nati: maschi 656, femmine 650, totale 1306 numero dei morti: maschi 454, femmine 467, totale 921 numero dei matrimoni: 258 numero dei nati da ignoti genitori: 144 centenari: - - anno 1823 popolazione: 32,738 numero dei nati: maschi 616, femmine 632, totale 1248 numero dei morti: maschi 515, femmine 477, totale 992 numero dei matrimoni: 226 numero dei nati da ignoti genitori: 138 centenari: - - anno 1824 popolazione: 33,056 numero dei nati: maschi 617, femmine 636, totale 1253 numero dei morti: maschi 484, femmine 474, totale 958 numero dei matrimoni: 294 numero dei nati da ignoti genitori: 132 centenari: - - anno 1825 popolazione: 33,648 numero dei nati: maschi 674, femmine 648, totale 1322 numero dei morti: maschi 533, femmine 554, totale 1087 numero dei matrimoni: 275 numero dei nati da ignoti genitori: 143 centenari: - - anno 1826 popolazione: 34,241 numero dei nati: maschi 663, femmine 609, totale 1272 numero dei morti: maschi 531, femmine 536, totale 1067 numero dei matrimoni: 258 numero dei nati da ignoti genitori: 112 centenari: 1 - anno 1827 popolazione: 34,663 numero dei nati: maschi 673, femmine 605, totale 1278 numero dei morti: maschi 551, femmine 555, totale 1106 numero dei matrimoni: 237 numero dei nati da ignoti genitori: 97 centenari: - - anno 1828 popolazione: 35,145 numero dei nati: maschi 684, femmine 665, totale 1349 numero dei morti: maschi 500, femmine 409, totale 909 numero dei matrimoni: 279 numero dei nati da ignoti genitori: 113 centenari: - - anno 1829 popolazione: 35,641 numero dei nati: maschi 653, femmine 599, totale 1252 numero dei morti: maschi 572, femmine 519, totale 1091 numero dei matrimoni: 222 numero dei nati da ignoti genitori: 91 centenari: - - anno 1830 popolazione: 36,258 numero dei nati: maschi 709, femmine 655, totale 1364 numero dei morti: maschi 646, femmine 564, totale 1210 numero dei matrimoni: 245 numero dei nati da ignoti genitori: 110 centenari: - - anno 1831 popolazione: 36,512 numero dei nati: maschi 693, femmine 656, totale 1349 numero dei morti: maschi 597, femmine 545, totale 1142 numero dei matrimoni: 257 numero dei nati da ignoti genitori: 97 centenari: - - anno 1832 popolazione: 37,029 numero dei nati: maschi 711, femmine 616, totale 1327 numero dei morti: maschi 517, femmine 489, totale 1006 numero dei matrimoni: 267 numero dei nati da ignoti genitori: 111 centenari: - - anno 1833 popolazione: 37,227 numero dei nati: maschi 658, femmine 650, totale 1308 numero dei morti: maschi 610, femmine 561, totale 1171 numero dei matrimoni: 287 numero dei nati da ignoti genitori: 80 centenari: - - anno 1834 popolazione: 37,794 numero dei nati: maschi 745, femmine 711, totale 1456 numero dei morti: maschi 650, femmine 585, totale 1235 numero dei matrimoni: 322 numero dei nati da ignoti genitori: 105 centenari: 1 - anno 1835 popolazione: 38,270 numero dei nati: maschi 758, femmine 663, totale 1421 numero dei morti: maschi 865, femmine 813, totale 1678 numero dei matrimoni: 262 numero dei nati da ignoti genitori: 112 centenari: - - anno 1836 popolazione: 38,322 numero dei nati: maschi 728, femmine 704, totale 1432 numero dei morti: maschi 532, femmine 541, totale 1073 numero dei matrimoni: 289 numero dei nati da ignoti genitori: 71 centenari: - - anno 1837 popolazione: 39,105 numero dei nati: maschi 757, femmine 701, totale 1458 numero dei morti: maschi 601, femmine 564, totale 1165 numero dei matrimoni: 266 numero dei nati da ignoti genitori: 109 centenari: - - anno 1838 popolazione: 39,959 numero dei nati: maschi 706, femmine 672, totale 1378 numero dei morti: maschi 488, femmine 513, totale 1001 numero dei matrimoni: 265 numero dei nati da ignoti genitori: 91 centenari: - - anno 1839 popolazione: 40,715 numero dei nati: maschi 751, femmine 699, totale 1450 numero dei morti: maschi 539, femmine 509, totale 1048 numero dei matrimoni: 281 numero dei nati da ignoti genitori: 81 centenari: 1 - anno 1840 popolazione: 41,206 numero dei nati: maschi 738, femmine 731, totale 1469 numero dei morti: maschi 548, femmine 623, totale 1171 numero dei matrimoni: 284 numero dei nati da ignoti genitori: 103 centenari: - DIOCESI DI PISA Senza entrare in discussione, se S. Pietro approdasse dove è ora la chiesa di S. Piero a Grado, e se quel principe degli Apostoli instituisse costĂ molti cittadini pisani nella fede di Cristo rigenerandoli col S. Battesimo; senza assentire che fino dâallora si costituisse per Pisa un diocesano, niuno certamente vorrĂ negare il fatto che in questa cittĂ fu eretta una delle prime sedi vescovili della Toscana.
Avvegnachè fra i monumenti superstiti abbiamo quello che ne avvisa, qualmente nel principio del secolo IV i Pisani avevano un vescovo proprio, Gaudenzio, il quale nellâanno 313 insieme con Felice vescovo di Firenze e con molti altri prelati assistĂŠ in Roma ad un Concilio sotto il pontefice Melchiade.
GiĂ il professore pisano Padre Mattei ad istanza dellâarcivescovo Francesco deâconti Guidi di Volterra nel secolo passato diede alla luce una storia della chiesa pisana e deâ suoi prelati, nella quale egli con molto senno raccolse e discusse non solo tutto ciò che era da sapersi rispetto allâorigine della religione cristiana in Pisa e allâistituzione meno dubbia del suo vescovato, ma ancora intorno allâepoca in cui la sua chiesa fu decorata delle attribuzioni di metropolitana, ed i suoi arcivescovi di quelle di Primati e legati apostolici nelle isole della Corsica e della Sardegna; per modo che sarebbe un voler portare nottole ad Atene lâintrattenere su di ciò il lettore di questo Dizionario.
Lo stesso Padre Mattei non omise tampoco di avvertire che fu lo stesso arcivescovo dei conti Guidi quello che mostrò al Muratori la copiosa seri di pergamene del dovizioso archivio arcivescovile di Pisa, mentre devasi allo zelo del di lui antecessore, lâarcivescovo Frosini, la copia esatta di 2585 membrane trascritte in 12 volumi, a partire dallâanno 720 fino al 1447.
Nemmeno starò a ritornare sul quesito, se la diocesi antica pisana corrispondesse mai al distretto della provincia civile della stessa cittĂ , nel modo che questa lo doveva essere sotto lâimpero romano, e se la provincia medesima dalla parte del Val dâArno Inferiore si estendesse fino alla XXXII pietra milliare, siccome lo darebbe a credere lâiscrizione trovata presso Empoli al luogo di Pietrafitta, tanto piĂš che i luoghi dâEmpoli, e meglio ancora di Pietrafitta sono molto piĂš di 32 miglia romane da Pisa lontani. â Vedere EMPOLI.
Che però la provincia ecclesiastica, ossia la diocesi di Pisa, nĂŠ anche ai tempi antichi, arrivasse fino a Empoli, molti fatti dei secoli anteriori al mille furono rammentati aglâArticolo EMPOLI, LUCCA e BORGO S. GENESIO, e tali che mi sembrano sufficienti a dimostrarlo.
Allâopposto è noto che la provincia civile pisana dal lato occidentale si estendeva fino al fiume Versilia, quando la sua diocesi non oltrepassava, che si sappia, il lago di Massaciuccoli. Vero è che in un ricordo del secolo XI, attribuito ad Uberto Lanfranchi, arcivescovo e console del Comune di Pisa, furono segnate alcuni pievi che innanzi al 1015 si dissero della diocesi pisana, alcune delle quali, o non sono mai esistite, ossivero furono sempre nella diocesi fiorentina o do quelle di Lucca e di Volterra. â (Vedere MATTHEI, Oper. cit. Tomo I. capitolo 5. e MEMOR. LUCCH. Tomo IV.) Che nei tumulti dâinvasioni estere accaduti nei secoli V, VI e VII le diocesi ecclesiastiche al pari delle civili fossero state soggette a diverse mutazioni non lasciano luogo a dubitarne molti fatti conservati dalla storia, fra i quali è notissimo in Toscana quello relativo alla questione nel principio del secolo VIII insorta fra il vescovo di Siena e quello di Arezzo. â Comunque sia la bisogna, è cosa certa però che lâorigine della diocesi di Pisa trovasi involta in una impenetrabile oscuritĂ , ad attraversare la quale senza pericolo di sbagliar cammino parve allo stesso Padre Mattei impresa troppo difficile, per non dire impossibile.
Limitandomi pertanto ad epoche istoriche accessibili dai documenti superstiti, dirò, come tutto concorre a far credere che sino al secolo VII dellâEra Cristiana, il perimetro della diocesi ecclesiastica di Pisa fosse lo stesso di quello che troviamo nel secolo XIII descritto per pivieri con le respettive chiese filiali, eremi, monasteri e spedali, sia in cittĂ come in campagna; voglio dire del catalogo di quelle chiese fatto e rogato nel 1277 alla presenza di Ruggero II arcivescovo di Pisa per raccogliere le decime state imposte il terzâanno in sussidio di Terra Santa proporzionatamente alle rendite ed al fiorino estimale di ciascuna chiesa e luogo pio.
Anche piĂš esteso è lâaltro catalogo compilato nel 1372, il di cui originale ho potuto riscontrare nella curia arcivescovile pisana. â Ă un codice dove furono registrate quattro imposizioni sugli ecclesiastici nellâanno medesimo; la prima del mese di luglio per 300 fiorini dâimprestito richiesto dal Comune di Pisa; la seconda del mese dâagosto per un aumento di fiorini 50 imposti al clero di tutta la diocesi da pagarsi al nunzio apostolico; la terza di fiorini 165 da pagarsi al cardinale gerosolimitano; e la quarta per ordine del legato pontificio, nel marzo dellâanno stesso 1372, (o 1373 stile comune) per la somma di fiorini 350. â Dai quali registri risulta che i beni del clero della diocesi pisana erano accatastati in guisa che avevano un estimo di fiorini 346, soldi sei, e denari tre, che gli estimi piĂš alti erano quelli della mensa arcivescovile, i cui beni trovavansi al catasto per 42 fiorini, lâestimo del capitolo pisano per 50 fiorini, quelli del priorato di Nicosia per 44 fiorini, del priorato in S.
Martino in Chinsica per 20 fiorini, del Monastero di Quiesa per fiorini 18, e del Monastero di S. Stefano oltrâOseri, o extra moenia, per 15 fiorini. Inoltre dalle quattro apposizioni di sopra menzionate apparisce, che allâanno 1372 ogni fiorino dâoro in Pisa correva per lire 3 soldi 9 e denari 6 di quella moneta.
Da cotesto ultimo registro pertanto risulta che allâanno 1372 esistevano nella diocesi 351 chiese oltre la Primaziale, fra le quali 60 in cittĂ con 18 spedali, 26 pievi, 14 priorati, 12 monasteri e 4 eremi.
Molte però di quelle chiese, spedali e monasteri attualmente piĂš non esistono nĂŠ in campagna nĂŠ in cittĂ , essendo stati distrutti dal tempo o ridotti ad altro uso.Che se lâestimo del 1372 può dare unâidea sulla proporzione delle entrate di ciascuna chiesa ivi rammentata, non basta però la cognizione della loro imposta a deciderlo. Solo rispetto alla mensa arcivescovile potrebbero dirlo glâistrumenti scritti fra il secolo VIII e XIII che conservavansi in quellâarchivio, molti deâ quali furono pubblicati nelle antichitĂ del Medioevo, onde rilevare quali e quante furono le possessioni quante le castella, le corti ed i fedeli spettanti al patrimonio della mensa pisana.
Giovano inoltre quei documenti a conoscere in qual maniera quasi tutto il suolo davanti alla spiaggia di Pisa, stato progressivamente da quinduci e piĂš secoli abbandonato dal mare per le cause di sopra indicate, pervenisse per ragioni di sovranitĂ nella lista civile dei re dâItalia, e come poi in seguito da questi o dai loro ministri fosse donato alla mensa arcivescovile, o alla Primaziale, oppure al di lei capitolo, quando molti marchesi della Toscana, conti, visconti, o altri ricchi e devoti longobardi pisani, pro remedio animae, offerivano alle chiese il dominio diretto di tutta o di una parte delle corti o castella loro, su molte delle quali gli arcivescovi di Pisa esercitarono per qualche secolo giurisdizione temporale e spirituale.
Peraltro a cotesti piccoli dinastie gerarchi il Comune pisano aveva giĂ scorciato il potere, quando lâarcivescovo Ruggero nel 15 giugno del 1286 (stile comune) presentava al pievano di Cascina lettere del pontefice Martino IV, spedite nel 7 maggio da Orvieto, perchĂŠ quel sacerdote cercasse di ultimare la lite che allora verteva fra la mensa arcivescovile e gli Anziani di Pisa per la giurisdizione temporale deâcastelli deâMeli, di Riparbella, Beliora, Pomaja, Santa Luce, Lorenzana, Colle Alberti, Nugola, Filettole e Avane, Bientina, Usigliano e Colle Montanino.
Non ra mmenterò il diritto di pedaggio che il governo della repubblica aveva ceduto agli arcivescovi di Pisa rispetto alla dogana del sale e al ferro dellâisola dâElba, nĂŠ come gli Anziani, nel 1208, volendo aderire alle stanze dellâarcivescovo Ruggiero, ordinassero che il pedaggio solito riscuotersi a pro della mensa del Castel del Bosco fosse trasportato a Calcinaja.
Dirò piuttosto che nel 1464 gli ufiziali del Monte Comune di Firenze per una provvisione della Signoria consegnarono a Filippo di Vieri deâ Medici, allora arcivescovo di Pisa, tanta quantitĂ di terreno boschivo, prativo e padulesco dellâestensione di stiora 3661 quadrate, da prendersi nelle contrade di Barbaricina (presso le RR. Cascine di Pisa), a Cafoggio Reggio, al Marmigliajo , a Cisanello, ecc. luoghi esistenti nel suburbio occidentale di Pisa.
Lâepoca dellâerezione della chiesa di S. Maria Maggiore di Pisa in arcivescovile risale al 1092 mediante una bolla del 21 aprile diretta dal Pontefice Urbano II al vescovo Daimberto, cui giĂ dallâanno innanzi per bolla del 23 maggio 1091 aveva conferito la supremazia metropolitana sullâisola di Corsica. I suddetti privilegii furono confermati dai pontefici Gelasio II e Onorio II. Ma il Pontefice Innocenzo II allâoccasione di innalzare in metropolitana la cattedrale di Genova, assegnò a questa tre vescovi suffraganei della Corsica, mentre con la bolla del I maggio 1138 confermava ai metropolitani della chiesa pisana la supremazia sopra tre altri vescovi della stessa isola, aggiungendogli due chiese vescovili nellâisola di Sardegna con quella di Populonia in Terraferma, e dichiarando nel tempo stesso gli arcivescovi di Pisa Primati nel giudicato di Torres. Quindi con bolla del Pontefice Alessandro III (11 aprile 1176) fu concesso loro lâonore di Primati sulle provincie di Cagliari e Alborea. â Ma dopo espulsi i Pisani dal dominio della Sardegna, anche i loro arcivescovi perderono di fatto, se non di diritto, ogni giurisdizione spirituale, restandogli il titolo di Legati apostolici e di Primati nelle prenominate isole.Inoltre nel 1446 il Ponteficie Pio II staccò la diocesi di Massa e Populonia dalla metropolitana di Pisa per darla alla nuova arcivescovile di Siena.
Ma nel 1778, allâoccasione dellâerezione della diocesi di Pontremoli nella Lunigiana granducale, quel vescovo fu dato suffraganeo al metropolitano di Pisa, cui sono stati sottoposti, nel 1806 il nuovo vescovo di Livorno, e nel 1823 quello di Massa Ducale.
Cangiamenti recenti accaduti nel perimetro della diocesi di Pisa . â Nel 1789, per bolla del Ponteficie Pio VI del 18 luglio, furono staccati dalla diocesi di Pisa e dati a quelli di Lucca sette popoli costituenti il pievanato di Massaciuccoli, compresi tutti nel territorio lucchese, invece dei quali la diocesi di Lucca cedĂŠ alla pisana la pieve di Ripafratta coi popoli del vicariato di Barga; dipoi nel 1798 la diocesi di Pisa acquistò dalla lucchese i popoli del vicariato di Pietrasanta, spettanti al Granducato, comprevisi anco i due pievanati di Vallecchia e di Seravezza appartenuti alla diocesi di Pontre moli, giĂ di Luni Sarzana. â SennonchĂŠ nel 1806 furono smembrati dalla chiesa pisana tutti i popoli della diocesi di Livorno.
â Vedere LUCCA e LIVORNO, Diocesi.
Nello stato attuale la madre chiesa pisana conta 133 parrocchie, 18 delle quali dentro le mura della cittĂ , con 33 pivieri.
Dal Quadro sinottico qui appresso risulta che le 133 parrocchie ivi designate, nellâanno 1551 contavano 37632 abitanti dei quali 9434 abitanti spettavano ai Terzieri e 501 alle otto chiese suburbane. Nel 1745 le 133 parrocchie avevano 62798 abitanti dei quali 14015 erano nei Terzieri, e 4115 nelle 8 chiese suburbane di Pisa. Nel 1833 le 133 cure medesime avevano accresciuto la loro popolazione fino a 122863 abitanti dei quali 26374 alla cittĂ (comprese peraltro le quattro chiese suburbane deâ suoi Terzieri), mentre le altre otto chiese del suburbio di Pisa contavano 7460 abitanti. Finalmente nel 1840 tutta la diocesi si componeva di 135123 abitanti, dei quali 19192 nei Terzieri di Pisa, e 7968 abitanti nelle otto chiese suburbane.
La formazione però deâ pievanati collâandare del tempo ha sofferto varie vicende, talchè non è possibile determinare lâepoca dellâaggregazione delle chiese parrocchiali da lunga data soppresse o di rute.
La diocesi pisana, oltre al capitolo maggiore, composto di 27 canonici con 3 dignitĂ e 56 cappellani, ha tre chiese collegiate, una delle quali in cittĂ (la Conventuale deâCavalieri) e due nel distretto cioè, a Pietrasanta, e a Barga. Essa ha un grandioso seminario nel soppresso convento di S. Caterina deâFrati Domenicani, provvisto di maestri e di biblioteca con un collegio annesso.
Fra gli arcivescovi piÚ celebri non tacerò quel Daiberto che condusse i Pisani alla crociata del gran Goffredo.
Quel Pietro Mariconi che fu duce dellâarmata navale alla conquista delle isole Baleari, e quellâUbaldo Lanfranchi, campione di unâaltra crociata per riconquistare la santa cittĂ di Gerusalemme. Meritano pure di essere rammentati un Federigo Visconti, un Carlo Antonio del Pozzo, ed un Angelo Franceschi, i quali tutti lasciarono di se onorevoli memorie, per tralasciare molti altri arcivescovi insigni per dottrina e per cristiane virtĂš, senza dire di due altri troppo famigerati nellâistoria pisana e fiorentina a cagione della morte del conte Ugolino e della congiura deâPazzi.
QUADRO SINOTTICO dei 33 Pievanati della DIOCESI di PISA con la loro popolazione a quattro epoche diverse.
PIVIERE MAGGIORE di CITTAâ - nome del luogo: 1. Pievanato della Primaziale con 4 chiese suburbane titolo della chiesa: Terziere di S. Maria popolazione anno 1551: abitanti n° 2321, popolazione anno 1745: abitanti n° 4059, popolazione anno 1833: abitanti n° 6893, popolazione anno 1840: abitanti n° 7515; titolo della chiesa: Terziere di S. Francesco popolazione anno 1551: abitanti n° 3424, popolazione anno 1745: abitanti n° 4539, popolazione anno 1833: abitanti n° 8941, popolazione anno 1840: abitanti n° 9893; titolo della chiesa: Terziere di S. Chinsica popolazione anno 1551: abitanti n° 3689, popolazione anno 1745: abitanti n° 5408, popolazione anno 1833: abitanti n° 10540, popolazione anno 1840: abitanti n° 11782; N° 8 chiese suburbane fuori deâTerzieri, popolazione anno 1551: abitanti n° 501, popolazione anno 1745: abitanti n° 4115, popolazione anno 1833: abitanti n° 7460, popolazione anno 1840: abitanti n° 7968; TOTALE deli Abitanti del Pievanato maggiore: anno 1551 n° 9935, anno 1745 n° 18121, anno 1833 n° 33834, anno 1840 n° 37160.
PIVIERI DI CAMPAGNA - nome del luogo: 2. Pievanato di Arena titolo della chiesa: Pieve di Arena popolazione anno 1551: abitanti n° 131, popolazione anno 1745: abitanti n° 470, popolazione anno 1833: abitanti n° 565, popolazione anno 1840: abitanti n° 631; titolo della chiesa: S. Jacopo di Cafaggio reggio con lâannesso di Metato popolazione anno 1551: abitanti n° 94, popolazione anno 1745: abitanti n° 172, popolazione anno 1833: abitanti n° 471, popolazione anno 1840: abitanti n° 532; - nome del luogo: 3. Pievanato dâAsciano titolo della chiesa: Pieve dâAsciano popolazione anno 1551: abitanti n° 148, popolazione anno 1745: abitanti n° 509, popolazione anno 1833: abitanti n° 1396, popolazione anno 1840: abitanti n° 1590; titolo della chiesa: S. Jacopo dâAgnano popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° 232, popolazione anno 1833: abitanti n° 469, popolazione anno 1840: abitanti n° 479; - nome del luogo: 4. Pievanato dâAvane titolo della chiesa: Pieve dâAvane senza succursali popolazione anno 1551: abitanti n° 223, popolazione anno 1745: abitanti n° 297, popolazione anno 1833: abitanti n° 700, popolazione anno 1840: abitanti n° 738; - nome del luogo: 5. Pievanato di Barga titolo della chiesa: Collegiata di Barga popolazione anno 1745: abitanti n° 1830, popolazione anno 1833: abitanti n° 2510, popolazione anno 1840: abitanti n° 2675; titolo della chiesa: S. Maria a Loppia popolazione anno 1745: abitanti n° 834, popolazione anno 1833: abitanti n° 1473, popolazione anno 1840: abitanti n° 1633; titolo della chiesa: S. Niccola a Castelvecchio popolazione anno 1745: abitanti n° 278, popolazione anno 1833: abitanti n° 353, popolazione anno 1840: abitanti n° 410; titolo della chiesa: S. Frediano a Sommocologna popolazione anno 1745: abitanti n° 582, popolazione anno 1833: abitanti n° 536, popolazione anno 1840: abitanti n° 557; titolo della chiesa: S. Pietro a Campo popolazione anno 1745: abitanti n° 575, popolazione anno 1833: abitanti n° 792, popolazione anno 1840: abitanti n° 803; titolo della chiesa: S. Giusto a Tiglio popolazione anno 1745: abitanti n° 635, popolazione anno 1833: abitanti n° 883, popolazione anno 1840: abitanti n° 958; titolo della chiesa: S. Michele a Albiano popolazione anno 1745: abitanti n° 196, popolazione anno 1833: abitanti n° 243, popolazione anno 1840: abitanti n° 260; totale popolazione anno 1551 del Pievanato di Barga: abitanti n° 3895 - nome del luogo: 6. Pievanato di Bientina titolo della chiesa: Pieve di Bientina senza suffraganee popolazione anno 1551: abitanti n° 700, popolazione anno 1745: abitanti n° 1548, popolazione anno 1833: abitanti n° 2209, popolazione anno 1840: abitanti n° 2337; - nome del luogo: 7. Pievanato di Buti titolo della chiesa: Pieve di Bientina senza suffraganee popolazione anno 1551: abitanti n° 962, popolazione anno 1745: abitanti n° 1598, popolazione anno 1833: abitanti n° 3498, popolazione anno 1840: abitanti n° 3775; - nome del luogo: 8. Pievanato di Calci titolo della chiesa: Pieve di Calci popolazione anno 1745: abitanti n° 1474, popolazione anno 1833: abitanti n° 1764, popolazione anno 1840: abitanti n° 1844; titolo della chiesa: S. Bartolommeo a Tracolle popolazione anno 1745: abitanti n° 142, popolazione anno 1833: abitanti n° 199, popolazione anno 1840: abitanti n° 224; titolo della chiesa: S. Michele a Castel maggiore popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 1000, popolazione anno 1840: abitanti n° 1266; titolo della chiesa: S. Salvadore a Colle popolazione anno 1745: abitanti n° 187, popolazione anno 1833: abitanti n° 334, popolazione anno 1840: abitanti n° 327; titolo della chiesa: S. Andrea a Lama o a Zambra popolazione anno 1745: abitanti n° 202, popolazione anno 1833: abitanti n° 269, popolazione anno 1840: abitanti n° 343; titolo della chiesa: S. Agostino di Nicosia popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 463, popolazione anno 1840: abitanti n° 526; totale popolazione anno 1551 del Pievanato di Calci: abitanti n° 1249 - nome del luogo: 9. Pievanato di Calcinaja titolo della chiesa: Pieve di Calcinaja con lâannesso di Montecchio popolazione anno 1551: abitanti n° 515, popolazione anno 1745: abitanti n° 1142, popolazione anno 1833: abitanti n° 2437, popolazione anno 1840: abitanti n° 2586; - nome del luogo: 10. Pievanato di Campo titolo della chiesa: Pieve di Campo e annessi popolazione anno 1551: abitanti n° 199, popolazione anno 1745: abitanti n° 470, popolazione anno 1833: abitanti n° 877, popolazione anno 1840: abitanti n° 631; titolo della chiesa: S. Jacopo a Colignola popolazione anno 1551: abitanti n° 123, popolazione anno 1745: abitanti n° 302, popolazione anno 1833: abitanti n° 674, popolazione anno 1840: abitanti n° 876; titolo della chiesa: S. Giovanni Battista a Ghezzano popolazione anno 1551: abitanti n° 96, popolazione anno 1745: abitanti n° 233, popolazione anno 1833: abitanti n° 485, popolazione anno 1840: abitanti n° 502; - nome del luogo: 11. Pievanato di Caprona titolo della chiesa: Pieve di Caprona popolazione anno 1551: abitanti n° 169, popolazione anno 1745: abitanti n° 195, popolazione anno 1833: abitanti n° 420, popolazione anno 1840: abitanti n° 420; titolo della chiesa: S. Salvatore a Uliveto e annessi popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° 421, popolazione anno 1833: abitanti n° 801, popolazione anno 1840: abitanti n° 826; titolo della chiesa: S. Maria a Mezzana popolazione anno 1551: abitanti n° 94, popolazione anno 1745: abitanti n° 298, popolazione anno 1833: abitanti n° 426, popolazione anno 1840: abitanti n° 460; - nome del luogo: 12. Pievanato di S. Casciano a Settimo titolo della chiesa: Pieve di S. Casciano popolazione anno 1551: abitanti n° 166, popolazione anno 1745: abitanti n° 571, popolazione anno 1833: abitanti n° 841, popolazione anno 1840: abitanti n° 990; titolo della chiesa: S. Frediano a Settimo popolazione anno 1551: abitanti n° 215, popolazione anno 1745: abitanti n° 252, popolazione anno 1833: abitanti n° 1087, popolazione anno 1840: abitanti n° 1069; titolo della chiesa: S. Benedetto a Settimo popolazione anno 1551: abitanti n° 193, popolazione anno 1745: abitanti n° 520, popolazione anno 1833: abitanti n° 658, popolazione anno 1840: abitanti n° 767; titolo della chiesa: S. Benedetto a Settimo popolazione anno 1551: abitanti n° 193, popolazione anno 1745: abitanti n° 520, popolazione anno 1833: abitanti n° 658, popolazione anno 1840: abitanti n° 767; titolo della chiesa: S. Michele a Marciana e a Marcianella popolazione anno 1551: abitanti n° 205, popolazione anno 1745: abitanti n° 571, popolazione anno 1833: abitanti n° 629, popolazione anno 1840: abitanti n° 636; titolo della chiesa: S. Michele a Casciavola popolazione anno 1551: abitanti n° 128, popolazione anno 1745: abitanti n° 343, popolazione anno 1833: abitanti n° 942, popolazione anno 1840: abitanti n° 1033; titolo della chiesa: S. Maria e Jacopo a Zambra popolazione anno 1551: abitanti n° 155, popolazione anno 1745: abitanti n° 488, popolazione anno 1833: abitanti n° 619, popolazione anno 1840: abitanti n° 631; titolo della chiesa: S. Giorgio a Bibbiano popolazione anno 1551: abitanti n° 103, popolazione anno 1745: abitanti n° 385, popolazione anno 1833: abitanti n° 650, popolazione anno 1840: abitanti n° 773; titolo della chiesa: S. Lorenzo a Pagnatico popolazione anno 1551: abitanti n° 259, popolazione anno 1745: abitanti n° 331, popolazione anno 1833: abitanti n° 635, popolazione anno 1840: abitanti n° 637; titolo della chiesa: S. Prospero a Via Cava popolazione anno 1551: abitanti n° 559, popolazione anno 1745: abitanti n° 629, popolazione anno 1833: abitanti n° 995, popolazione anno 1840: abitanti n° 1087; titolo della chiesa: S. Jacopo a Navacchio popolazione anno 1551: abitanti n° 114, popolazione anno 1745: abitanti n° 100, popolazione anno 1833: abitanti n° 218, popolazione anno 1840: abitanti n° 247; titolo della chiesa: S. Stefano a Macerata popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 404, popolazione anno 1840: abitanti n° 453; - nome del luogo: 13. Pievanato di Cascina titolo della chiesa: Pieve di Cascina popolazione anno 1551: abitanti n° 893, popolazione anno 1745: abitanti n° 1757, popolazione anno 1833: abitanti n° 2244, popolazione anno 1840: abitanti n° 2482; titolo della chiesa: S. Andrea a Pozzale popolazione anno 1551: abitanti n° 44, popolazione anno 1745: abitanti n° 550, popolazione anno 1833: abitanti n° 985, popolazione anno 1840: abitanti n° 1125; titolo della chiesa: S. Pietro a Latignano popolazione anno 1551: abitanti n° 26, popolazione anno 1745: abitanti n° 542, popolazione anno 1833: abitanti n° 982, popolazione anno 1840: abitanti n° 1049; - nome del luogo: 14. Pievanato di Colle Salvetti, giĂ di Vicarello titolo della chiesa: Pieve di Colle Salvetti popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 509, popolazione anno 1840: abitanti n° 900; titolo della chiesa: S. Jacopo a Vicarello popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 760, popolazione anno 1840: abitanti n° 973; - nome del luogo: 15. Pievanato di Filettole titolo della chiesa: Pieve di Filettole senza succursali popolazione anno 1551: abitanti n° 208, popolazione anno 1745: abitanti n° 456, popolazione anno 1833: abitanti n° 904, popolazione anno 1840: abitanti n° 967; - nome del luogo: 16. Pievanato di S. Giovanni alla Vena titolo della chiesa: Pieve di S. Giovanni alla Vena popolazione anno 1551: abitanti n° 493, popolazione anno 1745: abitanti n° 772, popolazione anno 1833: abitanti n° 1485, popolazione anno 1840: abitanti n° 1564; titolo della chiesa: S. Andrea a Cucigliana popolazione anno 1551: abitanti n° 117, popolazione anno 1745: abitanti n° 305, popolazione anno 1833: abitanti n° 475, popolazione anno 1840: abitanti n° 498; titolo della chiesa: S. Quirico a Lugnano e annessi popolazione anno 1551: abitanti n° 217, popolazione anno 1745: abitanti n° 258, popolazione anno 1833: abitanti n° 440, popolazione anno 1840: abitanti n° 430; - nome del luogo: 17. Pievanato di S. Lorenzo alle Corti titolo della chiesa: Pieve di S. Lorenzo alle Corti popolazione anno 1551: abitanti n° 148, popolazione anno 1745: abitanti n° 377, popolazione anno 1833: abitanti n° 644, popolazione anno 1840: abitanti n° 775; titolo della chiesa: SS. Pietro e Giusto a Visignano popolazione anno 1551: abitanti n° 99, popolazione anno 1745: abitanti n° 185, popolazione anno 1833: abitanti n° 405, popolazione anno 1840: abitanti n° 420; titolo della chiesa: SS. Andrea e Lucia a Ripoli e Celajano popolazione anno 1551: abitanti n° 204, popolazione anno 1745: abitanti n° 130, popolazione anno 1833: abitanti n° 275, popolazione anno 1840: abitanti n° 281; titolo della chiesa: S. Sisto al Pino popolazione anno 1551: abitanti n° 134, popolazione anno 1745: abitanti n° 195, popolazione anno 1833: abitanti n° 345, popolazione anno 1840: abitanti n° 370; titolo della chiesa: S. Michele a Oratojo popolazione anno 1551: abitanti n° 149, popolazione anno 1745: abitanti n° 385, popolazione anno 1833: abitanti n° 778, popolazione anno 1840: abitanti n° 852; titolo della chiesa: S. Stefano a Pettori popolazione anno 1551: abitanti n° 142, popolazione anno 1745: abitanti n° 358, popolazione anno 1833: abitanti n° 625, popolazione anno 1840: abitanti n° 6 0; titolo della chiesa: SS. Ippolito e Casciano a Riglione con lâannesso di S. Donato a Montione popolazione anno 1551: abitanti n° 178, popolazione anno 1745: abitanti n° 592, popolazione anno 1833: abitanti n° 1332, popolazione anno 1840: abitanti n° 1667; titolo della chiesa: S. Ilario a Titignano popolazione anno 1551: abitanti n° 126, popolazione anno 1745: abitanti n° 312, popolazione anno 1833: abitanti n° 604, popolazione anno 1840: abitanti n° 617; - nome del luogo: 18. Pievanato di Lorenzana titolo della chiesa: Pieve di Lorenzana con piĂš lâannesso di Postignano popolazione anno 1551: abitanti n° 249, popolazione anno 1745: abitanti n° 575, popolazione anno 1833: abitanti n° 931, popolazione anno 1840: abitanti n° 955; titolo della chiesa: S. Michele a Orciano popolazione anno 1551: abitanti n° 98, popolazione anno 1745: abitanti n° 207, popolazione anno 1833: abitanti n° 717, popolazione anno 1840: abitanti n° 787; - nome del luogo: 19. Pievanato di S. Luce titolo della chiesa: Pieve di S. Luce popolazione anno 1551: abitanti n° 616 (con S. Lucia e S.
Bartolommeo), popolazione anno 1745: abitanti n° 176, popolazione anno 1833: abitanti n° 397, popolazione anno 1840: abitanti n° 452; titolo della chiesa: S. Lucia a S. Luce popolazione anno 1551: abitanti n° 616 (con Pieve di S.
Luce e S. Bartolommeo), popolazione anno 1745: abitanti n° 257, popolazione anno 1833: abitanti n° 696, popolazione anno 1840: abitanti n° 790; titolo della chiesa: S. Bartolommeo a Pastina popolazione anno 1551: abitanti n° 616 (con Pieve di S.
Luce e S. Lucia), popolazione anno 1745: abitanti n° 155, popolazione anno 1833: abitanti n° 450, popolazione anno 1840: abitanti n° 590; - nome del luogo: 20. Pievanato di Pietrasanta titolo della chiesa: Collegiata insigne di Pietrasanta popolazione anno 1551: abitanti n° 1644, popolazione anno 1745: abitanti n° 761, popolazione anno 1833: abitanti n° 2914, popolazione anno 1840: abitanti n° 3177; titolo della chiesa: S. Maria Maddalena e S. Felicita in Val di Castello popolazione anno 1551: abitanti n° 474, popolazione anno 1745: abitanti n° 386 (con S. Rocco a Capezzano), popolazione anno 1833: abitanti n° 511, popolazione anno 1840: abitanti n° 583; titolo della chiesa: S. Rocco a Capezzano popolazione anno 1551: abitanti n° 118, popolazione anno 1745: abitanti n° 386 (con S. Maria Maddalena e S.
Felicita in Val di Castello), popolazione anno 1833: abitanti n° 818, popolazione anno 1840: abitanti n° 877; titolo della chiesa: S. Salvadore a Cavriglia, fuori di Pietrasanta popolazione anno 1551: abitanti n° 154, popolazione anno 1745: abitanti n° 380, popolazione anno 1833: abitanti n° 1067, popolazione anno 1840: abitanti n° 1215; - nome del luogo: 21. Pievanato di Montemagno titolo della chiesa: Pieve di Montemagno per grado onorifico popolazione anno 1551: abitanti n° 522, popolazione anno 1745: abitanti n° 644, popolazione anno 1833: abitanti n° 755, popolazione anno 1840: abitanti n° 777; - nome del luogo: 22. Pievanato di Pomaja titolo della chiesa: Pieve di Pomaja senza succursali popolazione anno 1551: abitanti n° 118, popolazione anno 1745: abitanti n° 91, popolazione anno 1833: abitanti n° 392, popolazione anno 1840: abitanti n° 369; - nome del luogo: 23. Pievanato di Pontedera titolo della chiesa: Pieve di Pontedera senza succursali popolazione anno 1551: abitanti n° 905, popolazione anno 1745: abitanti n° 2656, popolazione anno 1833: abitanti n° 5302, popolazione anno 1840: abitanti n° 5447; - nome del luogo: 24. Pievanato del Ponte a Serchio giĂ di Vecchializia titolo della chiesa: Pieve del Ponte a Serchio giĂ di Vecchializia popolazione anno 1551: abitanti n° 272, popolazione anno 1745: abitanti n° 378, popolazione anno 1833: abitanti n° 979, popolazione anno 1840: abitanti n° 1115; titolo della chiesa: S. Andrea a Pescajola popolazione anno 1551: abitanti n° 105, popolazione anno 1745: abitanti n° 126, popolazione anno 1833: abitanti n° 206, popolazione anno 1840: abitanti n° 220; - nome del luogo: 25. Pievanato di Pugnano titolo della chiesa: Pieve di Pugnano popolazione anno 1551: abitanti n° 112, popolazione anno 1745: abitanti n° 264, popolazione anno 1833: abitanti n° 376, popolazione anno 1840: abitanti n° 441; titolo della chiesa: S. Lucia alle Mulina di Quosa popolazione anno 1551: abitanti n° 207, popolazione anno 1745: abitanti n° 490, popolazione anno 1833: abitanti n° 818, popolazione anno 1840: abitanti n° 877; titolo della chiesa: S. Ippolito a Colognole e Patrignone popolazione anno 1551: abitanti n° 233, popolazione anno 1745: abitanti n° 137, popolazione anno 1833: abitanti n° 367, popolazione anno 1840: abitanti n° 414; - nome del luogo: 26. Pievanato di Rigoli titolo della chiesa: Pieve di Rigoli con lâannesso di Corliano popolazione anno 1551: abitanti n° 242, popolazione anno 1745: abitanti n° 421, popolazione anno 1833: abitanti n° 630, popolazione anno 1840: abitanti n° 676; titolo della chiesa: S. Bartolommeo a Orzignano popolazione anno 1551: abitanti n° 72, popolazione anno 1745: abitanti n° 175, popolazione anno 1833: abitanti n° 380, popolazione anno 1840: abitanti n° 448; titolo della chiesa: S. Maria a Pappiana popolazione anno 1551: abitanti n° 117, popolazione anno 1745: abitanti n° 195, popolazione anno 1833: abitanti n° 488, popolazione anno 1840: abitanti n° 503; titolo della chiesa: S. Giovanni a Limite e Corvinaja popolazione anno 1551: abitanti n° 172, popolazione anno 1745: abitanti n° 230, popolazione anno 1833: abitanti n° 498, popolazione anno 1840: abitanti n° 543; titolo della chiesa: S. Martino a Ulmiano popolazione anno 1551: abitanti n° 79, popolazione anno 1745: abitanti n° 240, popolazione anno 1833: abitanti n° 543, popolazione anno 1840: abitanti n° 639; - nome del luogo: 27. Pievanato di Ripafratta titolo della chiesa: Pieve di Ripafratta senza succursali popolazione anno 1551: abitanti n° 222, popolazione anno 1745: abitanti n° 484, popolazione anno 1833: abitanti n° 692, popolazione anno 1840: abitanti n° 763; - nome del luogo: 28. Pievanato di Riparbella titolo della chiesa: Pieve di Riparbella popolazione anno 1551: abitanti n° 330, popolazione anno 1745: abitanti n° 292, popolazione anno 1833: abitanti n° 1112, popolazione anno 1840: abitanti n° 1253; titolo della chiesa: S. Giovanni alla Castellina popolazione anno 1551: abitanti n° 490, popolazione anno 1745: abitanti n° 380, popolazione anno 1833: abitanti n° 1284, popolazione anno 1840: abitanti n° 1407; - nome del luogo: 29. Pievanato di Seravezza titolo della chiesa: Pieve di Seravezza popolazione anno 1551: abitanti n° 1581 (con S. Martino alla Cappella), popolazione anno 1745: abitanti n° 1258, popolazione anno 1833: abitanti n° 1871, popolazione anno 1840: abitanti n° 1960; titolo della chiesa: S. Martino alla Cappella popolazione anno 1551: abitanti n° 1581 (con Pieve di Seravezza), popolazione anno 1745: abitanti n° 653, popolazione anno 1833: abitanti n° 1062, popolazione anno 1840: abitanti n° 1074; titolo della chiesa: S. Paolo a Ruosina popolazione anno 1551: abitanti n° 235, popolazione anno 1745: abitanti n° 325, popolazione anno 1833: abitanti n° 361, popolazione anno 1840: abitanti n° 428; titolo della chiesa: S. Ansano a Basati popolazione anno 1551: abitanti n° 173, popolazione anno 1745: abitanti n° 241, popolazione anno 1833: abitanti n° 327, popolazione anno 1840: abitanti n° 376; titolo della chiesa: S. Maria Lauretana a Querceta popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 2455, popolazione anno 1840: abitanti n° 2817; titolo della chiesa: S. Maria a Livigliani popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° 363, popolazione anno 1833: abitanti n° 580, popolazione anno 1840: abitanti n° 605; titolo della chiesa: S. Clemente a Terrinca popolazione anno 1551: abitanti n° 369, popolazione anno 1745: abitanti n° 592, popolazione anno 1833: abitanti n° 818, popolazione anno 1840: abitanti n° 802; - nome del luogo: 30. Pievanato di Stazzema titolo della chiesa: Pieve di Stazzema popolazione anno 1551: abitanti n° 630, popolazione anno 1745: abitanti n° 940, popolazione anno 1833: abitanti n° 898, popolazione anno 1840: abitanti n° 977; titolo della chiesa: S. Michele a Farnocchia popolazione anno 1551: abitanti n° 330, popolazione anno 1745: abitanti n° 647, popolazione anno 1833: abitanti n° 718, popolazione anno 1840: abitanti n° 746; titolo della chiesa: S. Pietro a Retignano popolazione anno 1551: abitanti n° 213, popolazione anno 1745: abitanti n° 385, popolazione anno 1833: abitanti n° 455, popolazione anno 1840: abitanti n° 519; titolo della chiesa: S. Sisto a Pomezzana popolazione anno 1551: abitanti n° 234, popolazione anno 1745: abitanti n° 322, popolazione anno 1833: abitanti n° 367, popolazione anno 1840: abitanti n° 381; titolo della chiesa: S. Maria al Cardoso popolazione anno 1551: abitanti n° 92, popolazione anno 1745: abitanti n° 196, popolazione anno 1833: abitanti n° 344, popolazione anno 1840: abitanti n° 375; titolo della chiesa: S. Niccolò al Pruno e Volegno popolazione anno 1551: abitanti n° 349, popolazione anno 1745: abitanti n° 495, popolazione anno 1833: abitanti n° 659, popolazione anno 1840: abitanti n° 706; titolo della chiesa: S. Antonio allâAlpe di Stazzema popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 397, popolazione anno 1840: abitanti n° 419; - nome del luogo: 31. Pievanato di Vallecchia titolo della chiesa: Pieve di Vallecchia popolazione anno 1551: abitanti n° 493, popolazione anno 1745: abitanti n° 1735, popolazione anno 1833: abitanti n° 2914, popolazione anno 1840: abitanti n° 3177; titolo della chiesa: S. Antonio a Cerretta popolazione anno 1551: abitanti n° 38, popolazione anno 1745: abitanti n° 96, popolazione anno 1833: abitanti n° 115, popolazione anno 1840: abitanti n° 132; - nome del luogo: 32. Pievanato di Vecchiano titolo della chiesa: Pieve di Vecchiano popolazione anno 1745: abitanti n° 409, popolazione anno 1833: abitanti n° 1160, popolazione anno 1840: abitanti n° 1231; titolo della chiesa: S. Frediano a Vecchiano popolazione anno 1745: abitanti n° 302, popolazione anno 1833: abitanti n° 710, popolazione anno 1840: abitanti n° 859; titolo della chiesa: S. Pietro a Malaventre popolazione anno 1745: abitanti n° 122, popolazione anno 1833: abitanti n° 798, popolazione anno 1840: abitanti n° 899; titolo della chiesa: SS. Simone e Giuda a Nodica popolazione anno 1745: abitanti n° 236, popolazione anno 1833: abitanti n° 717, popolazione anno 1840: abitanti n° 744; totale popolazione anno 1551 del Pievanato di Vecchiano: abitanti n° 763 - nome del luogo: 33. Pievanato di Vicopisano titolo della chiesa: Pieve di Vico Pisano senza suffraganee popolazione anno 1551: abitanti n° 649, popolazione anno 1745: abitanti n° 1076, popolazione anno 1833: abitanti n° 1263, popolazione anno 1840: abitanti n° 1526; - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1551: abitanti n° 27697 - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1745: abitanti n° 44668 - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1833: abitanti n° 89029 - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1840: abitanti n° 97963 RICAPITOLAZIONE - POPOLAZIONE dei tre Terzieri della CittĂ di PISA comprese 4 chiese suburbane: anno 1551 abitanti n° 9434 anno 1745 abitanti n° 14015 anno 1833 abitanti n° 26374 anno 1840 abitanti n° 29192 - POPOLAZIONE delle 8 parrocchie suburbane fuori dei Terzieri: anno 1551 abitanti n° 501 anno 1745 abitanti n° 4115 anno 1833 abitanti n° 7460 anno 1840 abitanti n° 7968 - POPOLAZIONE dei Pivieri di Campagna: anno 1551 abitanti n° 27697 anno 1745 abitanti n° 44668 anno 1833 abitanti n° 89029 anno 1840 abitanti n° 97963 - TOTALE DEGLI ABITANTI DELLA DIOCESI DI PISA: anno 1551 abitanti n° 37632 anno 1745 abitanti n° 62798 anno 1833 abitanti n° 122863 anno 1840 abitanti n° 135123 COMPARTIMENTO DI PISA Il Compartimento pisano in origine abbracciava il perimetro territoriale della sua repubblica, cangiato poi in distretto della fiorentina, compresovi il territorio disunito del Granducato di Toscana che gli fu e che attualmente gli resta aggregato, insieme alle isole del Giglio e di Gorgona ed ai paesi di terraferma con le isole che costituirono il principato di Piombino.
Da quel perimetro della repubblica conviene però distinguere lâantico suo contado dal distretto, mentre gli abitanti del primo come cittadini pisani godevano di maggiori diritti degli abitanti del secondo, siccome fu avvertito allâArticolo FIRENZE COMPARTIMENTO.
Il contado di Pisa dal lato orientale, alla sinistra dellâArno, terminava come adesso col torrente Ciecinella e rimontando il corso di questo abbracciava la ComunitĂ di Piccioli in Val dâEra. Di lĂ attraversava il fiume Era per abbracciare le Colline superiori e inferiori pisane fino in Val di Tora. Dal lato destro dellâArno il suo contado terminava col territorio di Vico Pisano sopra a Cintola, mentre le terre del Val dâArno spettarono un tempo al suo distretto. Dal lato poi settentrionale il contado pisano stendevasi in Val di Serchio, a partire da Filettole sino al mare, e di lĂ lungo il lido verso ostro fino alla Torre S.
Vincenzo, comprendendo il territorio di Campiglia.
Allâincontro spettava alla giurisdizione distrettuale della repubblica pisana tutto il littorale dalla Torre S. Vincenzo alla fiumara di Castiglione della Pescaja, siccome vi appartennero le isole dellâElba, della Pianosa, di Monte Cristo e del Giglio, mentre dalla parte di terraferma fu del distretto pisano fino al 1370 il territorio Sanminiatese, a partire dalla bocca dâElsa sino alla Chiecinella o Ciecinella, oltre i paesi di Val di Cecina e di Val di Cornia, che furono rammentati nei privilegii concessi agli Anziani di Pisa daglâImperatori Federigo I, Arrigo VI, Ottone IV, Federigo II e Carlo IV.
Se poi si volesse contemplare il Compartimento pisano, ossia il contado e distretto della Repubblica di Pisa, come lo era nel principio del secolo XIV, ne abbiamo una prova in un codice scritto da un tal Vanni di Zeno, e rivisto dal notaro Bernardo. Nel quale fu registrato un breve catalogo, mancante però di data cronica, dellâEntrate e alcune partite delle Spese spettanti alla Repubblica di Pisa; catalogo che è stato pubblicato nel 1839 in Berlino dal Dott. G. Doenninges nella Parte I dellâopera intitolata: Acta Henrici VII imperatoris, etc. (pag. 95 e 96).
Dal qual sommario pertanto apparirebbe che la repubblica di Pisa intorno al tempo dellâImperatore Arrigo VII avesse le entrate seguenti.
RENDITE ANNUE DEL DISTRETTO PISANO Dal regno Calaritano in Sardegna (ritraeva), Fiorini dâoro Da regno di Gallura ivi, Fiorini dâoro 20000 Dalle Condannagioni, nei detti due regni, Fiorini dâoro DallâIsola dâElba, al netto di spese, Fiorini dâoro 50000 Dai castelli di Castiglione della Pescaja e dellâAbbadia del Fango, al netto, Fiorini dâoro 12000 Dal castello di Piombino, fra sale e diritti al netto , Fiorini dâoro 6000 Sommano lâEntrate annue del Distretto Pisano, Fiorini dâoro 168000 RENDITE ANNUE DELLA CITTAâ E CONTADO DI PISA Dalle gabelle della cittĂ e dalla dogana della porta Degazia di Pisa, comprese le gabelle del Contado, circa lire 150,000 di moneta pisana detratte le spese, corrispondenti allora a Fiorini 48400 Dalle condannagioni deâgiudici nella cittĂ e contado di Pisa, unâanno per lâaltro Fiorini 30000 Sommano lâEntrate annue della cittĂ e contado di Pisa, Fiorini 78400 Totale dellâEntrate, Fiorini dâoro 246400 SPESE ANNUE DEL DISTRETTO PISANO Nel regno Calaritano per lo stipendio di 25 uomini a cavallo fissi, a ragione di otto fiorini al mese per uno, Fiorini 2400 Nel regno medesimo per 120 soldati a piedi per custodia deâcastelli che ivi teneva fissi il Comune di Pisa collo stipendio mensuale di lire 6 monete pisane per cadauno, importavano in un anno lire 8649 pari a fiorini dâoro 2804 Nel regno di Gallura per lo stipendio di 25 uomini a cavallo fissi, a otto fiorini il mese per cadauno, Fiorini dâoro 2400 Nel regno medesimo per 50 soldati a piedi fissi per la custodia deâcastelli, importavano lire 3600, pari a Fiorini dâoro 1161 Sommano le Spese annue dellâIsola di Sardegna, Fiorini dâoro 8765 SPESE ANNUE DELLA CITTAâ E CONTADO DI PISA Per lâannuo stipendio del PotestĂ e del Capitano del popolo lire 10000, pari a Fiorini dâoro 3225 Per lo stipendio di 370 pedoni che il Comune teneva fissi a custodia deâcastelli del suo contado, a lire tre soldi 10 il mese per ciascuno, sommano in un anno, Fiorini dâoro Somma delle Spese annue della cittĂ e contado di Pisa, Fiorini 20369 Totale delle Spese di un anno 29134 Frattanto lâautore del codice avvisò che il Comune di Pisa manteneva a seconda del bisogno, ora poche, e ora molte truppe a stipendio, ma di queste partite dichiarò a chi diresse cotesto conteggio di non ne voler dare ragione alcuna.
Similmente non volle rendere ragione perchĂŠ gli Anziani di Pisa, potendo essere serviti con assai minori impiegati di quelli che tenevano, nĂŠ salariassero assai piĂš del bisogno, sed fiunt (soggiunge egli)causa dandi eis lucrum et eos ditandi.
Ognuno peraltro a prima vista si accorge che se lâEntrate annue della Repubblica pisana, scritte da messer Vanni di Zeno, sembrano mancanti di molte partite, assai piĂš mozza apparisce lâEscita, quante volte uno riflette alle spese vistosissime chĂŠ quel Comune doveva fare nellâarmamento di 20 galere lâanno, nelle fortificazione deâporti e dei castelli, nelle spedizione e nel mantenimento di ministri allâestero, negli abbellimenti della cittĂ , nelle strade, ponti, canali, fosse, ecc. ecc.
Forse non tutti si accorgeranno che quel conteggio non può appartenere ai tempi dellâImperatore Arrigo VII, nĂŠ allâepoca in cui la Sardegna era occupata (almeno in parte) dalle armi del Comune di Pisa. Avvegnachè i pisani nel 1325 perderono quellâisola per intiero, senza piĂš riaverla, quando cioè la moneta del fiorino dâoro non si conteggiava in alcun paese della Toscana per lire 3 e soldi 2, come fu calcolata dallâautore del conteggio qui riportato.
Dal prospetto seguente fia facile rilevare che lâEntrata e lâUscita del Comune di Pisa pubblicata dal Dott. G.
Doenninges sembra stata scritta anzichĂŠ allâepoca dellâimperatore Arrigo VII, verso la metĂ del secolo XIV, e poco innanzi la famosa peste del 1348, quando appunto si spendeva il fiorino dâoro per lire 1 e soldi 2.
Dondechè, fatto il confronto con le rendite fisse del Comune di Firenze verso lâanno 1338, con quelle che furono descritte da Giovanni villani al cap. 92 del Lib. XI della sua Cronaca, risulterebbe che, mentre la repubblica fiorentina aveva unâentrata totale di fiorini dâoro 306400 lâanno, il Comune di Pisa incassava annualmente circa fiorini 246400 senza contare molte piccole rendite nel sommario predetto da messer Vanni di Zeno tralasciate.
COMPUTI DEL FIORINO DâORO, OSSIA GIGLIATO, IN LIRE, SOLDI E DENARI, DALLâANNO 1295 AL 1380.
- anno 1295 prezzi correnti del Fiorino dâoro: il fiorino dâoro si spendeva per soldi 39 di piccioli, o lire 1.19.- documenti che lo confermano: ARCH. DIPL. FIOR.
Carte della Badia a Ripoli del 18 aprile 1295.
- anno 1297 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fiorino dâoro valeva soldi 40, o lire 2.-.- documenti che lo confermano: RIFORMAG. DI FIRENZE del 13 Marzo 1296 (stile fiorentino) - anno 1302 prezzi correnti del Fiorino dâoro: il fiorino dâoro si spendeva per soldi 51, o lire 2.11.- documenti che lo confermano: GIO. VILLANI Cronica Lib. VIII. C. 59 - anno 1304 prezzi correnti del Fiorino dâoro: il fiorino stesso valeva lire 2.12.- documenti che lo confermano: GIO. VI LLANI Cronica Lib. VIII. C. 68 - anno 1331 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fiorino valeva lire 3.-.- documenti che lo confermano: GIO. VILLANI Cronica Lib. X. C. 196 - anno 1345 prezzi correnti del Fiorino dâoro: il fiorino valeva lire 3.2.- (CosĂŹ lo conteggiò lâA. del MS. sullâEntrata e Uscita del Comune di Pisa qui sopra riportata).
documenti che lo confermano: GIO. VILLANI Cronica Lib. XII. C. 26 - anno 1352 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fiorino valeva lire 3.8.- documenti che lo confermano: MATTEO VILLANI Cronica Lib. III. C. 52 - anno 1355 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fiorino valeva lire 3.9.- documenti che lo confermano: MATTEO VILLANI Cronica Lib. V. C. 2 - anno 1372 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fiorino valeva lire 3.9.6 documenti che lo confermano: Codice dellâArch. Arciv.
Pis.
- anno 1378 prezzi correnti del Fiorino dâoro: il fiorino per decreto del governo, fu valutato Lire 3.8.- documenti che lo confermano: RIFORMAG. DI FIRENZE del luglio 1378.
- anno 1379 prezzi correnti del Fiorino dâoro: nel febbrajo del 1379 nella Terra di Colle il fiorino dâoro valeva lire 3.14.- documenti che lo confermano: ARCH. DIPL. FIOR.
Carta della Com. di Colle 15 febbrajo 1378.
- anno 1380 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fu valutato lire 3.10.- documenti che lo confermano: AMMIR. Stor. Fior. Lib.
XII.
Senza dire degli smembramenti cui fu soggetto il territorio pisano posteriormente alla sua riunione al distretto della Repubblica fiorentina, mi ristringerò ai cangiamenti piĂš recenti ivi accaduti; il primo deâ quali nellâanno 1765 quando fu unito alla provincia inferiore sanese il territorio dalla ComunitĂ di Castiglion della Pescaja; il secondo smembramento ed il terzo nel 1834, quando vennero riuniti al Compartimento di Grosseto i paesi e ComunitĂ di Piombino, di Campiglia e di Suvereto; il piĂš moderno finalmente nel 1837, quando il Compartimento di Pisa cedĂŠ a quello di Grosseto i territorj comunitativi di Monteverdi e della Sassetta.
Potendo attualmente rettificare la superficie del Compartimento di Pisa con lâaggiunta di 4 comunitĂ dellâIsola dellâElba, ne comparisce un totale di quadrati 974.345, dai quali sono da detrarre quadrati 35.234 per corsi dâacque e strade; restando di territorio imponibile in tutto il Compartimento di Pisa quadrati 939.111. â Nellâanno 1833 vivevano costĂ 321.273 abitanti, pari a circa abitanti 274 e ½ per ogni miglio quadrato di suolo imponibile. Ma nel 1840 essendovi nella superficie medesima una popolazione di 345.246 abitanti ne risulta, che toccavano in cotesto anno repartitamente circa 295 e ½ abitanti per ogni miglio quadrato di terreno imponibile.
PROSPETTO della ComunitĂ del COMPARTIMENTO di PISA distribuito per Cancellerie.
- Capoluogo di CANCELLERIA: 1. PISA (Cancelleria di I classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâArno Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 66,858 Popolazione anno 1833, abitanti n° 32,211 Popolazione anno 1840, abitanti n° 41,206 - Capoluogo di ComunitĂ : Bagni di S. Giuliano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Serchio Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 25,589 Popolazione anno 1833, abitanti n° 13,631 Popolazione anno 1840, abitanti n° 14,860 - Capoluogo di ComunitĂ : Cascina Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâArno Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 21,633 Popolazione anno 1833, abitanti n° 13,969 Popolazione anno 1840, abitanti n° 15,800 - Capoluogo di ComunitĂ : Vecchiano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Serchio Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 18,472 Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,989 Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,438 - Capoluogo di CANCELLERIA: 2. BAGNONE (Cancelleria di III classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 17,620 Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,667 Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,705 - Capoluogo di ComunitĂ : Albiano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 2,986 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,051 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,123 - Capoluogo di ComunitĂ : Groppoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 2,695 Popolazione anno 1833, abitanti n° 712 Popolazione anno 1840, abitanti n° 774 - Capoluogo di ComunitĂ : Terra Rossa Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 5,243 Popolazione anno 1833, abitanti n° 407 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,849 - Capoluogo di CANCELLERIA: 3. BARGA (Cancelleria di III classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Serchio Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 21,378 Popolazione anno 1833, abitanti n° 6,869 Popolazione anno 1840, abitanti n° 7,296 - Capoluogo di CANCELLERIA: 4. FIVIZZANO (Cancelleria di III classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 64,043 Popolazione anno 1833, abitanti n° 12,682 Popolazione anno 1840, abitanti n° 13,380 - Capoluogo di ComunitĂ : Casola Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 12,165 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,568 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,534 - Capoluogo di CANCELLERIA: 5. GUARDISTALLO (Cancelleria di III classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 6,650 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,140 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,372 - Capoluogo di ComunitĂ : Bibbona Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 24,987 Popolazione anno 1833, abitanti n° 814 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,196 - Capoluogo di ComunitĂ : Casale Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 4,131 Popolazione anno 1833, abitanti n° 817 Popolazione anno 1840, abitanti n° 884 - Capoluogo di ComunitĂ : Gherardesca Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 40,615 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,476 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,887 - Capoluogo di ComunitĂ : Montescudajo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 5,349 Popolazione anno 1833, abitanti n° 930 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,052 - Capoluogo di CANCELLERIA: 6. LARI (Cancelleria di I classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Valli dâEra e Tora Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 23,155 Popolazione anno 1833, abitanti n° 7,484 Popolazione anno 1840, abitanti n° 8,529 - Capoluogo di ComunitĂ : Chianni Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 17,695 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,996 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,376 - Capoluogo di ComunitĂ : Colle Salvetti Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 35,303 Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,510 Popolazione anno 1840, abitanti n° 6,072 - Capoluogo di ComunitĂ : Fauglia Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 19,373 Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,029 Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,461 - Capoluogo di ComunitĂ : Lorenzana Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 5,433 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,284 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,414 - Capoluogo di CANCELLERIA: 7. LIVORNO (Cancelleria di I classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 27,008 Popolazione anno 1833, abitanti n° 75,273 Popolazione anno 1840, abitanti n° 79,752 - Capoluogo di CANCELLERIA: 8. PECCIOLI (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 26,240 Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,973 Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,496 - Capoluogo di ComunitĂ : Lajatico Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 16,252 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,526 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,619 - Capoluogo di ComunitĂ : Terricciola Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 12,208 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,815 Popolazione anno 1840, abitanti n° 3,315 - Capoluogo di CANCELLERIA: 9. POMARANCE (Cancelleria di III classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 70,973 Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,803 Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,551 - Capoluogo di ComunitĂ : Castelnuovo di Val d i Cecina Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 18,085 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,304 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,471 - Capoluogo di CANCELLERIA: 10. PIETRASANTA (Cancelleria di I classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Versilia Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 13,957 Popolazione anno 1833, abitanti n° 7,772 Popolazione anno 1840, abitanti n° 8,539 - Capoluogo di ComunitĂ : Seravezza Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Versilia Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 11,310 Popolazione anno 1833, abitanti n° 6,076 Popolazione anno 1840, abitanti n° 6,578 - Capoluogo di ComunitĂ : Stazzema Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Versilia Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 21,853 Popolazione anno 1833, abitanti n° 6,240 Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,885 - Capoluogo di CANCELLERIA: 11. PONTEDERA (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 10,291 Popolazione anno 1833, abitanti n° 7,843 Popolazione anno 1840, abitanti n° 8,032 - Capoluogo di ComunitĂ : Capannoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 6,256 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,110 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,498 - Capoluogo di ComunitĂ : Palaja Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 25,810 Popolazione anno 1833, abitanti n° 8,782 Popolazione anno 1840, abitanti n° 9,278 - Capoluogo di ComunitĂ : Ponsacco Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 5,614 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,640 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,899 - Capoluogo di CANCELLERIA: 12. PONTREMOLI (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 39,649 Popolazione anno 1833, abitanti n° 9,230 Popolazione anno 1840, abitanti n° 10,182 - Capoluogo di ComunitĂ : Calice Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 12,209 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,732 Popolazione anno 1840, abitanti n° 3,018 - Capoluogo di ComunitĂ : Caprio Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 5,235 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,163 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,307 - Capoluogo di Comu nitĂ : Filattiera Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 3,949 Popolazione anno 1833, abitanti n° 744 Popolazione anno 1840, abitanti n° 853 - Capoluogo di ComunitĂ : Zeri Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 32,682 Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,068 Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,648 - Capoluogo di CANCELLERIA: 13. PORTOFERRAJO (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Isola dellâElba Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 9,800 Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,008 Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,235 - Capoluogo di ComunitĂ : Porto Longone Valle in cui si trova il Capoluogo: Isola dellâElba Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 12,200 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,957 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,858 - Capoluogo di ComunitĂ : Marciana senza lâIsola di Pianosa Valle in cui si trova il Capoluogo: per la sola Isola dellâElba Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 29,800 Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,900 Popolazione anno 1840, abitanti n° 6,553 - Capoluogo di ComunitĂ : Rio Valle in cui si trova il Capoluogo: Isola dellâElba Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 10,400 Popolazione anno 1833, abitanti n° 3,557 Popolazione anno 1840, abitanti n° 3,802 - Capoluogo di CANCELLERIA: 14. ROSIGNANO (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 30,871 Popolazione anno 1833, abitanti n° 3,928 Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,401 - Capoluogo di ComunitĂ : Castellina Marittima Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine Superficie territoriale della Comu nitĂ in Quadrati: 13,102 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,284 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,324 - Capoluogo di ComunitĂ : S. Luce Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 19,344 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,936 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,016 - Capoluogo di ComunitĂ : Orciano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 3,454 Popolazione anno 1833, abitanti n° 717 Popolazione anno 1840, abitanti n° 787 - Capoluogo di ComunitĂ : Ripalbella Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 23,160 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,112 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,630 - Capoluogo di CANCELLERIA: 15. VICO PISANO (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâArno Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 15,595 Popolazione anno 1833, abitanti n° 9,600 Popolazione anno 1840, abitanti n° 10,177 - Capoluogo di ComunitĂ : Bientina Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâArno Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 8,527 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,209 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,337 - Capoluogo di ComunitĂ : Calcinaja Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâArno Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 4,139 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,735 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,997 - TOTALE superficie territoriale delle ComunitĂ : Quadrati 974,345 Per Corsi dâacque e Strade non imponibili: Quadrati 35,234 Restano al netto: Quadrati 939,111 In conseguenza per ogni miglio quadrato di suolo imponibile, ripartitamente diviso, toccavano nel 1833 circa 274 e 3/4 abitanti, e nel 1841 abitanti 295 - TOTALE popolazione anno 1833: abitanti n° 321,273 - TOTALE popolazione anno 1840, abitanti n° 345,246 STRADE REGIE TRACCIATE NEL COMPARTIEMNTO DI PISA 1. Strada Livornese per Pisa , che da Firenze guida a Livorno.
â Entra nel Compartimento di Pisa al ponte della Cecinella o Chiecinella (Comune di Palaja) e di lĂ per Pontedera, Cascina, Pisa fino a Livorno.
2. Strada traversa Livornese. â Staccasi dalla regia suddetta alla casa Carmignana (Comune di Cecina) e per Macerata passa sullâargine del fosso Reale per ponte di collina e Vicarello, Colle Salvetti, la Torretta, Marmigliajo il ponte del Malandrone e quello del fitto di Cecina e di lĂ sino alla torre di S. Vincenzo, dove entra e prosegue per il Compartimento di Grosseto lasciando in questa cittĂ il nome di Strada Emilia per quello di Strada Aurelia, sotto il qual vocabolo attraversa tutto il restante del littorale toscano.
3. Strada da Pisa a Lucca. Guida da Pisa a Lucca passando per i Bagni di S. Giuliano a Ripafratta, donde poi entra nel Ducato di Lucca.
4. Strada Sarzanese. â Ă quel tronco di Strada postale che entra nel territorio Pietrasantino al ponte di Capezzano, passa per pietrasanta sino alla Torre di porta, dove prosegue per altri Stati e Sarzana e di lĂ a Genova.
5. Strada traversa di Val di Nievole. â Staccasi dalla Strada regia Livornese fuori di Pontedera per il ponte nuovo del Gusciano, passa lâArno e di lĂ per la Collina di S. Colomba rasenta la gronda australe del Lago di Bientina, di lĂ dal quale prosegue nel Compartimento fiorentino per il Galleno e il ponte della Sibolla fino al Borgo a Buggiano dove si unisce alla strada regia Lucchese.
6. Strada suburbana di Pisa. â Dalla porta fiorentina lungo le mura suburbane di oltrâArno fino alla Strada regia Livornese che trova fuori di porta a Mare al ponte delle Bugie.
7. Strada suburbana di Livorno. â Dalla Barriera fiorentina a levante, e lungo la nuova cinta di Livorno alla Barriera Maremmana.
8. Strada militare di Fivizzano. â Dal confine dellâex feudo di Fosdinovo a quello del ducato di Reggio sullâAppennino di Camporaghena passando per Ceserano e Fivizzano.
STRADE PROVINCIALI TRACCIATE NEL COMPARTIMENTO DI PISA 1. Strada Massetana, detta del Cerro Bacato. â Parte da Volterra per Massa, ma non entra nel Compartimento di Pisa che al ponte sospeso sulla Cecina nella ComunitĂ delle Pomarance, lungo i Lagoni di Monte Cerboli e per Castelnuovo di val di Cecina sino al confine della ComunitĂ di Massa.
2. Strada di val di Cecina, da Volterra a Vada. â Entra nel Compartimento di Pisa al confine territoriale di Montecatini con Riparbella e di lĂ a Vada.
3. Strada traversa della Camminata. Staccasi dalla Via suddetta al ponte Ginori nella Cecina e per Val di Sterza sale il poggio per arrivare a Bibbona donde scende nella Strada Emilia.
4. Strada di Val dâEra. â Entra nel Compartimento di Pisa nel confine della ComunitĂ di Montecatini della Val di Cecina con quella di Lojatico passando sul nuovo ponte della Sterza e di lĂ sotto Terricciola e Capannoli attraversa Ponsacco sino a Pontedera.
5. Strada del Littorale. â Staccasi a Livorno dalla Barriera Maremmana passando rasente il lido del Mare sotto Montenero e di lĂ per Calafuria, il Romito e Castiglioncello arriva a Vada.
6. Strada traversa Livornese. â Da Ponsacco alla strada Regia Emilia presso Vicarello passando per Cenaja.
7. Strada Francesca del Val dâArno di sotto. â Spetta al Compartimento di Pisa lâultimo tronco che comincia in luogo detto la Fratta passando dalla scogliera del Bufalo recentemente tagliata infino al ponte nuovo a Bocca dâUsciano.
8. Strada Vicarese, o di Piemonte. â Staccasi dalla Regia traversa di Val di Nievole a S. Colomba e di lĂ dirigesi per Calcinaja, S. Giovanni alla Vena, Cucifino alla Porta alle Piagge di Pisa.
9. Strada del Tiglio. â staccasi dalla Via Regia traversa di Val di Nievole presso il nuovo ponte sullâArno a Bocca dâUsciana fino al confine lucchese presso la dogana del tiglio passando per Bientina.
10. Strada di Val di Magra. â Staccasi dalla Via militare a Ceserano e di lĂ per lâAulla, Terra rossa, Filattiera e Pontremoli sale lâappennino della Cisa per unirsi alla provinciale del ducato di Parma.
Risiede Pisa sul fiume Arno che sotto tre ponti di pietra le passa in mezzo mediante un alveo spazioso, fiancheggiato da comodi scali e da larghe strade lastricate e adorne in tutta la loro lunghezza di palazzi e di decenti abitazioni, talchĂŠ il Lungarno di Pisa latamente arcuato presenta una delle piĂš belle prospettive che possa mai vedersi in grandiosa cittĂ .
Trovasi Pisa nel grado 28° 4â di longitudine e 43° 43â di latitudine in mezzo ad una ubertosissima pianura della larghezza di 10 a 55 miglia toscane da grecale a ponente, fra il Monte Pisano e il littorale, della lunghezza di 13 alle 20 miglia toscane da settentrione a ostro, a partire dal Serchio sino alle Colline inferiori pisane, non piĂš che 10 miglia ostro libeccio di Lucca passando per la strada antica di S. Maria del Giudice, e 13 per la strada postale di Ripafratta; 4 miglia toscane nella stessa direzione dai Bagni Pisani di S. Giuliano; 12 miglia toscane a settentrione grecale di Livorno; altrettante a scirocco di Viareggio; 18 miglia toscane nella stessa linea da Pietrasanta passando però dallâantica via di marina; circa 6 miglia toscane a grecale dalla bocca dellâArno, e 7 ½ da quella del Serchio.
Ma se la situazione geografica di Pisa è appena variata da quella dei tempi antichi, essa peraltro è assai diversa oggidÏ rispetto alla corografia del suolo sul quale riposa.
SicchĂŠ dovendo percorrere brevemente le storiche e poscia le sue fisiche vicende, dividerò, rispetto alla parte storica, il presente articolo in cinque periodi per dare un cenno succinto; 1. di Pisa antica sino alla caduta dellâImpero Romano; 2. di Pisa sotto il dominio dei Goti e dei Longobardi; 3. di Pisa sotto i marchesi di Toscana; 4. di Pisa durante la sua Repubblica; 5. di Pira sullo il governo di Firenze fino ai giorni nostri.
1. PISA ANTICA FINO ALLA CADUTA DELLâIMPERO ROMANO La prima epoca di Pisa precede i tempi istorici; che se essa fioriva 30 e piĂš secoli indietro, pure a confessione di Catone il censore, il quale nacque centoventâanni prima dellâEra volgare, fino dâallora lâorigine di Pisa si nascondeva nelle tenebre. â (SERVII in Aeneid . Lib.
X). â I piĂš vecchi scrittori peraltro, siano essi italiani, oppure orientali, concordano nel dirci che Pisa esisteva alla presa di Troja, se non fu molto innanzi quando vi capitò una mano di gente dalla Tracia. Non so poi quanto lusingar possa lâamor proprio nazionale, diceva su tal proposito il Pignotti, il credersi da tempo immemorabile cittadini di un paese oltramarino piuttosto che di una nazione per arti e per lettere distinta fino dalla piĂš remota etĂ , come fu quella degli Etruschi.
Tuttavia nĂŠ si può fermamente asserire, nĂŠ decisamente negare che una colonia greca un dĂŹ si fermasse costĂ presso lâangolo estremo di terra dove si univano insieme il Serchio e lâArno innanzi che il progressivo interramento della sua spiaggia avesse allontanato Pisa dal mare.
E volendo supporre che la venuta dei Greci a Pisa sia accaduta avanti la distruzione di Troja, che verrebbe ad essere 1200 anni e piĂš innanzi la nascita di GesĂš Cristo, in tal caso bisognerebbe dire che Pisa fosse una delle piĂš vetuste e la piĂš costantemente celebre cittĂ dellâItalia.
Io non starò qui a rammentare le oscure parole del greco Licofrone che viveva due secoli e mezzo innanzi lâEra volgare, allorchĂŠ qualificò Pis a tra le piĂš insigni cittĂ nel tempo in cui Enea capitò in Italia. Non dirò con Plinio che Pisa abbia avuto origine da Pelope e dai Pisci, greca gente capitata nelle coste dâItalia tredici secoli avanti la nascita di GesĂš Cristo. â Neppure mi atterrò a Dionisio dâAlicarnasso col supporre Pisa fiorente sino da quando Deucalione condusse in Ausonia i suoi Pelasgi.
NĂŠ voglio affidarmi piĂš degli altri a Strabone che fece nascere Pisa da Nestore re di Pilo, allorchĂŠ questi dopo la presa di Troja, sbagliando cammini, navigò in Italia approdando coi suoi nel seno pisano. Dirò piuttosto essere piĂš in voga di tutte la tradizione che Pisa, ossia lâAlfea dei Greci, fosse conquistata dagli Etruschi, i quali lâincorporarono al loro territorio, siccome ne avvisa (ERRATA: il sommo liric) il sommo epicoo latino dicendo, che Pisa fornĂŹ ad Enea un battaglione di mille guerrieri.
Hos parere jubent Alpheae ab origine Pisae, Urbs Etrusca solo. â (AENEID. Lib. X) ChecchĂŠ ne sia, sembra credibile bensĂŹ che Pisa fosse da tempi assai remoti ragguardevole, qualora si contempli la sua posizione molto opportuna alle operazioni marittime, ben difesa dalla natura mediante due fiumi i quali, fiancheggiandone i lembi, si accomunavano costĂ quasi nel centro di una fertile ed irrigatissima pianura, a poca distanza da monti formati di marmi, vestiti di pini e di altri alberi di alto fusto proprii alla costruzione navale, in una parola per dolcezza di clima, per serenitĂ di cielo, per prodotti di suolo salubre, ricca e deliziosa.
Contuttociò mancano documenti da poter asserire che Pisa, avanti il dominio dei Romani, per potenza, popolazione, grandezza e commercio fosse una delle cittĂ piĂš considerevoli dellâ Italia. Imperocchè, sebbene il geografo Strabone abbia detto che i Pisani primeggiarono fra gli Etruschi per valore guerriero, trovandosi spesso alle prese contro i Liguri loro importuni vicini, ciò nondimeno resta sempre incerto tutto quello che spetta a Pisa innanzi la storia di Roma; e solamente dopo che questa figlia di Romolo divenne potenza, cominciò per la nostra Toscana ad albeggiare un poco di luce, la quale si rese alquanto piĂš chiara fra il V ed il VI secolo di Roma, circa 300 anni avanti GesĂš Cristo Per modo dâesempio, è tuttora una questione storica irresoluta quella di sapere se Pisa, posta nel suolo etrusco, facesse parte dellâantica Etruria; e se la porzione del suo territorio situata alla destra dellâArno e del Serchio era compresa nellâEtruria Media anzichĂŠ nella Liguria, o sivvero nellâEtruria Circumpadana? Ho giĂ detto che Pisa antica era fabbricata sullâangolo formato, a destra dallâArno, a sinistra dal Serchio, (Auser, Esar) la dove i due fiumi univansi in un solo. Di tal veritĂ fecero testimonianza per tutti Strabone, Plinio e Rutilio Numaziano, lâultimo deâquali allorchĂŠ visitò la stessa cittĂ nellâanno 415 o nel 416 dellâEra volgare, descriveva nel suo Itinerario la congiunzione deâdue fiumi cosĂŹ: Alpheae veterem contemplor originis Urbem, Quam cingunt geminis Auser et Arnus aquis.
Conum pyramidis coeuntia fulmina ducunt, Intratur modico frons patefacta solo: Sed proprium retinet communi in gurgite nomen, Et pontum solus scilicet Arnus adit.
Anche Strabone aveva detto che, dove lâArno e il Serchio, (seppure è quel desso appellato Esar) confluivano nel sito di Pisa, ivi lâimpeto delle onde faceva alzare il livello nella corrente di mezzo per tal modo che impediva alle persone situate nelle due opposte ripe di vedersi fra loro.
Io giĂ dissi allâArticolo LUCCA (Volume III pag. 877), che se Polibio nella sua istoria, se Silace nel suo Periplo fecero dellâArno il confine occidentale dellâEtruria, niuno di essi due, nĂŠ alcun altro antico scrittore che a me sia noto si occupò di tramandare ai posteri la notizia: se il territorio antico pisano alla loro etĂ oltrepassasse o no il fiume maggiore dalle Toscana.
Che piĂš: citando un passo di Tito Livio (Lib, XXXIV cap.
56) poco dopo io soggiungeva: ÂŤche da quello e da altri riscontri dello storico patavino mi sembrava poter concludere, che la cittĂ di Luni, prima etrusca, quindi Ligure, poi socia, finalmente suddita di Roma, dipendeva dai consoli e dai proconsoli residenti in Pisa. Inoltre, io ivi diceva, che dopo cotestâunione di Luni e di Pisa alla Repubblica romana il territorio lunense lungo il littorale toscano confinava immediatamente con quello pisano. â Vedere PIETRASANTA.
Alla pagina susseguente dello stesso volume (878) io aggiungeva: che qualcuno forse potrebbe domandare da qual parte il territorio assegnato nellâanno 577 ab U. C.
alla colonia romana di Lucca confinasse con quello châera stato concesso tre anni innanzi alla colonia latina dedotta a Pisa? Di piĂš; come si potrebbe conciliare la storia di Tito Livio con Livio istesso rapporto ai 303,000 jugeri di terreno assegnato alla colonia di Lucca, terreno che egli disse tolto dai Romani ai Liguri, ma che innanzi tutto apparteneva agli Etruschi? Come spiegare tuttociò dopo che la Tavola Velejate ci ha dimostrato che il territorio della colonia, ossia della repubblica lucchese, anche allâepoca dellâImperatore Trajano si estendeva fino nel territorio di Parma e di Piacenza, vale a dire, sul rovescio dellâAppennino? Questioni importantissime sembravano queste per me, comecchè poco confacenti allâopera che tengo indefessamente fra mano. Dirò solo (in quanto allâultimo quesito) che le parole di Tito Livio e la Tavola Velejate concordar potrebbero con le vicende istoriche quante volte lâerudito, distinti bene i tempi e le cose, richiamar procura alla sua memoria deâfatti di natura consimile.
Avvegnachè se Tito Livio, discorrendo delle colonie romane dedotte a Bologna, a Modena e a Parma (Hist.
Lib. XXXVII e XXXIX), diceva che il territorio stato assegnato a quei coloni, sebbene tolto ai Galli Boj, innanzi spettava agli Etruschi; per la stessa ragione è lecito supporre che il terreno della colonia di Lucca conquistato dai Romani ai Liguri potesse innanzi essere appartenuto agli abitanti dellâ Etruria.... Ma di qual Etruria? non giĂ io credo della Media, comâera la Toscana fino allâArno, ma piuttosto dellâEtruria Circompadana , la di cui estensione oltrappennina, e forse cisappennina , non fu, che io sappia, definitivamente dimostrata. Imperocchè nulla si oppone al mio dubbio che il territorio dellâEtruria Circompadana attraversasse una volta lâAppennino in guisa che le popolazioni piĂš meridionali di quegli Etruschi comunicassero con i popoli piĂš occidentali dellâEtruria Media, o Centrale innanzi che nella contrada fra lâArno e la Magra penetrassero le tribĂš dei Liguri Apuani. Arroge che il municipio di Lucca sino ai tempi del romano impero continuò a far parte della Gallia Togata o Cisalpina, dipendendo dal governo di quei proconsoli, come io avvisava allâArticolo LUCCA.
(ERRATA: Vol. III) Vol. II pag. 821-22.
Comunque sia, torno a ripetere, che la storia di Pisa, innanzi che essa cadesse in potere dei Romani, resta per anco allâoscuro.
La perdita della seconda decade di Tito Livio ed il silenzio di tutti gli altri storici sulle conquiste fatte dai Romani nellâEtruria occidentale, non ci permette di scoprire in qual epoca precisa Pisa fosse occupata dalle armi del Lazio. Altronde i marmi capitolini fissando allâanno 516 U. C. il primo trionfo riportato dai consoli sopra i Liguri confinanti con lâEtruria, e la notizia aggiunta da Polibio sulla conquista locale degli Etruschi fatta dai Romani, coincidendo con la venuta di Pirro in Italia, dopo domati i Sanniti e molte tribĂš deâGalli, ciò basta a scuoprire che fu allora per la prima volta, quando le romane legioni si avanzarono al di lĂ dellâEtruria per conquistare il restante dâItalia. Che se codeste congetture sembrassero troppo vaghe, altronde Livio aggiunge qualche avviso per decidere, che poco dopo la prima guerra Punica i Pisani erano alleati dei Romani, tosto che da Pisa nellâanno 520, o 21 di Roma, (232 avanti GesĂš Cristo) il console Q. Fabio Massimo Verrucoso , dopo aver vinto in terraferma alcune tribĂš di Liguri veleggiò con le sue legioni nellâisola di Sardegna, dove riportò vittoria. Finalmente in Pisa due anni dopo si riunirono le romane legioni sotto il Console M. Papirio Masone, per recarsi di costĂ nellâisola predetta e in quella di Corsica.
Ma il fatto piĂš decisivo dellâamicizia deâRomani con i Pisani lo fece conoscere il prenominato Polibio allâanno 528 o 29 di Roma (avanti GesĂš Cristo 225) quando il console Cajo Attilio Regolo sopra numerosi navigli imbarcò le sue legioni per tornare dalla Sardegna a Pisa e di lĂ per le etrusche maremme recarsi ai comizj di Roma, nel tempo che senza sua saputa la Toscana era invasa da numerosissime orde di Galli che restarono dai due consoli romani nei contorni di Cosa disfatte.
â (POLYB. Histor. Lib. II.) Nel qual conflitto essendo stato ucciso il console C.
Attilio, il di lui collega superstite L. Emilio Papo fu solo a godere in Roma gli onori del trionfo, accaduto nel giorno 5 di marzo, siccome nei fasti capitolini con le espressioni seguenti fu registrato: L. AEMILIUS Q. F. CN. N. PAPUS CON. AN DXXIIX.
DE GALLEIS III. NON. MA.RT.
Dobbiamo pure allo storico medesimo lâaltra notizia, cioè, che il console P. Cornelio Scipione nellâanno di Roma 535 o 36 (218 avanti GesĂš Cristo) appena seppe che Annibale col suo esercito aveva superato le Alpi per discendere in Italia, egli con scelto numero di milizie da Roma navigò a Pisa, e appena ebbe raccolto un esercito, sâincamminò nella Lombardia per accamparsi intorno al Pò, dove poi il console stesso restò vinto da Annibale e con gran perdita di gente messo in fuga. â (Oper. cit. Lib.
III).
Nel tempo però che i fatti principali della seconda guerra punica nelle parti meridionali dellâItalia accadevano, il senato romano inviava nellâEtruria occidentale delle legioni comandate dai pretori e dai proconsoli per difendere la costa marittima, e mantenere in fede del nome romano quelle popolazioni, molte delle quali dopo la disfatta di Canne (anno 537 U.C . 216 avanti GesĂš Cristo) ai Cartaginesi avevano aderito. â (LIVII, Hist. Lib.
XXVI.) Appena terminata cotesta guerra il governo di Roma deliberò dâinviare un esercito nella provincia di Etruria e uno nella Flaminia con lâistruzione ai consoli di soggiogare specialmente quei Liguri, Insubri e Galli Cisalpini, i quali nellâinvasione di Annibale si erano uniti a quel acerrimo nemico deâRomani.
Correva lâanno 558-59 ab U. C. (avanti GesĂš Cristo 195) quando al Console L. Valerio Flacco fu ordinato di portare la guerra fra i Galli Boj, e quasi nel tempo medesimo P. Porcio Leca pretore dâEtruria riceveva dallâesercito gallico 2000 pedoni e 500 soldati a cavallo per marciare verso Pisa ad oggetto di prendere alle spalle con le sue genti le piĂš orientali tribĂš ligustiche. â (Vedere APPENNIO TOSCANO Volume I. pagina 101).
In quellâanno però, e nel susseguente, nel tempo che i Romani si battagliavano coi Galli Boj e con gli Insubri, non accaddero fatti di rilievo in quanto ai Liguri. Ma giunto lâanno 560-61 ab U. C. (193 avanti GesĂš Cristo) arrivarono al senato di Roma lettere di Marco Cincio prefetto residente in Pisa, che avvisava il governo qualmente 20,000 Liguri di varie tribĂš limitrofe congiurando insieme erano scesi repentinamente a devastare il territorio lunense, e di lĂ inoltrate nel confine pisano scorrevano per tutta quella spiaggia marittima. â (LIVII, Histor. Lib. XXXIV).
Dondechè pochi giorni dopo il Console Q. Minucio Termo, cui era stata assegnata la provincia dei Liguri, mandò un editto perchĂŠ in Arezzo si riunissero i soldati di due legioni urbane con 15000 soldati a piedi e 500 a cavallo dei socj e dei popoli latini coscritti. Al che si aggiunse un Senatus consulto diretto ai consoli dellâanno antecedente T. Sempronio Longo, e P. Cornelio Scipione Affricano, che ordinava di staccare dal loro esercito i soldati deâsocj dirigendoli in Etruria nel luogo e nel giorno che da Q. Minucio sarebbe stato indicato. Frattanto i Liguri affluendo sempre piĂš intorno alla cittĂ di Pisa erano cresciuti sino a 40,000, quando il console mosse col nuovo esercito da Arezzo conducendolo con riserva, e come in ordine di battaglia (quadrato agmine) verso Pisa.
Arrivato costĂ il console potĂŠ con la sua armata introdursi in cittĂ , stante che lâoste si era accampata un miglio lungi di lĂ dal fiume; quindi nel giorno seguente Q. Minucio piantò i suoi accampamenti circa mezzo miglio a occidente di Pisa donde mediante piccole scaramuccie difendeva la cittĂ dai nemici, i quali altronde per essere piĂš forti di numero e ansiosi di preda scorrevano a saccheggiare quelle etrusche campagne. â (Oper. cit., Lib.
XXXV.) A cotesta etĂ pertanto i Pisani erano del popolo romano solamente alleati, di che fornisce piĂš dâuna prova lo stesso Tito Livio, il quale scrivendo appunto della guerra ligustica che si faceva in quel tempo dal Console Q.
Mincio soggiunge: come quel duce con leggieri combattimenti difendeva lâagro deâsocj, mentre non ardiva con tante minori forze collettizie allontanarsi da Pisa a campeggiare. E ciò anche sul riflesso che per avere in quellâanno stesso azzardato egli di condurre lâesercito in un passaggio angusto e montuoso, si trovò chiuso dai nemici in guisa che senza il coraggio di 800 cavalieri Numidi, i Romani correvano rischio di ritrovare colĂ il secondo caso delle forche caudine. â Vedere MINUCCIANO.
Avvicinatosi frattanto il tempo deâcomizj (marzo dellâanno 190 avanti G. G.) il console Minucio dovĂŠ scrivere da Pisa al senato, qualmente egli non potrebbe recarsi a Roma senza danno deâsocj e della repubblica (loc. cit.). Infatti dopo tale avviso fu prorogato per un altrâanno a Q. Minucio il comando dellâarmata contro i Liguri accampati nellâagro pisano, sopra i quali poco dopo egli ottenne una vittoria segnalata e tale che il suo esercito sâinternò nel paese nemico per mettere a ferro e fuoco i casali e vici deâLiguri, ritogliendo loro gran parte della preda etrusca fatta dallâoste nellâanno innanzi, dopo di che i Romani se ne ritornarono negli accampamenti di Pisa.
CosĂŹ terminò felicemente la campagna dellâanno di Roma 561 o 562. Ma nel susseguente, che fu il secondo anno del proconsolato di Q. Minucio, i Liguri avendo radunato gran numero di soldati, piombarono di notte improvvisi ad assalire gli accampamenti del proconsole che pure sostenne con bravura tanto impeto sino al fare del giorno.
Ma al primo albore Q. Minucio fece escire dagli steccati le sue genti, le quali dopo aver ucciso sul campo di battaglia da 4000 Liguri, misero il restante in piena fuga.
Che sebbene Q. Minucio nel terzâanno del suo proconsolato scrivesse al senato essersi i Liguri limitrofi dati per vinti, pure dopo quattrâanni di quiete quella razza indomita rinnovò le ostilitĂ con piĂš serio apparato, sicchĂŠ nei comizj dellâanno 565 al 566 di Roma fu decretato che a M. Valerio Messala, uno dei due consoli nuovi, venisse assegnata Pisa con la provincia della Liguria. Apparisce per altro dallo storico medesimo, che M. Valerio durante il suo consolato non fece alcuna cosa degna di memoria circa lâabbattere lâorgoglio di quei fieri montanari confinanti col territorio di Luni e di Pisa.
Per la qual cosa, nellâanno di Roma 566 e 567, appena creati i consoli M. Emilio Lepido e T. Flaminio Nepote, il senato di Roma deliberò che ad entrambi fosse confidata lâimpresa della guerra ligustica. In conseguenza il Console T. Flaminio condusse le sue legioni contro i Liguri Friniati (nel Frignano), costringendoli dopo varie battaglie a fare il suo volere; quindi portò la guerra a quei Liguri Apuani che nellâanno innanzi avevano fatta incursione non solo nellâagro pisano ma anche nel bolognese, e anchâessi furon costretti ben presto a darsi per vinti. Ma che costoro si mantenessero poco tempo soggetti al voler deâRomani è dimostrato dalla spedizione ordinata nellâanno seguente, quando il Console Q. Marcio Filippo marciò contro essi con nuove legioni, le quali furono assalite dai Liguri Apuani in luogo angusto e di difficile accesso, per modo che vi restarono morti 4000 soldati, perdute tre insegne della seconda legione, oltre 11 stendardi dei socj latini.
Allora il senato ai nuovi comizj (anno di Roma 568 al 569) ordinò al Console M. Sempronio Tuditano di condurre le sue legioni a Pisa per vendicare tanta ignominia ricevuta dai Liguri. Infatti poco dopo M.
Sempronio valorosamente eseguĂŹ le intenzioni del popolo romano, e superando lâasprezza deâluoghi montuosi, risalĂŹ da Pisa contro le sorgenti del Serchio fino al fiume Magra donde le legioni vittoriose passarono al porto di Luni.
SennonchĂŠ quelle feroci popolazioni alla fine dellâanno 571 al 72 di Roma non stettero piĂš ferme, giacchĂŠ il Console Q. Fabio Labeone, cui era toccata quella provincia, dovĂŠ scrivere al senato: esservi gran pericolo che gli Apuani, sempre pronti a rivoluzione, non irrompessero al loro solito nellâagro pisano. Per la qual cosa appena eletti i consoli, L. Emilio Paolo e Gn. Bebio Tanfilo, furono inviati entrambi contro i Liguri, per lâoggetto che eglino conducessero prosperamente la guerra ed espugnassero sopra tutto i Liguri Apuani fino nei loro inaccessibili tuguri. Quindi al tempo nuovo prima dellâadunanza deâcomizj fu ordinato ad un solo dei consoli di ritornare a Roma affinchĂŠ lâaltro restasse nella provincia. â Era giĂ avanzato lâautunno del 572 quando uno deâConsoli, L. Emilio, fece prendere alle sue legioni i quartieri dâinverno in Pisa, dove appena terminati i comizj tornò lâaltro collega Gn. Bebio in qualitĂ di proconsole.
Ma la tribĂš degli Apuani continuava sempre ad essere infesta ai Romani ed ai Pisani in modo che dal senato fu ordinato che ai consoli creati nellâanno di Roma 573-74 si fornissero due legioni con piĂš 5000 soldati a piedi e a cavallo degli alleati, donde con tale esercito si portasse una guerra decisiva nella contrada deâLiguri Apuani.
Per tal guisa lâoste trovandosi da tante forze neâsuoi stessi recessi assalita, dovĂŠ darsi a discrezione deâRomani, che imposero ai vinti la dura condizione di consegnare ai vincitori armi, uomini, donne, vecchi, fanciulli e tutto ciò che aveano di piĂš caro, costringendo nel tempo stesso quei montanari ad abbandonare le sedi avite ed i sepolcri deâloro maggiori. Cotesta operazione, per la quale si trasportarono nel Sannio 40,000 Liguri, essendo stata eseguita nellâanno predetto sotto il proconsolato di P.
Cornelio Cetego e di Gn. Bebio Tanfilo, fece dare a quelle colonie ligustiche il soprannome di Corneliane e Bebiane.
Quindi avvenne, che nellââanno stesso 574 di Roma i Pisani, vedendosi liberati da unâoste cotanto infesta, inviarono i loro legati al senato romano affinchĂŠ volesse mandare a Pisa una colonia di cittadini, siccome fu loro concessa di diritto latino, assegnando per triunviri della medesima Q. Fabio Buteone, Marco, e Publio Lenate.
Dalla deduzione per tanto della colonia latina in poi sembra che la cittĂ di Pisa cessasse di essere federata del popolo romano, ma invece che quel capoluogo di prefettura militare insieme col suo contado restasse unito allâItalia romana.
Peraltro, se Pisa potĂŠ acquistare mediante la sua colonia il diritto latino, la stessa cittĂ non perdĂŠ quello del municipio, voglio dire leggi, sacerdoti, divinitĂ , e magistrature proprie, nella guisa stessa che simili onori conservaronsi alla cittĂ di Lucca, al pari che a tanti altri popoli italiani rammentati da Festo alla voce Municipium.
â Vedere LUCCA., Volume II. pagina 821.
E siccome il popolo romano rispetto ai suffragj fu ripartito in 35 tribĂš, cosĂŹ la cittĂ di Pisa venne aggregata alla TribĂš Galeria, di che fanno testimonianza varii marmi sparsi per lâItalia, non pochi dei quali si conservano ancora in Pisa.
Mancano bensĂŹ dati da assicurare che dalla colonia latina pisana prendesse il nome una porta dellâantico cerchio dellâcittĂ , cui fu conservato il vocabolo di Porta Latina anche nei secoli intorno al mille. â Vedere piĂš avanti nellâArticolo medesimo Cerchi diversi delle mura di Pisa.
NĂŠ tampoco si conosce quali fossero e da qual parte i confini del territorio assegnato alla colonia latina di Pisa con quelli della colonia romana di Lucca, comecchè questâ ultima nellâanno 585 di Roma venisse ad occupare una parte dellâagro pisano. â Vedere LUCCA. Volume II, pagina 820.
Io dissi poco sopra, che dopo dedotta a Pisa la colonia di diritto latino, e dopo accordato a quella popolazione il privilegio deâsuffragj ascrivendola alla TribĂš Galeria, la stessa cittĂ col suo distretto divenne parte dellâItalia romana. Imperocchè lâItalia propriamente detta sotto il governo della romana repubblica aveva per confine lâArno dal lato del mare Mediterraneo ed il Rubicone dalla parte dellâAdriatico.
Ma se T. Livio fece di Pisa il capoluogo di una provincia diversa da quella deâLiguri (Hist. Lib. XXXIII e XLI) nel tempo stesso che Lucca con lâesteso suo territorio dipendeva dai governanti della Gallia Togata, bisogna ben credere che la cittĂ di Pisa dopo la deduzione della sua colonia restasse con tutto il contado annessole incorporata alla Toscana. Vi sarĂ forse alcuno che potrebbe porre innanzi qualche difficoltĂ , come sarebbe quella della Via Emilia munita da M. Emilio Scauro, dopo che questo console ebbe soggiogati i Liguri Gatisci. La qual via tracciata per Pisa e Luni sino ai Sabazi si crede sia stata aperta durante il proconsolato di Emilio Scauro (anno di Roma 639-40), vale a dire 66 anni dopo unita a Roma la cittĂ di Pisa.
Vero è che Strabone (Geograph. lib. V) ne assicura essere lâautore di detta strada quel M. Emilio Scauro che mediante lâescavazione di grandi fosse navigabili condusse dallâagro di Parma nel Poâ le acque che stagnavano in quelle vaste paludi transitate dallâesercito di Annibale con gran difficoltĂ innanzi di scendere in Toscana. Ma se Scauro, sento dirmi, quando era proconsole aprĂŹ la grande strada da Pisa ai Sabazi, come avrebbe potuto eseguire ciò fuori della sua provincia? Tostochè vigeva una legge che proibiva ai proconsoli di oltrepassare i limiti delle provincie loro assegnate? Come far ciò dentro lâItalia quando la costruzione delle vie militari e di altre opere pubbliche era riservata ai censori? Tali difficoltĂ per altro, comecchè siano di gran peso, dovranno perdere assai della loro forza allorchĂŠ si vorrĂ riflettere avere M. Emilio Scauro occupato novâanni dopo il suo consolato (cioè lâanno di Roma 647-48) anche questa seconda magistratura censoria. Per modo che potrebbe essere che il personaggio medesimo fosse stato autore non solo del tronco della Via Emilia compresa nella Gallia Togata, ma ancora della continuazione dellâAurelia che in qualitĂ di censore potea condurre dalle Maremme a Pisa e a Luni, e di lĂ come proconsole, nella Gallia Togata. CosĂŹ a senso mio, si riconcilia Strabone con Aurelio Vittore, o con chi fu lâautore delle vite degli uomini illustri, il quale nellâelogio di Emilio Scauro scriveva di lui: Censor viam Aemiliam stravit, Pontem Milvium fecit. â Vedere LâArticolo VIA AURELLIA NUOVA, o VIA EMILIA DI SCAURO.
Frattanto, se per cagione delle guerre civili da un lato scemavasi quasi per tutta Italia la popolazione, dallâaltro lato a Pisa si aumentava lâagro pubblico a proporzione che le colmate dalle torbe trascinate dal Serchio e dallâArno spingevano il delta pisano verso il litorale, stato in tempi piĂš antichi fondo di mare. Quindi riescĂŹ facile allâImperatore Cesare Augusto, piuttostochè al dittatore Giulio Cesare, di assegnare alle legioni reduci in Italia dalle vittorie riportate sopra i difensori della Repubblica i fondi pubblici deâmunicipj col ripartire a una di quelle tante colonie dei suoi veterani i terreni del litorale pisano, sicchĂŠ i nuovi ospiti di Pisa in ossequio del loro benefattore chiamarono la pisana Colonia Giulia Ossequiosa . Io dissi la colonia militare pisana creata da Augusto anzichĂŠ da Giulio Cesare non tanto sul riflesso che il cognome della famiglia Giulia era passato in quella di Augusto, quanto per la ragione che questâimperatore in 28 anni (dal 724 al 752 U.C.) popolò di soldati 28 colonie in Italia, corredandole di opere pubbliche, arricchendole di entrate, di diritti e dignitĂ , sicchĂŠ esse tanto in riguardo ai suffragi, quanto rispetto alle leggi ed ai magistrati decurionali potevano quasi paragonarsi ad altrettante piccole Rome. â (SVETONIO, in August. Cap. 49. â CHIMENTELLII, de Honore Bisellii â NORISII, Cenotaphia pisana).
Aggiungasi a tutto ciò un frammento che appoggia abbastanza il mio asserto. ImperocchÊ, e perirono le opere di quella età o le lapide dove un tal dubbio poteva decifrarsi, sussiste per avventura una prova plausibile e tale da far credere che la colonia Giulia Ossequiosa di Pisa spettasse ad Augusto e non a Giulio Cesare.
Io lâaccennai allâArticolo Luni (Volume II pagine 939 e 940) allorchĂŠ citando gli autori della rettificazione dei confini delle colonie, non volli passare sotto silenzio una notizia registrata in quei libri relativamente ai limiti delle colonie militari dedotte nella Campania e nelle Maremme toscane. ImperocchĂŠ ivi si legge che, in origine da Augusto fu ripartita ai veterani deâsuoi eserciti una parte deâcampi e delle selve nella regione della Campania e lungo tutta la via Aurelia (cioè Aurelia vecchia nella Maremma piĂš vicina a Roma, e Aurelia nuova, ossia di Emilio Scauro nella Maremma pisana). Nelle quali campagne si posero allora semplicemente deâ termini di legno sacrificali. SennonchĂŠ qualche tempo dopo lâImperatore (ERRATA : Adriano) Trajano fece sostituire ai termini di legno di quelle colonie altri dl pietra, sui quali fu scolpito il numero progressivo fino al confine dellâagro di ciascheduna di esse.
Sebbene le espressioni in quel libro indicate non specifichino alcuna colonia marittima lungo la via Aurelia, tale come fu quella di Pisa, vi ha però buona ragione per credere che anco la pisana Colonia Ossequente fosse una delle 28 colonie militari distribuite da Augusto per tutta Italia, dodici delle quali furono indicate da Frontino, due dal Sigonio, cinque altre dai marmi Gruteriani e una da quelli pubblicati dal Noris. â Quindi rispetto alla qualitĂ del terreno ripartito ed alla quantitĂ deâveterani dallâImperatore Augusto regalati, ne diede un indizio Dione Cassio nella sua Storia (Lib. 51), e lâiscrizione Anciriana pubblicata da Grutero.
Questâultimo marmo infatti ne avvisa, che nellâanno 723, o 24 a Roma, sotto il quarto consolato di Ottaviano Augusto, e nellâanno 789, o 740 sotto i consoli M. Licinio Grasso e Gneo Lentulo Augure a poco piĂš di 200,000 soldati furono assegnati dei predj parte pubblici, parte comprati e parte estorti ai municipj.
In ogni modo a Pisa faceva duopo di avere gente laboriosa e forte, onde coltivare le sue vaste campagne e fornire sufficienti operaj alla marina, nel cui porto molte volte il governo di Roma faceva imbarcare le sue legioni per la Liguria marittima, per la Gallia Narbonese, per le Spagne e piĂš spesso ancora per le isole di Corsica e di Sardegna.
Quindi è che molti coloni militari di Pisa dovettero far parte dei collegi dei fabbri navali e deâfabbri tignarj attinenti entrambi a quellâarsenale, della cui stazione fa fede sopra tutte unâiscrizione Gruteriana relativa a M.
Nevio Restituto della TribĂš Galeria che fu soldato della X coorte pretoriana, e che con suo testamento assegnò 4000 sesterzj al collegio dei fabbri navali della STAZIONE ANTICHISSIMA PISANA, affinchĂŠ ognâanno fossero celebrati al suo sepolcro i parentali, e in caso dâinosservanza nominò esecutori di ciò i fabbri tignarj di Pisa con facoltĂ di ritirare dai fabbri navali la moneta a tal uopo dal testatore assegnata.
Donde si scuopre che nella colonia pisana esistevano due collegj, coâsuoi decemviri, i decurioni ed i fabbri destinati alla costruzione navale. Oltre di ciò altri marmi della colonia indicano i questori, i flamini augustali ed i pontefici minori, mentre spettavano al municipio di Pisa gli edili pisani aventi lâonore del bisellio ed i curatori deâcalendarj, uno dei quali fu anche augustale, siccome lo fu quel L. Papirio Augustale in Pisa ed in Lucca, del quale feci passeggera menzione agli Articoli FOSSE PAPIRIANE e MASSACIUCCOLI.
Cotesti sacerdoti Augustali furono decretati nelle cittĂ dellâimpero quando tutto lâorbe romano innalzava per adulazione al divo Augusto ancora vivente are, fani e tempj, fino a che nel primo anno dellâimpero di Tiberio i sacerdoti Augustali furono in modo di collegio perennemente costituiti e confermati.
Era riservato peraltro alla capitale dellâorbe romano il collegio dei pontefici, cui fu ascritto il giovinetto Cajo Cesare Augusto figlio di M. Agrippa e di Giulia Augusta, adottato dallâavo Ottaviano imperatore insieme collâaltro fratello Lucio Cesare Augusto che fu ascritto al collegio degli Augustali di Pisa , della cui colonia militare fu anco patrono. â E qui cade il destro di rammentare i famosi decreti funerarj che i decurioni della colonia di Pisa fecero registrare in due grandi tavole di marmo, illustrate dal Noris nellâopera che ha per titolo Cenotaphia Pisana, e poco innanzi dallâerudito professore pisano Giovanni Pagni, il cui lavoro in gran parte conservasi inedito nella biblioteca Magliabechiana di Firenze.
Cotesti decreti funerarj furono ordinati dai Pisani in due tempi diversi, il primo per la morte di Lucio Cesare e il secondo un anno dopo quando morĂŹ Cajo Cesare, nati da Giulia Augusta a M. Agrippa, adottati ancor fanciulli dallâImperatore Ottaviano, per cui eglino furono di buon ora insigniti di onorificenze e di magistrature sacre e profane. Ma uno di essi Cajo Cesare, dopo aver dato prove di valore e di belle speranze, morĂŹ in oriente sotto il consolato di Sesto Elio Catone, e di C. Senzio Saturnino, cioè nel quarto anno dellâEra Volgare e 756 di Roma, quando lâaltro fratello, Lucio Cesare, stato Patrono della Colonia Giulia Pisana Ossequiosa , un anno innanzi era mancato ai vivi in Marsilia nel tempo che andava agli eserciti in Spagna: Ambo fato breves (scriveva di essi L.
Floro), sed alter inglorius, Massiliae quippe Lucius morbo solvitur. Che la morte di Lucio Cesare precedesse quella del fratello, lo disse Dione nelle sue sinopsi edite dal Zonara, ma niuno disse quando accadesse; solo lo attesta il decreto pisano deâsuoi parentali, dove è indicato lâanno e il mese della sua morte avvenuta verso la fine di agosto dellâanno 755 di Roma. Essendochè Lucio Cesare da qualche settimana non era piĂš tra i vivi, quando nel di 19 settembre dellâanno 755 di Roma i decurioni della colonia pisana, volendo imitare il senato di Roma, decretarono annuali esequie da farsi ai Mani di L. Cesare figlio di Cesare Augusto Padre della Patria, Pontefice Massimo, nella sua XV PotestĂ Tribunizia, la quale potestĂ cadde appunto nellâanno 755 ab Urbe Condita .
Lo che concorda assai bene con la testimonianza di Svetonio, il quale nella vita di Augusto, al Capitolo 65 scrisse: che questo Imperatore perdĂŠ Cajo e Lucio nello spazio di 18 mesi; giacchĂŠ tanti appunto ne corsero dal mese di agosto 755, epoca della morte di Lucio Cesare, al 21 febbrajo 757 Urbe Condita giorno della morte di Cajo Cesare, precisamente indicato nellâaltro decreto pisano. â (NORISII, Cenotaphia pisana . Dissert. II. capitolo. 15).
Strabone che scriveva la sua opera storico-geografica poco dopo la morte dei due fratelli adottati da Augusto, cioè fra lâanno di Roma 770 e 772, corrispondenti ai 18 e 20 dellâEra Volgare, dopo visitata cotesta contrada, indicò meglio di ogni altro la situazione topografica della cittĂ di Pisa nel modo in cui era a quella etĂ , voglio dire sulla confluenza dei fiumi Arno e Serchio; aggiungendo, che il restante dellâalveo da percorrere da Pisa al mare era allora di soli 20 stadj. E siccome il greco geografo nelle sue misure fece uso comunemente dello stadio olimpico, otto dei quali formavano un miglio romano, ne conseguita, che 18 secoli indietro lo sbocco dâArno nel mare doveva essere distante da Pisa intorno a due miglia e mezzo romane, pari a due miglia geografiche di 60 al grado.
Quindi lo stesso autore soggiungeva, essere stata una volta cotesta cittĂ assai felice tostochè essa primeggiò fra gli Etruschi per gloria dâarmi; e poichĂŠ anche al tempo del greco scrittore Pisa mantenevasi nobile ed opulenta cittĂ , dove per copia di vettovaglie, per opere in marmi, come ancora per materiali ad uso navale si abbondava, dei quali materiali non solo nei tempi della Repubblica romana erasi fatto gran uso, ma si adoperavano negli edifizi di Roma e nelle grandiose ville che nei contorni di quella capitale con magnificenza asiatica sâinnalzavano. Tali espressioni di Strabone appellano senza dubbio alla ricchezza dei marmi che fino dal tempo suo somministrare dovevano non tanto il Monte Pisano, quanto ancora i monti di Campiglia e le cave lunensi di Carrara, paesi sotto posti al prefetto dellâEtruria romana; sicchĂŠ di quei marmi si ornarono molti edifizj della cittĂ di Pisa, siccome lo manifestano i frammenti di lapide, le colonne, i capitelli ed i sarcofagi, che ad onta delle barbariche incursioni, dellâignoranza dei tempi e del lasso di tanti secoli mostransi tuttora in cotesta cittĂ muti ma espressivi testimoni di tal veritĂ .
Degli edifizj però di Pisa romana, ad eccezione delle arche, di molte iscrizioni lapidarie e dedicatorie, di non pochi torsi, di teste e altri frammenti di statue, attualmente non restano ivi sopra terra altro che meschini residui di terme, descritti da varj autori, e due colonne di marmo con i loro respettivi capitelli rimaste in posto, e che appartennero probabilmente al vestibolo di un tempio pagano eretto sotto gli imperatori Antonini, le quali veggonsi appoggiate al muro della distrutta chiesa di S.
Felice in Pisa. Da coteste sole vestigia di romani edifizi è dimostrato che il piano di essa cittĂ 16 o 17 secoli indietro era piĂš basso almeno 4 braccia fiorentine, pari a otto piedi romani rispetto al piano attuale. â Vedere qui appresso, CERCHJ DIVERSI DELLA CITTAâ, e PISA, COMUNITA.â.
Per quanto poi i due decreti della colonia pisana relativi ai parentali di Lucio e di Cajo Cesari rammentino i bagni pubblici, i giuochi circensi, gli scenici ed altre cose da far credere che in Pisa fino dâallora esistessero terme e circhi, pure non è da assicurare che gli avanzi delle Terme tuttora esistenti spettino allâepoca di Ottaviano Augusto, e molto meno che risalghino a quella della repubblica romana.
Ma le iscrizioni piĂš copiose superstiti dei tempi antichi riferiscono allâepoca dellâImperatore Adriano, o del suo successore Antonino Pio, che fu anche preside o correttore di quel monarca in Toscana. â Io non starò a rammentare qualmente spetta alla presidenza di Antonino Pio la sostituzione deâtermini di pietra e di marmo a quelli di legno nelle colonie militari marittime di Pisa, di Luni, Cosa, eccetera; nĂŠ starò a cercare se Adriano o piuttosto il suo successore fu quello che fece innalzare in Pisa terme, teatri, anfiteatri o quali altri pubblici edifizj, dirò bensĂŹ che fu opera ordinata da Antonino Pio imperatore quella dellâingrandimento e ricostruzione della Via Aurelia nuova, ossia di Emilio Scauro , la quale strada non solo egli fece ornare di colonne milliarie, ma volle ancora che per memoria del suo autore fosse chiamata, anzichĂŠ Aurelia nuova, Via Emilia , siccome adesso in tutto il Compartimento pisano costantemente si appella. Al che aggiungerò essere conosciuta abbastanza dagli eruditi fra le colonne milliarie quella esistente tuttora in Val di Fine presso Rosignano in un luogo che dal marmo milliario prese il nomignolo che porta attualmente di Marmigliajo , siccome vi se ne trova unâaltra da quella non molto distante in luogo appellato il Crocino. â Vedere (ERRATA: MARMIGLIAJO) RAMAZZANO.
Ma piĂš completa di tutte alla distanza di un miglio dalla prima esisteva una terza colonna trasportata di lĂ nel camposanto di Pisa, nella quale, oltre i titoli e il nome dellâautore di quel restauro, leggesi incisa la distanza delle miglia da Roma a detta colonna, al pari che nellâaltra, ma nella prima vi è lâepoca in cui fu la via ripristinata. Lo che avvenne nel secondâanno dellâimpero di Elio Antonino Pio, quando egli era console la terza volta, vale a dire (ERRATA: nellâanno 992-93) nellâanno 892 o 893 di Roma, ossia nel 140 di GesĂš Cristo. Eccone la copia: (ERRATA: CAES. L. AEL.) CAES. T. AEL.
ADRIANUS ANTONINUS AUG.
PIUS. P. M. TR. P. VI. COS. III. IMP.
II. PP. VIAM AEMILIAM VETU STATE DILAPSAM RESTITUEN DAM. CUR. A. ROMA M. P.
CLXXXVIII.
Nellâaltra colonna milliaria, stata collocata della precedente un miglio piĂš vicina a Roma, si legge semplicemente: VIA AEMILIA A ROMA M. P. CLXXXVII.
Io non credo che a queste frequenti colonne milliarie della grande strada di Emilio Scauro riferire volesse Rutilio Numaziano, allora quando egli nel recarsi a piedi dal Porto Pisano di Triturrita a Pisa vide lungo quella via vicinale frequenti pietre milliarie; sicchĂŠ il nobil poeta, dopo aver detto: Ipse vehor Pisas qua solet ire pedes, aggiungeva: Intervalla viae fessis praestare videtur Qui notat inscriptus millia crebra lapis.
(Itiner. Lib. II.) Ă chiaro che doveva esso riferire ad una via diversa dalla grande strada aperta anticamente da Roma al foro Aurelio, poscia continuata per Pisa, la quale passava per Val di Fine e Val di Tora, e per ciò disgiunta affatto dal Porto Pisano, da dove ai tempi di Rutilio staccavasi per Pisa una via municipale fiancheggiata da colonne milliarie. â Forse ad una di coteste colonne spettava il marmo dottamente illustrato dal Chimentelli nella sua opera de Honore Bisellii, e che egli trovò giacente ed inosservato nel portico della chiesa di S. Pietro in Grado fra Livorno e Pisa. Dico che non doveva esso appartenere alla Via Emilia restaurata dallâImperatore Antonino Pio, anche perchĂŠ quel cippo indicava la distanza di quattro miglia dalla cittĂ di Pisa e non da Roma. Essendochè nella Via Emilia di Scauro al pari che nelle grandi strade militari scolpivasi il numero delle miglia a partire da quello aureo della capitale del mondo romano.
Aggiungasi che nel cippo di S. Pietro in Grado si leggeva lâepoca in cui esso fu ordinato vale a dire, sotto i tre imperatori Valente, Graziano e Valentiniano II, corrispondente presso a poco allâanno 376 dellâE. V., non piĂš che quarantâanni innanzi che passasse per quella via Rutilio Numaziano. Ma lo scopo principale della gita pedestre di Rutilio da Triturrita a Pisa fu ad oggetto di visitare la statua innalzata dal popolo pisano nel foro della stessa cittĂ a Claudio Numaziano suo padre in benemerenza di aver egli con soddisfazione governato quei sudditi mentre era consolare della Toscana sotto gli ultimi Imperatori dâoccidente. Il qual magistrato equivalente al preside delle 17 provincie di Italia fu instituito dallâImperatore Adriano sino da quando la Toscana formava con lâUmbria una sola provincia; di che abbiamo una prova nella Notitia dignitatum imperii occidentalis, della qual opera si crede autore Sesto Rufo , dicendosi ivi, che il preside della Toscana e dellâUmbria era sottoposto al vicario di Roma, dal quale dipendevano altri otto presidi, o correttori di altrettante provincie dellâItalia. Cotesta ultima divisione politica si mantenne sino allâinvasione dei Goti, sotto il cui dominio i titoli di presidi o correttori si mutarono in quelli di prefetti, e poi di duchi.
2. PISA SOTTO IL DOMINIO DEâGOTI E DEâLONGOBARDI Lâultimo addio a Pisa romana ed ai suoi reggitori lo dava il patrizio Rutilio Numaziano quando, nellâanno 415 al 416 dellâEra volgare, fuggiva da Roma minacciata di restare preda di varie orde di barbari che irrompevano a vicenda dalle Alpi nellâItalia; per modo che il nobile francese volendo far ritorno alla sua patria, per sicurezza maggiore preferĂŹ allâimpeditissimo viaggio terrestre quello marittimo partendo da Roma per la foce del Tevere, e di lĂ costeggiando sopra una feluca il littorale toscano. â (RUTIL. NUMAT. Itinerar. Maritt.) Dalle poche parole che quel poeta lasciò scritte di Pisa si comprende che questa cittĂ nel principio del secolo quinto era sempre fiancheggiata e racchiusa fra i due fiumi Arno e Serchio (Auser) che ivi confluivano. â Che se Pisa non si mantenne in seguito costante sede dei capi della toscana provincia, essa però conservava molto dellâantico lustro, siccome lo diede a conoscere Numaziano stesso nel costume ad imitazione di Roma dai Pisani conservato, come quello di erigere statue agli uomini piĂš benemeriti dello Stato.
Quale poi la cittĂ di Pisa si rimanesse dopo la discesa deâbarbari in Italia, allorchĂŠ lâimpero dâoccidente ricevette lâultima scossa da quella stessa possanza di guerra che sulle rovine delle vinte nazioni lo aveva innalzato, quale fosse precisamente lo stato suo, non si saprebbe in tanta scarsitĂ di memorie e di meno guaste tradizioni plausibilmente ravvisare.
Il feroce Attila con i suoi Unni aveva portato la desolazione nellâItalia, quando alla testa di unâaltra razza di barbari (gli Eruli) nellâanno 478 di GesĂš Cristo per distruggere lâimpero di occidente vi capitò il re Odoacre, sconfitto esso stesso a vicenda dodici anni dopo da Teodorico re deâGoti, il quale costrinse quel re degli Eruli a rinchiudersi in Ravenna, e dopo tre anni di assedio (anno 493) a cedere il regno ad un piĂš valente conquistatore che fece della cittĂ di Ravenna la sua capitale ed una novella Roma.
Dalle lettere del re Teodorico raccolte dal dotto suo segretario Cassiodoro si può dedurre, che sotto quel saggio monarca la marina dâItalia, sia mercantile come da guerra, trovavasi in decadenza. Volendo però Teodorico rimetterla in piedi per far fronte alle forze navali deâGreci, decretò che nei porti del regno si fabbricassero mille bastimenti a guisa di galere (dromoni) capaci non solo di trasportare le merci, ma ancora di opporsi con successo ai navigli deânemici; e ordinava nel tempo stesso al prefetto navale di riunire sollecitamente un numero competente di marinari per formarne lâequipaggio, esclusi i pescatori. â A favorire lâindustria di questi ultimi appella unâaltra lettera di Teodorico diretta al prefetto stesso navale, cui comandava di far toglier di mezzo in alcuni fiumi dellâItalia le siepi, o le serre poste specialmente nel Mincio, nellâOglio, nel Serchio e nel Tevere, sicchĂŠ niuno ardisse mai piĂš di chiudere con tali ostacoli il passo alle barche pescherecce, sul riflesso che rusticani lavori non dovevano impedire la libertĂ dei fiumi mentre lâutile deâ privati non poteva mettersi a fronte di quello di una libera navigazione o della pesca, nĂŠ al pubblico interesse. â (CASSIOD., Epist. Varior. Lib. V. Epist. 17 e 20.) Da questâultima lettera molti dotti hanno arguito che a quellâetĂ , cioè sulla fine del secolo quinto, il Serchio (Auxer) non solo fosse navigabile, ma che avesse un corso suo proprio fino al mare. Peraltro le espressioni dellâepistola predetta non basterebbono a decidere il quesito, che sotto il regno di Teodorico il fiume Auxer (tradotto in Serchio), cessasse di essere tributario dellâArno, e che esso sboccasse direttamente nel mare Mediterraneo, siccome non sboccarono mai direttamente nellâAdriatico i due fiumi del Mincio ed Oglio che influiscono entrambi nel maggior fiume dâItalia.
Sembrami appunto per questo, se non mâinganno, che il Poâ ed altri grossi fiumi dellâItalia superiore non furono in quelle lettere nominati per lâimpossibilitĂ di opporre al loro corso impetuoso serre od altri ostacoli di simil fatta.
Mancato però il genio di Teodorico, la risorta marina al pari di molte altre opere di quel benemerito principe disparvero dallâItalia e dalla Toscana in guisa che le navi mercantili non azzardarono far piĂš lunghi tragitti. Cotesta trascuratezza nei successori di Teodorico per la difesa delle coste del regno facilitò ai Greci la discesa nella penisola che ricuperarono lâimpero.
Pisa con il restante della Toscana era in mano deâGo ti quando Narsete generale dellâImperatore Giustiniano, dopo la vittoria nellâUmbria sopra il re Totila riportata, mosse porzione del suo esercito verso lâEtruria. Tutte le cittĂ , meno Lucca, accolsero senza ostacolo i vincitori, i quali non pare che alterassero gran fatto il sistema organico delle gotiche magistrature, mentre conservarono le cariche e ufizj di provincia e di municipio che la vinta nazione aveva introdotto, o mantenuto, comâerano eglâimperatori dâoccidente, con la differenza però che i Greci invece deâprefetti di provincia sostituirono comunemente i duchi. Infatti uno di questi ultimi magistrati restò, o fu dato a Lucca dopo la sua onorevole capitolazione.
Se Pisa anchâessa fino dâallora avesse un duca proprio,o se quello di Lucca presedesse allâuna e allâaltra cittĂ , niuna memoria lo manifesta, nĂŠ anche dopo lâarrivo deâLongobardi dai quali furono espulsi i Greci dallâalta Italia, dalle provincie dellâUmbria e della Toscana, senza dire della conquista piĂš lontana da essi lungamente mantenuta del ducato di Benevento.
I soli esarchi, che a nome deglâimperatori dâoriente dopo Narsete risedettero in Ravenna, ed il pontefice in Roma, poterono a forza di armi, e talvolta per via di tregue o di paci a breve durata mantenersi in stato. â Era sul principio del secolo VII quando le cittĂ di Pisa e di Sovana in maremma governavansi quasi a repubblica, tostochè il Pontefice S. Gregorio Magno a quel tempo inviava colĂ gente incaricata dâindurre entrambi quei Comuni a favorire la causa dellâimperatore Maurizio di Costantinopoli. Ma nulla di buono il sommo gerarca per allora ottenne dai Pisani; chè anzi lo stesso Papa dovĂŠ informare lâesarca di Ravenna esservi nel porto di Pisa preparati i dromoni, o galere, per escire in corso contro le navi deâGreci e contro i sudditi dellâImperatore. â (S.
GREGORII MAGN. Lib. XIII Epist. 38. Smeragdo Patricio et Exarco).
Dalle quali cose risulta, che Pisa dopo lâingresso deâLongobardi in Italia continuò per molto tempo a mantenersi libera piuttosto che suddita dei Longobardi, benchĂŠ questi gia da 45 anni avessero fermato il piè in Italia. â Quando un loro duca stabilisse la residenza in Toscana, per guardare specialmente i confini lungo il littorale, non vi è dato sicuro da dirlo; siccome non potrebbesi asserire che quel duca Allovisino rammentato allâanno 686 in un diploma dato in Pavia dal re Cuniperto relativamente alla fondazione della chiesa di S. Frediano in Lucca, fosse duca di Toscana piuttosto che di altra provincia del regno: e nettampoco se questi o altri duchi longobardi suoi coetanei tenessero costantemente la loro sede in Lucca. â Vedere lâArticolo LUCCA.
â Comunque fosse, è certo però che allâespulsione deâLongobardi dallâalta Italia per opera di Carlo Magno, trovavasi in Pisa un duca militare e politico incaricato di guardare e difendere dalle scorrerie piratiche dei Greci la spiaggia toscana. Esisteva pure a questâultima epoca in Pisa al pari che in Lucca il palazzo e la corte dei duchi, siccome a Pisa al pari che a Lucca dai re Longobardi era stato concesso il diritto di batter monete di egual bontĂ e valore.
Delle quali veritĂ fanno testimonianza non solamente varj documenti pisani dei secoli VIII e IX, ma due lettere del pontefice Adriano I allâImperatore Carlo Magno, le quali ci scuoprono che il duca Allone longobardo, conservato, o nominato dal nuovo re al governo di Lucca e di Pisa aveva lo special incarico di custodire e difendere la spiaggia toscana dalle scorrerie e rapine dei Greci.
Ă altresĂŹ vero che qui non si tratta del periodo del regno deâLongobardi in Toscana, ma dei primi anni del conquistatore sopranominato. Alla qual difficoltĂ rispondere si potrebbe, che ignorando noi dal principio del secolo VII fino alla cacciata deâLongobardi il sistema politico del governo di Pisa sia credibile che al duca di Lucca fosse affidata la difesa di tutta la costa marittima toscana, e che essendo in Pisa e nel suo porto il principale emporio ed il maggiore arsenale della Toscana, non si potrebbe ragionevolmente insistere a impugnare come non verosimile la congettura, che anche allora la cittĂ di Pisa venisse contemplata dai Longobardi come punto centrale delle operazioni governative e militari di quella marca.
GiĂ allâArticolo LUCCA (Volume II. pagina 824) io diceva, che se la storia non fu generosa abbastanza per indicarci il tempo preciso della conquista della Toscana fatta dai Longobardi, essa per altro ne ha in qualche modo ricompensato col mostrarci fino dai primi anni del regno di Carlo Magno in Lombardia un duca di Pisa e di Lucca nella persona medesima e al tempo stesso. Tale fu il duca Allone testĂŠ rammentato, a carico del quale il Pontefice Adriano piĂš di una volta ebbe a reclamare al suo sovrano, e specialmente in una lettera riportata al numero 65 del codice Carolino, colla quale il Papa informava Carlo Magno di non aver potuto indurre il duca Allone ad armare tante galere da tenere in freno e dar la caccia ai Greci; nel tempo che questi facevano molto danno colle loro navi alle spiagge toscane, imbarcando gli abitanti che abbandonavano un paese afflitto (diceva egli) dalla miseria e dalla carestia.
E qui cade il destro di richiamare alla memoria una legge del re Rachi scoperta dallâillustre amico mio Carlo Troja nel famoso codice del monastero della Cava presso Salerno, dove si parla delle provincie del regno Longobardo confinanti con gli stati esteri, che fino dâallora designavansi sotto il nome di Marche.
Dalla qual legge fu stabilito che ai confini delle Marche vi dovessero essere delle guardie, sia perchĂŠ i nemici non vi potessero inviare spioni (Scolcas mittere) sia per arrestare i fuggiaschi; sia per non permettere lâingresso nel regno ad alcuno senza ordine in scritto, ossia passaporto (lettera del re). â Vedere lâArticolo CHIUSA.
â (PROGRESSO DELLE SCIENZE Volume I. Fascicolo I. Napoli 1832).
Conosciuta pertanto lâesistenza delle Marche sotto il regno deâLongobardi, sempre piĂš la lettera del Pontefice Adriano I ne convince che lâautoritĂ del duca Allone, nei primi tempi almeno del regno di Carlo Magno in Italia, non si limitava al solo ducato di Lucca, tosto che Pisa e molta parte delle toscane maremme dipendevano da un solo governatore. Lo che accadeva nel tempo che il re Carlo assegnava un duca minore alle cittĂ di Firenze e di Chiusi comprese pur esse nella Toscana deâLongobardi, Unâaltra lettera (la 55 del codice Carolino) fu diretta da PP. Adriano I a Carlo Magno col mezzo dellâabate Gunfredo cittadino di Pisa; nella quale dopo aver ringraziato quel Magno conquistatore di aver liberato dallâostaggio e restituiti i beni allâabate predetto, gli notifica lâostacolo che lo stesso abate incontrava per parte del duca Allone, il quale, anzichĂŠ restituirgli i presidj confiscati, aveva tesi lacci alla vita di lui nellâoccasione di ritornare in Toscana. II quale abate Gunfredo io riconobbi essere uno dei figli dellâabate S. Walfredo nato da Radgauso cittadino pisano, che sino dal 754 fondò nei suoi beni la badia di S. Pietro a Palazzuolo in Maremma.
â Vedere gli Articoli ABAZIA DI MONTEVERDI, ASILATTO e BOLGHERI.
Ma unâaltra gloria nel secolo VIII può vantare la cittĂ di Pisa, quella di essere stata culla al primo lettorato italiano che conta la storia in quei tempi dâignoranza; intendo dire di Pietro Diacono, il quale professò le belle lettere in Pavia nel palazzo stesso di Carlo Magno, di cui divenne anche maestro, benchĂŠ Pietro fosse giunto allâetĂ senile; e lui stesso può anche dirsi il primo professore italiano che Carlo Magno chiamasse a insegnare le belle lettere in Francia; sicchĂŠ a buon diritto il du Boulay, nella sua Hist.
Univ. Parisien., ebbe a confessare che il pisano Pietro Diacono fu meritatamente il primo istitutore delle regie scuole in quel regno.
3. PISA SOTTO I MARCHESI DI TOSCANA Un fatto di qualche entitĂ per la storia politica della Toscana mi sembra quello di trovare sul principio del secolo IX applicato il titolo di conte a quei governatori medesimi, i quali verso la fine del secolo precedente appellavansi duchi; come anco di riscontrare i soggetti stessi decorati del doppio incarico di conte speciale di una cittĂ e di duca di una provincia.
Per spiegarmi meglio io rammenterò due fatti, sebbene siano stati annunciati allâArticolo LUCCA (Volume II pag. 825).
Wincheramo, successore di Allone nel ducato della Toscana, o almeno di una sua gran parte, innanzi lâ810, stando ai documenti superstiti lucchesi, si qualificava col titolo di duca; mentre in tre placiti proclamati in Lucca dopo il detto anno Wincheramo si sottoscriveva conte, o, si voglia dire, capo del governo di quella stessa cittĂ .
Un simile esempio trovasi poco dopo rinnovato nel duca Bonifazio I che a Wincheramo successe col titolo di conte di Lucca e di duca della Toscana. In riprova di ciò sarebbe un istrumento dellâaprile 813 scritto in Lucca, nel quale Bonifazio è qualificato dai Lucchesi illustrissimo conte nostro , mentre nel marzo dellâanno precedente egli aveva celebralo un altro giudizio in Pistoja come duca.
Esser doveva suo figlio quel conte Bonifazio II, cui nellâ828 fu affidata dallâImperatore Lodovico Pio una onorevole commissione dopo che venne nominalo di lui prefetto e governatore nella Corsica, quando Bonifazio II come duca mandava ordini ai conti delle cittĂ della marca di Toscana per recarsi coi loro soldati, mettendosi lui alla testa, contro i pirati affricani. â Ed era, io credo, lo stesso Bonifazio II quello che si sottoscriveva col titolo di conte, allorchĂŠ nellâ823 in Lucca prestava il suo consenso alla sorella Richilda figlia del fu conte Bonifazio; la qual donna era stata eletta in badessa di uno di quei monasteri. Viceversa nei placiti e istrumenti scritti in altre cittĂ della Toscana i due Bonifazj qui sopra nominati si qualificavano talora solamente duchi, ed altre volte col doppio titolo di duchi e di conti.
Che lâingerenze deâconti equivalessero a quelle di giudice, o governatore di una cittĂ e suo contado, forniscono ragioni per crederlo oltre i documenti dal Muratori in prova di ciò riportati, quello di trovare un Aganone conte di Lucca successore immediato del conte Bonifazio II. Il quale Aganone sembra che esercitasse la carica di conte di Lucca (dallâ838 allâ844) e poscia in Pisa (loc.cit.), e ciò nel tempo stesso che presedeva al governo della Toscana lâillustrissimo duca Adalberto I figlio del duca e conte Bonifazio II.
Da tutto ciò pertanto ne conseguita che non sempre il personaggio stesso disimp egnava in Toscana il duplice incarico di duca e di conte. Infatti nel dicembre dellâ858 troviamo Adalberto I nella corte regia di Lucca presedere come duca di Toscana un giudicato, assistito dalle due principali dignitĂ ecclesiastiche e politiche della cit tĂ cioè, da Geremia vescovo di Lucca, e dal fratello di lui conte Ildebrando figlio del fu Eribrando. Allâincontro pochi anni dopo (anno 865) sotto il duca Adalberto II incontriamo in Lucca un conte Winigi, probabilmente quello stesso personaggio di origine francese che due anni dopo risiedeva in Siena insignito della dignitĂ medesima di conte di quella cittĂ e provincia, e che ivi divenne stipite dâillustre e potente consorteria di magnati. â Vedere ABAZIA DELLA BERARDENGA, ASCIANO, ecc.
Finalmente trovo il duca Adalberto II, che ad imitazione di suo padre, dellâavo e del bisavo si appropria lâuna e lâaltra dignitĂ , cioè, di conte della cittĂ e distretto di Lucca, nel tempo che era decorato della piĂš estesa prerogativa di duca della Toscana. â A questâultimo titolo di duca dâallora in poi si dovĂŠ aggiungere lâaltro di marchese, equivalente a governatore civile e politico di qualche marca. (loc. cit.) Tale ci si presenta un editto dellâImperatore Lodovico II dato lĂŹ 18 dicembre 871 e pubblicato dal Fiorentini nelle memorie della contessa Matilde, con cui quel sovrano, ad istanza di Gherardo Vescovo di Lucca,che reclamava dei beni tolti alla sua mensa, nominò in giudici a quel placito i vescovi di Pisa, di Pistoja e di Firenze, non che Adalberto illustre conte e marchese, insieme col conte Ildebrando e Ubaldo fedele dellâImperatore.
Dondechè dal duca Adalberto II in poi, tutti quelli insigniti della carica di duca si qualificarono indifferentemente marchesi e duchi della Toscana, o dei Toscani. Frattanto non dissimulerò che, per quanto esista piĂš dâun istrumento, in cui il conte di Lucca viene qualificato duca e marchese della stessa cittĂ ; che, sebbene qualche volta si legga nelle memorie, che Lucca fu capo di tutta la Marca dl Toscana, non mancano altre scritture, nelle quali si dichiara intorno a quellâetĂ anche la cittĂ di Pisa capo della provincia di Toscana. â (LIUTPRANDI, Histor. Lib. 21 Cap. 4). â Concluderò pertanto col Muratori, che i duchi e marchesi della Toscana, abitando in una piuttosto che in altra delle cittĂ sopraindicate, conferivano a quella della piĂš assidua loro residenza il diritto di appellarsi capitale della marca ducale, ossia del marchesato di Toscana.
Ma per tornare alla storia speciale di Pisa sia da sapere che, nellâanno 926,vi sbarcò venendo dalla Francia meridionale il re Ugo figlio della regina Berta e di Teobaldo re di Provenza; e che, appena si propagò il di lui arrivo, accorsero a Pisa da varie parti dellâItalia magnati, ambasciatori, principi, i quali coi delegati apostolici inviati dal Pontefice Giovanni X, recatisi di lĂ in Pavia proclamarono e incoronarono Ugo in re dâItalia.
GiĂ da qualche anno questo monarca reggeva la penisola quando al marchesato di Toscana subentrò un figlio spario, il marchese Oberto salico , padre del gran conte Ugo, che fu poi di Oberto stesso successore finchĂŠ visse (anno 1101) nel marchesato medesimo. Era madre di quel marchese Ugo la contessa Willa nata da un Bonifazio di legge ripuaria forse anchâesso marchese di Toscana. La qual contessa, per istrumento dato in Pisa nel 31 maggio del 978, fondò nei suoi possessi la badia fiorentina, mentre 9 anni innanzi la principessa medesima era in Lucca, dove per contratto del dĂŹ 8 luglio, anno 969, fece acquisto da un tale Zanobi della chiesa di S. Stefano situata presso le antiche mura di Firenze, dove poi la contessa Willa fece costruire la chiesa e cenobio della badia preaccennata. Arroge che il governo di Pisa anche in quel tempo era preseduto da un conte, mentre trovavasi in essa cittĂ un conte Rodolfo, rammentato in tre carte pisane del 949 e 964 edite nelle AntichitĂ italiane dal Muratori.
Comecchè dai fatti testĂŠ accennati si possa dedurre, che la madre del marchese Ugo abitasse talora in Lucca, tal altre volte in Pisa e in Firenze, nel tempo che il gran conte Ugo suo figlio reggeva la Toscana in qualitĂ di marchese, contuttociò questo principe, il quale figurò dallâ870 sino al principio del secolo X alla testa del governo toscano, fece della cittĂ di Lucca piuttosto che di Pisa la sua sede principale, sicchĂŠ in Lucca si coniarono monete dâargento col suo monogramma e titolo di marchese aventi nel rovescio il nome della stessa cittĂ . â Vedere LUCCA.
Volume II pag. 834 e 835.
Non dirò se cotesta preferenza accordata dai marchesi di Toscana alla cittĂ di Lucca piuttosto che a Pisa, quando questâultima continuava a contemplarsi quasi capitale della Toscana, servisse mai a fomentare quelle civili discordie che poi si accesero con tanto danno fra le due popolazioni limitrofe.
Ma chi concorse a dargli fuoco, donde avesse origine il primo fatto dâarmi fra Pisa e Lucca nel 1003 battagliato, donde cotesto fatto, che può riguardarsi come un albore del risorgimento dei municipj italiani nel medio evo, traesse per avventura alimento, ciò sembra ancora da dimostrare. â Che se io non mâ inganno a partito, quella guerra, la quale a confessione del Muratori fu la prima a presentarsi negli annali deâmunicipj italiani, trasse lâorigine, piuttosto che da dissapori cittadineschi, da causa piĂš generale, piĂš elevata. Intendo dire della sollevazione che dopo la morte dellâImperatore Ottone III ebbe principio nellâItalia superiore, per cui fu eletto un re italiano nella persona di Arduino marchese dâIvrea, mentre i principi della Germania, dopo avere con lâarmi alla mano disputato fra essi innanzi di eleggere in re di Alemagna il duca Arrigo di Baviera, volevano che la corona dâItalia si ponesse in testa di uno di loro nazione.
Ognuno sa quanto furono lunghe ed atroci le guerre civili che insorsero in Italia per combattere in favore o contro quei due pretendenti allo stesso trono, guerre le quali diedero occasione alle cittĂ dâItalia di mettere a prova le loro forze, onde assicurarsi di non aver piĂš bisogno di un principe straniero, giacche niuna legge, nessun patto obbligava glâItaliani a dipendere da coronati di oltremonti.
Oltrediciò un privilegio inviato dal re Arduino da Pavia a Lucca nel dĂŹ 20 agosto del 1002 per favorire un monastero di quella cittĂ , solo fra i diplomi di Arduino che conti la Toscana, fa credere, che i Lucchesi prendessero le difese del re italiano, mentre i Pisani erano per il monarca alemanno. Alla qual congettura danno valore le espressioni di unâantico cronista pisano sotto lâanno 1002 (stile comune). Avvegnachè se, al dire del grande annalista Muratori, non prima del 1004 cominciarono nellâalta Italia le guerre di partito che turbarono il regno di Arduino; tostochè egli per due anni restò pacifico fino a che varie cittĂ , principi e vescovi di quella contrada non vacillarono nella fede per gettarsi piĂš o meno apertamente a favorire il re alemanno; non fu però cosĂŹ del popolo lucchese, il quale, al dire di un cronista pisano allâanno 1002 assistito da un esercito sceso di Lombardia si avanzò ostilmente fino a Pappiana nel territorio di Pisa, di dove peraltro dai Pisani lâoste fu respinta fino a Ripafratta. â (BREVIAR. PIS. in Script. R. Italic. T. VI.) Un altro cronista pisano riporta il fatto allâanno dopo (1004 stile pisano) dicendo: Anno 1004 fecerunt bellum Pisani cum Lucensibus in Aqualonga et vicerunt illos. â Vedere lâArticolo ACQUALONGA.
Se è vero pertanto che questa sia la prima azione ostile che ci somministra la storia di una cittĂ della penisola che si muove contro la sua vicina, soggiunge il prelodato Annalista: noi cominciamo a scorgere che le popolazioni delle cittĂ dâItalia al principio del mille giĂ alzavano la testa e si attribuivano, ovvero si usurpavano il diritto regale di muover guerra.
Ma la vittoria deâPisani fu ben presto amareggiata dalla comparsa di altri piĂš fieri nemici, tostochè lâanno dopo dalla parte del mare si presentò un numeroso stuolo di Saraceni che penetrò nella loro cittĂ mettendola a sacco e fuoco. Ă un frammento di cronica pisana, in cui fu registrato allâanno 1005 (stile pisano) il fatto con queste semplici parole: fuit capta Pisa, a Saracenis. â Il Tronci ed il Volterrano con altri piĂš moderni scrittori hanno fatto alla breve frase dellâantico annalista pisano un lungo commento accompagnato da qualche contraddizione, dicendo; che Mugeto re deâSaraceni, fattosi giĂ padrone della Sardegna, avendo inteso che i Pisani colla loro armata navale erano passati in Calabria contro i barbareschi, che pure vinsero a Reggio nellâagosto del 1004 (stile comune), profittò dellâoccasione in cui la cittĂ di Pisa trovavasi sprovveduta di combattenti per dirigersi con grossa armata navale alla foce dâArno e di lĂ coi suoi Mori correre addosso alla cittĂ di Pisa che prese, dandogli il sacco e bruciandone la porzione situata alla sinistra del fiume. La qual porzione di cittĂ si suppone che si chiamasse Chinzica, perchĂŠ una valente donna di tal nome della famiglia Sismondi, vedendo il pericolo della patria, corse di lĂ al palazzo del comune, e fatto dar nella campana a martello, i Saraceni spaventati da tanto allarme e frastuono fuggissero dalla cittĂ tornando sui bastimenti carichi di preda. Soggiungono di piĂš, che liberata Pisa per tale effetto, il Comune decretasse lâerezione di una statua alla matrona benemerita, e che fosse indicata col nome di Chinzica la parte abbruciata della cittĂ . â Il Muratori per altro su tal proposito fece osservare altro essere la sconfitta a Reggio di Calabria deâSaraceni, altro lâessersi Mugeto impadronito di Pisa, sebbene di ciò non resti vestigio che dia qualche appoggio maggiore a cotesti fatti.
â Ecco come per un mal inteso zelo di patria si alterano i fatti delle storie municipali.
Frattanto non è da tralasciare lâavviso che nelle carte pisane dei primi anni del regno di Arrigo I fino al 1014 mancano le indicazioni relative al re dâItalia, cioè, fino a che questo sovrano non ricevĂŠ dal Pontefice Benedetto VIII la corona imperiale. Infatti nel suo ritorno da Roma Arrigo I emanò presso Pisa tre diplomi, due dei quali dati nella villa di Fagiano, uno in favore del vescovo e capitolo di Volterra e lâaltro della badessa e monastero di S. Salvatore di Lucca, segnati con le note cronologiche seguenti: Datum anno dominicae Incarnationis MXV (stile pisano) Indict. XII, anno Domini Henrici Imperatoris Augusti regnorum XII, imperii ejus I. Actum in Comitatu pisano in villa, quae dicitur Fasiano. Il terzo diploma in favore dellâabate e monaci Cistercensi della badia a Settimo presso Firenze ha le nostre medesime con la data però di altra villa suburbana di Pisa. Actum Papiano . â Vedere lâArticolo PAPPIANA nella Valle del Serchio.
Cotesti privilegj imperiali, mancando del giorno e del mese, non danno a conoscere quando e quanto tempo a un dipresso lâImperatore Arrigo I soggiornasse in Pisa o nei suoi suburbj, benchĂŠ sia da credere che ciò accadesse fra il 26 marzo, giorno in cui lo troviamo in Roma, e la Pasqua di Resurrezione dellâanno stesso 1014 dallâImperatore Arrigo celebrata in Pavia. â (MURAT.
Annal. allâanno 1014).
A quel tempo peraltro la Toscana era governata in nome di Arrigo I da un marchese Ranieri, il quale succedere dovette ad un Marchese Bonifazio figlio che fu di un conte Alberto di legge ripuaria; e ciò nel tempo stesso in cui varie città della Toscana erano presedute da un conte.
In prova di ciò può vedersi nelle AntichitĂ italiane un placito a favore della badia aretina con la data dellâanno 1016, mese di ottobre, indizione XIV, anno terzo dellâimpero di Arrigo, che principia: Dum Raginerius marchio et dux Tuscanus placitum celebraret in civitate Aretina cum Hugone comite ipsius comitatus. Che questo marchese Ranieri figlio di un Conte Guido fosse lâautore piĂš remoto dellâillustre famiglia deâmarchesi del Monte S.
Maria, lo dimostrai allâArticolo MONTE S. MARIA, e a quello di LUCCA, dove lo incontrammo fra il 1026 e il 1027 per far fronte alle armi dellâImperatore Corrado I. â Dopo questâultima epoca quel toparca, o mancò di vita, o piuttosto cadde in disgrazia di quellâImperatore, tostochè nellâanno 1028 era alla testa del governo di Toscana il marchese Bonifazio di origine o legge longobarda quello stesso Bonifazio che fu padre della gran contessa Matilda natagli dalla seconda moglie, la contessa e marchesa Beatrice.
In questo mezzo tempo i Pisani uniti ai Genovesi fecero le prime imprese della Sardegna (anno 1016) dove vinsero Mugeto re deâSaraceni, il quale due anni innanzi con gran stuolo di navi aveva sbarcato molti Mori nella spiaggia di Luni, devastando affatto la giĂ cadente cittĂ e depredando tutto il suo vicinato â Le cronache pisane riportano sotto lâanno 1016 la spedizione dei Pisani e dei Genovesi in Sardegna, ma da quel che segue si conosce essere ciò accaduto nellâanno dopo; giacchĂŠ nel 1017 (stile pisano) il Pontefice Benedetto VIII spedĂŹ a Pisa il cardinal decano vescovo dâOstia per animare quel popolo a cacciar di Sardegna il re Mugeto, siccome fu lâanno appresso con felice successo eseguito, allorquando quel capo corsaro con i suoi fu costretto a tornare in Affrica dai Pisani e Genovesi che sâ impadronirono, se non di tutta, almeno della parte piĂš littoranea di detta isola. â Ma non tardò fra i due popoli alleati a insorgere discordia tale che fu la prima foriera di ripetute guerre terribilmente accanite.
Che sebbene i Genovesi facessero ogni sforzo per scacciar dalla Sardegna i loro rivali, ciò non ostante i Pisani alla fin fine restarono padroni dellâis ola.
Tale fu il principio luminoso che ebbe la potenza pisana nel medio evo, tuttochĂŠ la Toscana continuasse ad esser soggetta ai marchesi. â NĂŠ mancò a celebrare cotesto avvenimento la tromba epica di un poeta pisano, Tolomeo Nozzolini, che cantò la sua Sardigna recuperata in ottava rima per farne 18 canti, che videro la luce nel 1632 in Firenze a dispetto di Apollo e delle Muse. â Non andò guari però che Mugeto coi suoi Saraceni tornò piĂš forte dallâAffrica nella Sardegna, (anni 1020 e 21) per ritogliere ai Pisani le sue perdute possessioni. Allora questi ultimi si associarono di nuovo ai Genovesi per vendicare in comune le crudeltĂ novelle del feroce barbaresco. Fu felice al pari della prima la seconda spedizione dei due popoli italiani, perchĂŠ malgrado lâardore e la rabbia di queâMori prevalse il coraggio deâcollegati, i quali costrinsero il re corsaro a cercare unâaltra volta lo scampo nella fuga. II ricco tesoro di Mugeto caduto nelle mani deâvincitori fu ceduto ai Genovesi in ricompensa delle spese e fatiche da essi sofferte; giacchĂŠ, al dire dei cronisti pisani, il Comune di Genova non avrebbe allora acquistato alcun diritto sulla Sardegna, mentre gli annalisti di questa repubblica asserivano il contrario. â (BREVIAR., PISAN. in Script.
R. Ital. T. VI. â MANNO, Storia della Sardegna T. II. â MURAT. Annal. ad ann. 1021.) Fu allora, soggiunge il Tronci neâsuoi annali, che i Pisani, avendo fortificata la cittĂ di Cagliari e gli altri luoghi piĂš importanti dellâisola, divisero il governo di Sardegna nei quattro giudicati, o reami, di Cagliari, cioè, di Torres, di Gallura e di Arborea, o per dir meglio col Muratori e col Manno, essi vi serbarono la maniera stessa di regime che aveva giĂ da molto tempo la Sardegna, obbligando solamente i giudici delle quattro provincie di sopra nominate a riconoscere lâalto dominio dei conquistatori. â Che anzi da un fatto intorno allâanno 1065 narrato da Leone Ostiense (Cronic. Lib. VII. cap. 15) si scorge, che i Pisani miravano con qualche malumore i Sardi sudditi di Barisone dâArborea, uno deâgiudici o regoli di quellâisola, in guisa chè (soggiunge Muratori) si può sospettare che molto piĂš tardi la potenza pisana fissasse il piede nella Sardegna.
Infatti la storia delle invasioni di Mugeto e delle conquiste di detta isola, a confessione del diligentissimo Cavaliere Manno, trovasi involta in gravi dubbiezze; e quasichè non bastasse ai Pisani di aver cacciato dalla Sardegna il feroce Mugeto, si aggiunge, come essi con numeroso naviglio lo andassero a rintuzzare fino nel suo nido nativo sulle coste dâAffrica; e che allora (anno 1034) una flotta pisana dopo essersi impadronita della cittĂ di Bona, fece dono allâimperatore della corona tolta al regolo affricano.
Al qual fatto glorioso riferisce una iscrizione in marmo esistente nella facciata del duomo di Pisa sotto quella che rammenta la conquista, non saprei dire se prima o seconda, dellâisola di Sardegna, pubblicata nelle due edizioni della Pisa illustrata dal Morrona, il quale assegnò lâanno MXXXIIII allâiscrizione superiore.
Fondato su di ciò anche lâannalista Tronci lasciò scritto, che i Pisani, dopo avere ricevuto il vessillo di S. Pietro dal delegato della S. Sede, corsero e invasero tutta la Sardegna, di dove lo stesso Mugello fuggĂŹ prima che vi sbarcassero i suoi nemici; lo che secondo quellâannalista sarebbe accaduto nel 1033 dellâEra cristiana (stile comune).
Il Muratori ed il Manno hanno qualche ragione da dubitare della veritĂ di questâultimo fatto, o almeno dellâepoca, e piĂš che altro delle circostanze, le quali furono dagli storici genovesi diversamente raccontate, tostochè dissero il re Mugeto fatto prigioniero nel conflitto accaduto in Sardegna, e che i Genovesi, ai quali era stato dai Pisani consegnato, fecerâ omaggio di lui come del miglior trofeo della vittoria, e non della sua corona allâImperatore. â (FOLIET. Genuens. histor. Lib.
I.). Chi potrĂ infine conciliare tutto ciò con altro frammento di cronica riportato nelle note alla vita di Papa Gelasio, nel quale leggesi: che i Pisani, divenuti padroni della Sardegna, ritornarono in patria conducendo dietro al trionfo lo stesso re Mugeto, il quale gia nonagenario ebbe poco stante a morire prigioniero nella cittĂ di Pisa ? â (MURAT. Script. R. Ital. T. III. P. I.) Pertanto tutti cotesti armamenti, cotante imprese gloriose al popolo pisano si faceva sotto gli occhi del marchese Bonifazio, che a nome dei re dâItalia allora presedeva al governo della Toscana. â Ne qui terminarono le gesta marittime del popolo di Pisa, poichĂŠ, se nellâanno 1058 i Toscani sotto il comando del Marchese Goffredo di Lorena (il secondo marito della contessa Beatrice) combatterono in favore della S. Sede contro Riccardo principe di Capua nella speranza di cacciarlo dalla Terra di Lavoro; se un nuovo esercito guidato dal marchese predetto fu di lĂ respinto dai nemici insieme col suo duce; se quattrâanni dopo lo stesso duca Goffredo conduceva a Roma dalla Toscana un corpo di truppe a difesa del legittimo pontefice Alessandro II contro lâantipapa Cadalao; se cotesto duca nel 1066 vi tornò con tante forze toscane per abbattere lâinsolenza del conte Riccardo e deâ suoi Normanni al punto che questi ultimi dovettero ripararsi dentro la cittĂ dâAquino e abbandonare al nemico tutta la Campania romana; se, io diceva, in tutte azioni militari comandate da un marchese di Toscana i Pisani, benchĂŠ non siano nominati, dovettero far parte comâ è credibile dellâesercito marchionale, bisogna ben credere che la cittĂ di Pisa fosse in uno stato prosperoso tostochè il suo governo armava nel tempo stesso (anno 1062) numeroso naviglio per spedirlo nel mare di Sicilia in soccorso ai fratelli Roberto e Ruggieri conti di Normandia? E poichĂŠ allora il C. Ruggieri non potĂŠ cosĂŹ presto assediare per terra i Saraceni in Palermo, la flotta pisana a vele gonfie andò ad urtare nella catena che serrava quel porto, e rottala, entrò francamente dentro dove sâimpadronĂŹ di sei navi cariche di varii oggetti, cinque delle quali si crede date alle fiamme, menando a Pisa la piĂš copiosa di tesori; sicchĂŠ poi con quelle ricchezze fu dato principio (anno 1063) alla magnifica fabbrica della Primaziale. â Anche di cotesta gloriosa impresa leggesi tuttora ricordo scolpito in marmo nella facciata della stessa cattedrale pisana â (MURAT., Annal. ad ann. 1063.
â MORRONA, Op.cit. ecc.) Aggiungasi che in quegli anni medesimi abitavano nella stessa cittĂ conti e visconti, i quali diedero il casato allâillustre antichissima prosapia deâConti di Donoratico e della Gherardesca, non meno che alta celebre famiglia dare Visconti.Tali furono quei figli del conte Teudice autore di numerosa figliuolanza, quel visconte Sigherio padre dâIldebrando, di Pietro e di altro Sigherio, quel Gherardo figlio di Ugo di Gherardo Visconti, soggetti che figurarono in Pisa nel secolo XI, e piĂš ancora i discendenti loro neâtempi successivi.
Mancato di vita nel 1069 Goffredo marchese di Toscana, la contessa Beatrice vedova di lui continuò a governare, prima sola, poi con la figlia Matilda e col di lei marito Goffredo il Gobbo nato al Marchese Goffredo di Lorena dalla prima moglie. Infatti troviamo la stessa Beatrice nel 17 gennajo dellâanno 1073 insieme col duca e marchese Goffredo suo genero risedere in Pisa nel palazzo regio, dove i personaggi medesimi, assistiti da Ugo Visconti, da Guido vescovo di Pisa e da altri vescovi e magnati della Toscana, pronunziarono un placito in favore del monastero di S. Ponziano di Lucca.
Dal lodo qui sopra accennato si comprende bene che il giovine Goffredo dopo maritato alla gran contessa era stato ammesso al governo della Toscana, finchĂŠ nel mese di febbrajo dellâanno 1076 il gobbo marito fu visto perire di morte violenta senza lasciar figliuoli, probabilmente con poco dispiacere della suocera, della moglie e di Papa Gregorio VII, sul riflesso che quel duca era troppo partigiano di Arrigo IV. Ma due mesi dopo la contessa Matilda si trovò orbata anche della sua madre, donna di animo virile e di gran prudenza. â La qual principessa essendo morta in Pisa, fu onorevolmente sepolta in nobilissimo sarcofago di greco scalpello. NĂŠ si deve tacere lâimproperio scagliato da Donizone ai Pisani, perchĂŠ un cotanto illustre matrona anzi che nella sua rocca baronale di Canossa nella cittĂ di Pisa fosse stata tumulata. Contuttociò quella monacale diatriba giova alla storia a meglio conoscere quanto allora Pisa fosse mercantile e da quali e quante genti di religioni e contrade diverse frequentata.
Per modo che bisogna credere che nel secolo XI esistesse in cotesta cittĂ un ricco emporio con porto franco aperto anco agli infedeli del piĂš lontano oriente; cosa che parve a Donizone unâindegnitĂ dicendo: Qui pergit Pisas videt illic monstra marina, Haecurbs Paganis, Turchis, Libycis quoque Parthis Sordida, Chaldaei sua lastrant littora tetri.
Prosperando di tal maniera in Pisa la mercatura, fia molto facile a concepirsi il perchĂŠ quel popolo, non solo rapporto al commercio ed alla sua marina, quanto rispetto alla costruzione di pubblici grandiosi monumenti innalzati nella sua patria, precedesse gli altri popoli e cittĂ della Toscana e della maggior parte dellâItalia.
II sarcofago della contessa Beatrice dalla muraglia laterale del duomo nel 1810 fu trasportato nel vicino magnifico camposanto, e nel dĂŹ 8 febbrajo si apri lâurna alla presenza del Maire, dellâoperajo, del pittore Carlo Lasinio, del Prof. Sebastiano Ciampi, di due altri antiquarii e del notaro che descrisse i pochi avanzi ivi rimasti. Alla qual funzione per caso si trovò presente fra gli estranei il compilatore di questo Dizionario. â (MORRONA , Pisa illustrata, Edizione II. Volume II. â GRASSI, Descrizione Storica e Artistica di Pisa , Parte Artistica, Sezione I.) Rimasta sola al governo di Pisa, di Lucca e di tutta quanta la Toscana, la gran contessa Matilda, essa diede presto a conoscere il suo valore nelle dispute religiose e nelle difficili questioni politiche, nelle quali trovavasi involta in quellâetĂ anco lâItalia, a partire massimamente dallâanzidetto anno 1076, alloraquando il Pontefice Gregorio VII ebbe a fulminare dal Laterano scomuniche terribili contro lâImperatore Arrigo IV ed i numerosi suoi partigiani, ecclesiastici e secolari.
Non starò qui a ripetere, come cosa troppo vieta e non affatto al nostro proposito, il viaggio della contessa Matilda a Roma, la compagnia che nel 1077 fece al Pontefice prima in Piemonte, poi nel contado di Reggio per onorarlo nella inespugnabile sua roccia di Canossa, dove seguĂŹ con Arrigo IV quella scena che fece allora e che farĂ grande strepito nei secoli avvenire. Spetta bensĂŹ alla storia parziale e contemporanea di Pisa un altro fatto relativo al suo commercio, e tale da provare che, se Venezia a quellâetĂ era lâemporio dellâoriente, Pisa figurava fra le prime cittĂ dellâItalia occidentale.
Imperocchè a quella stessa epoca i Pisani avevano giĂ adottato alcune regole commerciali per decidere le controversie marittime, le quali furono approvate nel 1075 dal Pontefice Gregorio VII, e confermate sei anni dopo dallâImperatore Arrigo IV, allâoccasione che questo monarca nel 1081 in Pisa stessa sottoscrisse un trattato fra lâImpero e quella ComunitĂ . Col quale atto pubblico, oltre varie esenzioni a favore della cittĂ di Pisa e suo contado, Arrigo IV prometteva, ET CONSUETUDINES, quas (Pisani) habent in mari, sic eis observabimus, sicut illorum EST CONSUETUDO .... Legem non faciemus de Pisanis hominibus, nisi de suprascriptis locis (de alia civitate, castello, villa, vel de alio signoratico) vel EORUM SENIORES, qui offensio nem fecerint; legem faciant prius Pisanis hominibus. Fodrum de castellis PISANI COMITATUS non tollemus, nisi quomo lo fuit consuetudo tempore Ugonis Marchionis.... Nec Marchionem aliquern in Tuscia mittemus SINE LAUDATIONE HOMINUM DUODECIM ELECTORUM in colloquio facto sonantibus campanis, etc.
Il Muratori, che fu il secondo dopo lâUghelli a pubblicare questo documento, vi riconobbe, egualmente che in un altro diploma di Arrigo III del 1055, il seme della rinascente libertĂ delle cittĂ italiane; e forse fu il primo a dedurre con giusta critica la conseguenza importantissima, che fin dal tempo che regnava in Italia Arrigo III i diritti e prerogative di conte potessero trasferirsi nel corpo decurionale delle cittĂ italiane, lasciando quasi intatti quelli del marchese. â Ă altresĂŹ vero che nel diploma di Arrigo IV a favore del Comune pisano, non solo manca qualsiasi menzione del conte di Pisa, ma nettampoco vi si rammenta la contessa Matilda marchesa di Toscana, perchĂŠ ribelle ad Arrigo stesso, siccome non è rammentata la contessa Beatrice di lei madre, nĂŠ il padre suo Marchese Bonifazio, nĂŠ qualche altro marchese loro antecessore. Vi si parla per altro dei tributi che il ComunitĂ di Pisa soleva pagare agli Imperatori come sovrani dâItalia al tempo del Marchese Ugo, il quale, como ho detto, governò la Toscana negli ultimi 30 anni del secolo X, e nel primo anno del secolo susseguente. Ma quello che piĂš importa e il sentire in quellâatto la promessa di Cesare di non nominare nĂŠ dâinviare dâallora in poi alcun marchese in Toscana senza lâapprovazione dei dodici eletti (i 12 consoli, o 12 anziani) di Pisa chiamati nel consiglio del popolo a suono di campana.
In conclusione il diploma di Arrigo IV del 1081, oltre a confermarci il fatto solennissimo che la cittĂ di Pisa fin dâallora aveva un regolamento col titolo di Consuetudini di Mare, ci scuopre anco che il suo magistrato civico si eleggeva dal popolo in pubblico consiglio e che si componeva di 12 buonuomini conosciuti allora col nome di Consoli poscia di Anziani, vale a dire, tre per ogni quartiere della cittĂ .
Sebbene nel privilegio suddetto manchi la data del giorno e del mese, non sarĂ difficile a rintracciarsi qualora si considera che Arrigo IV era in Lucca nel 25 luglio del 1081 dove accordava un privilegio di produzione a quella cittĂ stato indicato dal Fiorentini, ed il cui originale ivi conservavasi nel Monastero di S. Giustina. Del qual diploma innanzi tutti aveva fatto commemorazione Tolomeo neâsuoi annali lucchesi, mentre un altro diploma dato alla luce nelle antichitĂ italiane (Diss. 31) dimostra, che lâImperatore Arrigo IV era in Lucca fino dal giorno 19 luglio di quel medesimo anno.
E siccome dalle memorie della contessa Matilda del Fiorentini costa che lo stesso Arrigo trovavasi allâ assedio di Roma anche nel dĂŹ 23 giugno dellâanno 1081, è facile concludere, che il documento pisano di sopra rammentato dovĂŠ sottoscriversi tra la fine di giugno e il 18 luglio. In una parola da quel privilegio imperiale apparisce, come in unâetĂ , in cui si mancava affatto di leggi che servissero di norma al commercio marittimo, i Pisani avevano usi e consuetudini tali da assicurare ai mercanti la giustizia nelle liti relative agli intricati interessi di mare. â Le quali leggi e consuetudini, a giudizio di molti scrittori, servirono posteriormente di norma a varie altre potenze e cittĂ libere che a similitudine di Pisa col nome di Consolato di mare le ordinarono.
Contuttociò la baldanza dei pirati affricani non cessava dâinfestare le coste dellâItalia, sicchĂŠ sapendo quanta fosse la bravura e potenza nelle cose marittime dei Pisani e dei Genovesi il Pontefice Vittore III riescĂŹ a rappacificare gli animi loro in guisa che essi, avendo armato un poderoso naviglio, lo diressero nelle coste dellâAffrica. Lâimpresa fu eseguita nel 1088, cioè un anno dopo la morte del pontefice che lâ aveva promossa, quando le flotte cristiane investirono la cittĂ di Tunisi che con sommo coraggio venne espugnata da quei crociati, i quali estesero la loro escursione sopra altri luoghi di quel littorale.
Nella quale impresa, a detta degli antichi annalisti pisani, restò ucciso Ugo figlio di Uguccione Visconti di Pisa, comecchè i vincitori tornassero in patria con ricchissima preda.
Goffredo Malaterra nella sua cronica, parlando deâmercatanti pisani che in Affrica ebbero a soffrire molte ingiurie, aggiunge, come per vendicare lâonore nazionale un esercito veleggiasse da Pisa ad espugnare la cittĂ di Tunisi, di cui sâ impadronĂŹ, meno la torre maggiore dove quel re si ritirò. Dice anco di piĂš, che i Pisani, non avendo forze sufficienti a ritener Tunisi, esibirono a Ruggieri conte di Sicilia il possesso di quella cittĂ , ma che il conte trovandosi in pace col Tunisino non volesse accettarla.
Però cotesto regolo affricano venne a patti obbligandosi di pagare ai Pisani una grossa somma di denaro, e di cessare dal correre colle sue navi sopra le isole e nelle coste dâItalia, oltre al dovere rilasciare liberi tutti i Cristiani che riteneva in schiavitĂš. â (MURAT. Annal. ad ann. 1088.) Era in quel tempo vescovo della chiesa pisana quel Daiberto nato dallâillustre stirpe deâLanfranchi deâRossi di Pisa, il quale potrebbe chiamarsi un genio del suo secolo. Egli nellâanno 1088 successe nella cattedra pisana a Gerardo, cui si deve la fondazione del distrutto Monastero di S. Rossore, edificato nel 1084 pei Benedettini nei beni della chiesa maggiore di Pisa posti nella Selva marittima o del Tombolo, detta oggi di S.
Rossore, il qual monastero in detta epoca era vicino alla foce dâArno. â Vedere appresso, COMUNITAâ DI PISA.
Fu Daiberto il primo che accrebbe nuove glorie alla sua patria; sia allora quando dal pontefice Urbano II con bolla del 39 maggio 1091 fu dichiarato Primate dellâisola di Corsica; sia allorchĂŠ con altra bolla del 20 aprile 1092 la chiesa pisana venne innalzata allâonore di metropolitana; sia quando Daiberto mediante indulgenze e preci spirituali (5 ott. 1094) incoraggiava i manifattori pisani, i quali prestavano la loro opera gratuita nella fabbrica del grandioso duomo di Pisa 31 anni prima incominciato; sia allorchĂŠ nel dicembre dellâanno 1094 quel prelato con la contessa Matilda accolse in Pisa il Pontefice Urbano II mentre passava in Lombardia; sia finalmente allorchĂŠ lo stesso Daiberto invitava i suoi concittadini ad unirsi armati alla seconda crociata, della quale fu campione quel Goffredo che diĂŠ argomento allâepica tromba del Tasso; sicchĂŠ i Pisani, dopo preparate 120 navi, dopo avere al principio dellâanno 1099 eletto il loro arcivescovo in duce di quella santa impresa, salparono dalle sponde dellâArno verso la Palestina.
Fra i documenti relativi alle spedizioni fatte dai Pisani in Terra Santa esiste nelle antichitĂ italiane una lettera al Pontefice Pasquale II diretta nel 1100 da Daiberto arcivescovo di Pisa delegato della S. Sede in oriente, scritta da esso lui in nome ancora, del duce Goffredo, del conte Raimondo di S. Egidio e di tutto lâesercito di quella crociata. Essa consiste in una relazione sulla conquista di Gerusalemme e sopra altre vittorie dai Cristiani contro glâinfedeli riportate. In conseguenza di ciò papa Pasquale nellâanno medesimo inviava una epistola ai Consoli di Pisa per ringraziarli dellâajuto da questo popolo generoso fornito nella conquista di Gerusalemme, della qual cittĂ Daiberto era stato eletto di corto in patriarca.
Reduci quindi dallâoriente i Pisani con le piĂš insigni suppellettili del loro trofeo portavano in patria alcune reliquie di corpi santi dallâArcivescovo Daiberto e dallâinvitto duce Buglione state loro donate.
Il Fanucci nella storia dei tre celebri popoli marittimi dellâItalia ha dato minuta contezza delle imprese in quellâoccasione fatte nel levante dai Pisani e dai Genovesi, caldi sostenitori del nuovo regno di Gerusalemme e del principato di Antiochia. Anco il Dal Borgo ristampò nei suoi diplomi pisani due atti scritti nellâanno 1108, coi quali Tancredi, allora principe dâAntiochia, promise, e quindi concesse, ai Pisani diversi privilegj con stabilimenti in Antiochia e in Laodicea per il soccorso dai medesimi ricevuto nella conquista di questâultima cittĂ . Fra i quali privilegj citerò quello del 10 maggio dellâanno 1154, col quale Rinaldo e Costanza figlia giuniore di Boemondo principe di Antiochia, stando nel loro palazzo di Antiochia confermarono allâarcivescovo, ai consoli, ai senatori, ed al Comune di Pisa, non cha al loro console nella cittĂ di Antiochia, ed ai mercanti pisani stabiliti in Laodicea un vasto spazio di terreno, e la metĂ di tutti i diritti che erano soliti percepirsi dal sovrano nel principato predetto, tanto in terraferma come in mare.
Che simili privilegj fossero stati concessi ai Pisani dai primi re di Gerusalemme si deduce da un trattato di pace fatto in Accon (S. Giovanni dâAcri) lĂŹ a novembre 1156 fra i Pisani e Balduino IV re di Gerusalemme, pubblicato dal Tronci, dal Muratori e dal Cavaliere Dal Borgo, alloraquando quel re donava ai Pisani nella cittĂ e porto di Tiro il Viscontado, per erigervi tribunale e curia propria onde giudicare i suoi nazionali; meno che il re Balduino si riservava il giudizio nelle cause che portassero pena di morte. Inoltre concedeva uno spazio di terra presso Tiro, e in Tiro stesso un fondaco a forma del privilegio altra volta ai Pisani per il porto medesimo da Baldovino suo avo accordato. In fine lo stesso re Baldovino prometteva intromettersi mediatore fra i Pisani ed il suo fratello Almerico conte di Assalona.
Infatti con questo conte poco dopo, mediante istrumento pubblico sotto dĂŹ 2 giugno dellâanno 1157 rogato in Assalona, fu conclusa pace colla quale il conte Almerico, volendo aderire al re Balduino di lui fratello, concedeva in dono al popolo pisano, rappresentato da Villano suo arcivescovo e dai consoli di Pisa, la metĂ deâdiritti dâintroduzione, dâestrazione e vendita dei generi che i mercanti pisani avrebbero introdotto o estratto, tanto dalla parte di terra come da quella di mare dal porto dâJoppe.
Inoltre donava loro una piazza in Joppe per fabbricarvi case intorno e stabilirvi un fondaco, oltre uno spazio di terreno per costruirvi una chiesa previo il consenso del patriarca.
Qualche anno dopo il conte Almerico essendo succeduto al fratello Baldovino nel trono di Gerusalemme, con istrumento rogato nella cittĂ di Accon lĂŹ 15 marzo del 1165 donava ai Pisani uno spazio libero di terra posto fra la cittĂ e il porto di Tiro da possederlo perpetuamente a comodo del loro commercio. Per le quali libertĂ il re di Gerusalemme confessava di avere ricevuto dallâArcivescovo di Pisa per mezzo del suo siniscalco il prezzo di 400 bisanzi di oro.
Anche tre anni dopo il medesimo re Almerico V, con privilegio dato in Accon lĂŹ 18 maggio 1168, confermò ai Pisani la curia propria, ossia il consolato nel porto di Accon con il fondaco per i servigj a lui resi nellâassedio di Alessandria. I quali due ultimi privilegj furono anco confermati, nel 1182, dal re Balduino VI, nel 1187, da Raimondo conte di Tiro, nel 1189, da Guido VIII re di Gerusalemme, e, nel 1188 e 1191, da Corrado marchese di Monferrato e dalla sua consorte Isabella figlia del fu Almerico V re di Gerusalemme. Giova pure avvertire qualmente uno di quei documenti (del 1189) spiega il significato di Viscontado, ivi equivalente al consolato di mare. Et concedimus eis (Pisanis) Vicecomitatum, sive Consulatum pro regenda curia et eorum honore in Tyro.
Aggiungasi che sino del 1169, con privilegio dato in Accon lĂŹ 16 settembre, il re Almerico V aveva accordato ai Pisani commercio libero per lâEgitto a lui soggetto, ed una curia nella cittĂ del gran Cairo (Babilonia) con casa, fondaco, mulino, bagno e molte altre prerogative favorevoli alla loro mercatura.
Frattanto da tutti cotesti privilegi dei principi cristiani nel levante, e da altri dei giudici della Sardegna editi nelle antichitĂ dellâannalista italiano, si rileva che quei sovrani trattavano direttamente col Comune di Pisa senza fare la benchĂŠ minima menzione dei marchesi o marchesane che allora presedevano la Toscana nellâalta pulizia, nellâamministrazione dei beni della corona, nei giudizj, o placiti di ultimo appello, e in quelli relativi al regio diritto, nel tempo che le cause dâinteresse civile erano decise non piĂš dai conti, nĂŠ dai marchesi, ma dai consoli delle respettive cittĂ , terre e castella, sopra le quali lâ influenza governativa degli ufiziali dellâImpero qui sopra nominati andava ogni dĂŹ piĂš indebolendo a segno che terminò poi per annullarsi.
Rammenterei su questo proposito la copia di una sentenza deâconsoli pisani nelle antichitĂ italiane a favore di Pietro vescovo di Pisa del dĂŹ primo gennajo dellâanno 1112, data presso il foro della stessa cittĂ nella Curia appellata del Marchese.
Da questo e da altri consimili giudicati (uno deâ quali sotto il dĂŹ 2 dicembre 1136) mi sembra di vedere, che i vescovi quando erano attori in causa propria si separavano dal magistrato deliberante, del quale altronde facevano parte, ed anzi lo presedevano in tutti gli altri casi di azioni civili e governative. Infatti il trattato del 10 maggio 1154 dato in Antiochia, e di sopra rammentato, fu stipulato fra i due coniugi principi di Antiochia da una parte, e varj delegati del Comune di Pisa dallâaltra parte. II qual Comune era rappresentato, prima dallâarcivescovo, poi dai consoli, quindi dai senatori, finalmente da tutto il popolo pisano. Anche molto tempo innanzi, sino da quando cioè governava in Toscana la contessa Matilda, il Comune pisano senza il di lei consenso era rappresentato dallâarcivescovo e dai suoi consoli, nel tempo che abitavano in Pisa i conti ed i visconti, molti individui dei quali fino dâallora venivano eletti in consoli, o in giudici maggiori, ma piĂš spesso, esercitando il protettorato della chiesa pisana, assistevano con gli arcivescovi e con i consoli nelle cause o altri contratti spettanti allâinteresse dellâopera della primaziale. Nella collezione muratoriana, per tacere di tante altre pergamene dellâarchivio arcivescovile di Pisa, esistono molti documenti atti a dimostrare che gli arcivescovi pisani alla detta epoca si riguardavano quali capi civili ed ecclesiastici della comunitĂ e diocesi, siccome non mancano in quella raccolta molti fatti proprj a dimostrare la cosa medesima rispetto ai Comuni di Firenze, di Lucca, di Siena e di altre cittĂ .
4. PISA DURANTE LA SUA REPUBBLICA Quantunque sia difficile di contrassegnare lâanello di connessione fra il governo imperiale retto in Toscana dai marchesi e quello delle cittĂ costituite con regolamenti proprii in comune, o voglia dirsi in repubblica, nondimeno, considerando bene cotesto periodo dâistoria patria, sembra di trovare maggiormente vero quanto fu scritto allâArticolo FIRENZE, (Volume II. pagine 152 e 53), voglio dire, che le maggiori prove stanno a favorire il seguente fatto, che lo stabilimento cioè del Comune di Pisa come anche di altre cittĂ della Toscana tragga, se non lâorigine, il maggiore suo sviluppo dalle contes e suscitate dopo lâanno 1070 fra lâImperatore Arrigo IV ed il Pontefice Gregorio VII, mentre il secolo che immediatamente successe può dirsi a buon diritto per Pisa il secolo delle sue glorie.
Se i fatti relativamente alle conquiste marittime di sopra accennati, se gli usi o le consuetudini commerciali a favore dei Pisani da Arrigo IV nel 1081 approvate; se lâassedio nel 1078 dallo stesso monarca intorno a Firenze intrapreso per essere stato quel popolo partitante della corte romana; se le elargitĂ dallo stesso Cesare ai Lucchesi accordate dopo che questi mostraronsi favorevoli alla sua causa contro la marchesana di Toscana, se queste e molte altre prove di simil conio lasciassero ancora dubitare dello stabilimento fino dal secolo XI nelle cittĂ della Toscana di un governo municipale, a meglio dimostrarlo citerei quello della guerra dopo centâanni tra i Pisani e i Lucchesi riaccesa nel luogo istesso dove nel 1003 erano accadute fra quei due popoli le prime ostilitĂ , e dove per ben sei anni, dal 1104 al 1110, continuarono a battagliarsi, finchĂŠ per la mediazione dellâImperatore Arrigo V, resa piĂš valida da un esercito che lo accompagnava, potĂŠ ristabilirsi la pace fra quelle popolazioni dopo che lâoste pisana ebbe ritolto ai Lucchesi il poggio ed il questionato castel di Ripafratta, e dopo che i feudatarj del Cast. medesimo davanti allâarcivescovo, ai consoli e agli operaj della primaziale di Pisa ebbero giurato (anno 1109) di riconoscere dallâopera di detta chiesa il dominio diretto del controverso castello, suo poggio e territorio.
Avvertasi che cotesto secondo fatto di armi combattuto a cagione di Ripafratta precedĂŠ di qualche anno le prime scintille di guerra portate dai Fiorentini contro i castelli dei baroni del loro contado.
Ma lâimpresa piĂš gloriosa fu per i Pisani quella della guerra felicemente nel 1114 incominciata, e nel 1116 compita contro i Mori padroni delle isole Baleari.
Risoluti di estirpare dalle tre isole spagnuole (dâIvica, di Majorca e di Minorca) quel sciame feroce e famelico di Saraceni che con le sue abituali piraterie portava lâallarme e la desolazione sulle coste italiane, i Pisani prepararono un copioso e ben fornito armamento marittimo composto, dicesi, di 300 barche equipaggiato di numerose falangi, di armi, di macchine da guerra e di vettovaglie; sicchĂŠ ottenuta dal Pontefice Pasquale II lâapprovazione, e messo alla testa del naviglio il loro arcivescovo Pietro Moriconi, mossero le vele dalla foce dellâArno verso le Baleari.
Sbarcati in una delle tre isole (di Evizza, o dâIvica) riuscĂŹ ai Pisani nellâanno 1114 di conquistare la stessa cittĂ omonima atterrandone le mura e la rocca, e conducendo prigione quel comandante. Di lĂ lâarmata vincitrice andò a sbarcare nellâisola di Majorca, la di cui capitale fu presa dopo aver sostenuto con lunghe fatiche e combattimenti circa un anno lâassedio con la strage di molte migliaja di Mori. Quindi per togliere di lĂ quel nido di corsari, al dire di alcuni annalisti pisani, la cittĂ stessa fu distrutta, aggiungendo che anche lâisola di Minorca dovĂŠ subire la stessa sorte. â Cotesta guerra venne diffusamente narrata in un poema epico da Lorenzo Vernense, o Vornense, (non so se di Vorno presso Lucca) che accompagnò allâimpresa lâarcivescovo pisano in qualitĂ di diacono. â Provvisti pertanto i vincitori di copioso bottino, dopo aver resa la libertĂ ad un gran numero di Cristiani ivi tenuti oppressi da durezze inaudibili, i Pisani colmi di giubbilo e di gloria nellâanno 1116 rientrarono trionfanti in patria, portando seco fra i prigionieri piĂš distinti la moglie e il figlio di uno di quei re Saraceni, morto in Majorca nel tempo dellâassedio, e tenevano avvinto al carro il re deâMori di lui successore. Nellâanno innanzi a cotesto trionfo dei Pisani, sotto dĂŹ 24 luglio del 1115, aveva terminato il corso di sua vita nel castel di Bondeno in Lombardia la celebre contessa Matilda principessa resasi insigne negli annali del medio evo per politica, per pietĂ e per valore.
Ricordano Malespini, copiato da tutti gli altri istorici fiorentini, riporta sotto lâanno 1117 lâimpresa fatta dai Pisani nelle isole Baleari, contrariato in ciò dagli annalisti pisani, i quali tacquero un altro aneddoto, quello cioè, che poco dopo la partenza da Pisa dellâarmata navale, appena questa passava davanti a Vada, i Lucchesi vennero ad oste verso Pisa. Di che i Pisani che stavano nella flotta avendo ricevuto novella, per paura che i Lucchesi non occupassero la terra, mandarono ambasciadori a pregare i Fiorentini, i quali erano molto loro amici, affinchĂŠ piacesse ai medesimi di guardare la cittĂ di Pisa, confidandosi di essi come di fratelli. Per la qualcosa i Fiorentini mandaronvi gente dâarmi e puosonsi ad oste fuori della cittĂ a due miglia, con ordine che alcuno non ardisse di entrare nella cittĂ Âť... Poco appresso lo stesso storico soggiunge: ÂŤ Tornata lâoste deâPisani con vittoria dal conquisto di Majorca, ringraziarono i Fiorentini e dissono: quale segno, ovvero cosa volessono del conquisto recato da Majorica, o le porte di metallo, o le due colonne di porfido? e i Fiorentini chiesono le colonne, e i Pisani mandarono le dette colonne aâFiorentini coperte di scarlatto; e per alcuno si disse, che innanzi che le mandassino per invidia le feciono affocare;e le dette colonne sono quelle che sono diritte innanzi alla porta di S. Giovanni Battista. Âť (R. MALESPINI, Ist. Fior. Cap.
76. â G. VILLANI, Cronic. Lib. IV. Cap. 31.) LâAmmirato ripetendo il racconto, in quanto al sospetto che quelle colonne fossero state dai Pisani affocate, egli arguĂŹ che potesse probabilmente di lĂ esser nato proverbio, che chiama i Fiorentini ciechi; se non fu piuttosto qualche altra causa come quella che fece esclamare lâAlighieri contro i suoi concittadini, Vecchia fama nel mondo li chiama orbi.
Nella guisa stessa il buon Villani chiamò cieco il Comune di Firenze per essersi quei Signori lasciati ingannare da Mastino della Scala nella compra di Lucca.
Comunque sia, è certo che le cittĂ di Pisa, di Lucca, di Firenze ecc. sino dal declinare del secolo XI agivano, come ho gia detto, di libero arbitrio, senza ricorrere al beneplacito deglâImperatori, nĂŠ allâassistenza deâMarchesi di Toscana.
Frattanto i Pisani nel breve periodo di 56 anni avendo compito quel magnifico tempio che formò e formerĂ sempre lâammirazione delle genti e piĂš ancora dei cultori delle arti liberali, potendo dirsi il duomo di Pisa uno deâ piĂš purgati modelli architettonici del suo secolo, quel tempio, dico, con gioja della popolazione fu nel giorno 26 di settembre del 1118 consacrato dal Pontefice Gelasio II, che in tal circostanza fra gli altri privilegj confermò alla chiesa pisana il primaziato spirituale sopra i vescovi della Corsica. Ma ciò fu come un gettare fra i Pisani ed i Genovesi nuovo guanto di disfida che servĂŹ di esca a reciproche aggressioni marittime. A rappacificare pertanto coteste due inferocite repubbliche non vi volle meno che lâintervento di S. Bernardo e lâinfluenza del pontefice Innocenzo II, venuti entrambi nel 1132 a Pisa, dove il Papa con unâapposita bolla innalzò la chiesa di Genova alla dignitĂ arciepiscopale, sottoponendo alla medesima tre vescovati della Corsica, che distaccò, dice la bolla, per il bene della pace dallâarcivescovato di Pisa; mentre a questo viceversa assoggettò il vescovato di Massa Marittima, e due chiese vescovili della Sardegna oltre il titolo di primate e di delegato apostolico in questâultima isola.
Non dirò se fu effetto di cotesta riconciliazione fra i due popoli, o del concilio generale tenuto in Pisa, la guerra portata nel 1135 per la parte di terra dallâImperatore Lotario II e dalla flotta pisana per la via di mare contro Amalfi, allora una delle cittĂ piĂš considerevoli dellâItalia meridionale, dove si è creduto dai piĂš che i vincitori ivi scuoprissero e che portassero a Pisa il prezioso codice del diritto romano, noto sotto nome delle Pandette di Giustiniano. Ne starò a rammentare cotesto libro come il piĂš glorioso resultato di quella militare impresa tostochĂŠ molti dotti giureconsulti, fra i quali il profondo Savigny, che aderĂŹ allâopinione del Padre Abate Grandi (Istoria del Diritto romano nel medio evo Volume II. capitolo 18.), conclusero, che i Pisani conoscevano, e che dovevano possedere le Pandette innanzi il 1135.
Comunque fosse di ciò, non erano i codici ciò che volevano lâImperatore e il Papa, ma sivvero lâuno il dominio, lâaltro il diritto dellâinvestitura del regno delle due Sicilie. SennonchĂŠ, sopraggiunte le gelosie politiche, queste condussero allo scioglimento della lega, in modo che Lotario II, mentre ritornava in Germania, sdegnato mostrossi verso i Pisani. Che per altro il suo sdegno contro un popolo costantemente ben affetto alla causa imperiale fosse mal ponderato, lo scrisse a Lotario stesso lâeloquente abate di Chiaravalle nella sua epistola 140, di cui a onore dei Pisani ed a maggior lume della storia del medio evo giova qui riprodurre il concetto.
ÂŤ Mi sorprende, scriveva S. Bernardo a Lotario II, come voi abbiate formato deâpensieri contrarj ad uomini meritevoli veramente di doppio onore. Io dico dei Pisani, che primi e soli fin qui hanno alzato il vessillo contro glâinvasori dellâImpero...... Io dirò come appunto dicevasi del santo re Davidde: quale mai fra tutte le cittĂ trovarne una come Pisa, fedele nellâuscire armata, fedele nel ritornare, sostenitrice dellâImpero? Non furono forse i Pisani che fugarono dallâassedio di Napoli quel potentissimo nemico, il siciliano tiranno? Non sono stati i Pisani quelli che nellâimpeto loro espugnarono Amalfi, Revello, la Scala e la Fratta, cittĂ opulentissime e munitissime, che fino ad ora dicevansi inespugnabili? Quanto sarebbe stato meglio di lasciare senza tanto inimico la fedele cittĂ di Pisa, sia per aver essa con grande amore accolto e conservato il Pontefice, sia per il servigio che ha prestito allâImpero? Veggo accaduto il contrario.
Hanno avuto grazia quelli che offendevano, ed il vostro sdegno quelli che vi servivano. Forse voi non sapevi bene coteste cose. Ora che vi son note mutate animo e parole; ed uomini tali degni di essere molto piĂš onorati dai regii favori, ricevano quanto si sono meritati. I Pisani hanno meritato molto, essi possono ancora molto meritare. Ad un uomo saggio qual voi siete ho su di ciò scritto abbastanza, ecc. Âť E chi non ritrova in questa sola lettera del santo di Chiaravalle la chiave piĂš sicura e piĂš veritiera della politica costantemente tenuta dalla repubblica pisana? quella, cioè, di combattere per la propria gloria senza mai perdere di mira la difesa dellâImpero? Un simile elogio, come vedremo, fu ripetuto al popolo pisano da altri Imperatori succeduti a Lotario II, stantechè il governo di Pisa professo, come si è detto, la stessa massima fino alla caduta della sua repubblica.
Ma i consigli dellâabate di Chiaravalle non poterono ottenere il loro intento, perchĂŠ Lotario II assalito da fiera malattia, allorchĂŠ nelle gole delle Alpi noriche abbandonava lâItalia, ivi morĂŹ nel dicembre dellâanno 1137.
Fu dopo cotesto avvenimento, quando i Pisani condussero coi Genovesi la pace di Portovenere (anno 1138, e poco dopo con Ruggieri re di Sicilia, cui succedettero altre convenzioni pacifiche collâimperatore di Costantinopoli, rese carissimi ai Pisani da un sacro dono fatto alla loro chiesa maggiore unitamente ai privilegj di un piĂš esteso potere e di una giurisdizione speciale al console pisano nella capitale di quellâimpero accordata.
Frattanto quale importanza avessero allora i governatori imperiali, che sotto il titolo di marchesi spedivansi in Toscana, lo dirĂ quel marchese Engelberto, che nel 1134, benchĂŠ ai Pisani da S. Bernardo raccomandato (Epist.
130) fu nei campi di Fucecchio dai Lucchesi combattuto e scacciato: quellâEngelberto medesimo a sostegno del quale lâimperatore Lotario II nel 1137 aveva inviato il suo genero duca Arrigo con un corpo di truppe per rimetterlo sul seggio marchionale della Toscana. A buon diritto pertanto diceva il Muratori neâ suoi annali, che i popoli italiani, dopo che le cittĂ loro ebbero preso forma di repubblica, non si sentivano piĂš voglia di avere un marchese, o duca, o altro qualsiasi superiore che a nome dei Cesari loro comandasse.
Forse da cotesto evento ripullulò fra i Pisani e i Lucchesi quella guerra, che involse nel conflitto altre cittĂ e terre della Toscana. Tale si fu la guerra del 1144 quando i Pisani, entrati in lega con i Fiorentini, inviarono i loro armati per favorire il marchese Ulderico sottentrato ad Engelberto che combatteva i Sanesi, i Lucchesi ed il conte Guido di Modigliana, lâ ultimo deâ quali fino dal 1137 al marchese di lui predecessore erasi ribellato. â Tale si fu lâ altra piĂš sanguinosa e piĂš lunga guerra incominciata in quello stesso anno 1144 fra il Co mune di Pisa e la Repubblica di Lucca a cagione di alcune castella del loro contado, e specialmente per il castello di Aghinolfo presso a Montignoso, e per quello di Vorno alla base settentrionale del Monte Pisano.
Fra cotanti trambusti e conflitti municipali nellâ anno 1145 innalzavasi al soglio pontificio un monaco Cistercense, Frate Bernardo, al secolo Pietro di Paganello, o deâ Paganelli da Monte Magno, che da Papa prese il nome di Eugenio III.
Pisano di nascita, piuttostochè di famiglia religiosa, si pretende che fosse Eugenio III, il quale dal claustro deâ SS. Vincenzio e Anastasio alle Tre Fontane fu chiamato a sedere nella cattedra di S. Pietro. â Vedere MONTEMAGNO LUCCHESE, e MONTEMAGNO PISANO.
â Uno deâ primi pensieri di Eugenio III fu quello di riconciliare i due Comuni di Lucca e di Pisa; e vi riuscĂŹ, sebbene cotesta fosse da dirsi anzichĂŠ pace una tregua di breve durata. Ma lâ affare piĂš importante per Eugenio III e per il suo maestro S. Bernardo era quello di organizzare la terza crociata, a sommovere la quale il buon Papa recossi in Francia con lo stesso abate di Chiaravalle.
In mezzo pertanto alle turbulenze e nimicizie reciproche delle cittĂ di Toscana, rese ancora piĂš feroci ed ostinate daglâ interessi commerciali; in mezzo al rallentamento progressivo del potere regio e dei marchesi imperiali, si eleggeva dai principi tedeschi in re ed imperatore (anno 1152) Federigo I figlio del duca Federigo di Svevia e di Giulitta, nata da Arrigo il Nero duca di Baviera della casa Guelfo Estense. Erano coteste due famiglie sovrane giĂ da lunga pezza emule fra loro, in guisa che dagli aderenti di entrambe nacquero le due fazioni ghibellina e guelfa , che apportarono immensi guai allâ Italia e specialmente alla Toscana. E comecchè dal matrimonio suddetto, che partorĂŹ un imperatore in Federigo Barbarossa, lo storico Frisigense credesse che lâ unione di due schiatte principesche di massime opposte dovesse far cessare le nimicizie per tanti anni mantenute, e che le due fazioni fra i popoli da esse governati si estinguessero; comecchè di ciò avesse dato speranza lâImperatore Federigo istesso quando nominò in marchese di Toscana e dellâ Umbria il duca Guelfo VI figlio di Arrigo il Nero , zio materno di Cesare, investendolo di tutti i beni, chiese e corti che avevano formato il ricco patrimonio della contessa Matilda, per diritto che al duca Guelfo VI come nipote di quella marchesana si perveniva, mediante il matrimonio contratto e la donazione fatta da essa Matilda al duca Guelfo V suo marito; contuttociò, appena che Federigo I, nel 1154, calò con numerose falangi a prendere la doppia corona, in Italia videsi cangiare affatto la scena a danno dei municipj. Fu allora che quel potente monarca, mal soffrendo la perdita dei diritti imperiali, sparse lo spavento fra i popoli italiani che giĂ governavansi a comune. â Non è mio scopo rammentare quanto il Barbarossa fece in Lombardia; come le cittĂ dâItalia atterrite dallâumiliante capitolazione di Milano, appena intimate, ubbidissero ed inviassero i loro deputati alla gran dieta di Roncaglia, nĂŠ come quellâImperatore, assistito da insigni professori di giurisprudenza, dimostrasse la violazione fatta dalle cittĂ italiane dei diritti e regalie dovute allâImpero; mi limiterò soltanto a dire che, sebbene Pisa, Lucca, Firenze, Siena ed altre cittĂ e terre della Toscana non avessero fatto parte della Lega lombarda, pur non ostante al comparire di quel potente monarca i consoli ed altri rappresentanti dei popoli testĂŠ nominati si recarono a giurare ubbidienza a quel monarca, con la promessa di pagare annualmente le regalie che allâImpero si pervenivano.
AllâArticolo LUCCA (Volume II. pagine 842, 843.) accennai, a quali condizioni lâImperatore Federigo I nella seconda sua discesa in Toscana con diploma del dĂŹ 9 luglio 1162 concedesse ai consoli della repubblica di Lucca il privilegio di governare in suo nome la loro cittĂ , cui spettava il contado delle sei miglia. Rapporto al quale contado due anni innanzi il Marchese Guelfo VI aveva condonato ai Lucchesi ogni regalia marchionale ed i beni allodiali che ivi possedeva la contessa Matilda sua zia. â Rispetto però alla sottomissione del popolo pisano ai voleri di Federigo I, piĂš dâuno credĂŠ che avesse luogo qualche eccezione in favore di loro. Avvegnachè mentre i Pisani assistevano con le loro forze lo stesso Imperatore contro la lega delle cittĂ lombarde, come ancora per ricuperare al sovrano medesimo le due Sicilie, contuttociò i Genovesi, rivali irrequieti deâ primi, andavano insinuando a Barisone giudice di Arborea in Sardegna di domandare a Federigo I, che a titolo di feudo dellâImpero volesse degnarsi dâinvestirlo in re di tutta lâisola; mentre per lo contrario i Pisani alla corte imperiale di Pavia rintuzzavano le mire dei Genovesi al punto che alcuni scrittori misero in bocca degli ambasciatori di Pisa alcune ardite parole che si leggono negli annali del Tronci.
Con tutto ciò Barisone nel 1164 per mano di Federigo stesso fu incoronato in Pavia in qualitĂ di re della Sardegna. Ma il nuovo coronato non trovandosi in istato di pagare le 4000 marche dâargento da Federigo volute, poco stette ad essere condotto bello e incoronato prigioniero in Germania, e poi di lĂ rinviato e consegnato ai Genovesi che il debito contratto da Barisone sborsarono, e quindi ritennero sotto guardia il ridicolo sire perchĂŠ non potĂŠ allâepoca stabilita rimborsare i suoi creditori. CosĂŹ dovette svanire pei Genovesi tutto il frutto deâsacrifizj fatti a favore di un uomo, il quale in quella sua gloria teatrale ogni cosa doveva agli altri fuorchĂŠ la propria stoltezza. â (MANNO, Storia di Sardegna T. II.) Ma le libere parole dagli ambasciatori pisani fatte dire ad un monarca della tempra di Federigo I, o non furono tali come da alcuni storici vennero scritte, o fu un enfatico rilievo creato da un mal inteso zelo di patria. Imperocchè ciò non concorderebbe col racconto di piĂš vecchi cronisti, i quali dopo la scena di Barisone, discorrendo del modo per cui allora fra i Pisani ed i Genovesi si riaccesero le antiche animositĂ , soggiungono, che i primi, volendo assistere i giudici di Sardegna nemici di Barisone, armarono in loro soccorso sei galere capitanate dai consoli e da altri fra i piĂš valenti cittadini di Pisa; e che ciò non bastando, il Comune stesso deliberò spedire allâImperatore Federigo I, dopo essere ritornato in Germania, alcuno deâ suoi consoli alla testa di unâambasceria incaricata di avvalorare le ragioni antiche della loro patria sopra la Sardegna con piĂš potente mezzo delle parole, quale si fu lâofferta di 15,000 fiorini dâoro. â (BREVIAR. PIS. ad ann. 1165. â ANNAL. GENUENS.
in Script. R. Italic.T. VI.) Infatti lâespediente preso da Pisani riescĂŹ felicemente, poichĂŠ Cesare, dopo aver convocato a tal uopo i principi dellâImpero, investĂŹ della Sardegna il Comune di Pisa col cerimoniale, dice il Tronci, di porre in mano del console pisano, in segno del restituito potere, il gonfalone imperiale unitamente al diploma che conteneva la revoca di tutti i diritti a Barisone, a Guelfo VI marchese di Toscana, e finalmente ai Genovesi giĂ dallâImperatore accordati. â (TRONCI, Annal. pis.) Cotesto privilegio dellâinvestitura della Sardegna dato in Francoforte nel 17 aprile 1165 dovĂŠ recare grandissima allegrezza ai Pisani, cui era riescito di adoperare felicemente le armi medesime dei loro rivali. â Ma di altre armi ancora eglino fecero uso, quando intorno allâepoca stessa sâ impadronivano di una nave genovese naufragata sulle coste della Sardegna. Ciò servĂŹ dâimpulso a nuova e piĂš rabbiosa guerra fra i due popoli marittimi, nella quale i Genovesi, per far danno ai loro rivali anche dalla parte di terraferma, tornarono a collegarsi con i Lucchesi, i cui fatti di armi per amore di brevitĂ mi dispenserò di riferire.
â Fu solo nellâanno 1174 che terminò, o piuttosto che restò sospesa cotesta guerra, allorchĂŠ tornava in Italia per la terza volta lâImperatore Federigo I. Il quale nel tempo che dimorò in Pavia impose ai due popoli, genovese e pisano, lâassoluto divieto di guerreggiare fra loro assegnando nel tempo medesimo fra Genova e Pisa divisa la sovranitĂ della Sardegna, di quellâisola che ottâanni innanzi lâImperatore stesso aveva concesso per intiero ai Pisani. â Però questa volta Cesare abbisognava del soccorso e delle flotte di tutti due popoli nella mira di portare la guerra non solo a Roma, ma anche in Sicilia e nel regno di Napoli.
Per effetto di ciò nello stesso anno 1175 dai consoli pisani furono restituite al capitolo e vescovo di Lucca tutte le pievi e beni delle Colline inferiori e di Val dâEra, state tolte dallâoste pisana alla mensa vescovile lucchese. â Vedere MILIANO (PIEVE DI) MONTE CASTELLO, PIETRO (SANTO), ecc.
Fu pure nella stessa occasione quando Federigo proibĂŹ ai Pisani di batter monete ad imitazione di quelle di Lucca.
Però un tale divieto, avendo incontrato qualche difficoltĂ , venne modificato con altro trattato concluso fra i Lucchesi e i Pisani nel 16 giugno del 1181, mercĂŠ cui il lucro delle zecche respettive doveva ripartirsi fra i due Comuni, a condizione per altro che i Pisani non dovessero fabbricare piĂš monete col conio lucchese. â Vedere Lâ Articolo LUCCA Volume II pag. 844.
Arroge che una consimile concordia venne conclusa tre anni dopo (6 luglio 1184) fra i Lucchesi e i Fiorentini. â (TARGIONI, Sopra il fiorino di suggello, Nota 5).
Era giĂ scorso qualche tempo dacchĂŠ lâImperatore greco Manuello Comneno aveva espulso da Costantinopoli i Pisani, allora quando questi si rappacificò con loro (15 dicembre del 1171) restituendo ai Pisani i fondachi e tuttociò che aveva tolto ai medesimi con la promessa di pagare al Comune di Pisa per 15 anni continui 500 bisanzi dâoro. Sul qual proposito rammenterò un privilegio del 16 marzo, anno 1161, col quale Federigo Barbarossa concedeva allâopera della Primaziale di Pisa, ed i consoli di quel Comune le confermavano il diritto dellâembolo, delle stadere e del consolato in Costantinopoli.
Allâoccasione pertanto del trattato di sopra indicato la Repubblica di Pisa aveva inviato in quella capitale il celebre giureconsulto Burgundio pisano, il quale molti anni innanzi aveva assistito a un contratto rogato in Pisa lĂŹ 23 dicembre 1148 (Arch. Arciv. Pis.), e nel 1179 al concilio lateranense in Roma.
E qui rispetto al tempo merita di esser indicata lâepoca della prima pietra posta nel dĂŹ 9 agosto del 1174, per innalzarvi sopra il campanile torto di Pisa, sul quale cadrĂ il destro discorrere in fine del presente articolo. Vuole pure lâordine storico che si rammentino i privilegj commerciali fra il 1170 e il 1181 dai Pisani ottenuti nei porti e cittĂ dellâEgitto, della Siria e di Tessalonica, ora Salonicchi, senza dire di tanti altri riportati negli annali del Tronci. Ai quali trattati potrebbe aggiungersi la convenzione fra i Pisani e i Cornetani del 1 settembre 1174, e un altra stabilita nel novembre del 1179 fra i consoli del Comune di Pisa e quelli della cittĂ di Grasse in Provenza. â (MURATORI Ant. M. Aevi. Diss. 49). A far parola di quella societĂ di negozianti pisani per numero e per capitali imponente, sebbene sotto il modesto titolo degli Umili, la quale aveva in Accon uno deâ suoi principali stabilimenti mercantili. â (TRONCI, Annal.
pis.) Ma la notizia della perdita della cittĂ santa di Gerusalemme dispose gli animi deâCristiani a prendere di nuovo la spada e la croce per ritorla dalle mani degli infedeli. A tale effetto Gregorio VIII appena eletto papa (ottobre del 1187) venne a Pisa per pacificare cotesto popolo con i Genovesi, verso i quali Pisa era sempre in guerra a cagione della Sardegna; e quantunque Gregorio VIII fosse stato sorpreso in Pisa dallâultima sua malattia, pure la pace fra le due repubbliche fu conseguita mediante un trattato giurato lĂŹ 13 febbrajo del 1188 sotto Clemente III di lui successore. In conseguenza di ciò, essendo stata la navigazione per la Sardegna reciprocamente assicurata, e le possessioni con i paesi respettivi in detta isola guarentiti, Clemente III potĂŠ indurre le due potenze marittime a concorrere unite alla santa spedizione.
Fu allora che lâarcivescovo Ubaldo si pose alla testa della flotta pisana, la quale rinforzata dai navigli deâVeneziani e dei Genovesi veleggiò nel mare della Palestina per soccorrere Guido di Lusignano dai Saraceni stato espulso dal trono gerosolimitano. Lo che accadeva nel tempo in cui il Marchese Corrado di Monferrato alla testa di molti fedeli e della societĂ mercantile degli Umili tentava di liberare dallâassedio la piazza dâAccon. â Quantunque per il giro di due anni succedessero ripetute prove di costanza e di valore, non fu però che allâarrivo dalla Francia del re Filippo Augusto e dallâInghilterra del re Riccardo, Cuor di Leone, che la cittĂ di Tolemaide, ossia di Accon, comunemente appellata di S. Giovanni dâAcri, dalle armi deâCristiani venne ricuperata.
Intanto alcuni storici pisani, fra i quali il piĂš volte citato Tronci, riportano allâanno 1190 la riforma del governo della loro patria, supponendo che in quellâanno il Comune di Pisa al reggimento dei consoli e dei senatori sostituisse quello degli anziani. I quali ultimi dâaccordo col consiglio di credenza, dovevano deliberare sugli interessi piĂš gravi, tanto politici come economici, della repubblica, mentre il potestĂ era incaricato di presedere al comando degli eserciti ed alla giustizia; meno negli affari commerciali, la cui ispezione dipendeva da una speciale magistratura, appellata piĂš tardi del Consolato del mare.
Per altro lâepoca del reggimento degli anziani sostituiti ai consoli, come quella della sostituzione dei potestĂ ai rettori del Comune di Pisa, non è cosi facile a precisarsi.
Anche il Muratori nelle sue antichitĂ italiane riporta molti fatti tendenti a confermare piuttosto che a schiarire simili dubbiezze. Citerò per molti un trattato concluso nellâanno 1214 fra il Comune di Pisa e quello di Gaeta, nel quale non sono nominati punto nĂŠ poco gli anziani , sivvero i sapientissimi consoli dellâuniversitĂ e comunitĂ di Pisa .
Lo stesso dicasi di unâaltra convenzione commerciale conclusa nel maggio del 1221 fra il Comune di Arles in Provenza e quello di Pisa, per la mediazione dei potestĂ e consoli respettivi. â (MUR. Op. cit. Diss. 49.) Lo schiariranno meglio i varj Statuti pisani che quanto prima un professore di quella universitĂ si propone di dare alla luce col corredo dâutili illustrazioni.
Frattanto lâImperatore Arrigo VI, a confermare le massime da S. Bernardo allâImperatore Lotario II esternate, con diploma del 30 maggio 1193, â dichiarava i cittadini pisani fedelissimi suoi e sempre allâImpero devotissimi per i magnifici e molteplici servigj da loro resi. Inoltre quel Cesare volle aggiungervi le seguenti lusinghiere espressioni; che rispetto alla fedeltĂ e probitĂ verso gli Augusti la cittĂ di Pisa fino dalla sua origine si distinse superiormente alle altre. In vista di ciò lâImperatore Arrigo VI desiderando remunerare il popolo pisano, non solo confermava a favor di quella Repubblica i privilegj concessi dallâAugusto suo padre, ma ancora rilasciava nelle mani del potestĂ Teudice, presente ed accettante per il popolo pisano, tutto quanto questo Comune riteneva di cose spettanti allâImpero, sia nella cittĂ di Pisa e suo distretto, come pure nelle isole. Oltre di ciò Arrigo stesso confermava ai Pisani la giurisdizione sopra tutti i paesi del loro contado con i confini ivi designati, estendendoli, rispetto al littorale occidentale della Toscana, sino al promontorio del Corvo. Finalmente concedeva diverse franchigie ai negozianti pisani stabiliti nellâItalia inferiore e nellâisola della Sicilia.
Con elargitĂ pari a quella usata ai Pisani lâImperatore Arrigo VI spediva diplomi a favore deâGenovesi, affinchĂŠ continuassero di buona voglia a coadiuvarlo con i loro navigli nellâimpresa altra volta da altra tentata di cacciare il conte Tancredi dalle Sicilie dovâ egli regnava. Ma lâodio inveterato tra i Genovesi ed i Pisani fu origine in quellâoccasione di molti sconcerti. Infatti i Genovesi dopo aver combattuto insieme coi Pisani in favore di Cesare, si separarono in collera, ed unirono la loro squadra a quella di Arrigo conte di Malta per assalire Siracusa precedentemente dai Pisani presidiata; sicchĂŠ dopo ostinatissima resistenza questi furono costretti a consegnarla ai loro rivali (anno 1194). Invano nellâanno dopo i Pisani tentarono di riguadagnare Siracusa, comecchè essa poi, benchĂŠ da Arrigo VI ai Genovesi promessa, non toccasse nĂŠ agli uni nĂŠ agli altri. Accadeva ciò nel tempo medesimo in cui quel monarca (anno 1195) dichiarava il di lui fratello Filippo duca e marchese di Toscana, cui concedeva nel tempo stesso lâusufrutto dei beni marchionali della gran contessa Matilda.
La dichiarazione di guerra fra le due repubbliche marittime testĂŠ accennata si estese anche sopra le isole di Corsica e di Sardegna. Raccontano i continuatori degli annali genovesi, che i Pisani, in onta dei loro rivali, avevano fabbricato il castel di Bonifazio in Corsica convertito in nido di corsari, e che nel 1195 da un naviglio armato di Genovesi fu investito e preso. Che sebbene lâanno dopo questi ultimi fossero assaliti da uno stuolo di navi pisane, non solamente essi conservarono la conquista, ma si recarono con una numerosa flottiglia a sbarrare truppe nel giudicato di Cagliari in Sardegna, di cui allora era padrone un principe amico deâPisani, Guglielmo marchese di Massa Lunense e di Livorno â Vedere LâArticolo LIVORNO, e MASSA DI CARRARA.
Cotesto giudice mediante un esercito riunito di Sardi, Catalani e Pisani, fece ogni sforzo per opporsi allo sbarco dei Genovesi. Ma lâeffetto riescĂŹ contrario allo scopo, stantechè le masnade del marchese Guglielmo furono messe in fuga dai Genovesi che posero a sacco e fuoco il palazzo di quel giudice situato nel castello di S. Gillia.
Malgrado tale sconfitta il marchese Guglielmo non solo seppe mantenersi in signoria nel giudicato calaritano e amico deâPisani, ma egli riescĂŹ anco ad accozzare tanta milizia da assalire il giudicato di Arborea, usando nel tempo stesso molta severitĂ verso lâarcivescovo di quella cittĂ . (MANNO, Stor. di Sardegna, Tomo II. Lib. 8).
Se possono asserirsi gloriose e prospere molte imprese dai Pisani nel correre del secolo XII eseguite, se queste anche nella prima metà del secolo successivo continuarono ad accrescere lustro e fortuna alla loro città , cambiò totalmente la scena sul declinare del mille duecento, e specialmente dopochÊ la città di Pisa dovÊ trangugiare il calice amarissimo spaventevole di un popolo inasprito, da leve invisibili potentissime mosso e diretto, e a danno di genti antagoniste sollevato.
Ma per non perdere il filo della storia dirò, che non fu solo il giudicato di Arborea in Sardegna oggetto dâinquietudine ai Pisani, mentre anche quello di Gallura da Lamberto Visconti potente cittadino di Pisa allora governato, risvegliò le lagnanze, del Pontefice non tanto contro quel giudice, ma eziandio verso il governo pisano che lo proteggeva. NĂŠ a punizione di questo governo Innocenzo III arrestò lâinterdetto se non allora quando la repubblica di Pisa inviò al Papa una solenne legazione che esibiva di costringere il giudice di Gallura a ubbidire agli ordini dâInnocenzo III. â (BALUZI, Epist. Innoc. III.
Tomo II. Lib X n° 117.) Nondimeno Lamberto Visconti per qualche altro mese resistĂŠ alle minacce pontificie ed a quelle della sua repubblica, per cui lo stesso Pontefice scrisse altra epistola allâarcivescovo di Cagliari accagionandolo di tiepidezza e malafede rispetto al sedicente giudice di Gallura; e quando Lamberto Visconti ebbe a cedere a tanti fulmini spirituali, per essere ribenedetto fu accolto dal Papa a condizione che la con sorte sua, la suocera e la popolazione di Gallura restassero sottoposte allâanatema fino a che non rendevano compiuta soddisfazione alla S.
Sede. â (MANNO, Oper. cit. T. II Lib. 8.) NĂŠ qui terminarono li sdegni dellâirritato Innocenzo III contro i Pisani, poichĂŠ sembra che in lui si ridestasse il sopito malumore allorchĂŠ nel 1211 il Comune di Pisa porse qualche ajuto allâImperatore Ottone IV nellâoppugnazione della Sicilia, sicchĂŠ interdetto si estese non solo contro quel monarca, ma ancora contro i governi e popoli che lo avevano ajutato.
Succeduto a Innocenzo Onorio III, e giunta lâoccasione di una quarta crociata, riescĂŹ questo Papa di riconciliare i Genovesi coi Pisani disponendoli a unire insieme le loro forze navali per spingerle in Terrasanta e nellâEgitto.
Le discordie però insorte fra i varj duci dellâesercito cristiano furon cagione che lâimpresa, per quanto bene incominciata, terminasse senza il bramato effetto, non ostante che Onorio III avesse indotto Federigo II a recarsi egli stesso alla guerra santa in Palestina.
Ereditarj però erano lâodio e lâemulazione fra i Genovesi e i Pisani, e dovunque essi incontravansi poco ci voleva a far nascere lite fra loro. Quindi e che, dopo lâultima poco felice crociata, dopo il malgarbo fatto dallâImperatore Federigo II ai Genovesi, allorchĂŠ questi nel 1221 vennero da lui cacciati di Siracusa che da qualche tempo possedevano, si suscitò nellâanno stesso dentro il porto di Accon una fiera mischia fra i mercadanti delle due repubbliche colĂ stabiliti. â (MURAT. SCRIPT. R. ITAL.
T. VI. Annal. Genuens. lib. 7.) Non prima del 1213 dovette cessare di vivere in Cagliari il giudice Guglielmo Marchese di Massa, essendochĂŠ un istrumento pisano del 30 agosto 1213 (ab Incarnatione) lo dĂ vivente insieme con donnicella Giorgia madre sua, quando cotesta donna per procura faceva acquisto di alcuni beni posti nella villa di Ulmiano presso i Bagni di S. Giuliano. â (ARCH. ARCIV DI PISA, Carte di San Matteo.) Al Marchese Guglielmo succedè nei due giudicati di Cagliari e di Arborea la sua figlia primogenita, donnicella Benedetta la quale vivente il padre, erasi sposata ad un Barisone figlio di Pietro giudice di Arborea. Allora i Pisani (anno 1215) di consenso della marchesa Benedetta spedirono un poderoso naviglio alla volta di Cagliari, dove edificarono la rocca, che appellarono Castro calaritano. Dopo che dal castello suddetto si potĂŠ dominare la sottoposta cittĂ , i Pisani sparsero per tutta la provincia le loro soldatesche. La qual cosa apparisce da una lettera di donnicella Benedetta diretta al Pontefice Onorio III, con la quale scusavasi verso il Papa di essere stata costretta a permettere al governo di Pisa di fabbricare il castel di Castro ; protestandosi pel restare, châessa riconoscerebbe, come giĂ aveva fatto poco tempo innanzi, il supremo dominio della S. Sede in tutti i suoi stati. â (MURAT., Ant. M. Aevi Diss. 71.) Dallâaltra parte Ubaldo, figlio che fu del giudice Lamberto Visconti, invadeva il giudicato di Gallura, di dove le sue milizie si avanzarono anche nella provincia di Cagliari, assistite da Mariano figli del fu Comita giudice di Torres che aveva riconsegnato al visconti la terra di Gallura nellâatto di maritare al prenominato Ubaldo la sua figliuola Adelasia. â (MANNO, Storia di Sardegna T: II Lib. 8).
Frattanto i cronisti fiorentini, e innanzi tutti Ricordano Malespini, che può dirsi il primo anello della collana storica toscana, raccontando da quel ridicolo motivo prendesse origine lâinimicizia fra i Pisani e i Fiorentini, per la questione cioè di un cagnolino promesso agli ambasciatori di entrambi i Comuni, egli soggiunge, che nellâanno 1222 nel mese di luglio, i Fiorentini andarono a oste in quel di Pisa a Castel del Bosco, dove accadde una scaramuccia, e quella bastò a recare fra i due popoli giĂ amici disgustose amarezze, cui tennero dietro combattimenti atroci, ostinati e crudeltĂ inaudite.
Allâinimicizia deâPisani coi Fiorentini e Genovesi poco stette ad aggiungersi lo scoppio di unâaltra guerra coi Lucchesi.
Comecchè Pisa si ritrovasse allora in mezzo a tre potenti nemici, pur non ostante il suo governo ebbe coraggio e forza da equipaggiare una flotta di 52 galere per mandarla contro lâimperatore Federigo II nella nuova spedizione in Oriente (anno 1228), e ciò nel tempo stesso che inviava un esercito nella Garfagnana sotto Barga dove ruppe le armi riunite dei Lucchesi e deâFiorentini.
Non corse però molto che accadde in Sardegna, intorno al 1234, lâuccisione di Barisone III giudice di Torres, nato dal giudice Mariano da donnicella Agnese, altra figlia del giudice Guglielmo Marchese di Massa e conseguentemente sorella di donnicella Benedetta, signora di Cagliari e di Arborea. Ai reclami presentati da donna Adelasia, sorella dellâucciso Barisone contro gli autori di cotesto omicidio, restò commosso il Pontefice Gregorio IX, cui accresceva fastidio lâidea che i Pisani, potendosi giovare del diritto trasfuso nel Visconti per le sue nozze con Adelasia sorella del giudice Barisone, volessero invadere anche il giudicato di Torres, tanto piĂš che il giudice di Gallura aveva dichiarato il Comune di Pisa tutore e difensore dei propri figli e di tutte le sue ragioni e possessioni. Ben presto perciò Ubaldo trovossi involto nellâanatema dellâinterdetto finchĂŠ non protestò (anno 1237) di sottomettersi agli ordini del Papa per le sue terre di Sardegna. Alla sottomissione del giudice Visconti consentĂŹ anche la consorte Adelasia col sottoporre al supremo dominio della S. Sede il giudicato di Torres e tutte le terre e castella di sua ereditĂ poste nella Corsica, in Livorno, in Pisa ed in Massa Lunenese.
(Oper. Cit.) Lâanno dopo però (1238) il giudice Ubaldo avendo cessato di vivere, il Pontefice Gregorio IX scriveva lettere consolatorie alla vedova giudichessa Adelasia collâoffrirle il conforto di un novello sposo nella persona di un altro gentiluomo pisano, Guelfo di Ugolino Porcari, vincolato per cognita affezione alla romana Sede.
Ma la principessa era giĂ tratta ad altri pensieri, poichĂŠ Federigo II, che nutriva fiducia di riconquistare la Sardegna allâimpero, udita la morte del giudice di Gallura, si adoprò in modo da indurre la vedova di lui a darle la mano di sposa al suo figlio naturale Enrico, conosciuto comunemente col nome dâEnzio. Quindi appena furono contratti cotesti sponsali, lâimperatore elevò il novello giudice di Gallura alla dignitĂ di Re di Sardegna. La nozze peraltro di Adelasia con Enzio non riescirono felici per nessuno deâ due sposi, poichĂŠ la principessa videsi spogliata di ogni partecipazione al comando, e peggior sorte toccò al suo marito, mentre Enzio, se allâoccasione di un combattimento navale accaduto nelle vicinanze della Meloria, dove fece prigionieri i prelati francesi chiamati al concilio di Roma egli diede prove di valore, e si illustrò il proprio nome nelle guerre intraprese per conto dellâAugusto suo padre in Lombardia, altronde volle il destino che Enzio fosse fatto prigioniero dei Bolognesi, presso i quali dovĂŠ restare finchĂŠ visse. (dal 1249 al 1272). â Vedere MASSA DUCALE.
Frattanto che i Pisani fedeli allâimperatore dovevan sentire non senza rammarico Enzio nelle mani deâbolognesi, alcuni fra i giudici di Sardegna insorgevano contro gli antichi loro padroni. Ai quali regoli somministravano esca opportuna le censure fulminate al comune e cittĂ di Pisa., comecchè eglino non seppero sostenere le proprie pretensioni. Imperocchè intesa appena (anno 1242) la notizia che i Pisani con numerosa flotta veleggiavano verso quellâisola, essi fuggirono dalle residenze respettive; cosicchĂŠ il governo di Pisa, dopo aver confermato al nobile cittadino Ubaldo Visconti ed ai suoi figli i giudicati di Gallura e Torres, pose altre illustri famiglie pisane alla testa del restante di quei giudicati in questo modo; che i Visconti ebbero i giudicati di Gallura e Torres, ai conti di Capraja toccò quello di Arborea, mentre il giudicati Calaritano fu tripartito fra i Visconti giudici di Gallura e Torres, conti di Capraja giudici di Arborea, ed i conti di Donoratico e della Gherardesca, i quali si suddivisero in due rami prendendone ciascuno la sesta parte. (MURAT. In Scrip. R. Italic. Cronic. Pisana, Tomo XV).
Il Tronci neâsuoi annali riportava questo fatto allâanno 1249, (stile comune), quando non fosse da dubitare che le cronache pisane confondessero con un solo atto ciò che accadde in diversi tempi. Rispetto poi ai due giudicati di Gallura e di Torres, che essi restassero confermati nella famiglia Visconti di Pisa (comecchè il Tronci a uno sostituisca i Vernagalli), non ne lascia dubitare il fatto di trovare, lo stesso Ubaldo visconti intitolarsi Giudice di Gallura e di Torres fino allâanno 1237 (stile comune) mentre come tale egli per procura concorreva ad aderire alla convenzione stabilita nella chiesa di S. Dalmazio sotto S. Maria a Monte. â Vedere MARIA (SANTA) a MONTE.
In quanto spetta al giudicato di Cagliari, nel 1242 esso dipendeva dal giudice Chiann i, o Giovanni, che si disse anche marchese di Massa. Il quale ultimo titolo serve per avventura di una qualche ragione da dire che Chianni fosse stato uno degli eredi del giovinetto Guglielmo II figlio di donnicella Benedetta marchesa di Massa. La qual donna sino allâanno 1239 governò la provincia calaritana, mentre il piĂš antico documento del marchese Chianni sarebbe un suo testamento fatto in Cagliari nel 23 settembre 1254.
Dopo però lâanno 1254 Chianni mal soffrendo la potenza del conte di Capraja Guglielmo giudice di Arborea, e avviando di potergli far fronte, pensò gittarsi nelle braccia deâGenovesi, mediante due atti pubblici del 20 aprile e 25 maggio 1256, col metterli in possesso del castel di Castro, sottomettendosi per il resto allâarbitrio dei novelli amici. â (MANNO, Storia di Sardegna , T. II Lib. (.) E ben avventurata fu al prima navigazione deâGenovesi in appoggio del giudice raccomandato, poichĂŠ nellâimbattersi in alcune navi pisane (anno 1258) ebbero propizie le sorti della guerra, quantunque quellâincontro non tornasse del tutto favorevole ai primi, se è vero che i Genovesi in tal conflitto perdessero il momento propizio per sbarcare in Sardegna per soccorrere il loro amico.
Avvegnachè nel frattempo il conflitto accaduto fra i Pisani e i Genovesi, Chianni fu vigorosamente assalito dal giudice di Arborea e dai conti della Gherardesca capitani dei Pisani, sicchĂŠ nel sostenere un combattimento nella terra di S. Gillia egli cadde nelle mani deânemici che lo privarono barbaramente della vita, appena scorsi due anni dal testamento citato, col quale il giudice Chianni aveva istituito suoi eredi due suoi fratelli cugini, Rinaldo e Guglielmo.
Questâultimo personaggio, Guglielmo figlio di Rufo, nelle storie chiamato Guglielmo Cepola , succedè per ragioni ereditarie a Chianni nel giudicato calaritano. Ma non appena scorso lâanno dacchĂŠ le persone piĂš onorevoli eransi congregate in Cagliari al cospetto dellâammiraglio genovese per riverire in Guglielmo il successore legittimo di Chianni, quando questi nel gennajo del 12459, assalito da morbo repentino, chiuse in Genova la serie dei regoli calaritani.
Frattanto i Pisani con Guglielmo dâArborea stringevano vigorosamente dâAssedio il castello di Castro consegnato ai Genovesi da Chianni, mentre sette galere comandate da Guadaluccio cittadino di Pisa, impedivano ai nemici ogni provvisione di vettovaglie. â Invano i Genovesi armarono a tal uopo un flottiglia, e provocarono lâajuto della loro carovana orientale per recar soccorso agli assediati, poichĂŠ dalle forze pisane vigorosamente respinti, e quelli di dentro scorati ed affamati dovettero sino dallâanno 1257 rendersi col castello per vinti al giudice di Arborea.
â (CAFFAR. CONTINUAT. Annal. Genuens. In Script.
R. Ital. T. VI.) Ricaduta in tal maniera la rocca di Cagliari in potere dei Pisani, intesero questi prontamente a munirla di quella magnifica torre che insieme con la grandiosa chiesa di S.
Pancrazio alcuni anni dopo fu ivi innalzata; e contro la qual fortezza affatto inutili riuscirono posteriori tentativi dei Genovesi, comecchè posseditori nella stessa provincia del caste di S. Gilla. Ne miglior risultamento ottenne la spedizione di un secondo naviglio genovese, meno la preda di un legno pisano che salpava dalla Sardegna carico di denaro, oltre il supplizio di alcuni congiurati.
I Pisani adunque, i quali mercĂŠ lâerezione dellâospedale maggiore con bolla dellâanno 1257 (I aprile), dal Pontefice Alessandro IV venivano prosciolti dalle censure in cui erano incorsi, si confortavano di ritenere in loro potere la rocca piĂš importante châeglino stesso avevano edificata nellâisola di Sardegna. Allora il Comune di Pisa, dopo la morte dellâultimo giudice calaritano, cominciò senza ostacolo mediante tre nobili famiglie pisane ad esercitare libera signoria in detta isola, sul dominio del quale sembra che intervenissero anche i di lei arcivescovi.
â Avvegnachè un documento inedito scoperto nellâarchivio arcivescovile di Pisa contiene lâatto di giuramento di fedeltĂ prestato nel giorno 17 giugno 1266 (stile pisano) nelle mani dellâarcivescovo dal nobile Mariano donnicello dâArborea per sĂŠ e per Nicolao di Capaja figlio del fu Guglielmo conte di Capaja, giudice di Arborea e della terza parte del regno calaritano, di cui detto mariano ivi si qualifica tutore.
GiĂ da qualche tempo erano accadute le vittorie dei pisani nel giudicato di Cagliari quando quello di Torres, patrimonio della regina Adelasia, governavasi dal vicario del re Enzio, da quel donno Michele Zanche, tuffato dal poeta delle tre visioni nella quinta bolgia destinata ai barattieri piĂš famigerati della sua etĂ . (Inferno Canto XII).
E fu col nome infausto di Zanche che la serie si chiuse de giudici di Torres, essendochè dopo di lui quella provincia venne ripartita fra alcune potenti famiglie genovesi e pisane. â Accadeva tutto ciò nel tempo in cui il conte Ugolino di Donoratico, signore della sesta parte del giudicato di Cagliari, metteva innanzi le ragioni dei suoi nipoti nati dalla figlia del Re Enzio, maritata a Guelfo figliuolo del suddetto conte Ugolino.
In mezzo a codeste brighe politiche relative allâisola di Sardegna, ben altre piĂš serie ne insorgevano in terraferma fra i Genovesi, Fiorentini e i Lucchesi alleati fra loro a danno della Repubblica di Pisa.
A una cotanto trista condizione deâPisani sopraggiunse quella della scomunica fulminata dal Pontefice Innocenzo IV contro Federigo II e i di lui fautori. Alla morte pertanto dello stesso imperatore (anno 1250) i suoi nemici esultarono, sicchĂŠ i Pisani, oltre a vedere compromesso il loro commercio privilegiato colle Sicilie, dovevano combattere gli eserciti delle tre repubbliche riunite.
Unitisi allora in confederazione coi Senesi e Pistoiesi, invitati e accolti i fuorusciti di Firenze, con tali forze i Pisani non ricusarono misurarsi contro le preponderanti della lega avversa, sia nella Lunigiana, come nella Versilia, nel Val dâArno inferiore, nel pisano e in Val di Serchio. Lâesito però della guerra non riescĂŹ, nĂŠ poteva essere ai primi favorevole; onde il comune di Pisa indebolito da tante azioni sanguinose fu costretto rimettere alle dure condizioni che i fiorentini nel 4 agosto 1254 dettarono nel campo di battaglia ai vinti, i quali due anni dopo cederono alla stessa lega guelfa varie castella deâla Versilia, della Lunigiana, del Val dâArno superiore e di Val dâEra.
Eransi appena i pisani sbrogliati da tanta oste, allorchĂŠ vedendo che il partito imperiale, ossia deâghibellini, dopo al morte di Federigo II e di Corrado suo figlio trovavasi in Italia depresso, nĂŠ potendo operare con frutto a favor del piccolo Corradino, dovettero azzardare di prendere la determinazione di valersi dellâantico diritto degli italiani rispetto allâelezione dei Cesari, sebbene quel diritto fosse stato tolto dal Pontefice Innocenzo IV nellâultimo concilio di Lione. A tale effetto nel marzo del 1256 gli anziani di Pisa spedirono unâambasceria ad Alfonso il Saggio re di Castiglia, che in nome della Repubblica Pisana e di tutti i Ghibellini suoi amici, essendo sempre vacante lâimpero dâoccidente, acclamava quel monarca in re e imperatore deâRomani.
Accadeva tutto ciò nellâanno stesso in cui papa Alessandro IV proibiva agli elettori ecclesiastici di Germania di promuovere al trono deâCesari Corradino nipote di Federigo II, ed intimava la scomunica a chiunque diversamente operasse. Che se al re Alfonso, dopo accettata la corona imperiale, non riescĂŹ a mantenersela, cotesto fatto spiega bastantemente di per sĂŠ lâinfluenze ed il potere della Repubblica Pisana; per cui essa meritatamente consideravasi fra i piĂš rispettabili dominj nazionali che esistessero in quei tempi in italia. In vista pertanto della missione sopraindicata, il monarca aragonese rilasciò ai Pisani amplissimi privilegj dati sotto dâ17 marzo del 1256 (stile comune) nella sua Regia villa di Soria. â (TRONCI, Annal. Pis.) Da quei diplomi anche meglio si scuopre il sistema economico e le magistrature di cui allora componevasi il governo di Pisa, consistenti in un PotestĂ , in un Capitan del popolo , in 12 Anziani (sostituiti ai consoli maggiori) in 40 Senatori, in Capitani dei Militi, in Consoli di Mare, in Consoli dei Mercanti di terra, e in quelli delle Arti, da vedersi nei vari statuti, o brevi del Comune e del Popolo pisano, il piĂš antico deâquali tra i superstiti, reputo quello delle Costituzioni dâUso ridotte la rima volta a legge scritta sotto il 31 dicembre del 1160 (stile comune) e 1161 (stile pisano).
Non è però che il popolo pisano restasse inerte, tostochè nel 1257 per mezzo deâsuoi plenipotenziarj aveva stabilito coi Veneziani patti di alleanza contro i Genovesi, dopo che questi di corto avevano sorpreso e occupato il forte castello di Castro in Sardegna. â (MURAT. Ant. M. Aevi.
Dissert. 49.) In conseguenza di tale alleanza si videro i Pisani poco dopo correre con numeroso naviglio in ajuto dei Veneziani che i Genovesi avevano espulso da S. Giovanni dÏ Acri; sicchÊ le squadre delle due repubbliche collegate, veleggiando verso quel porto, posero a fuoco varj bastimenti genovesi, e demolirono un monastero dove i nemici si erano fortificati. Accadeva ciò quasi nel tempo stesso in cui altre forze dei pisani inviate in Sardegna, riconquistarono il perduto castello di Castro sopra Cagliari per fame degli assediati.
Mentre i Pisani nelle guerre marittime trionfavano in Palestina ed in Sardegna, mentre il loro commercio fioriva nelle Sicilie e nelle Spagne, tutte le cittĂ Guelfe di Toscana si collegavano insieme per combattere Pisa centro principale del partito Ghibellino. La cittĂ di Siena pertanto fu designata per quartiere generale di un potente esercito, alla testa del quale il Re Manfredi di Napoli aveva inviato con molti cavalieri tedeschi un valoroso capitano. Giunto il settembre del 1260, avvenne nei contorni di Monteaperto quella gran battaglia, che sbigottĂŹ lâItalia intiera per lâorribile scempio dei combattenti nella lega Guelfa. Dopo la qual vittoria i Ghibellini di tutti i paesi ferocemente vendicaronsi contro i seguaci del guelfismo; ed o Pisani come i piĂš caldi ed i piĂš numerosi del partito trionfante, corsero tosto a riprendere i castella châerano state loro dalla fazione contraria occupate.
In questo stato di prosperitĂ , il Comune di Pisa fece fabbricare di pietre il ponte piĂš orientale della cittĂ , ora appellato Ponte alla Fortezza , allora Ponte alla Spina, quindi nellâagosto del 1264 fu conclusa una tregua per ventâanni fra il popolo pisano ed il regolo di Tunisi ad oggetto di assicurare sulle coste dâAffrica la navigazione e di favorire ai negozianti pisani nuovi sbocchi al loro commercio.
Ma intorno alla medesima etĂ può fis sarsi la meta gloriosa della repubblica pisana: avvegnachè sei anni dopo la vittoria di Monteaperto accadde la battaglia di Benevento, dove il Re Manfredi, capo deâGhibellini, rimase ucciso ed i principali seguaci vittime del vincitore. I Pisani infatti furono dei primi a risentire della morte del Re Ghibellino i piĂš tristi effetti, tostochè non corsero molti anni che i negozianti di Pisa per ordine del Re Carlo dâAngiò vennero cacciati dalle Sicilie con rappresaglia sopra le loro merci, per la ragione che la repubblica pisana aveva caldamente invitato e poscia dâogni maniera favorito il Re Corradino, nella speranza di potergli riconquistare il trono avito. A sostegno dellâAngioino era il Pontefice Clemente IV, il quale non solo fulminava ai Pisani lâinterdetto, togliendo loro al sede archiepiscopale, ma meditava di dare un colpo anco piĂš forte al loro governo nella mira di recuperare i diritti della S. Sede sulla Sardegna, quando lusingava di donarla a Carlo dâAngiò dopo coronato in re delle Sicilie, e ciò poco innanzi che il Papa medesimo promettesse ad Arrigo di Castiglia, fratello di Alfonso il Saggio, lâinvestitura del trono sardo. Ne stette gran pezza a farsi innanzi pel trono di quellâisola un altro concorrente nella persona di Giacomo il Vittorioso re dâAragona con lâintenzione di mettere quella corona sul capo del figliuolo suo secondogenito.
Mentre fra i tre illustri postulanti pendeva il destino per lâacquisto della Sardegna, dallâaltro canto non quietavano punto le rivalitĂ ed i conflitti fra i nobili pisani signori nei giudicati di quellâisola.
Quindi il governo della Repubblica di Pisa, il quale continuava ad esser potente in Cagliari, dovĂŠ spedire in Sardegna commissarj incaricati di pacificare queâgiudici fra loro; frattanto che inviava a Sassari (anno 1272) per potestĂ un suo cittadino, Arrigo da Caprona. Ma nel tempo che gli anziano procuravano di fissare la pace nelle terre amiche della Sardegna, essi, forse per ricattarsi con i Genovesi, spargevano semi dâinquietudine e di ribellione nella vic ina Corsica. Cominciò allora (anno 1282) fra le due repubbliche una serie lacrimevole di ostilitĂ e rabbiose fazioni, fra le quali riescĂŹ fatale a Giovanni Visconti, giudice di Gallura, quella di una squadriglia pisana da esso capitanata per riacquistare a viva forza la rocca di S. Gillia in Sardegna.
Debolissimo lume somministrano le storie sarde per sapere con chiarezza la parte che prese nel governo il Giudice di Gallura al tempo che Pisa era retta dal conte Ugolino di Donoratico, fatto perire di fame con due figli e due nipoti. Si crede però che il Giudice di Gallura Giovanni Visconti fosse stato nemico dei conti Gherardeschi innanzi che divenisse loro aderente ed affine mediante il matrimonio (ERRATA : di Nino suo figlio) di Giovanni Visconti con una figliuola del conte precitato, e che costui, da ciò che meno velato apparisce, tenendo forse per la migliore via del giusto mezzo , facesse di tutto onde ridurre Pisa, se non decisamente a parte guelfa, almeno ghibellina-moderata, nella cui operazione politica il conte Ugolino si associò il giudice di Gallura.
Ma i piĂš violenti Ghibellini, fra le quali si contavano molte delle principali famiglie pisane, per tale improvvida odiatissima politica si adontarono in guisa che il Visconti ed il conte Ugolino nel 1274 con decreto di ostracismo furono confinati. Ma il Visconti sostenuto dalle forze del vicario regio di Carlo, da quelle deâFiorentini e deâ Lucchesi nemici di Pisa ghibellina, impadronissi a viva forza del castel di Montopoli. Che sebbene nel colmo della fortuna il Visconti fosse colto sollecitamente dalla morte (anno 1275), non per questo cessò la guerra di partito, a fomentare la quale concorrevano molti ambiziosi cittadini.
Uno di questi, il piĂš fiero di tutti, era il conte Ugolino della Gherardesca, che, adontato dallâesilio datogli nel 1274, se nâera partito da Pisa seguitato dai suoi fautori.
Quindi non corsero molti mesi, quando egli segretamente si collegò coi Fiorentini e Lucchesi, sicchĂŠ messosi alla testa di un buon numero di masnade di Corsi, si recò a devastare i contorni di Bientina, di Montecchio e di Vico nei confini del contado di Pisa. Ciò servĂŹ di preliminare alla battaglia che nel 2 settembre del 1275 ebbe luogo nei campi di Asciano fra lâesercito della lega guelfa della lega toscana ed i Pisani, dove piĂš migliaja di questi ultimi rimasero prigionieri. Per tal modo il popolo di Pisa sempre piĂš inasprito contro il conte Ugolino ne incendiò le case, nel tempo che il governo confiscava i suoi beni.
Frattanto alla nuova campagna i soliti alleati investirono e batterono i Pisani persino dentro le trincere del fosso Rinonico, talchĂŠ gli anziani di Pisa con la mediazione dei ministri pontificj ottennero dai nemici la pace, ma a condizioni assai gravose. Tali furono quelle di esentare i Fiorentini da ogni gabella nel Porto Pisano, di restituire ai Lucchesi le castella da essi anteriormente perdute, di ribandire il conte Ugolino, i Visconti e gli Upezzinghi con altri fuorusciti pisani, e di riconsegnare ai medesimi i beni e le rendite confiscate.
Accadeva cotesta pace nellâanno medesimo (1276) in cui celebravasi in Pisa un concilio generale dai Frati dellâordine deâPredicatori, intimato dal Pontefice Gregorio X, affinchĂŠ cotesti religiosi non predicassero piĂš contro il tributo delle decime, ma persuadessero i popoli a pagare scrupolosamente cotesta ecclesiastica imposizione.
Dopo agitazioni si fatte potĂŠ il governo pisano godere per qualche tempo di un poca di pace mercĂŠ cui il popolo meditò di eseguire un meraviglioso concepimento collâaffidare al migliore artista di quella etĂ (Giovanni Pisano) lâerezione del celebre Camposanto urbano, il quale era stato un secolo innanzi dai loro maggiori ideato, con lo scopo di riporvi una quantitĂ di terra del Monte Calvario di Gerusalemme fino dal 1200 dai crocesignati pisani nella loro patria portata.
Sembrò infatti allâautore della moderna descrizione di Pisa, che lâerezione del Camposanto, monumento unico nel suo genere in Italia, per fatalitĂ segnasse il confine della grandezza pisana.
Ai molti pregj che illustrano cotesta cittĂ univansi quelli di essere stata il terrore deâSaraceni, il sostegno costante deâCesari e di non pochi Pontefici, innanzi che la tracotanza di potenti cittadini e piĂš che altro le municipali gelosie fiaccassero le forze di una si potente Repubblica e innanzichĂŠ Pisa restasse per molti anni orbita di migliaja deâsuoi piĂš coraggiosi cittadini.
Uno dei primi colpi alla pisana potenza fu quello minato dai Genovesi col trarre a sĂŠ lâamistĂ deâ piĂš potenti signori della Corsica e della Sardegna.
Preparavansi in tal maniera quella guerra atroce che dal 1282 in poi riempĂŹ sventuratamente gli annali delle due cittĂ di sanguinose azioni battagliate fino alla lagrimevole fatalissima della Meloria.
Erano i Pisani intenti a riparare i danni che giĂ da quel tempo il loro commercio risentiva, facendo pronti ed opportuni apprestamenti nellâarsenale quando il governo di Pisa elesse in potestĂ Albertino Morosini personaggio nobilissimo di Venezia, e per ammiragli delle sue flotte Andreotto Saracini e il conte Ugolino della Gherardesca; quello stesso conte che pochi anni innanzi era stato esiliato dalla patria come sospetto di guelfismo. Correva lâanno 1284, anno di tristissima memoria per i Pisani, e che segna lâepoca in cui tra Pisa e Genova si decise del diritto di preminenza sul dominio marittimo. A questi intenti agognando i Pisani misero in ordine 72 galee con altri minori legni, sui quali montò il fiore della nobiltĂ e gran parte della cittadinanza. Con sĂŹ poderoso naviglio si entrò fastosamente dallâArno in mare; e avendo colto il tempo che una flottiglia da guerra genovese era andata in Sardegna, la flotta pisana corse a dare il guasto alla riviera ligustica, presentandosi persino davanti al porto di Genova a balestrare a ingiuriare quegli avversarj.
Probabilmente lâazione piĂš che lâeffetto dovĂŠ muovere a ira maggiore i Genovesi; i quali richiamando dalla Sardegna e dalla Corsica la navi sparse, riunirono 88 galee con altri piccoli legni, sicchĂŠ contale flotta usciti da Genova recaronsi in traccia della pisana, e trovatala in vicinanza dello scoglio della Meloria, nel dĂŹ 6 agosto 1284, seguĂŹ quella disperata battaglia, della quale forse in tutti i secoli di mezzo non era accaduta in mare la piĂš sanguinosa, piĂš ostinata, piĂš fatale.
Grande fu la mortalitĂ dallâuna e dallâaltra parte, ma sommo, incalcolabile divenne il danno alla Repubblica pisana, la quale non solo perdĂŠ la metĂ del suo naviglio, ma piĂš migliaja di cittadini di varie classi restarono preda del vincitore che li volle per molti anni prigioni propria casa; in modo che allora si disse per proverbio: Chi vuol veder Pisa vada a Genova.
Ă certo frattanto che la Repubblica pisana dopo la perdita di moltissimi cittadini coraggiosi e potenti, non potĂŠ alzare piĂš il capo, e tanto andò declinando che con tutto il coraggio e con tutti i mezzi dei suoi figli doviziosj e appassioni, Pisa dovĂŠ perdere la propria libertĂ prima dâogni altra repubblica di Toscana.
Ad accrescere nei Pisani la desolazione si aggiunse la subitanea partenza di tutti i mercanti fiorentini, cui presto tenne dietro lâostilitĂ manifestata dalle varie cittĂ e terre della lega guelfa toscana; le quali dopo la disfatta della Meloria si staccarono dalla momentanea amicizia del Comune di Pisa per aderire con suo danno ad una nuova confederazione di cui faceva parte la repubblica di Genova.
Ben presto ne conseguĂŹ, che i Fiorentini dal lato di levante, i Lucchesi verso settentrione ed i Genovesi per la via di mare, nellâestate del 1285 mossero le loro armate a danno del popolo pisano.
Che se la guerra venne sospesa con i primi, ciò fu per consiglio del conte Ugolino, al quale sino dal febbrajo dellâanno seguente associò in qualitĂ di capitano del popolo in suo (ERRATA: genero Nino) nipote Nino (Ugolino) Visconti giudice di Gallura. â Lâopera piĂš importante che per avventura accadesse nel primo anno della dittatura del conte di Donoratico e di Nino Visconti mi sembra quella della riforma deâStatuti del Comune di Pisa sotto il titolo di Breve Pisani Comunis, dove in calce al Cap. 61, del Libro IV, quei due uffiziali maggiori sono nominati, e sopra i quali statuti debbo tornare a parlare allâArticolo COMUNITAâ di PISA.
Erano in questo stato le cose di Pisa, quando il suocero e il (ERRATA: genero) nipote suddetti tergiversando nella conclusione della pace con Genova per riavere i prigionieri della Meloria, lâarcivescovo Ruggiero unitosi ai capi della fazione ghibellina, secolari e sacerdoti, dopo aver questi segretamente adunato un numero di soldati, allo spirare di giugno del 1288 levossi la popolazione a rumore, da primo (al dire di alcuni cronisti) contro il capitano del popolo Nino di Gallura per cacciarlo di signoria con intelligenza tacita del conte assentatosi pochi giorni innanzi per recarsi alla sua villa di Settimo.
Vedendo pertanto Nino Visconti che lâattruppamento deârivoltosi andava crescendo, deliberò di escire da Pisa coi suoi seguaci armati, sicchĂŠ nellâultimo giorno di giugno del 1288 il capitano di Pisa in mezzo a un numero di soldati a cavallo escĂŹ dalla cittĂ per la porta Calcesana, mentre poche ore dopo (stando al detto di alcuni storici) dallâopposta ripa dellâArno ritornava in Pisa il potestĂ conte Ugolino. â Ma giĂ lâarcivescovo Ruggiero era entrato nel palazzo del popolo acclamato in potestĂ dai Sismondi, dai Gualandi e dai Lanfranchi, capi della fazione ghibellina, con lâintenzione, dicevano essi, di porre un freno alla prepotenza del conte di Donoratico, cui i rivoltosi volevano dare un compagno del loro partito.
Per quanto io mi sia dato premura di ricercare in varj archivi pubblici le prove di tuttociò, nel desiderio di schiarire un periodo tuttora oscuro e controverso quanto importante della storia pisana, sventuratamente non vi sono riescito.
Che però dovendo limitarmi a ripetere ciò che racconta uno deâ cronisti pisani, il quale si mostra degli altri alquanto meglio informato, e giovandomi di ciò che asseriva un contemporaneo scrittore degli annali genovesi, dirò che nella mattina, del 1 luglio 1288 (stile comune) il conte Ugolino e lâarcivescovo furono insieme per trattare sulla riforma del governo, ma non sâaccordando fra loro cosĂŹ per fretta, fissarono di tornare a colloquio verso lâora di nona. In questo frattempo lâarcivescovo e gli altri capi ghibellini furono avvisati che Nino, detto il Brigata, nipote del conte Ugolino, e parente, come dirò appresso, dellâarcivescovo Ruggiero, si preparava ad introdurre in cittĂ per via dellâArno qualche centinajo di uomini da un capitano di Bientina appositamente condotti. Allora la fazione deârivoltosi temendo di essere sorpresa a tradita, innanzi che le genti del conte si mettessero dentro Pisa, fu gridato allâarme , e da quelli della parte dellâarcivescovo dato nella campana del Comune, mentre lâaltra del popolo chiamava i pisani a difesa del conte Ugolino. Ben presto la mischia fra i due partiti incominciò per le strade della cittĂ e sempre piĂš sanguinosa si rese dallâora di nona fino a sera. Alla fine i seguaci del conte rinculando si rinchiusero nel palazzo del popolo, ed ivi dai loro feroci nemici con fuoco ed altri mezzi investiti, dovettero darsi prigionieri. Erano fra questi il conte Ugolino, con due figliuoli e due nipoti, i quali dopo essere stati collati e sostenuti, furono messi aâferri e guardati piĂš di venti giorni nel palazzo stesso posto nel Castelletto fino a che, essendosi acconcia la prigione della torre dei Gualandi dalle Sette vie, vi si rinchiusero il conte Ugolino, Gaddo ed Ugoccione suoi figliuoli con Nino, detto il Brigata, ed Anselmuccio , due nipoti dello stesso conte. â (MURATORI, Fragment.
Hist. In Script R. ital. Tomo XXIV.) Lâarcivescovo Ruggiero dal giorno innanzi gridato potestĂ , tenne lâufizio per soli quattro mesi, i primi due, del luglio e agosto, personalmente, gli altri due mesi, del settembre ed ottobre, mediante il suo vicario Buonaccorso Gubetta. Dissi lâarcivescovo Ruggiero potestĂ di Pisa per 4 e non come altri scrissero per 5, stantechè nel novembre del 1288 (stile comune) esercitava lo stesso ufizio Ildino di Romagna, capitano del popolo pisano, il quale tenne quella carica per un anno. Finalmente nel mese di maggio dellâanno 1289 (stile comune) trovò potestĂ di Pisa messere Gualtieri di Brunforte.
Di cotesti uffiziali superiori è fatta menzione in un codice sincrono dove furono registrati i nomi degli anziani tratti dalle borse ogni due mesi, a partire da luglio del 1288 (stile comune) sino allâanno 1406.
Da quel codice si rileva, che la prima tratta degli anziani cominciò al tempo del venerabile padre Ruggiero per misericordia divina arcivescovo di Pisa, PotestĂ Rettore e Governatore del Comune e popolo pisano, lâanno 1289, del mese di luglio (stile pisano).
Altro documento del tempo sarebbe una sentenza data nel 12 maggio 1289 (stile comune) nella curia deâMaleficj di Pisa posta nella piazza di S. Ambrogio, essendo potestĂ messer Gualtieri di Brunforte. â (ARCH. ARCIV. DI PISA). Questo Gualtieri scrisse lâanonimo autore della cronica pisana edita dal Muratori (Script. Rer. Ital. Tomo XXIV), châera entrato in ufizio di potestĂ a Pisa sino dal dicembre del 1288 (stile comune), e che vi stette sei mesi, perchĂŠ ai 13 maggio del 1289 giunse ad Asti per la via di Genova il conte Guido di Montefeltro stato investito della doppia qualitĂ di potestĂ di Pisa e capitano generale di guerra per il tempo di tre anni, sebbene il codice della comunitĂ di Pisa ci dia il principio del governo del conte Guido da Montefeltro nel mese di novembre del 1289 (stile comune). Soggiunge inoltre il cronista, che quando il conte Guido arrivò a Pisa erano morti di fame alla Torre deâGualandi dalle Sette vie Gaddo e Uguccione, due figliuoli del conte Ugolino, e che gli altri morirono in quella medesima settimana.
Frattanto donna Capuana figlia di Ranieri conte di Panico e sorella di un conte Ugolino di Panico, stato potestĂ di Modena, essendo rimasta vedova dellâinfelice Nino di Donoratico, denominato il Brigata, dovĂŠ rifugiarsi con due piccoli figliuolini presso la famiglia deâconti di Panico, mentre le altre linee della casata Gherardesca poterono restare impunemente in Pisa o nel suo contado.
Arroge che lâannalista genovese, Giacomo Doria (ANNAL. GENUENS Lib. X) racconta, come dopo la prigionia del conte Ugolino e la fuga del giudice di Gallura, lâarcivescovo Ruggiero e gli altri che in quel lagrimevole periodo governavano Pisa invitarono il Comune di Genova a spedire alcune galere al porto pisano, perchĂŠ volevano consegnarli il detto conte coi figli e nipoti prigionieri. Dondechè da questi soli fatti sembra poter conchiudere, che la vendetta deâPisani, giusta o ingiusta che fosse, si limitò alla sola famiglia del conte Ugolino; che se i figli e nipoti del conte furono innocenti rispetto alle cessioni delle castella (cui aveva acconsentito tutto il popolo pisano adunato in duomo) non furono però cauti abbastanza da non prender parte nella sommossa del 1 luglio 1288; che nĂŠ i figli; nĂŠ i nipoti erano in una etĂ novella, come li chiamò Dante nel piĂš bel canto che uomo scrivesse giammai. Per tal guisa vinto lâanimo della passione, si è visto come una robusta poesia sappia paralizzare la severitĂ dellâistoria, onde accrescere delitto a un popolo e infamia a un arcivescovo, perchĂŠ lâuomo del giusto mezzo fidossi troppo di colui che come parente, e forse per influenza del conte stesso innalzato dallâarcidiaconato di Bologna allâarcivescovato di Pisa, nĂŠ verso i figli, nĂŠ verso i nipoti, e nettampoco col suo benefattore seppe usare alcuno atto di virtĂš civile o cristiana. Se non fu unico però lâAlighieri a dichiarare lâarcivescovo di Pisa traditore fu unico bensĂŹ fra i coetanei ad accusare lo stesso Ruggiero di aver dato lâempio consiglio di vietare il cibo ai Gherardesca suoi prigionieri mentre non vi è pagina storica che in ciò lo addebitasse, nĂŠ Roma potĂŠ per tale addebito quel prelato condannare; mentre altri incolpavano di tal crudeltĂ il furibondo popolo. Della qual cosa non mancano orribili e tragici esempi in tutti i tempi, con tutti i popoli, fra i piĂš caldi partiti, quando si arma una popolazione mossa da convincimento di opinione politica o religiosa.
Comunque sia, un fatto piĂš concludente, che potrebbe difendere lâarcivescovo Ruggiero, oltre lâasserto dello storico contemporaneo, Giacomo Doria di sopra citato, si è quello di vedere lo stesso prelato chiamato a Roma, quindi pacificamente ritornato alla sua sede arcivescovile di Pisa, siccome lo dimostrano le carte di quellâarchivio.
Che anzi nel maggio dellâanno 1289 la curia deâMalefici di Pisa pronunziò sentenza con penale contro tutti i Comuni dellâisola dâElba, qualora dentro il termine di 20 giorni non avessero pagato al Venerabile Ruggiero arcivescovo pisano ed alla sua mensa il tributo di dieci anni arretrato pei falconi che i detti comuni inviare dovevano agli arcivescovi di Pisa.
A meglio provare la permanenza di Ruggero nellâesercizio della sua dignitĂ arcivescovile gioverĂ citare un breve, col quale quel prelato eccitava la caritĂ dei suoi diocesani a voler soccorrere di elemosine lâospedale deâTrovatelli di Santo Spirito posto in Pisa nel quartiere di Chinsica. Il quale breve incomincia: Rogerius divina et apostolica gratia Pisanus Archiepiscopus, Sardinae Primas, et Apostolica sedis Legatus, etcâŚ, e termina: Datum Pisis apud Archiepiscopatum, Anno MCCLXXXXV. Indictione VII, sexto Kalendas Augusti, consecrationis nostrae anno XVI.
Importantissimo poi è un istrumento del dĂŹ 8 ottobre 1295 rogato in Pisa presso lâarcivescovato perchĂŠ si scuopre la famiglia dellâarcivescovo Ruggiero che non apparteneva, come finora si è creduto, agli Ubaldini del Mugello, ma invece ai conti di Panico del contado bolognese.
Avvegnachè lâistrumento testĂŠ accennato tratta dellâenfiteusi di cinque predj di dominio diretto della mensa di Pisa che lâarcivescovo Ruggerio concedeva senza retribuzione di canone ad Ubaldino nipote dello stesso Arcivescovo, e figlio del conte Bonifazio di Panico di lui fratello, per tenerli a usufrutto egli, i suoi figli ed eredi maschi in perpetuo. â (ARCH. ARCIV. Di PISA).
Che questo Baldino di Panico nipote dellâarcivescovo fosse presente alla sommossa di Pisa del 1 luglio 1288, ce lo da a divedere lâautore anonimo della cronica pisana edita dal muratori negli Scrittori delle cose italiche (T.
XXIV.); mentre il Savioli neâsuoi annali bolognesi ci assicura, che donna Capuana moglie di Nino, denominato il Brigata, nasceva da un Ranieri, pur esso conte di Panico. â (Vedere TROJA, Veltro Allegorico).
Ma se il poeta delle tre visioni si mostrò acerrimo nemico deâPisani e del loro arcivescovo Ruggiero, altrettanto sembrò benevolo verso (ERRATA: Nino Visconti genero) Nino Visconti nipote e collega di Governo del conte Ugolino di Donoratico; poichĂŠ mentre cacciava Ruggeiro fra i piĂš solenni traditori nellâAntenora, a Nino usò la gentilezza di chiamarlo gentile e di porlo nel Purgatorio, dove Dante figurò dâincontrare la sua ombra dicendo: Ver me si fece, ed io ver lui mi fei; Giudice nin gentil quanto mi piacque Quando ti vidi non esser fra i rei.
(PURGAT. Cant.
VIII.) Ma gli odj dei popoli limitrofi crebbero contro i Pisani dopochè questi collegaronsi con gli Aretini. Allora i Fiorentini, stretta di nuovo alleanza coi Genovesi e coi Lucchesi, corsero sopra Porto Pisano (settembre 1290), dove furono investite e conquistate le quattro torri col fanale, quindi vennero affondate delle navi cariche di pietre alla bocca del porto per chiudere lâingresso ai bastimenti di grossa portata. â Vedere LIVORNO e PORTO PISANO.
Comecchè i Pisani non avessero forze proporzionate da misurarsi con tanti nemici, pure pel senno del conte Guido da Montefeltro loro podestà e capitano generale di guerra essi poterono schermirsi con sufficiente successo.
Ma giunto lâanno 1292 i Fiorentini, si erano preparati ad aprire contro i Pisani una piĂš imponente campagna, quando un loro esercito composto di 8000 soldati a piedi e di 2500 cavalieri, nel mese di giugno, mosse la marcia verso Pisa nel tempo stesso che il conte Guido da Montefeltro con 800 soldati di cavalleria, diretti con strategica bravura, procurava difendere questa cittĂ .
SennonchĂŠ nel 1293 per risse cittadine in Firenze essendosi mutato regime a danno deâgrandi, si accelerò la pace coi Pisani, che fu conclusa lĂŹ 12 luglio dello stesso anno in Fucecchio, fra il comune di Firenze ed i popoli della taglia guelfa di Toscana, nella quale meditava anche Nino di Gallura nipote dellâinfelice conte Ugolino da una parte, ed il Comune di Pisa coi suoi aderenti dallâaltra parte. Le condizioni del trattato furono la restituzione scambievole dei prigionieri; franchigia di gabelle in Pisa e suo dominio pei fiorentini e per tutti i popoli e signori della taglia guelfa; abbattimento delle fortificazioni che il conte Guido da Montefeltro fatto avesse in essa cittĂ e suo contado; espulsione deâGhibellini forestieri che fossero fatti cittadini pisani dopo la partenza del Giudice di Gallura; ribandimento di questâultimo signore, e restituzione dei beni a lui ed agli altri guelfi fuorusciti col permesso del libero ritorno in patria. â Fra i guelfi si eccettuarono i conti Guelfo e Lotto di Donoratico coi figli e nipoti come discendenti del conte Ugolino. â Restarono pure esclusi dal ribandimento alcuni deâconti di Montecuccari e di Collegalli con altri individui della casa Upezzinghi, salvo un capitolo speciale che servi forse di appendice allo stesso trattato di pace relativo al perdono deâconti Guelfo e Lotto di Donoratico, ma che però non ebbe effetto.
Finalmente in quellâatto fu stabilito che i Pisani per 4 anni dovessero eleggere in loro potestĂ e capitano del popolo uno nativo dei paesi della lega guelfa toscana, purchĂŠ non fosse stato dei ribelli deâcollegati. â (AMMIR. Stor. Fior.
Libro IV. â Dal BORGO, Dissert. e Diplomi pisani.) In vigore del quale trattato mo lti fuorusciti guelfi, fra i quali, il Giudice Nino di Gallura, tornarono a Pisa ed al libero possesso de loro beni. Ma poco andò che Nino Visconti si riallontanò dalla patria per recarsi a Genova dove fu ben accolto e fatto cittadino. Quindi dopo essersi unito ad altri amici, quel giudice navigò in Sardegna con animo dâindurre i potenti dellâisola a scuotere il giogo pisano, osteggiando prima di tutto contro il giudice di Arborea. Ciò sarebbe accaduto secondo uno storico sardo nel 1297, e due anni dopo secondo li scrittori pisani e genovesi.
Ma il giudice di Gallura lâanno 1300 cessò di vivere lasciando allâunica sua figliuola Giovanna, natagli da donna Beatrice dâEste, oltre una ricca ereditĂ , i paterni diritti sul giudicato di Gallura.
Appella a cotesta figlia di Nino Visconti il colloquio figurato da Dante nel Purgatorio, allorchĂŠ Nino diceva al poeta: Quando sarai di lĂ dalle larghe onde Di a Giovanna mia, che per me chiami LĂ dove aglâinnocenti si risponde.
(PURGAT. Canto 8).
Siamo giunti alla fine del secolo XIII, quando i Pisani trovandosi assaliti dai Genovesi con sempre piĂš insistenti forze navali, tanto in Sardegna, come nella Corsica e lungo il littorale toscano, dovettero tornare a comprare da essi una pace umiliante, con la quale furono forzati di rilasciare ai loro emuli lâintiero dominio della Corsica, ed il giudicato di Torres con al cittĂ di Sassari (la sola indipendente di tutta la Sardegna) esentandoli da ogni dazio nel restante dellâisola come pure in quella dellâElba, in Pisa e nel suo contado.
Allâincontro si limitava ai Pisani la giurisdizione littoranea, togliendo via quella che ottennero pere concessione imperiale dalla bocca del Serchio al promontorio del Corvo. Infine il comune di Pisa dovĂŠ obbligarsi a pagare lire 160.000 ai Genovesi, promettendo questi dal lato loro di rimandare a Pisa queglâinfelici prigionieri della Meloria, che dopo 16 anni erano restati tuttora in vita.
Uscivano appena i Pisani da cotesto travaglio che se ne affacciava incontro un altro non meno doloroso. Era di poco salito sul trono pontificio Bonifazio VIII, il quale intento a far cessare fra la casa regnate dâAragona e quella dâAngiò di Napoli ogni contenzione rispetto al possesso della Sicilia, concludeva con Giacomo II re dâAragona un trattato, in cui per condizione segreta eravi la promessa di dare a questo monarca la Sardegna, mentre per la sua parte lâAragonese rinunziava ad ogni suo diritto sullâisola della Sicilia.
Coteste trattative preliminari, al dire di Giovanni Villani, si fecero nel principio del 1296, mentre per asserto di un piĂš vecchio scrittore, Tolomeo da Lucca, il trattato non avrebbe avuto luogo sennonchĂŠ nel luglio del 1299. Infatti fu dopo una segnalata vittoria dagli Aragonesi riportata nel mare di Sicilia, quando Giacomo II ottenne dal Pontefice Bonifazio il gonfalone della chiesa con lâinvestitura dellâisola di Sardegna, previa la protesta di riconoscere il supremo dominio della S. Sede, di assisterla colle sue forze in Italia, e di pagare alla Camera apostolica lâannuo censo di 2000 marche dâargento.
Ma quellâatto di investitura dovette trattarsi con la massima segretezza e senza la minima saputa dei Pisani, se è vero che questi nel 1301, lusingandosi probabilmente di evitare un pericolo che li minacciava, o piuttosto sperando di liberasi dallâinterdetto cui si trovavano avvolti, caddero in un precipizio maggiore, se è vero, io dico, che i pisani eleggessero in loro potestĂ lo stesso Papa con lâannuo onorario di 4000 fiorini dâoro, e che Bonifazio VIII, accettando cotale offerta, per tal mezzo avesse liberata dalle censure la cittĂ di Pisa, dove da alcuni storici si ammette lâinvio di un vicario papale in governatore di quella repubblica.
Frattanto Giacomo II conoscendo che lâacquistato diritto non bastavagli, se non giungeva a cacciare dalla Sardegna i Pisani che pure vi signoreggiavano, deliberò combatterli concitando contro essi prima di tutto la rivalitĂ deâFiorentini e dei Lucchesi. â Erano in questo stato gli affari politici, quando il Comune di Pisa, nel 1308, volendo evitare un pericoloso cimento, ebbe ricorso ad un ausiliatore assi piĂš potente e piĂš efficace, quale si è lâoro.
Infatti in quellâanno essendo stati da Pisa inviati in Aragona ambasciatori con tre galere e con molta moneta, questi ruppero la foga al nemico allettato anche dallâofferta fatta al re Giacomo della carica di Capitano della repubblica pisana, sebbene punto, o brevissimo tempo per mezzo di un suo vicario lâesercitasse. â (G.
VILLANI, Cronac. Lib. VIII, Cap. 105. TRONCI, Annali pisani.) Che i Pisani fidassero nella pace promessa dallâAragonese rispetto alla Sardegna, lo dice la chiesa maggiore di Cagliari da essi in quel tempo fondata, e lo chiarisce anche meglio lâordine dato dagli anziani nel 1314 per inviare un giureconsulto in Sardegna che tenesse a sindacato i diversi ufiziali al servizio del comune di Pisa, tanto nella provincia di Cagliari, come in quella di Gallura. â (DAL BORGO, Diplomi pisani, pag. 315).
Frattanto a rincorare il partito del governo ghibellino scendeva con grandâanimo in Italia nellâanno 1311 Arrigo di Lussemburgo per essere incoronato a Roma Imperatore. I Pisani, che si ripromettevano da questo sovrano il ritorno allâantico splendore, procurarono con tutti i mezzi di favorire le buone disposizioni mostrate da quel monarca a vantaggio del partito ghibellino.
Infatti il Comune di Pisa mandò sollecitamente ad Arrigo di Lussemburgo 60.000 fiorini dâoro, ed altrettanti ne promise al suo arrivo in Pisa. Ognuno può immaginarsi la gioja e lâaccoglienza fatta da un popolo ghibellino ad un imperatore ghibellinissimo, nel suo ingresso in Pisa, dove sâintrattenne 46 giorni continui, (dal dĂŹ 6 marzo al 22 aprile del 1312.) Sono troppo note le belliche imprese di questo monarca inutilmente tentate nellâassedio di Firenze e quelle ne contorni di Siena, dove nel 24 agosto 1313 in breve ora morĂŹ. â Dolenti i Pisani per tale disavventura non lasciarono di onorare le ossa di quellâImperatore, il cui cadavere fu cotto e spolpato nel suo passaggio da Suvereto, dove restò due anni innanzi che venisse trasportato a Pisa, e costĂ rinchiuso in un apposito sarcofago con gran dolore della popolazione, la quale dopo aver speso somme immense presentiva la trista sorte che gli sarebbe toccata.
Vedendo per tal caso gli anziani di Pisa la cittĂ esposta allâira di tanti nemici, pensarono di offrire il comando della medesima a diversi principi del loro partito. Ma questo progetto essendo andato a vuoto, si ricorse al valoroso Uguccione della Faggiuola lasciato dallâImperatore Arrigo VII luogotenente in Genova, il quale accettò lâofferta di potestĂ e capitano del popolo pisano. Questâuomo bellicoso e intraprendente assoggettò assai presto ai suoi voleri anche la cittĂ e territorio di Lucca. Accorreva a reprimere tanta baldanza una numerosa armata di Fiorentini, di Sanesi e di altri popoli della lega guelfa toscana, a rinforzo della quale non pochi soldati inviava il re Roberto da Napoli. Ma Uguccione li vinceva tutti nella memoranda battaglia di Montecatini in Val di Nievole (29 agosto 1315); in quella luminosa giornata che rese sempre piĂš orgoglioso ed esigente il Faggiuolano, sicchĂŠ Uguccione si tirò addosso lâodio dei suoi governati a segno, che in una mattina stessa a furia di popolo trovossi cacciato da Pisa e da Lucca. (11 aprile 1316).
Cascetto da Colle, popolano arditissimo, e il conte Gaddo (Gherardo) della Gherardesca furono i primi che in Pisa si muovessero ed incoraggiassero la popolazione ad oggetto di liberare da tale oppressore la patria. â Era il conte Gaddo nato da un conte Bonifazio detto il Vecchio, che fu prigioniero dei Genovesi innanzi al fatale sconfitta della Meloria, e che alla morte di lui accaduta nel 1313 fu generalmente compianto per le sue virtĂš e per ricordi cospicui di beneficenza che in Pisa lasciò.
La rimembranza di un ottimo padre, la ricchezza della famiglia, i buoni servigj dal figlio stesso resi ultimamente alla patria, fecero si che il conte Gaddo fosse amato ed accettissimo ai suoi concittadini, di maniera che nel 1316 agli fu acclamato signor di Pisa dai discendenti immediati di coloro che avevano fatto perire nella torre della fame il cugino del di lui padre.
Saggi furono i provvedimenti del novello signore, che procurò ai suoi amministrati una quiete stabile, riformando abusi, ricomponendo milizie, restituendo vigore alle magistrature e un maggior rispetto alle leggi. Il conte Gaddo chiese ed ottenne la pace a favorevoli condizioni da Roberto re di Napoli, dai Fiorentini e dalle altre città guelfe della Toscana. Per stare in maggiore armonia col suo potente vicino, Castruccio degli Antelminelli capitano e signore di Lucca, lo stesso conte stabilÏ il matrimonio fra il proprio figlio Bonifazio novello e Sancia Antelminelli figliuola del suo potente vicino.
Mentre però tutto tendeva a riparare i danni sofferti ed a migliorare la sorte deâPisani, nel tempo che questi nutrivano grandi speranze e le piĂš belle lusinghe, tutto fu troncato dalla morte repentina del conte Gaddo accaduta nellâanno 1320; nĂŠ seppe ripararvi il di lui zio paterno, il conte Ranieri della Gherardesca acclamato e sostituito nellâistesso ufizio al nipote.
Non corse infatti molto tempo a presentarsi occasione propizia al re dâAragona per la conquista della Sardegna, quando il governo di Genova si esibĂŹ di ajutarlo nellâimpresa con la speranza di accrescere stato in quellâisola, di menomarvi e forse di annientarvi la potenza pisana. Cominciò nel 1323 con mezzi barbari a ribellarsi dai pisani il giudice di arborea, il quale, oltre il tenere la cittĂ di Orestano, era signore quasi di una terza parte della Sardegna quando offriva allâAragonese non solamente tutte le sue milizie, ma prometteva di piĂš lâajuto dello scellerato Brancadoria di lui amico e confederato. (G.
VILLANI, Cronich. Lib. IX, Cap. 198. â MANNO. Stor.
di Sardegna, Lib. IX) Arroge che lâinfante don Alfonso secondogenito del re Giacomo stava nei porti di Valenza e di Catalogna preparando un numeroso naviglio per conquistare la Sardegna, mentre il comune di Sassari dichiaravasi pronto a giurare fedeltĂ ed obbedienza al re dâAragona.
Appena giunse lâavviso agli Anziani di Pisa di quanto dallâAragonese meditavasi, eglino spedirono in Sardegna 700 cavalieri con corrispondente fanteria destinata a rinforzare le guarnigioni, nel tempo che salpavano da Pisa molte galere a soccorrere i castelli dalla parte del mare.
Cotesti soccorsi però riescirono inutili poichÊ le forze superiori di Giacomo II, il tradimento del giudice di Arborea, la dedizione della città di Sassari ed il timore degli altri isolani, resero vani, tardivi o troppo deboli i ripari presi per conservare la Sardegna alla repubblica di Pisa.
Nel tempo che le truppe pisane erano dalle aragonesi in Cagliari assediate mancò di vita (anno 1325) il conte Ranieri della Gherardesca signore di Pisa, assai poco amato dai suoi concittadini. Allora la guarnigione di Cagliari intavolò con gli assediati una onorevole capitolazione, cui tennero dietro condizioni di pace, sebbene questa riescisse di corta durata.
Alla nuova rottura di guerra vollero i Pisani ritentare la sorte, ma anche cotesta volta essa riescĂŹ loro contraria, sicchĂŠ per la seconda volta eglino (anno 1326) furono costretti ad abbandonare al re di Aragona lâultimo possedimento del Castel di Castro sopra Cagliari, limitandosi quel trattato a dar qualche preferenza ai Pisani rispetto al commercio con la Sardegna.
Ma oltre la sopra accennate, altre sventure si apprestavano a Pisa alla discesa in Italia di Lodovico di Baviera; il quale pretendeva sanzionare i suoi diritti allâimpero a dispetto di Roberto re di Napoli, e di Papa Giovanni XXII che con tutti i mezzi se gli opponevano.
Gli Anziani di Pisa che dopo savio consiglio avevano deciso di restar neutrali, limitandosi ad offrire 60000 fiorini dâoro al preteso imperatore, ebbero il dispiacere di sentire arrestatigli ambasciatori inviati a fargliene lâofferta; nĂŠ passo gran tempo dacchĂŠ Pisa si trovò assediata dalle truppe del Bavaro e da quelle del capitano Castruccio suo fedele. In conseguenza di ciò i pisani dovettero soggiacere a dure condizioni, come furono quelle di avere a sborsare 100000 fiorini dâoro, accogliere nella cittĂ i fuorusciti pisani, e ricevere per vicario imperiale quel Castruccio medesimo, che due anni dopo il suo ritorno da Roma ripassando da Pisa ne prendeva la signoria senza riguardo alcuno allâamico imperatore.
Alla morte però di Castruccio, benchĂŠ i pisani cacciassero dalla loro cittĂ i figliuoli di lui, non poterono godere il frutto della libertĂ riacquistata, tostochè il Bavaro, appena ritornato a Pisa in compagnia dellâantipapa, aggravò questo popolo di contribuzioni esorbitanti, alle quali tennero dietro le pontificie censure.
Ma appena Lodovico ritornò in Germania, Pisa scosse il giogo della guarnigione tedesca e del vicario imperiale, per opera specialmente del conte Bonifazio novello, piĂš noto col nome di conte Fazio della Gherardesca. Infatti mercĂŠ sua fu ristabilita in Pisa lâindipendenza del governo (anno 1329), e le vertenze col re di Napoli, col Pontefice e con gli altri popoli della Toscana non tardarono a essere ripianate.
Lâesito felice di queste operazioni tendenti a sopire fra i Pisani ogni contesa, la liberazione dallâinterdetto ottenuta dal Pontefice Giovanni XXII, ed altri non pochi benefizj accrebbero al conte Fazio riputazione, nel tempo che tuttociò destava rancore nei capi delle principali fazioni pisane, i quali tentarono, sebbene senza effetto, (anno 1335) dâindisporre contro lui il basso popolo eccitandolo alla rivolta. Per modochè se da un lato i comune di Pisa accresceva al conte sicurezza e onorificenze, dallâaltro si aumentava lâaffezione dei cittadini verso un uomo che invitava da ogni parte dâEuropa personaggi dottissimi a cuoprire la cattedre nellâuniversitĂ da esso eretta in Pisa.
Lo che accadeva nel tempo in cui il conte Fazio fondava spedali e case per gli orfanelli, abbelliva la cittĂ di nuovi edifizj, aumentava fondi allâopera delle quattro piĂš sontuose fabbriche sacre; faceva edificare il ponte a mare, escavare nuovi fossi di scolo per migliorarne lâaria e il suolo, ecc. Dondechè alla morte di un signore tanto cotanto benefico e premuroso (anno 1341) profondi fu il duolo dei Pisani, pentiti forse che i loro avi avessero troppo barbaramente straziato cinque persone ascendenti di cotanto nobile e benemerita prosapia.
Lâultimo atto della volontĂ del conte Fazio fu quello di destinare molta parte del suo ricco patrimonio, mancando la sua discendenza diretta, siccome accadde assai presto, in vantaggio della pia casa della Misericordia di Pisa, stabilimento forse il piĂš antico in simile genere esistente in Toscana. â Vedere appresso: Stabilimenti di beneficenza .
Tanta fu lâaffezione dai concittadini suoi contemporanei al conte Fazio dimostrata, che il consiglio generale di Pisa acclamò in nuovo signore i di lui figlio conte Ranieri, per quanto fanciullo di soli 11 anni.
Correva appunto lâanno 1341, quando i Fiorentini patteggiavano di acquistare Lucca da Mastino della Scala, la qual cosa penetrata dai Pisani, ed eglino, non potendosi accordare con lo Scaligero, innanzi che i Fiorentini compissero la folle compra di Lucca, avevano cautamente provvisto ad impedirne lâeffetto col soldare gente dâarmi, col stringere alleanza e ricevere milizie dal duca di Milano e dai signori di Mantova, di Reggio e di Padova, nemici di Mastino signor di Lucca e di Verona, per tacere di altri soccorsi ottenuti dai dinasti e dai popoli di parte ghibellina amici del Comune di Pisa. Con simili forze collettizie i Pisani mossero incontro al nemico rompendo le strade del territorio lucchese, onde impedire ai Fiorentini il dominio della cittĂ da essi comprata. E prima di tutto gli Anziani mediane lo sborso di 3000 fiorini dâoro ottennero dalle guarnigioni che vi stavano per lo scaligero i castelli del Cerruglio e di Montechiaro in Val di Nievole; quindi avanzandosi col grosso dellâesercito, a dĂŹ 22 agosto del 1241 si posero allâassedio intorno a Lucca.
Non operarono di meno i Fiorentini, i quali, appena unite le loro genti a quelle dei popoli e principi amici, fecero cavalcare tutta lâoste nel contado pisano e furono, dice i Villani, 3600 cavalieri e piĂš di 10000 pedoni che sâinnoltrarono devastando il paese fino al borgo delle Campane (circa un miglio presso a Pisa) e poi si rivoltarono per la Val dâEra, andando a Ponsacco e facendo senza contrasto grandi arsioni per piĂš giorni, di dove poscia lâoste del contado pisano retrocedĂŠ alle sue castella del Val dâArno di sotto, finchĂŠ di la prese la via dellâAltopascio per andare ad accamparsi in vicinanza di Lucca.
Non dirò come fra i due eserciti, venuti a battaglia, quello pisano riportasse vittoria (2 ottobre 1341) perchĂŠ ognuno può trovarla descritta in Giovanni Villani. Il quale storico aggiunse, che i Fiorentini volendo seguitare la loro folle impresa di levare i Pisani dallâassedio di Lucca, raccolsero nuova e numerosa soldatesca a piedi e a cavallo, e il dĂŹ 25 marzo 1342 mossero quellâesercito verso la cittĂ ; e siccome lâeffetto non corrispose al desiderio, dopo alcune trattative concluse fra le parti belligeranti, i Lucchesi dovettero aprire le porte ai nemici.
Cotesta pacificazione per altro destò amarezze nel signor di Milano, il quale in vista deâsoccorsi dati pretendeva essere dai pisani rimborsato. Allora fu che i figliuoli di Castruccio e Giovanni Visconti si provarono a rivoluzionare Pisa e Lucca; e allora il vescovo di Luni potĂŠ occupare con le genti di Luchino Visconti suo cognato alcuni paesi di Lunigiana e della Versilia, parte dei quali si tenevano dai Pisani, e parte furono dai Fiorentini amichevolmente consegnati a quel prelato.
Liberata la Repubblica di Pisa mediante lo sborso di 80000 fiorini dâoro anche da questa guerra, era sperabile che il suo popolo fosse una volta per godere di qualche sorta di quiete e di tranquillitĂ . Ma invece i partiti si riaccesero piĂš violenti di prima per la morte repentina del conte Ranieri figlio del magnanimo conte Gaddo della Gherardesca; e fu allora, che in Pisa, a similitudine deâBianchi e deâNeri in Pistoja, vennero in campo i cosiddetti Raspanti ed i Bergolini, alla testa delle quali sette erano per i Raspanti i Gherardeschi, mentre fra i campioni deâBergolini figuravano i Gambacorti.
A tali disavventure si aggiunse lâorribile peste del 1347 e 1348 preceduta dalla carestia, due flagelli che spopolarono non solo Pisa ma quasi tutta Europa.
Dopo la morte del predetto conte Ranieri signore e capitano generale di Pisa, la stessa cittĂ sollevata e divisa dai partiti restò in balia di quello deâBergolini che acclamò Andrea Gambacorti in capitano del popolo e signore della cittĂ . SennonchĂŠ la fazione opposta, alla venuta in Pisa del re Carlo IV (anno 1355), riprese animo, quando i Gambacorti per giusto mezzo proposero, e il partito avverso non si oppose, di dare la signoria di Pisa allo stesso monarca alemanno.
Questi accettò lâofferta; ma le durezze deâsuoi soldati fecero presto accorgere i capi delle due fazioni del commesso errore, e di aver sacrificata la libertĂ della patria alle individuali passioni; dondechè i Gambacorti ed i Gherardeschi accordatisi fra loro, poco dopo furono davanti a Carlo IV per fargli sapere, che essendo cessato il motivo per cui gli avevano affidato la signoria della loro patria, supplicavano sua maestĂ a degnarsi a restituire alla loro patria i privilegi, ai quali era stato rinunziato.
Credette Matteo Villani che lâImperatore di buona voglia a tale inchiesta acconsentisse dopo aver interpellato se a cotesto avviso fosse stato conforme il voto del popolo. â (MATTEO VILLANI, Cron. Libro II.) Tornato Carlo dallâincoronazione di Roma, si sparse voce poco dopo châegli fosse per liberare la cittĂ di Lucca dalla schiavitĂš cui giĂ da alcuni anni era tenuta. Alla qual vociferazione i Pisani mostraronsi naturalmente scontenti; sicchĂŠ Carlo insospettito per varj accidenti che in quel tempo accaddero in Pisa dove allora dimorava, e credendosi poco sicuro in questa cittĂ , dopo aver fatto decapitare cinque supposti complici della famiglia Gambacorti, se ne partĂŹ per la Germania, lasciando Lucca dipendente come lo era dai Pisani. Questi allora strinsero alleanza coi Fiorentini, e poco appresso coi Sanesi e Perugini. Ma non corse gran tempo ad insorgere nuovi dissapori tra i governi di Firenze e di Pisa, quando questâultimo con la mira di accrescere le rendite dello stato credĂŠ potervi riescire con abolire (anno 1356) lâantico patto che esentava i Fiorentini dalle gabelle di Pisa e del Porto Pisano.
Ma dopochè il governo di Firenze prese la determinazione di aprire un trattato di commercio coi Sanesi per servirsi del loro porto di Talamone, i reggitori di Pisa si accorsero del commesso errore, cui credettero riparare con altro errore, mediante cioè una guerra di rappresaglia, sia facendo armare varie galere (anno 1357) per tentare di chiudere il porto di Talamone, sia stringendo lega coi Genovesi per contrastare ai Fiorentini lâingresso ed egresso dallo stesso porto. Ma questi ultimi con la loro costanza vinsero lâimpolitica misura senza cambiare la risoluzione presa di un difficile, lungo e dispendioso trasporto delle loro merci a Talamone; e ciò nĂŠ anche dopo che il governo di Pisa pubblicò la riforma che riammetteva il vecchio patto d'esenzione a favore dei Fiorentini.
Per 5 anni continuarono tra i due popoli, sebbene indirettamente, le ostilitĂ dalla parte di terra con assistere e inviare che fecero i Pisani deâsoccorsi ai nemici deâFiorentini, mentre questi proteggevano tutti i Gambacorti esiliati da Pisa; e tanto andò finchĂŠ nel 1361 vennero i due governi a un aperta rottura.
La guerra per mare riescĂŹ felicemente per i Fiorentini, i quali con le loro squadriglie scorrendo tutto il littorale toscano, impossessaronsi dellâIsola del Giglio, investirono il Porto Pisano, ruppero la catene che ne chiudevano lâingresso, e mandarono i pezzi a Firenze per appiccarli nei luoghi piĂš esposti della cittĂ . Anche la guerra dalla parte di terra incominciò nelle colline del Val dâEra con fortuna avversa alla Repubblica di Pisa e con al perdita di molti castelli, finchĂŠ alcuni deâ capitani stranieri al servizio del Comune di Firenze, pretendendo che fosse duplicata loro al paga, ed il governo loro negandola, staccarono i loro compagni dâarme dallâesercito fiorentino, sicchĂŠ con mille soldati a cavallo formarono una delle solite compagnie di masnadieri, che dallâinsegna da essi inalberata di un cappello fu chiamata la compagnia del Cappelletto. Questo incidente dovĂŠ arrestare i progressi deâFiorentini, i quali però, dopo aver cambiato comandante e preso al loro servizio il valoroso Pietro Farnese, nella Battaglia di S. Giovanni alla Vena (anno 1363) fecero prigioniero il capitano dellâesercito nemico con molti soldati pisani, mentre il restante venne disperso e incalzato fino presso le mura di Pisa; e fu nella stessa campagna, che un altro corpo di truppe pisane restò vinto davanti a Barga nella Garfagnana.
Morto però il bravo capitano Farnese, anche la fortuna cambiò per i fiorentini, cui concorse la poca capacitĂ del nuovo condottiero (Rinuccio Farnese) e lâerrore di non voler la signoria di Firenze prendere al soldo una compagnia di soldati in gran parte tedeschi e inglesi, che poco dopo recossi a servire la repubblica di Pisa.
Con cotesta razza di masnade i Pisani si resero quasi padroni della campagna scorrendo e depredando ville e borghi, senza tralasciare i soliti insulti, come quello di correr palj, batter moneta, e impiccare asini coi nomi dei piĂš illustri personaggi nemici. Di poi lâesercito pisano unito alla compagnia forestiera sâinnoltrò nel Chianti, e di lĂ scendendo nel Val dâArno superiore dopo aver saccheggiato la terra di Figline, mise in rotta allâIncisa lâesercito fiorentino; fino a che quellâarmata carica di preda mosse verso Val di Pesa. Riesciti vani alcuni tentativi di pace, nellâanno 1364 la guerra fra Pisani e Fiorentini ricominciò con piĂš calore, avendo i primi parecchie migliaja di soldati a piedi capitanati da Anichino di Mongardo, cui si unirono seimila soldati a cavallo per la piĂš parte di compagnie forestiere capitanati dal valente capitano inglese Giovanni Augut. Donde avvenne che un esercito come cotesto, assai piĂš forte del fiorentino, prese il di sopra, dominando a sua voglia, e scorrendo senza contrasto il contado intorno alla cittĂ di Firenze, tentando di prenderla dâassalto per accrescer confusione tra gli abitanti. Grande fu il guasto recato al territorio fiorentino, e lunga la stazione dellâesercito pisano e delle sue masnade nei contorni di Firenze; dalla quale cittĂ le truppe mercenarie, mediante il segreto sborso fatto loro di 100000 fiorini dâoro, a poco a poco si andarono ritirando; per effetto di che le compagnie medesime si obbligarono dal canto loro di non molestare per cinque mesi le truppe del Comune di Firenze. Infatti un esercito fiorentino poco dopo, avendo fatto unâescursione nella pianura fra il Porto Pisano e Pisa, obbligò il governo di questa cittĂ a dirigere le sue forze verso quel porto onde indurre i nemici alla ritirata.
Tuttociò servi ad accrescere sempre piĂš lâanimositĂ tra i due popoli; poichĂŠ la signoria di Firenze comandò che un esercito piĂš fresco e piĂš numeroso si avanzasse verso Pisa, siccome infatti avvenne, quando pose gli accampamenti a Cascina. I Pisani non minori di numero tenevano sempre al loro servizio Giovanni Augut, uno deâ piĂš saggi ed esperti ufiziali della sua etĂ .
Contuttociò in virtĂš della strategica usata in quel cimento da un prevedente commissario fiorentino (Manno Donati), lâesercito pisano fu piĂš volte ributtato dallâassalto che diede allâedilizio della Badia di S. Savino, finchĂŠ i Fiorentini, da assaliti fatti assalitori, nel 28 luglio del 1364, riportarono sopra i pisani una luminosa vittoria che tuttora si festeggia in Firenze con il palio di S. Vittorio.
Tanta sventura accoppiata ad un gravissimo dispendio obbligò gli Anziani di Pisa a soffocare lâira in esso sempre crescente contro i Fiorentini. Si dovĂŠ allor cercare di venire ad una trattativa, giovandosi della mediazione del Pontefice. Il congresso fu aperto a Pescia, dove i Pisani inviarono quel virtuoso giurisperito Pietro dâAlbizzo da Vico, che generosamente rifutò la proposizione di farlo signore di Pisa.
Non fu rifiutata però la stessa signoria da un cittadino dellâAlbizzo piĂš ambizioso e piĂš vile, voglio dire da Giovanni di dellâAgnello, uomo borghese del partito deâRaspanti , il quale col patrocinio di Bernabò Visconti signor di Milano riescĂŹ a farsi eleggere doge di Pisa nel tempo che a Pescia si concludeva un pace a condizioni poco favorevoli a quella cittĂ . In vigore del quale trattato il nuovo doge si obbligò a sborsare ai Fiorentini centomila fiorini dâoro, oltre la restituzione reciproca delle terre e castella come anco deâprigionieri fatti in quella guerra.
Per quanto però la repubblica di Firenze avesse lâaria di vincitrice, pure cotesta guerra era stata dannosa ad ambedue i popoli, e solo avevano guadagno le masnade straniere, diventate a quellâetĂ il vero flagello dei popoli italiani.
Due anni dopo lâinnalzamento di Giovanni dellâAgnello al ducato di Pisa comparvero in Italia due grandi personaggi che misero molti governi in qualche apprensione. Io parlo del pontefice Urbano V determinatosi di riportare la sede apostolica a Roma e dellâimperatore Carlo IV che il Papa medesimo aveva invitato per raggiungerlo a Roma. Arrivò Urbano V col suo numeroso seguito davanti al Porto Pisano senza sbarcare, servito dalle galere pisane, venete e napoletane, e solamente scese a terra sulla spiaggia di Corneto, da dove passò a Viterbo.
NĂŠ il ritorno dellâImperatore Carlo IV in Italia riescĂŹ ai Pisani molto piĂš proficuo di quello delle altre due volte, per quanto appena arrivato cesare a Lucca (settembre del 1368) venisse corteggiato dal doge pisano Giovanni dellâAgnello, il quale faceva tutti i suoi sforzi per sostenersi in signoria. Avvenne però che mentre questi era andato su un cavalcavia di legno che comunicava fra il palazzo degli Anziani e la chiesa di S. Michele in Foro , il cavalcavia rovinasse, e che il doge cadendo si rompesse una coscia. Volò a Pisa la fama che il loro signore era morto, e ciò bastò perchĂŠ il popolo oppresso, a quella notizia si sollevasse contro lâAgnello, e che costrinse i suoi figli a prendere la fuga. Per tal guisa i Pisani tornarono a governarsi con gli Anziani, eleggendone sei dalla fazione deâRaspanti, e sei da quella dei Bergolini, mentre lâImperatore stava spettatore di coteste scene in Lucca, la cui cittadella dellâAugusta tenevasi in custodia dai suoi soldati, mentre per il resto il popolo lucchese continuò ad essere dominato dalle autoritĂ pisane.
Però al suo ritorno a Pisa, che cadde nellâottobre del 1368, Carlo IV fu accolto con applausi, cui tenne dietro lo sborso fatto alla camera Aulica di non poche denari innanzi che Cesare proseguisse il cammino per Siena, di dove per sollevazione popolare fu costretto a fuggire. Ma nel secondo ritorno a Pisa, Carlo avendo inteso che anche costĂ regnava il solito malumore delle fazioni, poichĂŠ i fuorusciti gli avevano dato a credere che il malcontento era diretto contro la sua augusta persona, egli, che aveva davanti agli occhi il caso recentissimo di Siena, lasciò Pisa per passare a Lucca, dove gli Anziani mandarono ambasciatori collâincarico di persuadere Cesare alle buone intenzioni della cittĂ di Pisa, e ciò nel tempo in cui il cardinale Guido delegato di Urbano V consigliava istantemente Carlo IV a liberare il popolo di Lucca dalla schiavitĂš pisana.
Al quale intento i Lucchesi piĂš facilmente pervennero mercĂŠ nuove generose offerte di denaro, colle quali essi finalmente sotto dĂŹ 6 aprile del 1369 ottennero da Carlo IV il privilegio che gli restituiva la libertĂ , per quanto dovettero restare un altrâanno sottoposti al suo vicario imperiale. â Vedere LUCCA.
Sino al 1355 molti individui della famiglia Gambacorti, allâoccasione della prima venuta a Pisa di Carlo IV, erano stati cacciati in esilio come faziosi. Ma nel 1369 i Pisani mancando qualche malcontento per essere mancanti delle risorse delle risorse che a esso forniva il loro Porto Pisano innanzi che fosse abbandonato dai Fiorentini, il governo degli Anziani che sperava nel ribandimento deâGambacorti dâottenere il ritorno delle merci fiorentine al loro porto, ricorse allâespediente piĂš sicuro per vincere lâimperatore quello dellâoro, onde rimediasse al male stesso da lui fatto col richiamare, siccome richiamò, a Pisa tutti i Gambacorti, fra i quali Piero che consideravasi il capo della famiglia. Il ritorno di questâuomo in patria fu per i Pisani unâallegrezza, per esso un trionfo, trovandosi acclamato ed accolto generalmente con gran favore. Poco infatti tornò a concludersi la pace colla Signoria di Firenze. Della quale il principale e piĂš importante articolo fu, che le merci deâFiorentini nel territorio pisano fossero esenti da ogni sorta di dazio, o altro qualsiasi aggravio. E fu in seguito a quellâaccordo che il governo della Repubblica Fiorentina dette ordine di far la prima strada carreggiabile che passa per la Golfolina lungo lâArno per andare a Pisa.
Ma cotesta amicizia piacque poco al signore di Milano e nemico il piĂš pericoloso delle repubbliche di Toscana; come colui che tentava di rimettere in seggio il deposto doge di Pisa, e conseguentemente cacciar di nuovo da questa cittĂ il capo deâBergolini con tutti i Gambacorti.
Al qual intento una notte lâAgnello con le genti del signor di Milano si provò di dare la scalata alle mura di Pisa dalla parte orientale, ma esso con i suoi sgherri fu bravamente respinto dal popolo "dai soldati che allâuopo i Fiorentini avevano poco innanzi a Pisa inviato". â (CRON. PIS. In Script. Rer. Ital. T. XV.).
Rimase però piĂš stabilmente alla testa del governo e piĂš potente di prima Piero Gambacorti, tostochè fu dichiarato capitano generale, difensore del popolo e del Comune di Pisa collâautoritĂ medesima châebbe il conte Fazio della Gherardesca. Realmente il Gambacorti durante il suo governo fu un modello di saviezza; modestissimo per natura, era suo scopo di tenera la cittĂ contenta, il popolo unito e la nobiltĂ onorata, di estendere per quanto poteva il commercio deâPisani sulle coste dâAffrica e dellâArcipelago, dâincoraggiare lâindustria con premi ed onori, oltre fondare monasteri, abbellire la cittĂ di grandiosi palazzi riedificando di nuovo il Ponte vecchio.
Inoltre devesi al Gambacorti il progetto di una federazione fra i principi e le Repubbliche, quasi modello di quella che si è vista con piĂš successo riprodotta alla nostra etĂ . Avvegnachè lo scopo mirava ad un fine lodevolissimo, comâera lâespulsione dallâItalia delle compagnie o masnade forestiere, per assicurare non solo libertĂ del commercio terrestre, ma anche la pace fra ipopoli e le potenze collegate. In un secondo luogo tutte le controversie che potevano insorgere fra le potenze comprese nella federazione dovevano definirsi, non piĂš dalla ragione dellâarmi, ma da mature deliberazioni emesse dai delegati dei governi facienti parte della giurata alleanza.
Se cotestâatto solenne concluso in Pisa nel dĂŹ 9 ottobre del 1388 (stile comune), ebbe troppo breve durata, se ne deve attribuir la colpa alla malafede ed alla smisurata ambizione del piĂš potente fra i collegati a Giovanni Galeazzo nuovo signor di Milano, il quale cercando a illaquenare quanti piĂš popoli e cittĂ egli poteva, mal sopportava chi i Fiorentini, spina dei Visconti la piĂš pungente e dolorosa, servissero di appoggio costante al Gambacorti signor di Pisa. Infatti non istette guari ad appagarsi il maligno dispetto che Giovanni Galeazzo sentiva nellâanimo, allora quando un vecchio ambiziosissimo, un ingrato e infedele segretario di Piero Gambacorti, quello stesso Jacopo di Appiano che piĂš volte aveva rivelato al Visconti predetto importantissimi segreti dello stato, colui servĂŹ di molla la piĂš potente al Conte di virtĂš Giovan Galeazzo per togliere di seggio e di vita il Gambacorti. Lo che si eseguiva dallâAppiano nel mentre egli presentava la destra al suo signore, come segno di fedeltĂ , imitando lâApostolo traditore col bacio dato al divino maestro, per essere quello il segnale ai suoi sgherri, affinchĂŠ tosto il Gambacorti trucidassero (anno 1392 di luglio), onde poi lâAppiano, assistito dalle genti del signore di Milano suo protettore, a viva forza del governo di Pisa sâimpadronisse.
SennonchĂŠ un grido dâinfamia si levò in Italia contro lâassassino del Gambacorti, la di cui aurea bontĂ non che la generositĂ con la quale aveva elevato ed innalzato quel servo dâIacopo serviva di un grande contrapposto allâatroce ingratitudine di lui per eccitare lâorrore universale, talchĂŠ perfino le muse di quel tempo non mancarono di esecrare la crudel perfidia. â (PIGNOTTI, Stor. di Toscana Lib. IV. Cap. 7).
Fattosi lâAppiano signore di Pisa proscrisse tosto le famiglie aderenti ai Gambacorti, ruppe la pace con Firenze e con Lucca, mentre il Conte di VirtĂš, Giovan Galeazzo Visconti, colui che se non vinceva i nemici colle armi li vinceva quasi sempre collâartifizio, mirava allâacquisto assoluto di Pisa con la mira di vincere e conquistare la Repubblica Fiorentina portandole la guerra in casa. Dondechè piĂš tardi sotto pretesto di congedare dal suo servigio alcune compagnie di masnade, queste nel 1397 si avviarono verso Pisa, e con intelligenza dellâAppiano introdussero in cittĂ una mandata di 300 soldati a cavallo che unironsi alle truppe milanesi giĂ innanzi introdottevi sotto apparenza di ausiliarie del nuovo signor di Pisa. Nellâanno 1398 essendo mancato di vita il vecchio Iacopo di Appiano, succedette pacificamente nel governo il suo figlio Gherardo stato riconosciuto vivente il padre dai Pisani e dalle milizie in capitano generale di quel Comune. Era ben lontano Gherardo dal possedere lâastuta accortezza del genitore, nĂŠ il coraggio e il valore di un suo fratello, persuaso dal duca milanese Giovan Galeazzo della somma difficoltĂ di conservare il dominio di Pisa, da quel codardo che egli era, prese la vituperevole risoluzione di vendere la patria per 200,000 fiorini dâoro allo stesso duca di Milano riservandosi il dominio di Piombino e di altre castella di quei contorni non che delle Isole dâElba, Pianosa e Montecristo. â Al vociferarsi di una vendita cotanto vergognosa, prima i Pisani, poscia i Fiorentini, tentarono di rimuovere Gherardo Appiano da simile divisamento, consigliandolo invece a rendere la libertĂ alla sua patria; per la quale opera i Fiorentini esibivano allâAppiano un prezzo eguale e forse anche maggiore di quello statogli offerto dal duca di Milano. Al quale generoso consiglio rispose Gherardo di non essere piĂš in tempo a revocare la sua parola, tanto piĂš che le genti armate di Giovan Galeazzo, a tal uopo introdotte in Pisa, erano capaci a impedirlo. In conseguenza di ciò lâiniquissimo contratto della vendita e della schiavitĂš di Pisa e suo contado fu consumato nel febbrajo del 1399.
Da ciò pertanto ne conseguĂŹ che una repubblica potente, una cittĂ a Firenze rivale, si rendesse ligia al piĂš potente e pericoloso deâFiorentini.
Infatti appena eseguito cotal mercato, arrivarono a Pisa mille soldati a cavallo con duemila fanti, cui teneva dietro il governatore inviato dal duca di Milano per occuparsi prima di tutto del modo di rimborsare al piĂš presto il suo padrone della somma obbligata dallâAppiano. CosĂŹ tristamente terminò il secolo XIV per i Pisani, i quali anche con piĂš tristi augurj videro incominciare il secolo XV.
Dopo mancato di vita (anno 1402) Giovan Galeazzo duca di Milano, cui non facea ribrezzo verun delitto, purchĂŠ risultasse in suo vantaggio, Pisa col suo contado fu lasciata in ereditĂ dâun di lui figliuolo naturale, Gabbriello Maria Visconti, il quale colla madre recossi tosto a prenderne il possesso per avere dai sudditi novelli oro e non amore.
A cagione delle vessazioni, che sino dai primi tempi del suo governo si fecero ai Pisani dal tiranno Visconti, il malcontento deâsudditi era giunto presso che al colmo, quando i Fiorentini entrarono in speranza di cacciare da Pisa Gabbriello Maria coi suoi. Infatti non corse molto che questi con genti armate per sorpresa assalirono di notte quella cittĂ (anno 1404). Che sebbene il tentativo non riuscisse, pure non mancò dâingelosire il governo di Genova non piĂš rivale degli oppressi Pisani, sivvero deâFiorentini, coi quali nei tempi trascorsi erasi unito a danno della Repubblica di Pisa. Quindi è che i Genovesi dopo aver persuaso Gabbriello Maria a mettersi sotto la protezione del re di Francia, cui erano anchâessi raccomandati; dopo aver fatto consegnare alle truppe del maresciallo francese alcune fortezze, e specialmente quelle di Livorno, il governo medesimo di Genova, cambiando improvvisamente politica, visitò offrire la cittĂ e territorio di Pisa ai Fiorentini nella speranza di averli alleati contro i Veneziani, e ciò nel tempo stesso che dallâaltro canto persuadeva il signor di Pisa di vendere ai Fiorentini cotesta cittĂ col suo territorio per liberarsi in tal guisa da moltissimi imbarazzi che gli si facevano conoscere qualora egli pretendesse di conservare cotesto stato in mezzo a tanti nemici.
Tali trattative però non furono segrete a segno che non si trapelassero dai Pisani; nei quali essendosi risvegliato lâodio antico contro i Fiorentini, cui si volevano dare in mano, tosto si ribellarono al Visconti, il quale dopo un conflitto fra il popolo e la guarnigione (21 luglio 1405) fu costretto a refugiarsi nella cittadella vecchia sul ponte a mare, quindi per Arno fuggirsene in Lunigiana. Giunto a Sarzana fu conchiuso il contratto, in vigore del quale Gabbriello Maria, mediante lâimborso di 206.000 fiorini dâoro, pagabili a rate, doveva consegnare ai Fiorentini la cittadella vecchia di Pisa con le fortezze di Ripafratta e di S. Maria in Castello. Avute in potere coteste rocche, i Fiorentini reputarono agevol cosa impadronirsi della cittĂ di Pisa; ma nel tempo che il governo di Firenze dava le disposizioni opportune per ottenerne lâeffetto, ecco giungere al senato la notizia, che la cittadella vecchia di Pisa per vigliaccheria dei soldati della guarnigione era stata assalita e presa dal popolo.
Al che si aggiunse un orgogliosa ambasciata deâPisani, per la quale si richiedeva ai Fiorentini la restituzione dei fortilizj di Ripafratta e di S. Maria in Castello, esibendo il rimborso del prezzo che avevano pagato. La perdita fatta della cittadella unita allo scherno suddetto irritò piĂš che mai i reggitori della repubblica fiorentina perchĂŠ deliberassero concordemente di fare la conquista di Pisa.
Si nominarono a tal uopo i Dieci di Balia per la guerra, si assoldò un valente capitano per lâarmata di terra ed un rinomato ammiraglio per chiudere con una flottiglia il Porto Pisano. Dal canto loro i Pisani fecero i maggiori sforzi per assoldare gente dâarmi e provvedere la cittĂ di vettovaglie; richiamarono dallâesilio Giovanni Gambacorti figlio di Gherardo e nipote del bravo Piero, che nominarono capitano del popolo; procurando cosĂŹ pacificare gli animi dei cittadini divisi in fazioni, in guisa che le famiglie deâBergolini come quelle deâRaspanti giuraronsi amicizia con le piĂš sacrosante promesse di unirsi insieme a difesa della patria. Prova la piĂš solenne di quanto possa lâodio di una popolazione, allorchĂŠ da una sua vicina stimasi soperchiata! Frattanto essendo tornati a Firenze gli ambasciatori spediti dal governo al re di Francia, e sentito che non si voleva da quel monarca, nĂŠ ricevere nĂŠ proteggere i Pisani, cresceva sempre piĂš fiducia nei Fiorentini di aver presto a sottomettere Pisa. E dopo aver richiesto lâajuto deâSanesi, del legato di Bologna, del conte Malatesta, e dellâOrsini conte di Sovana, i quali tutti inviarono a Firenze delle genti armate, che marciarono verso Pisa sotto il comando generale di Bertoldo Orsini.
Per le quali cose, e per altre anche piĂš violente misure, non rimanendo ai Pisani quasi piĂš speranza di salute fuorchĂŠ nella difesa, dettero ordine che fosse fornita di vettovaglie la cittĂ col far provvista di grano dalla Sicilia in maggior copia del consueto, e col praticare ogni diligenza possibile in assoldar genti atte alla difesa, essendo nel resto la cittĂ stimata per sĂŠ stessa fortissima, e il popolo deciso a non volere la signoria deâFiorentini.
Erano le concitazioni fra i due popoli al massimo grado pervenute, allorchĂŠ giungessero dalla Sicilia in bocca dâArno cinque navi cariche di grano. Ma le sette galere pisane che le scortavano, assalite da una squadra di legni genovesi e catalani al soldo deâFiorentini, furono poi da un vento procelloso gettate verso il golfo della Spezia, mentre le cinque navi di granaglie rompevano negli scogli della Meloria. Non fu dai fiorentini trascurata alcuna diligenza per vincere il nemico, guardando Arno di sotto e di sopra Pisa, onde impedire che arrivasse alla cittĂ bloccata qualsiasi soccorso, nel tempo stesso che altre milizie mobili scorrevano per il contado pisano a impadronirsi dei castelli.
Frattanto i Dieci di Balia avendo conosciuto che per insignorirsi di Pisa era necessaria chiudere la cittĂ per la via del fiume, inviarono al campo (marzo 1406) due deâ loro colleghi Maso degli Albizzi e Gino Capponi, i quali deliberarono che il grosso dellâesercito si accampasse a S.
Piero in Grado.
Stavano nel campo deâFiorentini sotto Pisa due arditi e valorosio generali, Muzio attendolo detto Sforza, ed il Tartaglia, nel tempo che si costruivano sulle ripe dellâArno due bastie con un ponte di legno, il quale doveva attraversare il fiume. Ma i Pisani profittando di una piena che accadde nel marzo di quellâanno medesimo, mandarono a seconda della corrente varie grosse travi, le quali col loro urto ruppero il ponte, sicchĂŠ la bastia della ripa destra del fiume restò separata dallâesercito senza gente che la difendesse. Allora lâAttendolo ed il Tartaglia coraggiosamente passarono lâArno con pochi uomini scelti, al cui valore riescĂŹ di conservare lâisolata incompleta bastia.
Non per questo la Signoria di Firenze mostravasi soddisfatta che lâassedio di Pisa convertito in blocco procedesse cotanto lentamente, comecchè per la strettezza delle vettovaglie avesse cagione di sperare che i Pisani non fossero per fare lunga resistenza. Che però richiamò dal campo Maso degli Albizzi e Gino Capponi, e vi mandò per nuovi commissarii Vieri Guadagni e Jacopo Gianfigliazzi. Costoro bramando mostrarsi piĂš attivi dei loro predecessori, incoraggiando le truppe con tutte le possibili allettative, ordinarono un assalto alla cittĂ .
I soldati, benchĂŠ non lâintendessero a questo modo, essendo la cittĂ forte di mura e il popolo unito a difenderla infino alla morte, nondimeno stimolati da tante generose promesse, accettarono lâinvito; e la notte che seguiva il giorno 9 di giugno (1406) in sul primo sonno si accostarono alla cittĂ dalla parte meridionale nel quartiere di Chinsica per dar lâassalto al bastione di Stampace, fra le mura di S. Egidio e la porta a Mare. Al primo segnale delle sentinelle accorsero da ogni parte su quelle mura i Pisani, uomini e donne, e nel cimento che ne conseguĂŹ gli assalitori furono con tal impeto e coraggio dal bastione respinti da far comprendere quanta rabbia e dispetto i Pisani contro i Fiorentini conservassero.
Vista da questi la difficoltĂ di aver Pisa per assalto, i Dieci comandarono che si seguitasse a stringerla per assedio, e tosto rimandarono al campo il commissario Gino Capponi, quello che fin dal principio della guerra aveva dimostrato maggiore intelligenza e vigore. Una delle prime cure del Capponi fu di riappacificare due valenti capitani dellâesercito, Muzio Attendolo Sforza ed il Tartaglia, persuadendo lo Sforza ad accamparsi con le sue squadre dalla parte opposta dellâArno sopra Pisa, donde poteva danneggiare grandemente le raccolte, e in ogni occasione ricevere soccorso dal quartiere generale di Vico Pisano, mentre il rimanente dellâesercito per stringere meglio la cittĂ si era postato nel lato sinistro dellâArno dirimpetto a Culignola, 3 miglia toscane a un circa sopra Pisa.
Che sebbene la stagione estiva del 1406 avesse reso insalubri e guaste le campagne deâcontorni di Pisa, non fu peraltro rallentato lâassedio, per modo che dentro la cittĂ cresceva ogni giorno la fame.
Nel tempo che gli assediati, privi di speranza di ognâestero soccorso, soffrivano con grande esasperazione ogni sorta di privazioni della vita piuttosto che assoggettarsi aâ nemici da tanto tempo odiati, pure Giovanni Gambacorti, vedendo la mancanza assoluta dei viveri da sostenere piĂš a lungo la cittĂ , insinuava ai suoi la necessitĂ di capitolare cogli assedianti. Frattanto per mezzo di un cittadino pisano, Bindo delle Brache, Giovanni Gambacorti aprĂŹ trattative segrete col commissario Capponi, comecchè le condizioni principali si riferissero a vantaggio del capitano e signore di Pisa e della sua famiglia. Infatti la segretezza con cui cotesta capitolazione fu maneggiata, lâessere stati i Gambacorti sempre amici dei Fiorentini, ed il premio di 50,000 fiorini dâoro che ricevette dal Comune di Firenze il mezzano Bindo delle Brache, diedero motivo di accrescere il sospetto a carico del capitano generale del popolo pis ano, come se egli fosse un traditore della patria, Ratificate le condizioni dalla Signoria di Firenze, e consegnati gli ostaggi, la mattina del 9 ottobre 1406 i Pisani dovettero trangugiare il calice della schiavitĂš. Gino Capponi, uno dei Dieci che ebbe la parte piĂš importante in cotesto acquisto, nel prender possesso di Pisa spiegò vigilanza, risolutezza e vigore, minacciando di far impiccare ognuno che ardisse rubare. Infatti egli stesso lasciò scritto, che i soldati entrarono in Pisa con tanta modestia e disciplina, come se eglino avessero avuto a comparire ad una rivista nella cittĂ propria. â â (G. CAPPONI Comment.) Essendochè il cadere sotto il dominio dei Fiorentini parve ai Pisani cosa molto grave, per quanto nel giro di pochi anni eglino fossero stati tiranneggiati dallâAgnello, dallâAppiano e da Gabbriello Maria Visconti, non saprei dire quanto gli uomini imparziali fossero per lodare cotanta insistenza nei Fiorentini per voler soggiogare un popolo che amava la sua indipendenza. â â Fatto è che i Pisani erano a cotal segno da cruda fame estenuati da non sentire forse a prima vista il peso della loro schiavitĂš, quando videro che lâingresso delle truppe nemiche veniva accompagnato da carri di vettovaglie e da pane in tanta dovizia da poter ristorare i loro corpi smunti ed afflitti.
5. PISA SOTTO IL GOVERNO DI FIRENZE SINO AI GIORNI NOSTRI La conquista di unâinsigne cittĂ dopo una lotta coraggiosa, e per i soccombenti degna di miglior sorte, se da un lato fu dannosa alla dignitĂ e allâamor patrio deâPisani, altrettanto rallegrò e fu festeggiato con pompe sacre e profane dai Fiorentini, persuasi di non aver fatto maggiore acquisto eglino che nel commercio fondavano la loro potenza. Ed in vero, se le ricchezze dei Fiorentini non erano state mai tanto copiose quanto allâepoca della conquista di Pisa, se la Signoria di Firenze dopo la compra di Livorno (anno 1421) procurò di diventare una potenza marittima; se a tale scopo essa destinò Pisa a residenza di un general di galere e del magistrato deâconsoli di mare, i Fiorentini però non poterono mai giungere a mettere insieme tanti legni da guerra e tanta gente da montarli per vincere, o almeno per stare a fronte delle due superstiti repubbliche marittime dellâItalia. â Vedere LIVORNO.
à altresÏ vero che la conquista di Pisa aumentò immensamente la riputazione politica della Repubblica fiorentina, fino da quando con la sua mediazione procurò di togliere uno scisma nella chiesa tentando di pacificare, sebbene con poco successo, due antipapi in un concilio aperto nel 1408 nella città di Pisa.
Ma la guerra nella quale innanzi tutto a cagione di Lucca sâimpegnarono i Fiorentini, dovĂŠ far montare in qualche speranza il popolo pisano di liberarsi dallâodiato giogo.
Infatti appena si seppe a Firenze che Niccolò Piccinino nella primavera del 1431 era giunto di Lombardia in Lunigiana con numerosi armati, e che di lĂ penetrato nelle vicinanze di Pisa erasi in pochi giorni impadronito della bastia di Nodica in Val di Serchio, della rocca della Verruca e deâcastelli di Calci e di S. Maria al Trebbio nel Monte Pisano, i reggitori della Repubblica Fiorentina ebbero ragione di temere che la cittĂ di Pisa cadesse nelle mani del loro nemico, tanto piĂš che lâaspra maniera con cui il suo popolo era tenuto dal governo, ne forniva sufficiente ragione.
Fondati i Dieci di BalĂŹa nella politica trista, ma pur troppo vera, che nemico naturale di rado è fedele, e venuti in cognizione di una congiura che maneggiavasi dai Pisani per dare la cittĂ in mano al Piccinino, furono progettati dei provvedimenti crudeli anzichĂŠ onesti. Tale sarebbe quello raccontato dal Poggio nella sua istoria fiorentina (Lib. VI.), di chiamare a Firenze quasi tutta la nobiltĂ pisana. Tale lâordine anche piĂš grave da frate Andrea Billi milanese e da Pietro Giustiniano veneto nelle loro memorie storiche raccontato, dove dal Giustiniano si cita un ferocissimo editto del governo di Firenze, in cui si comandava che, innanzi di finir di consumare una candela accesa, tutti i cittadini dai 15 ai 60 anni dovessero partire da Pis a; editto reso anco piĂš incredibile dal frate milanese, poichĂŠ senza verecondia al santo ministero faceva complice ed esecutore di cotanto orrendo comando il fiorentino Giuliano deâRicci, allora arcivescovo di Pisa, che finse qual furibondo andare per le strade, entrare nelle domestiche abitazioni e strappare senza misericordia i figli di braccio alle madri, i fratelli dalle sorelle, col dire loro le piĂš ingiuriose parole: abi proditor Pisanae!!! ComecchĂŠ qualcuno prestasse fede al caliginoso racconto di un uomo, che non solo azzardava scrivere male di un arcivescovo illustre e pio, ma anche con poco rispetto di un Bernardino da Siena, insigne per santitĂ , con tuttociò non si potrebbe negare che a quellâepoca i Fiorentini non andassero esenti da una tal quale amarezza ed odio verso i Pisani. Che ciò sia vero, lo dice per tutti una lettera, resa ormai troppo pubblica dalla celebritĂ di un romanzo istorico (Luisa Strozzi), dove al capitolo XXVI, intitolato Pisa, lâautore discorrendo della situazione di questa cittĂ al secolo XV annunzia cosa incredibile come quella che i Fiorentini davano ai loro commissarj segrete istruzioni tendenti a rendere sempre piĂš inferma e desolata la cittĂ e campagna di Pisa. E per chi ne dubitasse, ivi si riporta in nota un infame periodo di lettera scritta da Firenze dai Dieci di BalĂŹa, nel di 24 gennajo 1431 (stile fiorentino).
Io dubitando, come ognuno dubiterebbe, di tanta malignitĂ apertamente da quel magistrato di guerra dichiarata, volli convincermene ricercando nellâarchivio delle Riformagioni di Firenze la filza III deâDieci di BalĂŹa nel detto romanzo citata. Che sĂŠ la lettera non è in data del 24, sivvero del 14 gennajo 1431, nĂŠ in quella filza e neanche nel citato archivio, trovasi però in quello segreto Mediceo unita al carteggio dellâanno 1431 al 1432 di Averardo deâMedici allora commissario in Pisa.
I Dieci di BalĂŹa, i di cui nomi si possono leggere nella storia dellâAmmirato, dopo aver in detta lettera discorso sopra affari relativi alla guerra di Lucca, fra i quali uno era quello di procurare ad ogni modo di riconquistare e di fare atterrare il castel lucchese di Ruoti verso Compito, termina con le parole seguenti: âQui si tiene per tutti che il principale e piĂš vivo modo che dar si possa alla sicurtĂ di cotesta cittĂ sia di votarla di cittadini pisani; e noi nâabbiamo tante volte scritto costĂ al capitano del popolo, che ne siamo stanchi; et rispondeci ora lâultimo, essere impedito dalla gente dellâarme e non avere il favore del capitano (loro). Vogliamo che ne sia con lui ed intenda bene ogni cosa, et diale modo con usare ogni crudeltĂ ed ogni asprezza . Abbiamo fede in te, et confortianti a darvi esecuzione prestissima, che cosa piĂš grata a tutto questo popolo non si potrebbe fare. Data Florentiae die 14 Januarii, hora XV.â Chi fosse poi quel capitano delle genti dâarmi che contrariava gli ordini dei Dieci ricusando condiscendere ai barbari suggerimenti di quel magistrato sanguinario, ce lo diede a conoscere lâAmmirato nella sua storia fiorentina, quando al Lib. XX dice, che il Cutignola, uno deâcomandanti pei Fiorentini alla guerra di Lucca, nellâultimo gonfalonierato di quellâanno (gennajo e febbrajo 1431 stile fiorentino) si ridusse con le sue genti dâarme alle stanze a Pisa; nel qual tempo passarono quietamente le cose.
Ma la tremenda istruzione inculcata dai Dieci al commissario di Pisa dovĂŠ rimanersi senza effetto, sia perchĂŠ gli annalisti pisani non ne fecero menzione veruna, sia perchĂŠ altre lettere, dopo quella del 14 gennajo 1431, scritte dai Dieci di BalĂŹa al commissario Averardo deâMedici, non dicono piĂš parola rispetto a provvedimenti presi o da prendersi contro i Pisani (loc. cit.); sia finalmente perchĂŠ uno storico fiorentino degno di fede e contemporaneo, quale si fu Domenico Boninsegni, ne avvisava, che intorno a quel medesimo tempo giunsono in Porto Pisano, per ordine dato ai mercanti dal Comune di Firenze, tre navi cariche di grano e orzo (1700 moggia) con altre vettovaglie, lo che fu mantenimento di Pisa in quel tempo di carestia; e parve che tutto il paese ne risorgesse. â (D. BONINSEGNI, Stor. fior. allâann.
1432.) Che nei primi anni della conquista fatta di un popolo con grandissime spese ed ostacoli, se questo cade in sospetto di tenere qualche aderenza al nemico, non sia per essere dai vincitori tiranneggiato ed oppresso, nĂŠ io nĂŠ altri lo negherĂ , poichĂŠ di simili casi la storia di tutti i secoli e di tutti i paesi fornisce anche alla nostra etĂ tristi esempj; ma dopo assicurata alla repubblica fiorentina la conquista di Pisa, e specialmente dopo terminata la guerra di Lucca (1439), che si continuassero a mandare da Firenze ai governatori di Pisa istruzioni contrarie al pubblico ben essere ed alla salubritĂ dellâaria, questo è ciò che a me non sembra dimostrato.
NĂŠ tampoco direi che dasse a consimili accuse un certo appiglio il preambolo di una provvisione dellâaprile 1475, quando la Signoria di Firenze affidò al magistrato dei consoli di mare la cura deâfossi, canali, ponti e strade di Pisa e della sua troppo uliginosa campagna, tosto che in quella provvisione vi si trova lâordine di scegliere persone del paese come piĂš capaci di conoscerne i bisogni e di suggerire i rimedj piĂš opportuni.
AllâArticolo COMUNITAâ DI PISA qui appresso si troveranno prove indubitate dello stato palustre di Pisa e deâ suoi contorni nei secoli XII, XIII e XIV per le cause medesime dei ristagnamenti dâacque. Arroge che non mancano documenti atti a dimostrare, che innanzi la riformagione del 1475 il governo di Firenze cercò di porre qualche riparo a cotesti difetti del suolo. Fra le varie provvisioni dalla Signoria deliberante a sollievo deâPisani citerò quella del 23 dicembre 1419, che esentava da ogni imposta reale e personale tutti i forestieri (eccettuati i Fiorentini) insieme alle loro merci per 20 anni purchĂŠ si recassero ad abitare familiarmente in Pisa. â (PAGNINI, della Decima Tom. IV. Pag. 45.) Tali sono i decreti della repubblica fiorentina che ordinavano di restaurare e aver cura del Bagno di Monte Pisano e di quello a Acqua (23 agosto 1454, e 31 marzo 1460); tale la provvisione del 31 marzo 1463, che assegnava 800 fiorini per ripulire la bocca dâArno, altre per costruire la cittadella nuova e rassettare la vecchia con le sue torri. Tali furono gli ordini del 29 giugno 1468, e 16 febbrajo 1471 per fabbricare la cittadella nuova, lâarsenale (tersana) onde mettervi delle galere allora fatte, o in costruzione, ecc. â (GAYE, Carteggio inedito dâArtisti, Volume I Appendice II.) Vero è che dopo poco la pace di molti anni succeduta a una lunga guerra per causa di Lucca, il commerc io e le ricchezze dei Fiorentini si accrebbero in ogni parte dâEuropa, nelle coste dâAffrica e dellâAsia, con tale e tanto profitto che, al dire del Pignotti, tolta Venezia, nel secolo XV Firenze si riguardava la piĂš ricca cittĂ dâItalia, dove circolavano non meno di due milioni di fiorini dâoro, ossia di gigliati, in denaro contante.
Che se il governo della Repubblica Fiorentina fece in quel secolo troppo poco a benefizio della cittĂ di Pisa e deâ suoi abitanti, trascurando specialmente il nettamento ed iscavazione deâfossi e canali, acciocchĂŠ non peggiorasse la campagna insieme con lâaria, è altresĂŹ vero che lo scolo dellâacque, il bonificamento deâpaduli, il tenere asciutte il piĂš possibile quelle campagne, a giudizio di molti e fra questi il celebre Antonio Cocchi, non potrebbe produrre il desiderato effetto del miglioramento dellâaria se non dopo il corso di molti anni. E quantunque lo storico Flavio Blondo scrivesse: che Pisa 40 anni dopo la sua schiavitĂš e sottomissione ai Fiorentini era ridotta spopolata, ed esinanita di ogni sorta di lavori e di risorse, con tuttociò non devesi passare sotto silenzio un fatto giornaliero che succede tuttora in Pisa ad onta della somma sorveglianza ed abilitĂ deglâingegneri, e di tante spese fatte intorno alle sue mura settentrionali, sia con lâapprofondare i fossi, sia col rialzare i campi contigui, sia col fabbricare pozzi e cisterne, perchĂŠ vediamo e meglio di noi lo veggono i Pisani, che non solo le acque piovane, ma le infiltrazioni di quelle perenni, penetrano e scorrono pochi palmi sotto la superficie del suolo, in guisa da formare il tormento degli idraulici anco neâluoghi che son bassi e meno depressi della cittĂ .
Non si può altronde senza mancare alla veritĂ omettere un altro fatto, quello cioè che i beni dei ribelli della cittĂ e contado pisano nel secolo XV servivano, anzichĂŠ a lavori idraulici necessarissimi per Pisa e i suoi dintorni, a pagare le spese delle fortificazioni ivi ordinate. Lo che risulta da alcune provvisioni della Signoria di Firenze del 1430 e del 1444, con le quali si dava ordine agli uffiziali della cittĂ e territorio pisano di far costruire due fortezze, una alla Porta del Parlascio di Pisa , e lâaltra nel castel di Vico Pisano. â Ciò non ostante venne piĂš tardi a mitigare cotanta asprezza unâaltra deliberazione governativa dellâanno dellâanno 1472, con la quale si procurò ristabilire in Pisa il ginnasio nellâantico suo splendore, allorchĂŠ la Signoria nominò quattro uffiziali dello studio fiorentino e pisano, preseduti dal promotore di sĂŹ utile misura, da Lorenzo deâMedici detto il Magnifico. Fu allora che a tal fine assegnaronsi sul tesoro della Repubblica lâannua somma di 6000 fiorini; fu allora che la Signoria di Firenze impetrò ed ottenne dal Pontefice Sisto IV mediante bolla data lĂŹ 12 gennajo del 1475, la concessione di altri 5000 ducati dâoro a carico dei benefizii ecclesiastici del dominio fiorentino; e tuttociò ad oggetto di supplire a piĂš decorosi stipendj da darsi ai professori che da varie parti dâItalia si conducevano allo studio pisano. â Che il governo di Firenze per tal via cercasse di giovare e di popolare di gente onorata la cittĂ di Pisa, lo dicono abbastanza lĂŹ statuti dagli uffiziali dello studio nel 1478 pubblicati, coi quali si prescriveva a tutti coloro che volessero adire ad impieghi pubblici nel dominio fiorentino, a quelli che bramassero laurearsi in dottori per esercitare la medicina, o trattar le cause nel foro, e ad altri nazionali lâobbligo di recarsi allâuniversitĂ di Pisa sotto pena di fiorini 500 per coloro che andassero a studio fuori di Stato. Finalmente lo dice il palazzo della Sapienza che sino da quel tempo dâordine della Signoria di Firenze si edificava in Pisa, affinchĂŠ si potessero riunire in uno solo, apposito e decente locale le scuole di tutte le facoltĂ . â (FABRONI, in vita Laurent. et in Histor. Accad. Pis. P. II.) Anco nellâarchivio diplomatico di Firenze esistono varj istrumenti di quellâepoca proprj a far meglio conoscere le premure del governo fiorentino nel provvedere di buoni soggetti lo studio pisano.
Tale è un contratto del 19 maggio 1477 fatto in Pavia, col quale il procuratore degli uffiziali dello studio di Firenze e di Pisa stabilĂŹ le condizioni per condurre allâuniversitĂ pisana maestro Lazzero del fu Francesco Dataro di Piacenza dottore di medicina, che allora leggeva nello studio di Pavia, con lâassegno di 500 fiorini dâoro lâanno e collâ esentare da qualunque gabella gli oggetti di uso proprio. Tale è un altro contratto concluso dal procuratore stesso il 24 maggio 1477 nella cittĂ di Casale in Piemonte per condurre a leggere il giuscanonico nello studio di Pisa col salario di fiorini 400 dâoro lâanno il dottor Giorgio del fu nobil Arrighetto Nati da Asti. Altra simile misura fu presa dai riformatori dello studio nel giorno 14 maggio del 1480, per chiamare a Pisa in lettore di medicina maestro Girolamo della Torre di Verona, che allora professava nellâuniversitĂ di Padova. NĂŠ meno degli altri importante mi sembra un mandato di procura scritto in Roma lĂŹ 8 maggio del 1482 a nome del celebre medico maestro Pier Leoni figlio di Leonardo da Spoleto, (quello che poi ebbe la sventura di medicare nellâultima malattia Lorenzo deâMedici). La qual procura fu inviata a Firenze a Tommaso Soderini, affinchĂŠ in nome dello stesso Pier Leoni concludesse con gli uffiziali dello studio i patti per una cattedra di medicina nellâuniversitĂ di Pisa.
Finalmente rammenterò un altro istrumento del 9 luglio 1490, col quale i riformatori dello studio predetto nellâatto che Giovanni da Milosen in Francia prendeva la laurea dottorale in Pisa fu nominato lettore di giuscivile pei giorni festivi allâuniversitĂ pisana. â (ARCH. DIPL.
FIOR. Carte dellâArch. Gen. di Firenze.) In questo mezzo tempo però i Fiorentini non tralasciavano di prendere misure di difesa nella cittĂ di Pisa, tostochè ordinarono la costruzione della cittadella nuova. Alla quale fortezza appellano varie provvisioni della Signoria: una fra le altre del 29 giugno 1468 che assegnava 1500 fiorini dâoro per lâerezione di detta opera, mentre con provvisione del 16 febbrajo 1471 (stile fior.) queâSignori eleggevano in capomaestro della cittadella nuova predetta maestro Lorenzo di maestro Domenico fiorentino. â (GAYE, Carteggio di Artisti inedito, Volume I. Appendice II) Le quali misure dovettero vieppiĂš dal governo sollecitarsi dopo scoppiata la congiura deâPazzi, nella quale malamente figurò un Francesco Salviati fiorentino allora arcivescovo di Pisa (anno 1478).
Contuttociò le cose passarono quiete per fino a che non scese in Toscana alla testa di un numeroso esercito francese (anno 1494) il re Carlo VIII. Allora Piero deâMedici, di natura affatto diversa da quella di Lorenzo suo padre, partorĂŹ la rovina di sĂŠ, deâsuoi e di Pisa.
Imperocchè, spaventato dal pericolo che poco innanzi aveva temerariamente disprezzato, consentĂŹ di suo mero arbitrio a fare consegnare nelle mani deâcapitani del re francese le fortezze di Sarzana e Sarzanello, di Pietrasanta e Motrone, di Pisa e di Livorno, le quali Carlo VIII si era obbligato per iscritto di restituire ai Fiorentini dopo la conquista del regno di Napoli.
In questo modo per la temeritĂ e lâimprudenza di un cittadino la Repubblica di Firenze restò priva degli antemurali del suo dominio; ed i Pisani stanchi e indispettiti di soggiacere ad un governo che li teneva in durissima schiavitĂš, animati anche segretamente da Lodovico il Moro signor di Milano, sollecitati e pressochĂŠ inebriati dal piacere di vedersi in mezzo a soldatesca straniera nemica deâFiorentini, i Pisani, io diceva, ricorsero popolarmente a Carlo VIII per essere rimessi in libertĂ , querelandosi gravemente del barbaro modo con cui dai Fiorentini erano governati. â â Uno storico fra i piĂš distinti, quale si era Francesco Guicciardini, discorrendo del ricorso che i Pisani ebbero a Carlo VIII, dice, che nel racconto delle ingiurie ricevute dai Fiorentini, il loro asserto veniva confermato da alcuni cortigiani di quel monarca, sicchĂŠ il re disse di esser contento che i Pisani ritornassero liberi. Alla qual risposta il popolo di Pisa, dato piglio alle armi, tosto abbattĂŠ dai luoghi pubblici lâinsegne deâFiorentini, rivendicandosi a libertĂ , non ostante che quel re contrario a sĂŠ medesimo, o ignorando quali gravi cose concedesse, mentre da una parte dichiarava i Pisani liberi consegnando loro la cittĂ della vecchia, dallâaltro lato ordinava che restassero in Pisa gli uffiziali deâ Fiorentini, ritenendo per sĂŠ la cittadella nuova. E qui lo storico prenominato a ragione rimproverava lâimprudenza del governo di Firenze, il quale avrebbe potuto facilmente impedire le cose testĂŠ raccontate; tostochè i Fiorentini sospettosissimi in ogni tempo della fede dei Pisani, eglino che si aspettavano addosso una guerra di tanto pericolo, non chiamarono a casa loro per ritenerli in ostaggio i cittadini principali di Pisa.
Ma è medesimamente manifesto, come la notte innanzi che i Pisani si sollevassero contro il governo di Firenze, alcuni dei caporioni della cittĂ comunicando al cardinale di S. Pietro in Vincola (poi Papa Giulio II) quello che avevano nellâanimo di fare, egli rispondesse loro con gravi parole, dicendo; che considerassero bene essere desiderabile e preziosa cosa la libertĂ , e tale da meritare di sottomettersi ad ogni pericolo, quando almeno in qualche parte sâ ha speranza verisimile di sostenerla; ma che eglino riguardassero piĂš addentro le conseguenze che cotesta misura in processo di tempo poteva partorire, essendo fallace consiglio il lusingarsi che un re di Francia volesse conservar loro la promessa libertĂ , perchĂŠ dai casi accaduti per i tempi passati si poteva facilmente giudicare del futuro, ed esser grande imprudenza lâimprendere a sostenere per speranza incertissime una guerra certa con inimici tanto piĂš potenti di loro, e tanto a Pisa vicini comâerano i Fiorentini, i quali a parer di lui finchĂŠ avessero spirito non cesserebbero mai di molestarli. â Tali furono le quasi profetiche parole che lo storico Francesco Guicciardini pose in bocca del Cardinale Giuliano della Rovere rispetto alla libertĂ richiesta e voluta dai Pisani.
In mezzo a tanta confusione di poteri Carlo VIII col grosso del suo esercito lasciò la città di Pisa avviandosi a Firenze irresoluto circa la forma di governo da darsi a quella popolazione.
Troppo lungo sarebbe il dire le particolaritĂ che accompagnarono il doloroso periodo della libertĂ rivendicata dai Pisani, i quali pur troppo si trovarono nel caso previsto del cardinale di S. Pietro in Vincola, talchĂŠ un eloquente scrittore deânostri tempi ebbe a proferire una solenne veritĂ : non esservi cioè condizione piĂš deplorabile di quei popoli che liberi una volta caddero sotto la dominazione di una repubblica: peggio poi, se tollerar non potendone il giogo, lo scossero, e che sono costretti a tornarvi colla violenza.
Reduce il re Carlo dellâimpresa di Napoli (anno 1495), innanzi di valicare lâAppennino di Pontremoli, fu pressato dai Fiorentini a dare esecuzione allâobbligo contratto di riconsegnare le fortezze di Sarzana, di Pietrasanta, e di Livorno, ma in special modo premeva loro la restituzione di quelle di Pisa; mentre allâopposto i Pisani scongiuravano quel monarca a voler mantenere la sua parola per non farli ritornare sotto i loro abominati nemici.
Quindi senza nulla decidere Carlo VIII invitò i sindaci della Repubblica Fiorentina a recarsi ad Asti, e là finalmente il re di Francia consegnò loro il decreto della restituzione delle due cittadelle di Pisa previo un aumento di sussidj da pagarsi alle sue truppe dal governo di Firenze.
Ma ad onta degli ordini regj ricevuti dagli ambasciatori della Repubblica fiorentina, il comandante francese di Pisa ricusò di cedere loro le fortezze sopraindicate. Atteso però il richiamo dallâItalia dellâarmata francese, quello stesso comandante, dopo aver consigliato i Pisani a domandar soccorsi ai Veneziani e al duca di Milano, allora nemici della Repubblica Fiorentina, si obbligò dirimpetto ai sindaci del Comune di Firenze consegnare le due cittadelle di Pisa mediante lo sborso di 14000 fiorini, ammesso il caso che il re di Francia dentro cento giorni non fosse rientrato con le sue genti in Italia.
Giunti frattanto in Pis a i soccorsi dei Veneziani e del duca di Milano innanzi che scadesse il tempo della consegna delle fortezze da farsi ai Fiorentini, le cose mostraronsi di primo slancio prospere ai Pisani, i quali presero con grande ardire lâoffensiva su tutti i punti del loro contado ajutati poco dopo (anno 1496) da altre genti dâarmi condotte in Italia dallâImperatore Massimiliano I. Questo monarca, appena giunto a Pisa, si dispose a intraprendere lâassedio di Livorno che tosto con le forze sue e quelle della lega investĂŹ, tanto dalla parte di terra come da quella di mare, ed il cui esito fu giĂ in questâopera indicato allâArticolo LIVORNO.
Insorta poi discordia fra i capi delle truppe veneziane, milanesi e imperiali, ciascun dei quali sembra che operasse col disegno di impadronirsi di Pisa, disgustato Massimiliano tornò in Germania, il duca di Milano richiamò le sue truppe, essendo i Pisani rimasti con poca soldatesca deâVeneziani, i soli amici che potessero contare contro piĂš potenti nemici. Allora i Fiorentini non solo riacquistarono in breve tempo i castelli del contado pisano, ma di piĂš inviarono unâarmata di 18.000 combattenti ad assediare Pisa; dove poco dopo giunsero rinforzi ai Fiorentini da Bologna, da ForlĂŹ e da altri luoghi della Romagna. Arroge che non stette mo lto a sentirsi come i Veneziani allettati dallâoro deâFiorentini, per trattato dellâaprile 1499 si ritirarono dalla Toscana.
Contuttociò i Pisani, avendo deliberato di patire ogni estrema fortuna e la morte istessa, anzichĂŠ tornare sotto lâodiato giogo dei Fiorentini, si armarono con ogni possibile sforzo a difesa propria. Infatti nei primi sette anni eglino vi riescirono; poichĂŠ in un settennio Pisa sostenne mirabilmente tre assedj e altrettanti assalti (1499, 1503 e 1505) nei quali le donne non meno degli uomini mostrarono fermezza, coraggio e valore; in guisa che la Signoria di Firenze essendo entrata in sospetto di qualche intelligenza fra gli assediati e il comandante generale deâFiorentini, Paolo Vitelli, fece arrestarlo nel campo, e condottolo nel palazzo deâSignori lasciarvi tosto la vita.
In questo stesso periodo tentarono i Fiorentini niente meno che di deviare per intiero lâArno da Pisa onde portare in quel popolo maggior desolazione. Scavaronsi a tale oggetto due profondi e larghi canali presso la torre di Fasiano (quattro miglia sopra la cittĂ ) nelle mira dâintrodurvi le acque dellâArno e di lĂ dirigerle al mare per la via di Coltano e di Calambrone. Al qual uopo venne costruita sul letto del fiume una gran diga, dove erano giĂ state impiegate 8000 opere quando sopraggiunse una piena che rovesciò la diga, colmò i lavori, e fece sĂŹ che i Fiorentini dovessero rinunziare ad un progetto troppo azzardato.
Riferisce poi specialmente al fatto medesimo di voltar lâArno a Fasiano una lettera dal commissario Francesco Guiducci diretta lĂŹ 24 luglio 1503 ai Dieci di BalĂŹa dal campo di Pisa, colla quale informò quel magistrato di guerra di esservi stato con Alessandro degli Albizzi, uno dei Dieci di BalĂŹa, con lâingegnere Leonardo da Vinci e con altri, fra i quali il governatore; e che veduto il disegno, dopo varie discussioni si concluse, essere quellâopera molto a proposito, o si veramente Arno volgersi qui, o restarvi con un canale, per cui almeno si vieterebbe che le colline dai nemici non potessero essere offese. â â (GAYE, Oper. Cit. Volume II .) Non meno importanti a illustrare la storia dellâultimo assedio di Pisa sono le lettere seguenti: due delle quali scritte dal commissario Antonio Giacomini ai Dieci di BalĂŹa sotto dĂŹ a 2 e 3 giugno 1504. In esse si dĂ avviso qualmente era giunto al campo contro Pisa la mattina stessa del 2 giugno Antonio da Sangallo, il quale di poi fu mandato a Librafratta col governatore per pigliar appunti come sâabbia a conciar cotesto luogo di Librafratta. â â (Oper. Cit. Volume II.) Frattanto essendo ritornato da Roma a Firenze lâarchitetto Giuliano da Sangallo, fu subito dal gonfaloniere Pier Soderini inviato al campo davanti a Pisa ai commissari, perchĂŠ non potevano riparare che i Pisani non mettessero dentro per Arno vettovaglie. Giuliano nellâinverno del 1505 disegnò ed alla primavera successiva del (ERRATA: 1406) 1506 col fratello Antonio diresse la costruzione di un ponte di barche incatenate fra loro, in maniera che gli assediati non potevano ricevere sussistenza, nĂŠ dalla parte del mare, nĂŠ dalla parte di terra, per essere stato chiuso il passo alle barche anche di sopra a Pisa. â Tali provvedimenti avendo reso ognor piĂš difficile la provvista delle vettovaglie, delle quali in Pisa si mancava quasi affatto, allora il capo del popolo Giovanni Gambacorti ricorse a un rimedio barbaro, quello cioè di cacciar fuori i vecchi, le donne e altre bocche inutili. Ma codesto atto dâinumanitĂ ne provocò dal lato degli assedianti uno piĂš crudele quando i commissarj fiorentini misero bando che qualunque uomo venisse fuori dalle porte di Pisa fosse impiccato, e alle donne scorciati i panni sopra il ventre e bollate nella gota.
Nel maggio dellâanno 1508 lo stesso Antonio da Sangallo ritornò al campo, al quale i Dieci di BalĂŹa, gli 11 dello stesso mese, da Firenze dirigevano la seguente lettera.
âNel tempo che staranno le genti nostre in prima in Val di Serchio, di poi dallâaltra banda, ristringeraiti un dĂŹ col signor Marcantonio a conferire insieme dove si potesse fare una bastia sotto a Librafratta che stessi bene, per poter a questi due luoghi, o a uno di essi tener piĂš stretti i nemici nostri, e vedi innanzi tu parta di farne buon ritratto.â â Rispondeva Antonio da Sangallo ai Dieci di BalĂŹa dal campo in Val di Serchio sotto dĂŹ 17 dello stesso mese ed anno dicendo âSono stato col signor Marcantonio, e dopo molti ragionamenti fatti fra noi, non mi pare che sia proposito far niuna di queste bastie, cioè a Librafratta e ancor alla Badia a S. Savino. Ma siamo cavalcati insieme tutto il Lungarno dalla banda di Val di Serchio insino alla torre che sta in sulla foce (dellâArno).
E perchĂŠ costà è un luogo elevato da terra circa braccia sei, quivi ci fermeremo a fare la bastia e âl ponte. Quando saremo dalla parte di costĂ dovâè la torre, vedremo et esamineremo piĂš interamente il luogo et di tanto si darĂ avviso alle VV. SS.â Il dĂŹ 26 maggio di detto anno scriveva dal campo ai Dieci di BalĂŹa il commissario generale Niccolò Capponi avvisando queâ signori, che âAntonio da Sangallo se ne verrĂ domattina, e da lui intenderanno quello bisogna fare a Librafratta per potervi tenere piĂš numero di cavalliâ â (GAYE, Oper. cit. Volume II.) Dopo lâinutilitĂ di tanti tentativi i Fiorentini sospesero per qualche tempo le operazioni militari contro Pisa, ma non sospesero i maneggi politici accompagnati da offerte di oro per aver lâassenso dei re di Francia e di Spagna, i quali cominciavano a risguardare lâimpresa deâ Fiorentini contro Pisa come oggetto di speculazione finanziera.
Trascorse cosĂŹ circa un anno, nel qual periodo di tempo i Fiorentini, avendo attirato al loro partito anco le repubbliche di Genova e di Lucca, si disposero a bloccare Pisa col sistema usato da Gino Capponi nel 1406, cioè, di chiudere con navi e batterie le foci dellâArno, del Serchio e del Fiume Morto, e di stabilire tre campi trincerati, cioè, a S. Piero in Grado, per la parte dâArno, a bocca di Serchio per la parte di mare, a Mezzana e a Ripafratta, per la parte del monte, senza tralasciare dâinviare altre colonne mobili a custodire nelle campagne tutte le vie dalle quali potevasi vettovagliare la cittĂ .
Per tal modo i Pisani stretti da ogni lato, indeboliti da lunga guerra, privi di ogni genere di sussistenza e dalla fame estenuati, dopo aver sostenuto con costanza e coraggio 14 anni e mezzo di guerra, sentirono con gran pena avvicinarsi lâora fatale di dover cedere alla necessitĂ e darsi per vinti in potere di odiatissimi nemici. Le condizioni della capitolazione furono stabilite nel 4 giugno 1509 alla presenza dei Dieci di BalĂŹa e di Niccolò Machiavelli segretario della Repubblica, ratificate il giorno dopo dalla Signoria. Esse contenevansi in 48 capitoli, nei quali si trattava anche della restituzione ai Pisani fuorusciti, niuno eccettuato, di tutti i loro beni e rendite arretrate, delle franchigie relative al commercio e manifatture pisane e di altre esenzioni di tasse e gabelle che anteriormente al 9 novembre 1494 erano state ai Pisani dal Comune di Firenze concedute. â (DAL BORGO, Docum. Pis.) Dopo concluso tutto ciò, lâesercito degli assedianti nel dĂŹ 8 giugno del 1509 entrò pacificamente in Pisa, fra quella popolazione taciturna, avvilita ed estenuata. E quantunque i Fiorentini da tanta nimistĂ e da molte ingiurie fossero esacerbati, pure osservarono religiosamente le fatte promesse, col recare seco pane e vettovaglie a ristorare quel popolo affamato, nel tempo stesso che il vincitore a quel che sembra evitava di suscitare nei Pisani cagioni nuove di rammarico, e conservava loro i consueti magistrati, scelti per altro dalla Signoria di Firenze.
Ma in questa seconda ed ultima resa di Pisa molte famiglie di nobili, di mercanti e di cittadini distinti anzichĂŠ sopportare lâavvilimento di una tale schiavitĂš, emigrarono volontariamente allâestero e specialmente a Napoli e a Palermo, dove tuttora es istono molti discendenti di quelle casate.
A sentimento dello storico Guicciardini lâImperatore Massimiliano dovĂŠ sentire con pena la sottomissione deâPisani, nella persuasione, o che il dominio di Pisa gli avesse a essere potente istrumento a molte occasioni, o che il consentirla ai Fiorentini gli avesse a fare ottenere da loro quantitĂ non mediocre di danari; in una parola può dirsi che cotesta cittĂ in quel tempo fosse lâoggetto dellâaviditĂ di molti potentati.
Una della prime operazioni fatte dai Fiorentini appena entrati in Pisa fu di sollecitare a Giuliano e ad Antonio da Sangallo il compimento della cittadella nuova, detta poi fortezza alle Piagge. Infatti nel dĂŹ 11 settembre 1509 il gonfaloniere perpetuo Pier Soderini scriveva a Pisa a Giuliano da Sangallo nomine D. Antonii, cosĂŹ: Ho letto la vostra alla Signoria della quale ho preso piacere intendendo che voi sollecitate forte cortesia opera (della cittadella). â La Signoria vorrebbe che voi faceste lâaltra parte del muro, e lo tiraste su al pari dellâaltro con piĂš prestezza che si può. Però fate diligenza di condurre tutto il muro di verso il ponte alla Spina allâaltezza di quello dellâaltra parte. â (GAYE Oper. Cit. Volume II).
Con due altre lettere del 20 e 26 settembre del 1509 lo stesso Pier Soderini sollecitava Giuliano da Sangallo a tirar su quel muro presso il ponte alla Spina sullâArno, come pure di murare la porta che metteva in sul ponte predetto, e lâaltra porta, e lâaltra porta da entrare in cittĂ âet con sollecitudine (scriveva) tirate su perchĂŠ il tempo se ne vaâ. â Anche nel 1511 Giuliano da Sangallo continuava a dirigere i lavori alla cittadella e alla porta S.
Marco, come rilevasi da due lettere dei Dieci di BalĂŹa scritte da Firenze lĂŹ 2 gennajo e 13 febbrajo 1510 ad Alamanno Salviati commissario a Pisa; mentre nel 28 dicembre dello stesso anno i Dieci di BalĂŹa scrivevano da Giovanni Battista Bartolini commissario in detta cittĂ rispetto alla costruzione della cittadella nuova, il qual commissario aveva detto, che perduta Pisa è perduta ancora la cittadella, e ciò contro il sentimento dellâarchitetto Giuliano da Sangallo. Che però desiderosi di chiarirne da tanta perplessitĂ , i Dieci inviarono a Pisa Niccolò Machiavelli, il quale nel dĂŹ 5 gennajo dellâanno 1511 tornato a Firenze rese conto della sua missione rispetto ai lavori della cittadella nuova a quelli della porta per la quale si riesciva in sul ponte alla Spina , rapporto anco al rivellino fra la porta S. Marco e quella della fortezza , al muro ecc. verso la Porta nuova (di S. Marco).
Dopo le quali cose i Dieci scrivevano al detto commissario quanto appresso: âNiccolò (Machiavelli) ancora ci ha riferito in quanta debolezza si trovi la cittadella vecchia, ed avendone parlato con Giuliano da Sangallo, e parendoci il rimedio che ci mette innanzi lungo e dispendioso, ci è solo occorso in questa parte di alleggerire detta cittadella vecchia di tutte quelle cose che fossero di molta importanza, quando venissero in mano deâ Pisani, et però se in detta cittadella si trova artiglieria di piĂš metteretela in cittadella nuovaâ. â (GAYE, Oper.
cit. Volume II.) Queste lettere frattanto manifestano chiaramente la premura del governo di Firenze nel fortificarsi in Pisa per timore di perdere una terza volta la cittĂ a cagione di sollevazione degli abitanti, comecchè una buona parte deâ suoi cittadini avesse giĂ espatriato.
La prova piĂš evidente di tale emigrazione la dimostra una lettera scritta nel dĂŹ 31 marzo del 1511 da Alessandro Nasi commissario di Pisa ai Dieci di BalĂŹa, cui diceva: âIeri furono da me Giuliano da Sangallo e il provveditore della cittadella nuova, e riferirono, come per ordine di chi ha carica dellâentrate della dogana era stato loro dimostrato, châella diminuiva in modo che bisognava scemare i maestri e gli operai alla muraglia.â â (GAYE, Volume cit.) Tutto ciò accadeva sotto il gonfalonierato perpetuo di Pier Soderini. Per altro allâoccasione dellâesaltamento al pontificato del Cardinale Giovanni deâMedici, Pisa dovĂŠ risentire un qualche sollievo nel ravvivamento della decaduta sua universitĂ , a sussidio della quale Leone X destinò le decime ecclesiastiche di tutto il dominio fiorentino. Quindi per opera specialmente di un altro pontefice della stessa prosapia deâMedici (Clemente VII) fu estinta anco la repubblica fiorentina, quando appena di 24 anni era spirata la pisana, siccome dallâopera del duca Cosimo deâMedici può ripetere dopo altri 24 anni la repubblica sanese la sua fine. SicchĂŠ in grazia del governo di Firenze e di due individui fiorentini in meno di mezzo secolo caddero lâuna dopo lâaltra sotto il dominio di una famiglia cittadina le tre piĂš distinte repubbliche della Toscana.
Due anni dopo la sua caduta Pisa fu scelta, come luogo piĂš confacente ad un concilio, sia per la comoditĂ che offriva a molti prelati che dovevano recarvisi dalla Francia e dalla Spagna, sia per la confidenza che il re di Francia e lâImperatore Massimiliano, promotori di quel concilio, avevano neâFiorentini ed in Pier Soderini, allora gonfaloniere perpetuo della Repubblica. Dallâaltro canto il Pontefice Giulio II dopo avere intimato per lâanno dopo un concilio generale in S. Giovanni Laterano a Roma, dichiarava questo di Pisa un conciliabolo, sicchĂŠ interdisse i Fiorentini nel cui dominio era stato permesso e favorito. Quindi lo stesso Pontefice strinse lega col re Cattolico e coi Veneziani, i capitoli della quale trattavano principalmente della conservazione dellâunione della chiesa, dellâabbattimento del concilio pisano e deâ suoi difensori. Ed attribuendo gran colpa di ciò al governo di Firenze, non pareva alla lega che si potesse tenere migliore e piĂš pronta via, a voler condur la cosa ad effetto, di quella di rimuovere il gonfaloniere perpetuo dal governo di Firenze e dâintrodurvi di nuovo lâespulsa casa deâMedici. Della quale essendo allora capo il cardinal Giovanni, successore poscia a Giulio II nel papato, non si dubitava che questo porporato non agognasse lâultima ora di vita al governo repubblicano di Firenze per rimettervi in potere la sua famiglia.
Negli ultimi istanti della Repubblica Fiorentina Pisa dovĂŠ accogliere fra le sue mura il prode guerriero fiesolano, Francesco Ferrucci, per accozzarvi un piccolo esercito che quasi per intiero perĂŹ alla battaglia di Gavinana. I Pisani in quellâemergente soggiacquero a severe misure militari e si trovarono in pericolo di veder impiccare i cittadini piĂš facoltosi, o di dover perire della morte stessa del conte Ugolino di Donoratico, se a richiesta del comandante non somministravano denaro per pagare i soldati, vettovaglie e materiale per provvedere il suo esercito. NĂŠ a queste sole misure, benchĂŠ violente, sâarrestava il Ferrucci, poichĂŠ memore della congiura stata poco innanzi scoperta in Pisa, a causa della quale perdĂŠ la vita il complice Jacopo Corsi capitano del governo, eseguivasi dal fiesolano quello che altre volte fu semplicemente dai Dieci di BalĂŹa progettato, lâallontanamento da Pisa di tutti i cittadini capaci di portar arme, oltre i molti deâ piĂš distinti che per sicurezza erano stati chiamati a Firenze. SennonchĂŠ due giorni dopo la partita dellâesercito del Ferrucci, i Pisani dovettero non senza giubilo sentire la notizia della battaglia di Gavinana, la quale decise della sorte di Firenze parificandola, se non peggio, a quella di Pisa, e quindi sottoponendo entrambe le cittĂ coi loro contadi al dominio assoluto di un solo padrone, spettante a famiglia giĂ di Firenze cittadina.
Sebbene il duca Alessandro deâMedici governasse con pari tirannide Fiorentini e Pisani, e si mostrasse per tutto di vita anzichĂŠ no licenziosa e vituperevole, non ostante i Pisani, per lâodio che nutrivano contro Firenze, accolsero con smodato plauso il duca Alessandro fino al punto di qualificarlo con adulatoria iscrizione al suo ingresso in cittĂ , il Salvatore di Pisa .
Pure i Pisani al pari deâ Fiorentini non ebbero ragione da lodarsi del nuovo signore, sotto del quale si vide il magistrato comunitativo di Pisa fare un umiliante decreto sotto il dĂŹ 6 dicembre del 1535, che diceva, come in mancanza di uno studio nella loro cittĂ , dovĂŠ risolversi a raccogliere lâannua somma di cento ducati, 50 dei quali forniti dallâopera del Duomo, 25 dalla Pia Casa della Misericordia, e 25 dalla ComunitĂ di Pisa, per poter mantenere quattro giovani pisani a studiare legge o medicina in un pubblico ginnasio forestiero; sul riflesso, dice il decreto: âche la cittĂ di Pisa, oltre i danni infiniti occorsogli, e per la malignitĂ deâ tempi dai Pisani patiti, era mancante quasi del tutto, e del continuo mancava di uomini e massime di letterati e bene istruiti in qualche virtĂš. E conoscendo di tale difetto esserne polissima cagione la povertĂ grande di queâ pochi cittadini che oggi vi restano, inabili non che altro a nutrire i proprj figli anzi che a indirizzarli in virtĂš, e a tenerli a studio fuori della cittĂ , come nelle altre è solito farsi, perciò ecc.â â (DAL BORGO, Diplomi pisani.) Tale era il deperimento di fortuna e di soggetti nella cittĂ di Pisa, allorachè fu innalzato al trono Cosimo I deâ Medici, principe di eminenti qualitĂ e di una politica raffinata fornito, in guisa che in mezzo ai piĂš grandi ostacoli seppe progredire di grandezza collâindorare ai sudditi le catene che indossavano. â POS. sono infatti i Pisani fra i popoli a Cosimo I soggetti dirsi deâ primi che risentissero dalle sue leggi, ordini e provvedimenti economici, solidi vantaggi e felici resultamenti.
Avvegnachè una delle prime cure di Cosimo fu la ripristinazione dellâabbandonata universitĂ pisana (anno 1543), alla quale assegnò rendite stabili e nuove, riordinò i suoi statuti, eresse e accreditò varie cattedre chiamando dallâestero celebri professori, ampliò il locale della Sapienza per il convitto, e concedè agli esteri privilegj e immunitĂ .
A questi aggiunse altri provvedimenti per richiamare a Pisa deâ bravi maestri, e dei numerosi studenti; cui susseguirono nel 1547 ordini diretti a migliorare lâaria con lâistituzione dellâUffizio denominato deâ Fossi, al quale Cosimo I aumentò le risorse con assegnare ingerenze piĂš estese di quelle che nei tempi trascorsi su tale rapporto ai Consoli del Mare fossero state accordate.
In quale stato poi di spopolamento fosse la cittĂ di Pisa alla metĂ del secolo XVI lo dirĂ il Censimento posto in calce del presente articolo a confronto di tre altri di epoche assai posteriori. â Vedere anche il Censimento della Popolazione della COMUNITĂ DI PISA.
La terza operazione, con cui Cosimo I procurò di favorire i Pisani fu quella di stabilire la residenza del nuovo ordine cavalleresco di S. Stefano e P. M., da esso nel 1561 fondato, e ciò in vista di procurare decoro e concorso maggiore alla cittĂ , di accrescere sicurezza al commercio marittimo deâ sudditi, ed una maggiore stabilitĂ al suo trono.
Succeduto al Granduca Cosimo il figlio primogenito Francesco I, Pisa ricadde nel languore; lo che a parere dello storico del Granducato fu in gran parte prodotto della politica deglâinquisitori, la quale sembrava diretta principalmente ad abbattere e forse anche a distruggere nella Toscana le due universitĂ di Pisa e di Siena.
Avvegnachè, oltre lâodio che glâinquisitori fomentavano fra i professori di quei ginnasii, eglino poterono imporre nellâanimo di Francesco I tanto da ottenere un regio exequatur per consegnare nelle forze del Papa (anno 1582) tre professori dello studio pisano. â Con tutto ciò il secondo Granduca rispetto allâUffizio dei Fossi di Pisa proseguĂŹ le operazioni ed ordini lasciati dal di lui padre, aggiungendovi qualche provvedimento creduto piĂš confacente allo scopo.
Ma eccoci allâeroe della dinastia Medicea, eccoci al successore di Francesco I, a quellâanimo invitto di Ferdinando I, il quale mostrò costanza imperterrita nelle maggiori calamitĂ dello stato, a colui che ebbe il contento di vedere il primo in Toscana la gloria del principe collegata al benessere deâsudditi; ed i Pisani finchĂŠ starĂ in piedi la loro maravigliosa cattedrale benediranno la memoria di Ferdinando I per il suo gran cuore di averne riparato sollecitamente la perdita a cagione di un incendio notturno (nel 24 ottobre 1595) consimile a quello che ai giorni nostri in gran parte distrusse la basilica di S. Paolo fuori di Roma.
Per le cure di Ferdinando I vennero anche allacciate le copiose polle dâacqua saluberrima nel poggio di Asciano, e dato principio ai lunghi acquedotti che per cinque miglia di cammino conducono quelle acque sopra archi a dissetare i Pisani.
Per opera di Ferdinando I fu edificato in Pisa il collegio che conserva il suo nome, giĂ destinato a ricevervi i giovani che inviavansi allo studio pisano dalle cittĂ e terre del Granducato.
Per lui fu innalzata col disegno del Buontalenti la Loggia di Banchi sulla piazza meridionale del ponte di Mezzo; alla quale Loggia posteriormente venne sovrapposta la fabbrica dellâUffizio deâFossi.
Fu per suo ordine edificato nel Lungarno di Pisa il palazzo granducale, e fu suo lâindulto famoso del 10 giugno 1593 a favore deglâindividui di qualunque nazione in favore di coloro che si recassero a stabilire domicilio a Livorno e a Pisa.
Fu per volere di Ferdinando I che venne allo studio pisano quellâOstilio la cui scuola nel 1592 frequentò il giovinetto Galileo. â Fu per ordine di quel Granduca aperto il Fosso, o Canale deâNavicelli ad oggetto di rendere piĂš spedito e piĂš sicuro il trasporto delle merci fra Pisa e Livorno senza che escissero come per lâaddietro per bocca dâArno in mare. â Per esso finalmente i Pisani furono in festa quando vennero depositati nella chiesa dei cavalieri di S.
Stefano i trofei riportati alla conquista della cittĂ di Bona nellâAffrica (1607) donde recarono bandiere, cannoni e un migliajo e mezzo di schiavi.
Il Granduca Cosimo II figlio di Ferdinando I, appena escito dalla minor etĂ , governò i suoi sudditi camminando scrupolosamente sulle paterne tracce, e recando a somma sua cura il mantenere in credito lâuniversitĂ di Pisa, ed il bonificamento delle vicine campagne.
Ma tutto cominciò a declinare appena avvenuta la sua morte nella fresca etĂ di 32 anni (1621). Essendochè, rimasta la Toscana sotto la reggenza di due granduchesse, lo stato deteriorò a segno che si ridusse uno spettacolo di miserie, e la trascuratezza degli spurghi deâfossi fece in Pisa accrescere i danni della peste che per due volte (anni 1630 e 1633) apportò un doppio esterminio. In mezzo a tanta calamitĂ prese le redini del governo Ferdinando II figlio primogenito di Cosimo II e fratello del protettore degli scienziati, del fondatore dellâaccademia del Cimento, il cardinale Leopoldo, nome sempre caro a tutti i Toscani.
La cittĂ di Pisa pertanto, che sino dai tempi di Cosimo I era stata destinata a residenza invernale della corte granducale, sotto Granduca Ferdinando II dovĂŠ risentire un qualche sollievo, quando nella sua universitĂ recavano lustro un Chimentelli, un Marchetti ed un Borelli.
Eppure chi lo crederebbe? Che dove professavano cotesti uomini, dove risiedeva un cardinal Leopoldo deâMedici, dove viveva il sommo Galileo, stato maestro nelle scienze allo stesso Ferdinando II, un Pontefice avesse portato a tal segno lâindiscretezza da esigere che quel divino ingegno nellâetĂ sua settuagenaria si dovesse mandare in Roma per trofeo dellâipocrita ignoranza e della nera malignitĂ ? â (GALLUZZI Stor. Del Granducato).
MorĂŹ Ferdinado II lasciando alla Toscana in Cosimo III suo primogenito un verme divoratore di ogni prosperitĂ , nel fratello cardinale un moderatore zelante, fino a che visse, dellâuniversitĂ pisana. Frattanto è opinione di molti che uno dei colpi fatali fosse portato ai Pisani dagli scrupoli di Cosimo III allorchĂŠ negò agli Ugonotti, cacciati dalla Francia per la revoca dellâeditto di Nantes, il permesso di venire a stabilirsi in uno deâsubborghi di Pisa, disposti a bonificare e rendere piĂš fertili le sue campagne, a montare fabbriche e manifatture di drappi, di seterie ecc. Lo che si negava nel tempo che in Livorno e in Pisa si accordavano privilegj alla nazione ebraica.
Ciò non ostante Cosimo III nutrendo qualche passione per la storia naturale ebbe il merito di accrescere lâorto botanico di Pisa e di molte piante esotiche e rare, di non pochi oggetti minerali e fossili il museo contiguo; e fu sotto il lungo regno di Cosimo III che lo studio pisano ebbe un bel novero di professori distinti, fra i quali un Magalotti, un Dempstero, un Bernardo Averani, un Redi, un Noris, un Gianetti, per tacere di tanti altri e per non aggiungere lâelogio fatto allo stesso Cosimo III dal Montfaucon che lo ritrovò peritissimo nello studio delle scienze divine.
Sotto il piĂš breve ma piĂš agitato regno del Granduca Giovan Gastone il piĂš che vi sarĂ da avvertire per Pisa, credo sia quello di trovarsi insieme nello studio pisano un Valsecchi, un Grandi, un Gualtieri, un Pompeo Neri, un Giuseppe Averani, i di cui nomi bastano a rendere illustre qualunque piĂš celebre universitĂ .
Terminata nel 1737 la casa granducale Medicea, apparve per fortuna della Toscana un astro piĂš splendente e una luce piĂš benefica colla dinastia Austro-Lorena felicemente regnante. â Il Granduca Francesco II di questo nome, e primo come Imperatore, portò fra noi e lasciò nella sua successione per istinto magnanimo di prosapia una serie di opere di giustizia, di moderata libertĂ , dâordine, di cristiane virtĂš, di amorevolezza, di decoro e di crescente prosperitĂ .
Infatti sino dai primi anni del Granduca Francesco II la cittĂ di Pisa migliorò non solo nellâamministrazione governativa, ma ancora nei comodi pubblici e nel suo materiale, sia che si riguardino le Terme pisane di nuove e piĂš comode fabbriche adornate; sia che uno rammenti che a lui si deve la continuazione del magnifico Lungarno di Pisa alla destra del fiume fra il ponte di Mezzo , e la piazza di S. Matteo; e sia che si volga lâocchio al nobile impulso che mercĂŠ di lui fu dato allâagraria e specialmente alle campagne pisane col sistema utilissimo di affittare e dividere fra i privati le vaste e malsane tenute della Corona nella pianura meridionale di Pisa.
Succeduto nel granducato a Francesco II il suo secondogenito Pietro Leopoldo, senza pericolo di adulare dirsi può, che non vi fu mai paese, che avesse piĂš grandi obblighi al suo al suo principe, quanto la Toscana a Pietro Leopoldo. E Pisa, dove lâAugusta e numerosa famiglia di quellâAugustissimo passava la stagione invernale, fu una delle cittĂ la quale durante i 25 anni del suo glorioso governo e preferenza dâognâaltra risentĂŹ il profitto delle benefiche cure sparse su di essa a larga mano per migliorare colle sorti pubbliche le private. Quindi ben si addiceva ai Pisani il pensiero di far scolpire da abile mano in dimensioni gigantesche e innalzare nel centro di una gran piazza il meritato simulacro a tale sovrano con il seguente veridico elogio: A PIETRO LEOPOLDO QUARANTâANNI DOPO LA SUA MORTE.
Chiamato nel 1791 Leopoldo I a salire sul trono imperiale e reale, i destini alla Toscana propizi lasciarono il di lui secondogenito nato in Pisa nel 1769, Ferdinando III, Principe sagace, clemente e moderato, che governò i Toscani in due periodi diversi: il primo circondato da disturbi politic i che lâobbligarono nel marzo del 1799 a ritirarsi in Germania, lasciando la Toscana in mano ai Francesi, che presto venderono e settâanni dopo ritolsero alla Spagna ed allâInfante di Parma per unire il piccolo regno al grande Impero, finchĂŠ caduto il colosso che lo sosteneva (anno 1814), il Granduca Ferdinando III tornò in Toscana desideratissimo dai suoi sudditi e sempre mai contornato dallâamore di ogni ceto, dâogni colore, di ogni etĂ ; ma troppo presto rapito da invida morte, non intiero però, avendo lasciato nellâAugusto suo figlio riunite insieme le paterne ed avite virtĂš. Sotto il governo del Granduca Leopoldo II Pisa ha ottenuto grandi benefizi, sia dai provvedimenti legislativi come dalle opere pubbliche da Esso ordinate col lodevolissimo fine di migliorare le condizioni morali, fisiche ed economiche del paese e deâ suoi abitanti. â Fra le varie migliorie citerò una piĂš regolare direzione data alle acque, la costruzione di nuovi ponti, lâapertura di nuove strade, la rettificazione delle vecchie, tanto regie come provinciali e comunicative. Una di queste, la strada ferrata Leopolda, il cui primo tronco è giĂ in costruzione, deve avvicinare di tempo se non di spazio la cittĂ di Pisa al porto di Livorno, siccome ravvicinerĂ egualmente Pisa e Lucca lâaltra strada ferrata che sta progettandosi da unâaltra societĂ , senza dire della nuova e piĂš estesa montatura dellâUniversitĂ pisana.
Personaggi celebri pisani in fatto di scienze, lettere, arti e politica Una lunga lista fornirebbe questa città di uomini superiori ai contemporanei nelle scienze, nelle lettere, nelle arti ed in politica se si dovessero tutti annoverare; onde mi restringerò ai pisani sommi in fatto di arti, lettere, scienze ecc. senza dire di quei molti celebri per dottrine divine, per virtÚ cristiane e santità .
La serie incomincia nel secolo VIII da Pietro Diacono che fu maestro di belle lettere sotto Carlomagno in Pavia e poscia in Parigi, dove pure si distinse nel secolo X un maestro di teologia, Bernardo da Pisa ; mentre nel secolo XI senza dubbio tocca a Pisa lâarchitetto Buschetto, colui che diresse come autore, e come operajo presiedĂŠ alla costruzione del magnifico tempio della Primaziale. E fu sul cadere dello stesso secolo che Pisa ebbe in pastore un Daiberto dâanimo grande e di singolare valore.
Nel secolo XII Pisa ebbe la gloria di dare al mondo due insigni giureconsulti in Bulgaro e in Burgundio , oltre un famoso matematico in Leonardo Fibonacci, che introdusse il primo in Europa il sistema delle cifre arabiche e le operazioni di algebra scritte in apposito trattato. â Nel medesimo secolo Pisa vede nascere e fiorire due sommi architetti in Diotisalvi e in Bonanno, il primo che fu autore del bellissimo battistero pisano e lâaltro il fondatore del meraviglioso campanile. Lascio di aggiungere il glorioso S. Ranieri, lâarcivescovo Pietro Morioni, il cardinal Guido da Caprona, il Pontefice Eugenio III ed altri insigni pisani del secolo XII tutti celebri per cristiane virtĂš.
Anche nel secolo XIII Pisa fruttò alle belle arti italiane piÚ che ogni altra città , tosto che qua ebbe i natali un Niccola che fu il maestro e il restauratore del buon gusto nella scultura, il vero caposcuola del medio evo, e pel di cui merito comparvero nel secolo successivo molti distinti allievi in diversi luoghi della Toscana.
NĂŠ solamente Pisa diede nel secolo XIII in Niccola un sommo scultore e architetto, ma ancora in Giunta Pisano, il primo pittore italiano di distinzione.
Il qual Giunta figlio di Giuntino non fia da confondersi con altro Giunta pittore coetaneo da me scoperto fra le carte dellâopera di S. Iacopo di Pistoja, siccome fu indicato sino dal 1835 allâarticolo FABIANA nella Valle dellâOmbrone Pistojese. Avvegnachè il Giunta pittore pistojese era figlio di Guidotto da Piteccio, il quale, se può dirsi coetaneo del celebre Giunta Pisano, visse però sempre oscuro nella sua patria, dove lo ritrovo qualche anno dopo la morte di Giunta Pisano. â Vedere PITECCIO.
Toccano al secolo XIV li scultori e architetti pisani, Giovanni figlio di Niccola Pisano, Fra Guglielmo Agnelli e Andrea Pisano, tutti allievi distinti dello stesso caposcuola Niccola, per virtĂš dei quali sorsero alcuni altri distinti scultori e architetti, siccome furono Tommaso e Nino figli entrambi del suddetto Andrea Pisano .
NĂŠ alle sole belle arti si limita il novero degli uomini celebri pisani nei secoli XIII e XIV, mentre nelle lettere figurarono in Pisa un Domenico Cavalea, un Bartolommeo da S. Concordio, un B. Giordano e un Ranieri, comecchĂŠ questi due fossero nativi del castel di Rivalto, contado pisano. â In politica e giurisprudenza figurarono piĂš tardi in Pisa Michele di Lante e Pietro suo figlio, sebbene oriundi da Vico Pisano, siccome era oriundo da Buti il letterato Francesco di Bartolo che sotto il governo di Piero Gambacorti commentando spiegò la divina commedia nello studio pisano.
Ma lâuomo del secolo XIII che fra tutti i Pisani si rendesse il piĂš famigerato dalla penna inarrivabile di un sommo poeta fu il conte Ugolino della Gherardesca, noto per ingegno, per valore e per politica, ma piĂš noto per la sventurata sua morte assai peggiore di quella che era toccata a Napoli al conte Gherardo suo zio.
NÊ a dimenticare la crudeltà usata verso il conte Ugolino bastò la generosità con la quale i Pisani dopo 26 anni innalzarono al grado stesso di potestà i parenti di lui, cioè nel 1316 il conte Gherardo Novello, poi il Conte Ranieri suo zio, il conte Bonifazio Novello e finalmente il conte Ranieri nipote del primo; i quali tutti ottenerono dal popolo pisano i sommi onori, avendoli eletti per capi quas i assoluti della loro repubblica.
Fra i politici pisani del secolo XIV notissimi sono Andrea, Piero e Giovanni Gambacorti, Jacopo dâAppiano e Giovanni dâAgnello, mentre come letterato, politico e dotto i Pisani fanno suo il Pontefice Niccolò V, al secolo Tommaso Parentucelli, perchĂŠ di padre pisano e nato in Pisa nellâanno 1389 da padre medico, Bartolommeo, nel tempo che leggeva nello studio pisano.
La città di Pisa nei secoli posteriori diede molti artisti e scienziati, ma nessuno arrivò a pareggiare il merito de vecchi maestri di sopra nominati, se devesi eccettuare Galileo, il quale sebbene figlio di un nobile decaduto fiorentino e di una dama pesciatina, venne alla luce del giorno in Pisa nel 18 febbrajo 1564, colui che doveva vedere assai piÚ lungi di ogni altrui vivente della sua e di qualunque altra età .
Chi volesse poi conoscere una piĂš lunga serie deâpisani distinti legga il catalogo cronologico posto in calce al Volume III della Descrizione storica e artistica di Pisa di Ranieri Grassi.
PRINCIPALI EDIFIZI DI PISA Fra tutte le altre cittĂ della Toscana Pisa può dirsi la piĂš ricca di memorie e di avanzi di fabbriche che ci richiamano ai primi secoli del romano impero; sia che si osservino i ruderi delle sue Terme delle quali sussiste intiero il Sudatorio in un locale che quanto prima dallo zelante corpo decurionale di Pisa sarĂ acquistato per farvi intorno opportune perlustrazioni e ripari; sia che si rintraccino i nascosti fondamenti dellâAnfiteatro, del quale restò il nome ad una porta della cittĂ , ora chiusa, la porta del Parlascio; sia che si esamini il vestibulo di un tempio pagano tuttora in posto dove fu la chiesa di S.
Felice, senza dire di tante colonne di graniti e di marmi orientali, delle numerose basi e capitelli che le adornavano. Ma soprattutto qualificano lâimportanza di Pisa romana i molti sarcofagi e le iscrizioni superstiti, fra le quali superiormente insigni sono quelle dei due Cesari, Cajo e Lucio, figli adottivi di Augusto, illustrate dal Noris nellâopera Cenotaphia pisanae, che insieme a tanti altri frammenti antichi sparsi quĂ e lĂ veggonsi ora riuniti nel bel Camposanto di Pisa. â Ma se questa cittĂ e tuttora la piĂš doviziosa di monumenti antichi, essa con maggiore diritto ĂŠ da qualificarsi la culla dove risorsero mercĂŠ deâsuoi figli le arti belle per lâItalia, e dove si ammirano riuniti in un solo punto della cittĂ quattro edifizi dei primi secoli dopo il mille, ciascuno deâ quali farebbe onore alla stessa Roma; intendo dire del Duomo, del Battistero , del Campanile e del Camposanto.
Duomo di Pisa . â Quando uno vede la ricca e sublime facciata di questo tempio, e la trova distinta in cinque ordini di colonne con intagli squisiti di marmo; quando uno entra in chiesa e la vede scompartita in cinque navate sorrette da 58 colonne di granito, e di marmi fini con tale sveltezza di forme e squisitezza di lavoro, e quando specialmente uno pensa allâepoca in cui cotesto gran tempio fu edificato, quanto tempo vi sâimpiegò per compirlo, quale artista nazionale lo disegnò e lo diresse, non può fare a meno di stupire del coraggio, del valore e della potenza del popolo pietoso che lo innalzò, del merito originale dellâarchitetto che nella seconda metĂ del secolo XI lo disegnò, vale a dire in unâepoca nella quale i Pisani annunziarono i primi lâalba foriera alle belle arti da lunga etĂ abbrutite, e quasi spente in Italia.
Che lâarchitetto fosse nativo pisano e non come altri supposero dellâisole greche, lo dichiara per tutti un istrumento della Primaziale, rogato in Ripafratta nel di 2 dicembre dellâanno 1105 (stile pisano), nel quale Buschetto figlio del fu Giovanni giudice ĂŠ designato fra i 4 operai dellâopera del Duomo di Pisa, i di cui personaggi appellavansi Uberto, Leone, Signoretto e Buschetto. â (ARCH. DIPL. FIOR.. Carte della Primaziale di Pisa).
NĂŠ solo il novero degli artisti pisani di quella etĂ ĂŠ da limitarsi a Buschetto, tostochĂŠ contemporaneamente al duomo in Pisa si edificava la grandiosa chiesa di S. Paolo in Ripa dâArno, la cui facciata sorprende tuttora per la squisitezza, la varietĂ e la quantitĂ dei lavori di scultura e di ornato di cui ĂŠ fornita; e ciò nel tempo medesimo che sâinnalzavano le chiesa di S. Michele in Borgo, di S.
Margherita, di S. Matteo ec., per non dire di quella di S.
Piero in Grado fuori di Pisa; dondechĂŠ convien concludere che tanti lavori in un cosĂŹ breve periodo dovevano eseguirsi da molte mani e dirigersi da piĂš dâun maestro dâarchitettura e scultura.
Io non starò a intrattenere il lettore intorno al sublime edifizio del duomo di Pisa, poichĂŠ non vi è Guida, non vi è libro di belle arti italiane in cui non si trovi descritto e che non dia del suo interno e dellâesterno il disegno.
Meritano tuttavia sopra ognâaltra Guida di essere raccomandate quelle della Pisa illustrata del Morrona, e la descrizione storica e artistica di Pisa di recente pubblicata dal Grassi.
Dirò bensĂŹ che allâerezione della Primaziale contribuirono non tanto le ricche spoglie tolte dai Pisani ai Saraceni in Palermo, come ancora la munificenza dellâimperatore Arrigo IV e della potente marchese di Toscana, la contessa Matilde. â Ă un tempio a guisa di croce latina con piĂš ordini di colonne e sovrapposte gallerie, le quali formano una specie di loggiato intorno alla navata maggiore, che restò compito nel breve periodo di 56 anni.
â La sua lunghezza interna è di braccia toscane 162 e 1/2, la larghezza della crociata interna arriva a braccia 55 e 1/4, mentre lâaltezza della stessa navata ammonta a braccia toscane 57 e 1/2. Aggiungerò altresĂŹ, qualmente la facciata della Primaziale era adorna di tre porte di bronzo storiate, state fuse e distrutte dallâincendio del 25 ottobre 1595, le quali furono rifatte nel principio del secolo XVII sui disegni di Giovanni Bologna. Finalmente rammenterò che fu dallâoscillazione del lampadario di bronzo sospeso in mezzo a cotesta chiesa donde Galileo trovò la scoperta e dimostrò lâisocronismo nel moto dei pendoli.
Battistero di Pisa . â Non era che di pochi lustri compiuta cotesta Primaziale, quando i Pisani risolverono di erigere dirimpetto alla sua facciata una grandiosa rotonda con cupola per servire di battistero. Il qual edifizio per maestria e magnificenza di lavoro doveva sorpassare quanti altri in simil genere dai popoli cristiani erano stati fino allora a S. Giovanni Battista innalzati.
Fu dato lâincarico ad un architetto nazionale, Diotisalvi, che nellâagosto del 1152 (stile comune), ne gettò i fondamenti, a quello stesso Diotisalvi che disegnò la chiesa di S. Sepolcro in Chinsica nel quartiere dellâOltrarno di Pisa.
Se ignorasi lâepoca in cui il Battistero pisano fu terminato, è noto peraltro che la fabbrica dove sospendersi (non saprei dire a che punto) per lâesorbitanti spese che esigeva; alle quali però fu supplito mediante un volontario tributo deâcittadini.
Questa rotonda che si alza su di un basamento di tre scalini è repartita esternamente in tre ordini, nel primo deâquali girano 20 colonne, sui di cui capitelli voltano archi tondi intagliatissimi di marmo bianco. Ă cosa meravigliosa a dire come tutto questâordine fu eseguito nella prima metĂ del mese dâottobre dellâanno 1156, siccome fu scritto in un documento che dicesi del tempo.
Nel secondo ordine si contano 60 colonne piĂš piccole, staccate dalla parete per formare intorno un peristilio con capitelli e archi semicircolari, alternati da triangoli scorniciati di marmo lunense, ciascuno deâquali sorregge sulla punta superiore una statuina e nel centro una mezza figura piĂš grande, mentre nellâintervallo degli archi sorgono altrettanti tabernacoli fiancheggiati da due colonnine e terminati da tre sottili piramidi adorne di ribeschi e di delicatissimi intagli, il tutto di marmo di Carrara. Il terzâordine è scompartito in 18 pilastri alternanti con 20 finestre; sui quali sorgono deâ tabernacoli con tre colonnine che sorreggono altrettante piramidi, mentre sovrappone alle venti finestre un numero eguale di triangoli di marmo aventi in mezzo dei rosoni. â Da questo terzâordine staccasi la gran cupola formata a guisa di una pera che termina in un cupolino, sulla cui cima sorge una statuetta di bronzo rappresentante S.
Giovanni Battista.
La circonferenza esterna del Battistero, compreso lâimbasamento, è di braccia toscane 239; sopra lâimbasamento è di braccia toscane 195; lâaltezza totale della fabbrica, eccettuata la figura del Battista sulla cima del cupolino, ascende a braccia toscane 94.
Sebbene quattro porte scompartite in croce diano accesso al Battistero, una sola resta aperta (e non sempre), ed è quella dirimpetto alla facciata del duomo, la quale è anche la piĂš adorna di colonne, di bassorilievi, di lavori di ornato e di statue. Lâinterno del tempio ha nude pareti, divise in due ordini di architettura, il primo deâ quali è scompartito in 12 arcate a pieno sesto sostenute da otto grandi colonne e da quattro pilastri staccati dal muro.
Altro simile peristilio circonda la parte superiore del tempio, sopra il quale si alza la parete interna della cupola.
Nel mezzo della rotonda sorge il fonte battesimale di forma ottagonale intagliato di marmi; ma lâopera che richiama gli amatori del bello è il portentoso pulpito di Niccola Pisano. Questa composizione del secolo XIII, di forma esagona, della circonferenza di 14 braccia tutta di marmo statuario, è sorretta da nove colonne, alcune della quali premono il dorso ad animali feroci, o a figure umane insieme aggruppate. Dai capitelli delle sei colonne che formano le parti prominenti dellâopera esagona staccansi altrettanti archi, ciascuno dei quali è ornato di tre piccoli archetti con figurine scolpite in alto rilievo, mentre negli scompartimenti attornianti il parapetto veggonsi lavorate magistralmente 5 storie rappresentanti la nativitĂ del Salvatore, lâadorazione dei Magi, la presentazione al Tempio, la Crocifissione ed il Giudizio universale.
Quando Pisa non avesse altro da mostrare che il pulpito di Niccola consideratolo rispetto allâepoca in cui fu eseguito, si dirĂ sempre essere questo il piĂš felice slancio fatto dalla scultura nel suo risorgere in Italia; si dirĂ inoltre che il pulpito del Battistero pisano e quello del duomo di Siena meritano allâautore non chĂŠ alla sua patria il primato nelle tre arti sorelle, tosto che in Pisa nacquero e fiorirono quasi contemporaneamente un Niccola, un Giunta, un Buonanno.
Campanile pendente di Pisa . â Questa gran torre cilindrica fabbricata di marmo bianco e fasciata da 207 colonne, che sorreggono sette logge circolari; questa torre che a buon diritto è considerata fra i quattro piĂš insigni edifizi pisani nel medio evo, ha promosso sempre mai lo studio non meno che la curiositĂ di ogni classe di persone per la sua maravigliosa pendenza di braccia 7 e 1/2 in unâaltezza di braccia 93; talchĂŠ di prima giunta a chi vi passa vicino sembra che ad ogni istante sia per rovinare; nĂŠ saprei dire se fu ancora vinta la lite piĂš volte messa in campo sulla pendenza del campanile di Pisa; di crederla dovuta al caso piuttosto che allâarte; sicchĂŠ può dirsi di questa ciò che della torre mozza di Bologna diceva il sommo poeta nel Canto XXXI del suo Inferno: Quale pare a riguardar la Carisenda Sotto â l chinato, quando un nuvol vada Sovrâessa sĂŹ châella ân contrario penda.
Lascerò volentieri a giudici competenti la decisione sulla sua pendenza qualora non fosse decisa in ultima istanza, e solo mi limiterò a far poche parole degli artisti che la costruirono, resa anche piĂš celebre dal divino Galileo, quando egli dalla caduta deâgravi, cui per la sua pendenza la torre si presta, basò allâetĂ di 25 anni i fondamenti della dinamica.
Questo campanile per opera dellâarchitetto pisano Bonanno ebbe il suo principio nellâagosto del 1174 (stile comune), cioè 21 anni dopo la fondazione del battistero, e appena 76 anni dopo consacrata la Primaziale, ma sâignora lâepoca in cui restò terminato. Rispetto al suo primo architetto tutti convengono che fosse un maestro Bonanno cittadino pisano, ma non tutti ammettono che lâopera fosse incominciata pendente, per arte piuttosto che in seguito lo divenisse per avvallamento del suolo. Che se Bonanno fu solo a incominciarla altri maestri succederono a proseguire e a completare cotanta mole. Quando non lo dicessero i cronisti pisani e il Vasari, lo fa conoscere un documento inedito. I piĂš diedero per compagno a Bonanno un Guglielmo dâInspruck, o secondo altri un Giovanni Ennipontano tedesco, aggiungendovi anco un terzo artista in Tommaso figlio dello scultore Andrea Pisano, come quello che intorno alla metĂ del secolo XIV edificava nella torre pendente lâultimo ordine delle campane.
Che il campanile del duomo di Pisa continuasse a lavorarsi dopo la morte di Bonanno suo primo autore, e innanzi che nascesse Tommaso figlio dâAndrea Pisano, lo dichiara la protesta fatta nel 27 dicembre dellâanno 1233 (stile comune) da Benenato operajo dellâOpera del duomo di Pisa, quando egli nellâentrare in carica giurò di attendere alla riparazione della chiesa maggiore, e alla edificazione del suo campanile secondo la possibilitĂ e i mezzi della stessa Opera. â (ARCH. DIPL. FIOR. Carte della Primaziale).
E siccome tale promessa cadde 60 anni dopo principiata la torre in discorso, fia cosa facile a credere che lâedifizio stesso continuasse a fabbricarsi dopo il 1233 non piĂš dal primo autore, sivvero da altri architetti, come furono maestro Guglielmo dâInspruck o Giovanni Ennipontano tedesco, innanzi che nel secolo XIV un altro maestro nazionale, Tommaso dâAndrea Pisano, compisse lâopera.
Dimensioni diverse del Campanile pendente di Pisa.
Altezza del Campanile pendente, braccia 93 e 1/3 Circonferenza esterna alla base, braccia 83 e 2/7 Diametro interno del cilindro, allâingresso del campanile, braccia 12 e 3/5 Diametro interno nel restante del cilindro, braccia 13 e 1/4 Inclinazione esterna, braccia 7 e 2/3 Declinazione interna dalla linea perpendicolare, braccia 5 e 5/6 Larghezze varie del muro.
Alla sua base sopra terra, braccia 7 Al secondâordine, braccia 4 e 2/3 Al terzâordine, braccia 4 e 1/2 A tutti gli ordini superiori al terzo, braccia 4 e 1/4 Le 15 colonne del primâordine, alte braccia 13 e 1/2 sono addossate alla muraglia; le 30 colonne di ciascuno deâ sei ordini superiori (180 fra tutte) sono distaccate dal muro in guisa da formare altrettanti peristili passeggiabili. Si sale sino al settimo ordine per una scala di 293 gradini di marmo bianco, praticata nella grossezza del muro, al quale essa gira intorno a spirale.
Lâ8.vo ed ultimo ordine, circondato da 12 colonne con sei finestre grandi e sei piccole per le campane, è di un cerchio piĂš ristretto degli altri, talchĂŠ assai piĂš largo è il suo peristilio difeso da una ringhiera. Una scaletta di 37 scalini pure di marmo bianco conduce alla sommitĂ della terrazza del Campanile, anchâessa riparata intorno da un terrazzino di ferro al pari di quello dellâordine sottostante delle campane.
Camposanto pisano. â Se le tre fabbriche testĂŠ designate dimostrano a chiare note lâopulenza; la grandezza dâanimo e il valore dei Pisani sino dai primi secoli dopo il mille, questa del Camposanto, destinata a conservare le ceneri deâcittadini piĂš benemeriti della patria, a costituire il Panteon degli uomini piĂš illustri pisani; questâopera principiata nel secolo XIII si lascia indietro tutte le altre di simil fatta. â Non credo vi sia persona, la quale allâentrare in cotesto silenzioso recinto della morte non si senta rapita da una specie di estasi sublime, e a un tempo stesso da profonda ammirazione nel contemplare lâoriginalitĂ , la simmetria, lâalto scopo dellâopera, le varie bellezze artistiche e le tante raritĂ archeologiche delle quali trovasi decorata. DondechĂŠ il Prof. Rosini ebbe ragione a riferire, che il Camposanto di Pisa è il testimonio dellâarchitettura nel suo rinascimento, oltre che esso offre nelle sue grandiose pareti la storia della pittura nei secoli XIV e XV, dovendolo anche riguardare qual galleria di bassorilievi antichi nei numerosi sarcofagi ivi trasportati; molti deâ quali servirono di modello e di eccitamento a Niccola, a Giovanni e ad Andrea, tre scultori pisani superiori a tutti i loro contemporanei, che possono dirsi i veri precursori di Donatello, del Ghiberti e del Buonarroti.
Per due porte sâapre lâingresso allâedifizio, una delle quali sopra lâarchitrave è terminata da una tabernacolo di marmo con sei statue lavorate da Giovanni Pisano; lâarchitetto della fabbrica. Questa opera però quantunque fossero stati gettati i fondamenti nel 1278 secondo un iscrizione interna, non sembra che restasse compita prima dellâanno 1464.
GiĂ ho detto di sopra che la Repubblica pisana fino al 1200 aveva ideato di edificare un camposanto urbano degno di ricevere la terra portata dal monte Calvario; ma la sua esecuzione restò per allora nel desiderio, comecchĂŠ si sappia essere stato cinque lustri innanzi il 1200 dal potestĂ di Pisa progettato agli Anziani del Comune lâerezione di un camposanto presso la Primaziale, al qual uopo egli proponeva di chiedere al capitolo ed allâarcivescovo una porzione di orto del palazzo arcivescovile per fabbricarvelo.
Rispetto a quello che ora si ammira presso la chiesa Primaziale, nulla di piĂš semplice e di piĂš austero poteva immaginarsi dellâesterna sua architettura, nulla di piĂš nobile e di maggiore armonia della interna sua struttura, costĂ dove si veggono riunite leggerezza, uniformitĂ , buon gusto e delicatezza di lavoro, tanto nel pavimento a disegno, come neâpilastri e nei finestroni, i quali ultimi, uno a contatto dellâaltro, sono adorni di colonnine a spirale sostenenti graziosi archetti di stile gotico italiano, e che girano intorno al claustro interno rettangolare.
Eccone le varie misure interne.
La sua lunghezza, braccia 217 La larghezza, braccia 72 Lâaltezza dal piano alla soffitta, braccia 24 Il giro totale, braccia 578 La larghezza deâcorridori, braccia 18 Imponente quanto bella e semplice è la gran tettoia a cavalletti che sorregge la lacunare difeso da lastre di piombo. Ma soprattutto mirabili sono le pitture dei vecchi maestri che da capo a fondo ricuoprono le interne pareti, massime dove lavorarono Giotto, Orgagna e Benozzo Gozzoli fiorentini, Spinello aretino, Simone Memmi e Pietro Laurati sanesi. Le quali pitture furono con giudizio artistico descritte dal Prof. Rosini in un opuscolo piĂš volte ristampato unitamente allâindicazione deâmonumenti di scultura che per cura del Prof. Carlo Lasinio, zelantissimo conservatore, adornano a guisa di unâinsigne galleria questo sacro edifizio.
Chiesa di S. Paolo a Ripa dâArno. â Fra le piĂš belle chiese antiche che figurano in Pisa dopo i quattro monumenti qui sopra descritti, viene immediatamente questa di S. Paolo a Ripa dâArno. ImperocchĂŠ la sua architettura tanto interna quanto esterna ci richiama al secolo XI. Infatti essa era giĂ uffiziata, e lâannesso monastero nel principio del secolo XII abitato dai monaci Vallombrosani, siccome lo dimostrava il Pontefice Pasquale II in una bolla del 9 febbrajo 1115 a favore della Congregazione di Vallombrosa; alla quale appartennero la chiesa di S. Paolo a Ripa dâArno ed il monastero con i molti suoi beni fino allâanno 1565.
Cotesta chiesa, vasta anzi che no, disposta in croce latina, è ripartita in tre navate con colonne di granito orientale e capitelli variati di marmo, su cui posano archi a sesto intero, mentre le pareti, state già ornate di antiche pitture da Buffalmacco, da Cimabue, da Simone Memmi e da altri venerati maestri, furono ricoperte e deturpate con piÚ pennellate di calcina da imbianchini.
Nellâinterna facciata dalla parte destra entrando esiste unâiscrizione onorevole che i pisani misero al sepolcro del celebre loro concittadino Burgundio, morto lĂŹ 30 ottobre del 1194 (stile pisano), mentre il sarcofago che racchiudeva le sue ossa è rimasto abbandonato fuori della porta di fianco di cotesta chiesa.
Ma il piĂš bel lavoro apparisce meglio che altrove nella facciata stata scompartita sino dalla sua origine in quattro ordini nella parte di mezzo e in due ordini nelle sue fiancate.
A ben considerare la varietĂ deâmembri architettonici ivi esistenti; la forma e varietĂ degli archi, alcuni deâ quali a sesto intero ed altri a sesto semi acuto; a contemplare la diversitĂ del disegno del lavoro, dove piĂš dove meno squisito, sia negli ornati, come nelle cornici, neâfogliami e neâcapitelli, a riguardare cotanta bizzarria e varietĂ neâbassorilievi; tutto induce a credere che mo lti e di vario merito siano stati gli artisti che in cotesta facciata contemporaneamente si adoperavano quando ancora le arti belle profondi sonni fuori di Pisa dormivano.
Chiesa della Spina. â Questa chiesina è un gioiello che fa graziosa mostra di sĂŠ appena si passeggia nei grandiosi Lungarni di Pisa, giacchĂŠ ti sembra di vedere quasi un modellino di un gran chiesone qualâè il duomo di Milano, per le tante gugliette, tabernacoli, statuine, ed altri minuti e squisiti lavori di marmo che da cima a fondo ornano lâesterna fabbrica e specialmente la sommitĂ della facciata e delle sue pareti laterali.
Un oratorio anche piĂš piccolo esisteva costĂŹ quando nel 1323 la stessa chiesina, per deliberazione degli Anziani di Pisa suoi patroni, fu ingrandita con estenderne i suoi fondamenti fino alle logge deâGualandi per una lunghezza di 18 pertiche. Allora essa chiesa appellavasi di S. Maria del Ponte nuovo, perchĂŠ ivi presso esisteva un ponte, portato via da una piena dellâArno nel secolo XIV avanzato.
Qualche tempo dopo caduto il Ponte nuovo la stessa chesina prese il titolo di S. Maria della Spina per esservi stato riposto un frammento della Corona di spine del SS.
Redentore.
Bisogna convenire col Morrona dicendo che questa chiesuola è il piÚ bel monumento che fino ai giorni nostri si conservi in Italia in simil genere di architettura, la quale ripetuta assai piÚ in grande si ammira nel magnifico duomo di Milano eretto dal duca Giovanni Galeazzo Visconti nel tempo che fu signore di Pisa, dove da gran tempo innanzi esistevano due bellissimi esemplari, come sono il Battistero e la chiesa della Spina.
Lascio la descrizione dettagliata di questâultima e di tante altre chiese meritevoli di essere contemplate in questa cittĂ , come quella di S. Niccola per lâarte con cui è costruita la scala di quel campanile, la chiesa di S.
Francesco per la sua forma svelta e lâarco arditissimo di 30 braccia di corda che si alza nellâinterna crociata, non che per lâalto suo campanile, la metĂ del quale posa sopra due mensoloni sporgendi in un angolo del cappellone a destra della chiesa medesima, per i due grandiosi ed uniformi loggiati dellâannesso claustro per essere qui i sepolcri delle famiglie piĂš cospicue di Pisa. CosĂŹ lascerò le chiese di S. Michele in Borgo, di S. Caterina, e tante altre del medio evo, perchĂŠ la loro descrizione non è da richiedersi in questâopera nĂŠ da me, tostochĂŠ ognuno che il voglia può esserne istruito dal viaggio pittorico della Toscana del Fontani, dalla Pisa illustrata del Morrona e dalla descrizione artistica di Pisa del Grassi, tutti libri raccomandabili a chi brama conoscere meglio le opere di arti e gli edifizi piĂš belle di questa insigne cittĂ .
Altri edifizi piĂš segnalati di Pisa . â Non si può lasciare questa cittĂ senza rammentare i suoi impareggiabili Lungarni, i tre ponti che li attraversano, alcuni palazzi che li fiancheggiano, il luogo dove fu lâarsenale delle galere, la cittadella vecchia ecc. Quindi aggiungere una parola sulle sontuose fabbriche che adornano la piazza deâCavalieri, sulle pubbliche fonti di Pisa che ricevono dai lunghi acquedotti di Asciano acque saluberrime per tutta la cittĂ .
Ponti di Pisa . â Un ponte solo, quello di mezzo, anticamente cavalcava lâArno dentro Pisa, che a similitudine del ponte vecchio di Firenze sosteneva ed era fiancheggiato da botteghe di proprietĂ del Comune. Si disse anche questo di Pisa Ponte vecchio dopo costruito il secondo ponte allâingresso orientale dellâArno; il qual ponte coincide allâepoca della vittoria riportata dai Ghibellini nei campi di Montaperto. Si vuole che del secondo ponte facesse gettare le pile il ricco Ugone da Fasiano arcivescovo di Nicosia, fondatore del priorato di Nicosia nella valle di Calci. Presso al ponte stesso fu piĂš tardi edificata dai Fiorentini la Cittadella nuova, stata atterrata sul declinare del millesettecento, dopo aver dato al ponte il nome che porta tuttora di Ponte alla fortezza .
A questo al pari che allâaltro ponte vecchio neâtempi della repubblica pisana presedeva un personaggio distinto della cittĂ , sotto il titolo di pontonario, il quale amministrava i beni e riscuoteva lâentrate assegnate in dote a ciascuno di quei ponti, siccome apparisce da varie provvisioni degli Anziani, e dagli statuti del Comune di Pisa dellâanno 1286.
ComecchĂŠ la Cittadella nuova di Pisa fosse compita da Giuliano di Sangallo che ne diresse i lavori fra il 1509 e 1512, essa peraltro era in costruzione molti anni prima, poichĂŠ la Signoria di Firenze con provvisione del dĂŹ 8 novembre 1465 ordinò agli uffiziali del Canale di spendere tutti i denari che riscuotevano di gabella nella riparazione della rocca vecchia e di quella nuova di Livorno, e nelle torri fatte nel Porto Pisano e in quella della foce dâArno; e di poi che dovessero far compiere la Cittadella nuova di Pisa con le sue torri in modo da poterla ben difendere e guardare.
Arroge a ciò unâaltra provvisione della Signoria del 16 febbrajo 1471 (stile fiorentino) colla quale fu nominato maestro Lorenzo figlio di maestro Domenico da Firenze in capo maestro della Cittadella nuova di Pisa per provvedere e assistere agli edifizj che ivi erano da farsi. â (GAYE, Carteggio inedito di Artisti. Volume I.
Appendice II).
Ma la notizia da non omettersi è che poco dopo costruito il Ponte nuovo della Spina venne a farsi a traverso dellâArno, e quasi nel centro della cittĂ un terzo ponte sotto la chiesa, che poi si disse della Spina; il quale pur esso fu appellato Ponte nuovo. Infatti negli statuti pisani del 1286 al Lib. IV rubrica undici si rammentano entrambi, cioè, il Ponte nuovo della Spina e lâaltro Ponte nuovo che sino dâallora esisteva dirimpetto alla Via maggiore di S. Maria, e lâaltra di S. Antonio nellâOltrarno.
A qual epoca poi si fabbricasse lâultimo ponte di Pisa, quello cioè fra la Cittadella vecchia e la Porta a mare, non potrei accertarlo, quando non corrispondesse al ponte che nel 1331 fu edificato sotto il capitanato del Conte Fazio della Gherardesca, mentre Arrigo Dandolo di Venezia esercitava lâuffizio di potestĂ di Pisa. Al che gioverebbero le parole del Vasari dove dice, che il Ponte a mare un secolo dopo la sua costruzione venne restaurato da Filippo di Brunellesco per ordine della Signoria di Firenze.
Forse fu in quella circostanza che i provveditori del Comune di Pisa pel Comune di Firenze con provvisione del 10 aprile 1408 deliberarono di comprare dalle monache di Tutti i Santi, venute dal subborgo di Pisa ad abitare nel monastero e chiesa di S. Vito, tutti i mattoni dellâantica loro chiesa, monastero e case che furono atterrate e distrutte in tempo dellâassedio, per servire quei mattoni alla fabbrica dei fortilizj della Cittadella che si edificava dentro Pisa. â (ARCH. FIOR. DIPL. Carte del Mon. di S. Lorenzo alla Rivolta).
Il Ponte vecchio o di mezzo , famoso per il giuoco denominato del Ponte, perchĂŠ sopra di esso eseguivasi ogni triennio una lotta che era piĂš guerra che un giuoco non solo è il piĂš antico ponte, ma ancora il piĂš largo di tutti. Esso riposa sopra tre soli archi, mentre quello superiore della Fortezza ne ha quattro e il Ponte a mare cinque. â Si vuole che il Ponte vecchio fosse eretto la prima volta nellâanno 1040, poi rifatto nel 1261 con botteghe di legno sopra, finchĂŠ quelle taberne nel 1382 vennero disfatte quando il ponte per ordine di Piero Gambacorti fu restaurato e abbellito. Ma nel 1635 essendo caduto in Arno, fu riedificato nel 1640 con inusitato ardire ad un solo arco, il quale rovinò appena fu liberato dallâarmatura (1 gennajo 1644). Finalmente il ponte attuale di marmo devesi alla munificenza del Granduca Ferdinando II che ne affidò lâesecuzione allâingegnere dellâUffizio deâFossi Francesco Nave.
E specialmente sul Ponte di mezzo dove chi passa resta sorpreso alla vista dei bellissimi Lungarni pisani, e piĂš ancora quando da cotesto ponte si contempla la triennale luminara di Pisa nella notte del 16 al 17 giugno. Fanno al medesimo un bel corredo, alla coscia meridionale, le grandiose Logge di Banchi, le quali stanno in mezzo allâantico palazzo deâGambacorti, ridotto ad uso di dogana, alla pubblica torre ed al palazzo del governo, stato con magnificenza riedificato sopra due antichi palazzi, municipale e pretorio, col disegno del valente architetto pisano Alessandro Gherardesca; mentre dirimpetto alla coscia settentrionale dello stesso ponte apresi la principale strada di Pisa, quella del Borgo con i suoi portici, e presentasi ad esso di fronte col palazzo del Casino la piazza piĂš animata di Pisa, la quale fino dal secolo XIII portava il nome del Ponte, dove anco allora si adunavano gli oziosi artigiani ed il minuto popolo, siccome lo dichiarano gli statuti del Comune di Pisa del 1286 al Lib. IV rubrica 30. De Salariis magistrorum etc.
in cui si legge: Et quando habent laborerium (gli artigiani) non debeant ire ad Pontem veterem.
Edifizj pubblici intorno alla piaza deâCavalieri. â Dopo la piazza del Duomo, dopo i Lungarni di Pisa, per bellezza e per magnificenza viene la piazza deâCavalieri, artisticamente e storicamente descritta dal Morrona e dal Grassi. Questâultimo autore non solo ha rappresentato in disegno la piazza moderna, ma ancora quella piĂš antica degli Anziani colla Torre della Fame , giĂ deâGualandi alle Sette vie, torre infausta perchĂŠ servĂŹ di carcere e di tomba al conte Ugolino di Donoratico, a due figli e a due nipoti.
Ă fama che la torre predetta esistesse accosto allâarco sotto cui passa la strada che guida al Duomo, attualmente disfatta ed incorporata nel palazzotto dellâorologio.
Dicevasi delle Sette vie, forse dal numero delle strade che facevano capo in questa piazza; giacchĂŠ può dirsi costĂ il centro della vecchia cittĂ di Pisa, lâantico suo foro, fra le fabbriche maggiori degli uffizi pubblici dovâera il palazzo degli Anziani. Questâultimo però al tempo del conte Ugolino apparteneva alla casa di Oddone del Pace e consorti, tostochè piĂš dâun istrumento dellâarchivio Arcivescovile pisano dellâanno 1280 fu rogato in Pisa in domo Oddonis Pacis et consortum, in qua morantur Antiani populi pisani. Quindi non saprei spiegare come Vasari potĂŠ attribuire lâarchitettura del palazzo degli Anziani a Niccola Pisano, tosto che questâartista morĂŹ nel 1275. Comunque sia è certo, che Vasari fu lâautore del palazzo Conventuale deâCavalieri di S. Stefano, rifatto su quello degli Anziani, o di Oddone del Pace. Da cotesta residenza però era alquanto discosto il palazzo del PotestĂ , quello dove furono presi nel dĂŹ primo luglio del 1288 i cinque infelici individui di casa Gherardesca, poichĂŠ il palazzo pretorio trovavasi nella piazza di S.
Ambrogio; la qual chiesa serve attualmente per officina di falegname nella piazzetta del Castelletto precisamente dove è attualmente il Monte di PietĂ , mentre il palazzo degli Anziani, ossia del Comune di Pisa era nella piazza di S. Sebastiano delle fabbriche maggiori, nel luogo della qual chiesa fu fondata per ordine di Cosimo I quella conventuale deâCavalieri di S. Stefano papa e martire.
Rispetto ai pregi di questâultimo tempio, ed alle artistiche sue raritĂ ne parlarono a lungo il Vasari, il Baldinucci e piĂš di corto i due autori pisani testĂŠ nominati, cui si deve ancora al descrizione speciale degli altri edifizi destinati al servizio di quellâordine cavalleresco, che mostrano la grandezza dellâoggetto e la magnificenza di chi li ordinò.
Palazzo deâGranduchi, ed altri edificj pubblici di Ferdinando I. â Se Cosimo I fissò in Pisa la sede dellâordine militare deâCavalieri di S. Stefano collâinnalzare nella piazza di questo nome superbi palazzi e una chiesa sontuosa, il di lui figlio e successore, Ferdinando I, non solo incoraggiò il commercio deâPisani ristabilendo fiere e mercati, ma abbellĂŹ la cittĂ di sontuosi edifizj e di monumenti insigni. Citerò fra questi il grandioso collegio che tuttora mantiene il suo nome, i varj palazzi e la chiesa che fece terminare nella piazza deâCavalieri, la Loggia di Banchi o deâMercanti ed il palazzo granducale. Per ordine di Ferdinando I fu aperto il fosso deâNavicelli fra Pisa e Livorno, furono incominciati gli acquedotti che portano alla cittĂ salubri acque dalle sorgenti di Asciano, talchĂŠ i Pisani riconoscenti innalzarono a Ferdinando I un monumento sulla ripa destra dellâArno dirimpetto allo sbocco di via S. Maria, consistente in un gruppo di marmo rappresentante la cittĂ medesime sotto lâallegoria della feconditĂ nellâatto di essere sollevata dal Granduca suo benefattore. â Mossi da un simile scopo i Pisani moderni hanno provocato un appello agli uomini sensibili toscani ed Europei, i quali devoti e riconoscenti corsero per contribuire volenterosi alla spesa di una statua colossale di marmo da scolpirsi dallâabile artista Pampaloni e quindi innalzarsi, come è accaduto nel 1833, in una delle piĂš grandi piazze di Pisa col semplice, nobile e veridico titolo, come è questo: AL GRANDUCA PIETRO LEOPOLDO I QUARANTâANNI DOPO LA SUA MORTE.
Sebbene debbasi a Cosimo I lâidea ed il principio dellâarsenale Mediceo eseguito col disegno del Bontalenti nel Lungarno settentrionale pure un grande arsenale ivi esisteva fino dai tempi presso la chiesa di S. Vito, e quello che ora si vede fu terminato dal Granduca Ferdinando I, nellâanno 1588, primo del suo governo. Sopra sei o sette pilastri che sorreggono le arcate, in origine aperte, si leggono tuttora le memorie di alcuni fatti gloriosi spettanti ai Cavalieri di S. Stefano.
Dissi questâarsenale fabbricato nel luogo dove fu quello piĂš antico per lo stesso uso dai Pisani chiamato Tersana, mentre Targioni al Tomo II deâ suoi Viaggi pag. 53, fra i ricordi da lui trovati in un codice a Pisa lesse il seguente: Al 29 maggio 1541, Cosimo I diede ordine di assettare le Tersonaje (Tersana) a S. Vito dicendosi di voler fare le galere, e nel 1548 fu messa in mare la prima galera.
Infatti negli statuti deâ consoli della Repubblica Pisana del 1162 trattasi del sindacato da darsi ai consoli vecchi, ai camarlinghi, ai vigili del Comune, agli operai e maestri deâmuri, al custode della guardia di S. Vito, ed ai consoli del mare, i quali ultimi a quel tempo erano obbligati di far costruire ognâanno venti galere.
A questa Tersana (arsenale delle galere di Pisa) appella una provvisione deâSignori di Firenze del dĂŹ 8 novembre 1465 che ordinava agli uffiziali del Canale di far acconciare la cittadella vecchia di Pisa e le sue torri ad uso di Arsana o arsenale, soggiungendo ivi: e questo debbano aver fatto dentro lâanno 1467.
I quali lavori non essendo rimasti compiti al termine prescritto, con altra provvisione del 30 settembre 1468 fu ordinato, di dar compimento allâArsana di Pisa affinchĂŠ in essa si conservino le galere. Dalla qual provvisione si rileva che erano stati fatti nove archi dellâArsenale per mettervi al coperto altrettante galere, oltre dieci legni sottili giĂ terminati, mentre il lavoro di altre quattro galere era molto avanzato; le quali cose fu decretato che restassero compite dentro il mese di luglio 1469. â (GAYE, Carteggio inedito di Artisti Tomo I Appendice II).
Fra le opere di architettura non deve passarsi sotto silenzio la gran fabbrica del Sostegno innalzata presso la coscia sinistra del Ponte a Mare, lĂ dove entrano i navicelli nel fosso artificiale per trasportare le merci a Livorno e viceversa, opera ordinata dal Granduca Pietro Leopoldo insieme con la ricostruzione della tettoja affinchĂŠ le barche vi stassero al coperto.
Ma innanzi di escire dai Lungarni di Pisa, fra i palazzi che lâadornano, e che specialmente richiamano la curiositĂ del viaggiatore, non va lasciato il palazzo Medici presso S.
Matteo, ora del conte Pieracchi, prima abitazione di Cosimo I, dove gli storici dicono che accadesse la morte di don Garzia per mano dello stesso suo padre e dove alloggiò Carlo VIII re di Francia. NĂŠ debbono tacersi per merito architettonico il palazzo Lanfranchi, ora Toscanelli, e quello delle stanze Civiche al caffè dellâUssero per gusto di stile del secolo XV. Contasi pure fra le curiositĂ il palazzo di marmo deâLanfreducci, ora Upezzinghi, fatto colla direzione di Cosimo Pagliani, dove sopra lâarco della porta maggiore havvi un pezzo di catena, e nellâarchitrave scolpita a lettere cubitali la parola ÂŤALLA GIORNATAÂť. Rispetto alla catena è noto solamente che nel palazzo suddetto fu incorporata la chiesa di S. Biagio alle Catene di padronato della famiglia Lanfreducci. In quanto poi al motto ALLA GIORNATA non vi è tradizione nĂŠ memoria alcuna che ne indichi la ragione.
Non lascerò di accennare il grandioso palazzo arcivescovile riedificato di pianta presso lâantico episcopio sulla fine del secolo XVI dallâarcivescovo Carlo Antonio del Pozzo, accresciuto e decorato due secoli dopo dallâarcivescovo Angelo Franceschi, e sontuosamente addobbato dallâattuale arcivescovo Giovanni Battista Parretti. Mi limiterò soltanto a dire che nelle stanze terrene del suo grandioso cortile, circondato di un loggiato sorretto da colonne di marmo di Carrara, esiste il ricco archivio arcivescovile fornito di quasi 3000 pergamene, a partire dallâanno 720 fino al secolo XV avanzato, tutte cronologicamente disposte e copiate in varj volumi, con piĂš una riunione di molte altre membrane appartenute al monastero di S. Matteo di Pisa, e a piĂš conventi dâaltri paesi della Toscana.
ISTITUTI DI BENEFICENZA Pia Casa della Misericordia. â Pisa anche in genere di provvedimenti caritatevoli precedĂŠ le piĂš illustri cittĂ , se è vero che lâistituzione di cotesta pia Casa risalga allâanno 1053, comecchè non basti a provarlo una copia non molto antica dellâistrumento di sua fondazione, che ivi si tiene in mostra, e che attribuisce la prima fondazione e dotazione della stessa Casa a 12 generosi pisani stati eletti tre per ogni quartiere, segnati coi casati della famiglie, quando la cittĂ era ripartita per Porte, e quando non si era ancora introdotto lâuso deâcasati.
ChecchĂŠ sia, giova senza fallo cotestâistituto per far conoscere lâindole pia e caritatevole dei suoi fondatori e lo scopo generoso col quale in origine fu eretto, cioè, pel riscatto degli schiavi e per sovvenire le famiglie vergognose. Ma in progresso di tempo il suo patrimonio essendo stato accresciuto per generositĂ di nobili pisani, e specialmente per la vistosa donazione fatta nel 1341 dal conte Bonifazio della Gherardesca, la pia Casa della Misericordia potĂŠ estendere le sue beneficenze sopra molte altre opere misericordiose, fra le quali quella che tuttora si pratica di dotare proporzionatamente alla nascita e al destino non poche fanciulle spettanti a povere famiglie nobili o cittadine. â Vedere CASTELNUOVO DELLA MISERICORDIA.
A benefizio pure dei poveri da tre altri generosi cittadini pisani nel secolo XVII furono lasciati considerevoli legati sotto i nomi deâloro fondatori, Mezzanotte, Casiani, e Fancelli , coi frutti deâquali fra le altre cose si dotano ognâanno circa 80 oneste fanciulle.
Spedale di S. Chiara, giĂ della Misericordia di S. Spirito.
â Molti erano in Pis a ma tutti piccoli gli ospedali annessi a varie chiese innanzi che il Pontefice Alessandro IV nel 1257 accordasse ai Pisani lâassoluzione delle censure a condizione che fondassero un vasto ospedale da doversi terminare nel corso di cinque anni con la spesa di diecimila lire. DondechĂŠ appena eseguita cotesta fabbrica, le si diede il nome di Spedale nuovo di Papa Alessandro, poi della Misericordia di S. Spirito , ed ora dalla sua chiesa, di S. Chiara .
Vi vollero però circa 80 anni innanzi che lo spedale in dis corso restasse ultimato. In seguito il suo patrimonio fu accresciuto da legati pii e dalle rendite di minori spedali riuniti, nonchĂŠ dai beni di molte chiese e monasteri soppressi. Sul declinare del secolo XVIII furono sottoposti a quello di S. Chiara lo spedale deâ Trovatelli e lâannessa casa di Refugio deâpoveri. Ed ora per munificenza del Granduca LEOPOLDO II felicemente regnante, non solo ne è stata aumentata la dote, ma fu ampliata lâinfermeria degli uomini, edificata una nuova per le donne, e costruito un comodo teatro anatomico con annesso gabinetto fisico patologico.
Rispetto allo spedale deglâInnocenti, ossia deâTrovatelli, due ne esistevano in Pisa, uno sotto il titolo di S.
Domenico fondato nel 1218 nella via di S. Lorenzo alla Rivolta, lâaltro intitolato a S. Spirito nel quartiere di Chinsica, cui venne incorporato il primo per decreto arcivescovile del 26 settembre 1323 (stile pisano), finchĂŠ nel 1421 questâultimo fu traslocato vicino alla piazza del Duomo, presso la chiesa di S. Giorgio di Ponte o deâTedeschi, dove tuttora risiede.
La casa poi di Refugio per i poveri fu instituita ed aperta per cura del Granduca Pietro Leopoldo in origine nel soppresso monastero delle Convertite, quindi trasportata nel locale annesso allo spedale dei Trovatelli.
Non debbo omettere fra i pii stabilimenti di caritĂ due Orfanotrofi, uno pei maschi e lâaltro destinato alle femmine, col nome di pia Casa di CaritĂ , i quali furono fondati nel 1686, e sono mantenuti da una generosa societĂ di cittadini. Rammenterò anche la compagnia della Misericordia modellata in gran parte su quella caritatevolissima di Firenze. Accennerò il Monte di PietĂ fondato nel 1434 nel locale dove fu il palazzo pretorio della repubblica pisana, in luogo ora denominato il Castelletto. â A questi stabilimenti di pubblica beneficenza si collega una scuola infantile per i poverelli, la quale fu la prima di tutte che si eresse di simil genere in Toscana, cui si potrebbe aggiungere una scuola di reciproco insegnamento ed un istituto pei sordo muti fondato dal Granduca Ferdinando III nel 1817, aumentato e migliorato dallâAugusto suo figlio regnante LEOPOLDO II. Ma cotesti due ultimi istituti si collegano cotanto strettamente con quelli dâistruzione pubblica da doverli piuttosto ammettere nella serie seguente.
Stabilimenti dâistruzione pubblica â Pisa anche in questo rapporto potrebbe essere lâAtene della Toscana, quante volte si considerino le dovizie che racchiudonsi neâsuoi archivj pubblici, come quello arcivescovile, del capitolo, dellâopera del Duomo, dello spedale, della pia casa di Misericordia, oltre gli archivj di molte famiglie cospicue di Pisa, fra i quali doviziosissimo è quello del Cavaliere Roncioni; e quante volte si contemplino i molti vetusti monumenti di belle arti che costĂ in maggior nume ro che altrove si ritrovano; infine quando uno riflette ai comodi che presta Pisa agli studiosi con la sua universitĂ per il merito deâprofessori, per lâabbondanza di libri, di macchine e di esemplari esistenti nella pubblica biblioteca, nellâanfiteatro fisico, nel museo di storia naturale e nellâorto botanico.
Ammesso che Pisa sino dal secolo XII avesse un pubblico liceo, specialmente per le scuole di diritto umano e divino, ciò non ostante la prima instituzione, piuttosto che la restaurazione della sua universitĂ , devesi al conte Bonifazio Novello della Gherardesca nel tempo che reggeva Pisa (dallâanno 1329 al 1341). ImperocchĂŠ ad intuito di lui furono invitati al nuovo ginnasio i professori piĂš distinti di quel tempo; e fu allora che il concorso di studenti da varie parti di Europa accrebbe gente e celebritĂ alla cittĂ di Pisa, a favore della quale il Pontefice Clemente VI spedĂŹ una bolla nel 1345 che approvava e privilegiava cotesto santuario delle scienze. â Ma il ginnasio pisano, oltrechĂŠ mancava di un locale capace a riunire insieme un maggior numero di scuole, per la fortuna deâtempi andò talmente decadendo, dopo la dedizione di Pisa a Firenze, che i reggitori di questâultima cittĂ si determinarono di restituire alla prima la sua universitĂ . A tale effetto fu creata una deputazione di quattro distinti fiorentini, uno per quartiere, presieduti da Lorenzo deâ Medici, sotto il titolo di uffiziali dello studio fiorentino e pisano, incaricati specialmente di riattivare con decoro lâuniversitĂ di Pisa. A favore della quale i deputati a ciò nominati nel 1478 riformarono gli statuti dellâantico ginnasio, aumentarono i salari ai professori, chiamando a Pisa i piĂš famigerati dottori di quella etĂ ; finalmente diedero principio allâedifizio della Sapienza (anno 1493) stato poi nel 1543 grandiosamente da Cosimo I deâ Medici ampliato di comodi, di cattedre, e di onorari.
Fu poi sotto i fausti auspici di Leopoldo II che videsi innalzato nel centro del suo cortile il simulacro di marmo del divino Galileo nel giorno medesimo (1 ottobre 1839) che si apriva nella Sapienza pisana il primo congresso degli scienziati in Italia, grazie alla Sapienza e magnanimitĂ di tanto Principe.
Nulla dirò del Collegio Ferdinando istituito nel 1595 dal primo Granduca di quel nome per raccogliervi 40 studenti pensionati da varie cittĂ e terre della Toscana; nĂŠ tampoco parlerò degli altri due collegj Puteano e Ricci, fondati da due arcivescovi, il primo per mantenere otto alunni del Piemonte, lâaltro per altrettanti giovani di Montepulciano che venissero eletti per recarsi a studio in Pisa. â NĂŠ tampoco farò menzione di unâaccademia poetica sotto il titolo di Colonia Alfea, figlia dellâArcadia di Roma, giacchĂŠ la mania deâversi ha ceduto il posto alla mania del romanticismo.
Accademia di belle arti. â Era troppo giusto che una cittĂ come Pisa stata sede primigenia delle Belle arti, alla nostra etĂ avesse uno studio pubblico di disegno. Che sebbene questo nei secoli trapassati mancasse ai Pisani, sebbene lâattuale nato con modesti principj conti pochi anni di vita, pure lâaccademia delle Belle arti di Pisa progredisce tanto bene da correre giĂ in seconda linea con i primarj istituti di simil genere che da lungo tempo contano varie cittĂ cospicue dellâItalia.
Industrie manifatturiere della cittĂ di Pisa. â I Pisani sotto il felice governo dellâAugusto che regge i destini della Toscana hanno progredito talmente sotto il rapporto degli stabilimenti manifatturieri, che dal 1828 fino al 1841 sono state erette undici fabbriche di tessuti di cotone, lana e seta dove si trovano 348 telaj che lavorano quotidianamente e producono braccia 9.599.000 di drappi di varia qualitĂ , senza dire che una grandiosa stamperia dâindiane allâuso di Svizzera eretta nel 1827 ai Bagni di Pisa stampa da circa 10.000 pezze lâanno; che una manifattura di berretti e una filanda di lana messa in attivitĂ nel 1828 a Calci produce circa libbre 80.000 di lavoro; che due fabbriche di Terraglie esistono nel subborgo di Porta alle Piagge, e che una sega a macchina fu eretta nel 1831 dentro Pisa. Solamente giova avvisare che cotesti stabilimenti opificiarj danno lavoro ad un migliajo di persone deâdue sessi, e che mettono in giro nel commercio qualche milione di lire per anno.
CERCHI DIVERSI DELLA CITTAâ DI PISA Il giro piĂš antico di questa cittĂ può dirsi perduto nei monumenti storici, giacchĂŠ quello esistito intorno al mille, prima cioè che si racchiudesse in cittĂ il quartiere di Oltrarno, ossia di Chinsica, non sembra corrispondere alla situazione geografica dellâAntioca Alfea, nĂŠ alle memorie superstiti del secolo undecimo, le quali rammentano due luoghi della cittĂ vecchia allora fuori delle mura del secondo cerchio di Pisa.
Fino dalla prima pagina dellâarticolo presente dissi, che, se la posizione geografica di Pisa è appena variata da quella deâtempi vetusti, essa è molto diversa oggidĂŹ rispetto alla corografia del suolo sul quale riposa.
AvvegnachĂŠ la situazione attuale di questa cittĂ non corrisponde a quella descrittaci da Strabone e da Rutilio Namaziano, quando cioè, lâArno dalla parte meridionale, e lâAuxer (il Serchio, o piuttosto lâOseri) dalla parte settentrionale lambivano le mura innanzi che essi confluissero in un solo letto. Quindi ne conseguiva che Pisa essendo stata fiancheggiata, e quasi circondata da due fiumi, presentare doveva la sua fronte difesa dal lato di ponente e di settentrione onde resistere alle frequenti aggressioni deâLiguri, dai quali, per asserto degli storici antichi, i Pisani erano inquietati. Che nei tempi del romano impero la cittĂ medesima fosse situata piĂš verso settentrione e levante, e tutta alla destra dellâArno, lo dichiarano gli avanzi degli edifizi antichi, ed i nomi restati ai luoghi dove furono lâanfiteatro (Parlascio) leTerme ecc., e piĂš di tutto lo dimostrano due istrumenti pisani scritti nellâ11 marzo del 1029, e nel 14 agosto del 1031, nei quali sono rammentati due luoghi, allora rimasti fuori di Pisa, uno deâquali presso la chiesa di S. Lorenzo alla Rivolta, ora piazza di S. Caterina, e lâaltro neâcontorni della chiesa di S. Zeno, che si dicevano posti in quellâetĂ nella cittĂ vecchia. â (ARCH. DIPL. FIOR. Carte di S.
Michele in Borgo).
Io non saprei qual fede possa meritare una certa pianta della cittĂ di Pisa conforme era nellâanno 853, pubblicata dal Del Borgo nelle sue dissertazioni pisane, e delineata da un maestro Bonanno pisano. PoichĂŠ, se lâautore di quella pianta fu, come si suppone, quel Bonanno architetto che fondò nel 1174 il campanile pendente, lo chĂŠ vorrebbe dire disegnata quattro buoni secoli dopo, come si poteva riconoscere dopo sĂŹ lungo lasso di tempo lâandamento di quelle mura? e se fu disegnata intorno allâanno 853, o lĂŹ presso, perchĂŠ mettervi tante chiese di Pisa che nellâ853 non esistevano? come poi potevano scriversi tutti quei nomi in volgare, fra i quali il Gitto dâArno, il Circo navale, il Templo e le Therme di Hadriano, ecc., in unâetĂ in cui cotesta lingua nostra non era ancora in uso? ChecchĂŠ ne sia, è certo però che la cittĂ di Pisa, prima del mille non solo era di una piĂš ristretta periferia, ma aveva cambiato alquanto di direzione.
Lo dice la chiesa di S.Andrea Foris portae, e lo attestano tutte le carte del monastero di S. Michele in Borgo che dal millecentocinquanta collocano la stessa chiesa e monastero fuori di Pisa presso Porta Samuele; siccome erano fuori di Pisa nel secolo XI le chiese, e monasteri di S. Matteo e di S. Silvestro al pari dellâaltra di S. Pietro in Vinculis.
Che se anche qui non prendo abbaglio, a me non sembra tampoco persuadente lâantico cerchio della cittĂ di Pisa descritto nella storia inedita del canonico Roncioni, secondo il quale la Pisa romana sarebbe stata in mezzo ad un triangolo sĂŹ ma rovesciato, con la sua punta cioè volta a settentrione e la base sulla sponda destra dellâArno.
A seconda del Roncioni, le mura di Pisa passavano dal lato settentrionale fra la porta del Ponte dâOseri e quella al Parlascio, creduta lâantica Porta Latina. Allâincontro dalla parte di levante le mura urbane, a parere di quel canonico, incamminavansi dietro la chiesa di S. Caterina per comprendere nella cit tĂ il luogo della Rivolta, e di lĂ sino allâArno, lungo il quale trovavasi la cosĂŹ detta Porta Aurea, nome rimasto poi ad una vicina chiesa (di S.
Salvatore). Presso alla via maggiore di S. Maria le mura pisane voltavano la fronte a maestro per dirigersi alla porta del Ponte dâOseri onde compire il giro della cittĂ .
Ma se lâArno dentro Pisa non ha mai variato di letto, se il Serchio non deve, come io dubito, credersi lâAuser di Plinio e di Rutilio, nĂŠ lâEsar di Strabone, ma piuttosto una sua diramazione letteralmente tradotta dai Pisani in Oseri, allora cambia affatto la scena.
AvvegnachĂŠ mentre mancano documenti per assicurarci che il Serchio siasi vuotato tutto nellâArno davanti a Pisa, troppe memorie ci restano dei secoli posteriori al mille, dalle quali chiaramente si rileva che il fiume Oseri, staccato dal Serchio di quĂ dalla gola di Ripafratta, dirigevasi in Arno sopra, sotto ed anco dentro Pisa, innanzi di avviarsi direttamente in mare. â Vedere appresso COMUNITAâ DI PISA.
Per ciò che spetta allâantica configurazione di cotesta cittĂ , partendo dal fatto incontrastabile della sua posizione, qual era quella d trovarsi fra lâArno e lâAuser, mi sembra fuor di dubbio che il suo caseggiato dovesse largheggiare a proporzione che i due fiumi si discostavano dallâangolo dove confluivano. Lo che resta quasi confermato dagli avanzi superstiti di Pisa romana, a partire dal vestibulo di un tempio pagano appoggiato alle mura della profanata chiesa cattolica di S. Felice; lo dicono le terme, lâanfiteatro, il distrutto circo e palazzo dei Cesari verso il Duomo, le colonne di marmi orientali, i capitelli, le iscrizioni, i sarcofagi numerosi stati dissepolti dentro Pisa per lo piĂš alla destra dellâArno e a qualche distanza dallo stesso fiume. SicchĂŠ bramando tentare degli scavi di un interesse archeologico in cotesto suolo classico, di molte braccia rialzato dal terreno di trasporto, converrebbe meglio intraprenderli dalla parte settentrionale di Pisa, fra la porta murata di S. Zeno e lâaltra pur chiusa del Leone dietro il Duomo, qualora le acque dâinfiltrazione non ne accrescessero le difficoltĂ .
Rispetto poi al secondo cerchio di Pisa, come fu quello intorno al mille, giova avvertire, che allora la cittĂ in discorso repartivasi non per Quartieri, ma per Porte, dal Ponte che fu sullâOseri, e questo abbracciava una parte della cittĂ coi subborghi occidentali e settentrionali; mentre i subborghi orientali ed una minor porzione della cittĂ verso levante appartenevano al Terziere che si disse di Forisportae, stato piĂš tardi rinchiuso nel terzo cerchio, siccome lo fu il Treziere di Chinsica che comprendeva i borghi di Oltrarno rimasti rinchiusi nellâultimo cerchio della cittĂ .
Che dalla parte orientale del borgo di S. Michele al secolo XI fosse fuori di Pisa, oltre le carte di quella badia, lo prova un istrumento del 25 giugno 1051 (stile pisano) pubblicato dal Muratori, il quale fu rogato fuori della cittĂ di Pisa nel Borgo presso la chiesa di S. Felice.
Dalla parte meridionale le mura passavano presso la Porta Aurea dopo che lo stesso fiume aveva rasentato la chiesa e Monastero di S. Matteo. In quanto al giro dirimpetto a maestro dove correva un ramo del Serchio (Auxer), sembra che le mura del secondo cerchio lasciassero fuori la chiesa di S. Niccola, dove fu poi aperta la Porta a Mare. Lo che giova a dimostrarlo non solo il documento del 1103 citato aglâArticoli OSERI e PIOMBINO, ma un altro del 26 settembre 1147 (stile pisano) scritto in Pisa in Porta maris, presso la chiesa di S. Niccola, mentre diverse membrane della Certosa di Calci del 1051, 1061 e 1112 rammentano la chiesa di S. Vito situata allora nel borgo di Porta a Mare. â (Carte della Certosa di Calci).
SicchĂŠ intorno al mille, vale a dire, allâepoca del secondo cerchio si doveva entrare in Pisa per quattro porte principali: la 1.a dalla parte di settentrione per Porta del Ponte; la 2.a verso levante per la Porta Samuele; la 3.a dirimpetto a ostro per la Porta Aurea; e la 4.a verso ponente per la Porta a Mare.
Tale a un dipresso esser doveva il secondo giro delle mura di Pisa, quando i di lei abitanti erano saliti a tanta gloria da innalzare e compire nel breve corso di 56 anni due portentose chiese, il Duomo e S. Paolo in Ripa dâArno, e ciò poco innanzi che si gettassero i fondamenti di un magnifico battistero contemporaneamente ad un piĂš vasto giro di mura urbane.
Di questâultimo cerchio e dellâepoca approssimativa in cui fu incominciato ne abbiamo una dimostrazione sicura negli statuti deâconsoli del Comune di Pisa pubblicati nel dĂŹ primo gennajo del 1162, dai quali si rileva, che sino dâallora si edificavano i muri anche dalla parte di Oltrarno, o di Chinsica, per rinchiudere quel quartiere in cittĂ .
Da quelli statuti si scuopre altresĂŹ il modo allora praticato per il censimento deâbeni ed il movimento della popolazione di Pisa da doverlo rifare (almeno per la popolazione) ogni anno.
Frattanto uniformandomi io al maggior numero degli scrittori pisani, che segnano al 1152 il cominciamento del terzo giro delle sue mura sotto il consolato, o piuttosto sotto la presidenza del console Cocco Griffi, dirò, come, a partire dalla sponda destra dellâArno, dalla parte occidentale presso la Cittadella vecchia, le mura urbane dirigevansi alla Porta Degazia (della Dogana) attualmente chiusa, dalla quale si sbarcava in Arno e si andava al mare lungo la ripa destra del fiume. â Dalla Porta Degaziale mura, giunte alla torre dellâangolo, voltavano faccia da ostro a ponente sino passata la Porta al Leone, nel qual tragitto esistevano, e tuttora si veggono sei postierle tutte chiuse, siccome fu murata quella del Leone, dopo che il governo Mediceo fece aprire lâaltra sua vicina col nome di Porta Nuova, o di S. Maria.
Passata la Porta al Leone le mura voltando la fronte da ponente a settentrione dirigevansi alla Porta S. Zeno, ed in questo lato esistevano due porte appellate Porta del Ponte, e Porta al Parlascio , oltre due postierle, attualmente chiuse; in luogo delle quali lo stesso governo Mediceo fece aprire la Porta a Lucca.
Dal lato poi orientale le mura continuano fino allâArno avendo in cotesta linea, non solo la Porta S. Zeno, ma la Porta della Pace, talvolta appellata di S. Francesco dalla chiesa e convento costruiti lĂŹ dâappresso dal principio del secolo XIII, e la Porta Calcesana , pur essa murata, oltre quella alle Piagge, lâunica che resti aperta.
Dalla parte poi dâOltrarno, ossia nel quartiere di Chinsica, stando al cronista pisano Michele da Vico (MURAT. In Script. R. Ital. T.VI.) il principio delle mura a barbacani dovrebbe portarsi allâanno 1158, sebbene la prima porta di S. Martino in Chinsica, ossia di S. Marco, non si edificasse che un secolo dopo, cioè nellâanno 1253, mentre era potestĂ di Pisa Bonaccorso da Padule. Un tal vero è confermato dallâiscrizione che restò murata con la stessa porta dentro la Cittadella nuova, quando nel 1512 fu aperta la porta attuale di S. Marco alquanto piĂš discosta dallâArno col disegno di Giuliano da Sangallo. â Di costĂ le mura voltando ad angolo quasi retto da levante a ostro giungevano al bastione di Stampace davanti al fosso o canale deâNavicelli, lasciando chiuse in questo tragitto due antiche porte, dirimpetto alle vie di S. Antonio, e di S.
Egidio, o del Carmine. â Al bastione di Stampace, noto per lâassedio del 1509, voltando faccia da ostro a ponente le mura arrivavano sino alla ripa sinistra dellâArno, presso la quale era la porta di Ripa dâArno, chiamata piĂš tardi la Porta a Mare.
Tale era frattanto il cerchio terzo della cittĂ di Pisa, corrispondente al giro attuale, stato da me percorso dentro e fuori delle mura, costantemente accompagnato dal signor Rodolfo Castinelli ingegnere ispettore del Compartimento di Pisa. Il quale cerchio di figura quadrilatera percorre 4 miglia e quasi due terzi, compreso lâalveo dellâArno sotto e sopra la cittĂ . Vi si entra per sole cinque porte, di 20 che erano, tre delle quali alla destra, e due alla sinistra del fiume predetto; cioè, dal lato destro la Porta Nuova, o di S. Maria, presso la Porta al Leone dirimpetto al Duomo , la Porta a Lucca, accosto alla soppressa Porta al Parlascio e la Porta alle Piagge. Le due dellâOltrarno sono, la Porta S. Marco, ossia Fiorentina, e la Porta a Mare, oltre lâaccesso al Fosso deâNavicelli.
Peraltro che a questo terzo cerchio fosse dato principio molto prima dellâanno 1153 lo assicurano varj strumenti autentici degli archivi pisani, uno dei quali dellâanno 1140 (5 ottobre) dichiara la via maggiore di S. Maria situata dentro Pisa, per lasciare molti altri documenti della badia di S. Michele in Borgo, la quale verso la metĂ del secolo XII non era piĂš fuori di cittĂ . â (ANNAL. CAMALD.
Tomo II. e III.) Che se il terzo cerchio di Pisa fu incominciato prima del 1152, non ne consegue peraltro che restasse terminato nello stesso secolo XII, mentre nel Breve del conte Ugolino del 1286 al Libro IV nella rubrica 4. trattasi di compire i muri della cittĂ dalla parte di Chinsica e di restaurare la porzione giĂ terminata. CosĂŹ alla rubrica 9.
Dello stesso libro si fa parola di uno spazio libero da lasciarsi dentro e fuori delle mura nel quartiere di Chinsica e di contrassegnarlo con termini di pietra per distinguere il confine dal pomerio o carbonaja della cittĂ .
NĂŠ tampoco è da tacersi qualmente le mura dalla parte orientale e settentrionale di Pisa furono, se non costruite tutte di pianta, al certo continuate ad alzarsi di pietra concia del Monte Pisano, di una grossezza di quattro braccia a un circa. Le quali mura edificavansi nel secolo XIV con nuove porte e munivansi di merli a feritoja, e non biforcati che solevano distinguere la parte ghibellina, ma a guisa deâGuelfi, con fossi e bastioni per cura deâcapitani di Pisa, il conte Gaddo da Donoratico, ed il conte Ranieri suo nipote.
Di una torre innalzata per difesa della stessa cittĂ fra la Porta a Lucca e la Porta al Parlascio fa menzione una lapide stata ivi murata, che la dice: fatta lâanno 1321 del mese dâaprile al tempo del magnifico e potente signor Gherardo conte di Donoratico capitano generale del Comune e popolo pisano, essendo capo maestro Jacopo di Ridolfo, ed operajo Bindo del Bagno.
Spettano al conte Ranieri, nel tempo che era capitano generale di Pisa, dei lavori anco piĂš estesi, tanto rispetto alle porte come alle mura state edificate nella parte settentrionale ed orientale della stessa cittĂ .
A reminescenza delle quali opere citerò unâiscrizione stata murata accosto alla Porta al Leone, dove sotto lâarme gentilizia della famiglia Gherardesca si legge: Anno 1342. â Tempore magnifici et potentis viri Domini Ranerii Novelli hoc opus factum fuit.
Rispetto allâepoca delle mura orientali lo dimostra una deliberazione del primo luglio 1346, con la quale gli Anziani dichiararono il medesimo conte Ranieri padrone deâmuri e fortificazioni della cittĂ di Pisa, a partire dalla Porta al Parlascio fino alla porta Calcesana, per la ragione châegli aveva somministrato diecimila fiorini dâoro per innalzarle.
Anco una carta dello spedale di S. Chiara di Pisa del primo marzo 1330 rammenta un operajo della fabbrica deâ muri della cittĂ in messer Giovanni di Filippo Bucci. Il qual Bucci nel 1346 fece un pagamento a Cecco di Lemmo capomaestro deâ muri stati fatti dâordine dal potente uomo Ranieri Novello conte di Donoratico, capitano generale di Pisa e onorabile capitano di Lucca. â (ARCH. DELLO SPEDALE DI S. CHIARA DI PISA).
In quanto a strade urbane, questa cittĂ attualmente conta molte vie ampie e quasi tutte lastricate di pietra serena, mentre quelle antiche che scuopronsi fondando nuove case, erano coperte di mattoni per costa, senza dire delle strade che con largo marciapiede adornano i suoi inimitabili Lungarni.
NĂŠ qui si deve omettere una pratica di civiltĂ usata in Pisa sino dal secolo XIII, rinnovata per tutta Italia nel secolo in cui viviamo; intendo dire dellâuso da lungo tempo abbandonato dellâilluminazione notturna delle strade.
Basta leggere la rubrica 1. del libro IV del Breve Comunis Pisani, scritto nellâanno 1286, per concludere che Pisa fino dâallora praticava e forse fu la prima cittĂ dâItalia a introdurre il lodevole sistema dâilluminare di notte, non solo le strade piĂš frequentate, ma ancora il ponte vecchio, le vie minori ed i cosĂŹ detti chiassi o vicoli, e di assegnare a ciascuna via un numero respettivo di lampioni e di guardie notturne, previo il modo di repartirne fra il Comune e gli abitanti la spesa. Toccherò del clima e delle acque di Pisa allâArticolo che segue qui appresso della sua ComunitĂ .
CENSIMENTO della popolazione della CittĂ di PISA a quattro epoche diverse, divisa per famiglie (1) ANNO 1551: Impuberi maschi -; femmine -; adulti maschi -, femmine -; coniugati dei due sessi -; ecclesiastici dei due sessi -; acattolici dei due sessi -; numero delle famiglie 1636; totalitĂ della popolazione 8571.
ANNO 1745: Impuberi maschi 1535; femmine 1513; adulti maschi 2104, femmine 2776; coniugati dei due sessi 3331; ecclesiastici dei due sessi 958; acattolici dei due sessi 59; numero delle famiglie 2589; totalitĂ della popolazione 12406.
ANNO 1833: Impuberi maschi 2378; femmine 2231; adulti maschi 3760, femmine 4263; coniugati dei due sessi 6507; ecclesiastici dei due sessi 644; acattolici dei due sessi 515; numero delle famiglie 4733; totalitĂ della popolazione 20298.
ANNO 1840: Impuberi maschi 2603; femmine 2484; adulti maschi 3595, femmine 4655; coniugati dei due sessi 7039; ecclesiastici dei due sessi 627; acattolici dei due sessi 667; numero delle famiglie 4570; totalitĂ della popolazione 21670.
(1) N. B. In questo Censimento sono escluse 4 parrocchie suburbane deâTerzieri.
COMUNITAâ DI PISA La superfice territoriale di questa ComunitĂ , compresi quadrati 591,88 occupati dallâarca interna di Pisa, a tenore delle disposizioni sovrane del 1833, fu calcolata nel suo totale di 58973 quadrati agrarj, dei quali 2115 quadrati spettano a corsi dâacqua ed a pubbliche strade. In cotesto spazio abitava nel 1833 una popolazione di 37227 persone, la quale ripartitamente corrisponde a circa 527 abitanti per ogni miglio quadrato di suolo imponibile.
Il territorio della Comunità di Pisa è per la maggior parte in pianura, mentre dal lato di libeccio termina col lido del mare fra la bocca di Calambrone e quella di Fiume Morto. Dalla parte di ostro ha per confine la Comunità di Colle Salvetti, da prima mediante la fossa di Calambrone, poi per la Fossa Nuova, e finalmente per la Fossa Chiara .
Dirimpetto poi a scirocco si tocca con la ComunitĂ di Cascina mediante il Fosso Torale sino alla strada livornese che attraversa la Regia fiorentina a Navacchio.
Ma costĂ sottentra il territorio di Cascina fino allâArno dove attualmente si costruisce un ponte di pietra a tre arcate avente la testata destra nel territorio comunitativo di Vico Pisano, presso la confluenza del torrente Zambra di Calci . DondechĂŠ il territorio della ComunitĂ di Pisa non si ritrova che al ponte della Zambra sulla strada provincialeVicarese. CostĂ di fronte a levante si rientra in una porzione staccata della ComunitĂ di Pisa, che abbraccia cinque popoli del pievanato di Calci, a partire dal ponte suddetto sino alla sommitĂ piĂš alta del Monte Pisano, denominata del Monte Serra . â Vedere CALCI.
Sulla cima del monte lascia a levante il territorio della ComunitĂ di Vico Pisano e trova dirimpetto a grecale quello della ComunitĂ di Capannori spettante al Ducato di Lucca. Di conserva con questa percorre mezzo miglio lungo la giogana; sulla quale dopo voltata la faccia a maestro si tocca col territorio comunitativo deâBagni di S.
Giuliano riscendendo insieme per uno sprone meridionale sino al ponte predetto della Zambra, dopo lasciata al suo levante la Certosa di calci, mentre a ponente seguita a fronteggiare con la ComunitĂ deâBagni, che stacca il territorio di Calci da quello unito della ComunitĂ di Pisa; il quale si ritrova sulla ripa destra dellâArno, fra Cisanello e Ghezzano, due miglia circa a ponente della cittĂ .
CostĂ la superfice territoriale della ComunitĂ di Pisa fronteggia sempre con quella deâ Bagni, da primo dirimpetto a grecale, mediante la Fossa di Maltraverso , perfino a che volta la fronte a settentrione, quindi la ripiega a maestro e finalmente a ponente mediante il Fosso di Scorno, e di lĂ pel Fiume Morto ritorna al lido del mare.
La pianura di Pisa dalla parte di grecale fra il Serchio e la Seressa, ha per confine il Monte Pisano. Dirimpetto a settentrione e maestrale, alla destra del Serchio, è limitata dai poggi di Filettole, di Balbano e dal Monte di Quiesa (propagine australe dellâAlpe Apuana). Da levante a scirocco la stessa pianura è circoscritta dalla fiumana Cascina e dalle cosĂŹ dette Colline Pisane. Finalmente fra scirocco e ostro ha davanti i Monti Livornesi, i quali ultimi si perdono gradatamente sotto la pianura innanzi di arrivare al Ponte della Tora, in guisa che lasciano libero ai venti di ponente il passaggio sopra la cittĂ di Pisa.
In conseguenza di ciò se il clima di Pisa in generale è piĂš tiepido che nelle interne provincie della Toscana, lâaria però in molti mesi dellâanno suol esservi maggiormente agitata dal soffio impetuoso del libeccio.
La posizione accennata dei monti che da tre lati circoscrivono la pianura pisana, e piĂš che altro il piccolissimo declive della sua campagna, la qualitĂ polverulenta e mobile dello strato superiore del suolo, le arene marine ivi depositate, che a guisa di tomboli o dighe sâincontrano a molta distanza dal littorale; tuttociò fa sĂŹ che nella campagna pisana i corsi dâacqua siano pigri, frequenti i paduli, lâatmosfera umida, e tutta cotesta contrada bisognosa di unâindustria costante e intelligente per regolare le escavazioni, le arginature deâfossi e dei molti canali, dai quali perfino intorno alle mura della cittĂ trovasi in piĂš sensi retata.
Tale è la costituzione naturale della campagna di Pisa e del suo clima, dopo che la situazione materiale della cittĂ fu variata dallâantica; sia per non essere piĂš circondata da due fiumi; sia perchĂŠ il mare si è vistosamente da essa allontanato; sia finalmente per il progressivo interrimento del suolo su cui riposa.
GiĂ si è detto, che a partire dallâetĂ di Strabone e anco da quella di Aristotile, o di chi fu autore dellâopera de Mirabilibus, fino almeno alla discesa deâGoti in Italia, la cittĂ di Pisa giaceva sulla confluenza di due fiumi, lâArno e lâAuser; il primo alla sua destra, il secondo alla sua sinistra, in guisa che la natura piĂš che lâarte difendeva la vecchia cittĂ da tre lati, rimanendo essa allo scoperto, oppure difesa dallâarte verso il lato di levante.
Sembra però, siccome di sopra fu avvertito, essere tuttora indeciso, se il fiume Auser, che influiva in Arno davanti a Pisa dopo aver lambito le sue mura dalla parte di settentrione e di libeccio, fosse il Serchio intero, o piuttosto un grosso ramo, chiamato dai latini Auser , da noi Oseri, Osoli e Ozzori. Tali dubbiezze vengono indirettamente avvalorate dal silenzio degli storici, dei geografi e di tutti coloro che, ad eccezione di Strabone e di Rutilio, nĂŠ prima nĂŠ dopo di loro dissero qual fosse mai innanzi il mille lâandamento del Serchio nellâultima sua sezione, cioè, se tributario dellâArno, o direttamente del mare. Altronde che il Serchio fosse tributario dellâArno piuttosto che un fiume avente foce in mare, oltre le autoritĂ di sopra citate, lo dĂ quasi a conoscere in modo negativo Tolomeo nella sua geografia, dove si descrivono gli sbocchi dei fiumi nel mare toscano senza esservi indicata la foce del Serchio. Lo darebbe anco a dividere la naturale direzione che un dĂŹ tenere doveva cotesto fiume dopo aver trapassato la gola di Ripafratta, mentre adesso da ostro voltando faccia a ponente piegasi quasi ad angolo retto per dirigersi, prima a occidente, poscia a libeccio innanzi di vuotarsi nel mare a una distanza di circa 5 miglia dalla bocca dâArno.
La qual mutazione dâalveo del Serchio (seppure avvenne) dubito che fosse di una porzione del fiume, in modo da restare allâalveo antico ed al ramo minore il nome di Auser, tradotto in Oseri, Osoli e Ozzori, mentre il ramo maggiore, ossia quello piĂš occidentale, fu distinto col nome di Serchio; e ciò ad esempio del tronco principale dello stesso fiume, che sino dal secolo VII, se non prima, riscontravasi nella pianura superiore di Lucca, quando esso tripartito scendeva alla destra e alla sinistra della cittĂ , nella cui pianura in tre rami suddiviso si mantenne anco allâetĂ dello storico G. Villani. â Vedere LUCCA ComunitĂ , OZZORI, e SERCHIO.
CosĂŹ nella pianura fra Ripafratta e Pisa il nome stesso dâOseri divenne comune a piĂš dâ un canale, da cui ebbe e ritiene il vocabolo la contrada di Val dâOseri. Sul qual proposito giova pure avvertire che nel Breve del Comune pisano dellâanno 1286, al libro III de Operibus, si parla di un ramo dellâOseri che allora sboccava direttamente in mare, senza che ivi sia fatta menzione alcuna del Fiume Morto; mentre altri documenti citano lâalveo del vecchio Serchio dopo che questo fiume (forse lâOseri) era separato dallâArno.
AllâArticolo FOSSO DEâBAGNI DI S. GIULIANO, uniformandomi io a quanto fu scritto da valenti autori relativamente alla costruzione di quel canale che porta lâacqua ai mulini di Pisa, ne feci autore Lorenzo deâMedici detto il Magnifico, aggiungendo che Cosimo I lo compĂŹ, o piuttosto che lo rese piĂš utile al servigio delle mulina, siccome lo dimostra unâiscrizione in marmo posta sulla facciata dellâedificio delle Mulina dentro Pisa: Publicae utilitati providens Cosmus Med. Floren. Et Sen.
Dux II. A. D. MDLXVIII.
Ma il Breve del Comune pisano del 1286 chiaramente dimostra che un ramo dellâOseri sin dâallora passava dai Bagni di S. Giuliano e che esso era navigabile dalle scafe innanzi di sboccare in Arno presso le mura orientali di Pisa.
Arroge che negli statuti fatti dâordine della Signoria di Firenze peâConsoli del Mare, sotto dĂŹ 31 luglio 1475 rispetto ai fossi, ponti, fiumi, e vie di Pisa e del suo contado, alla rubrica 10, dove si descrive il corso deâfossi principali di maggiore utilitĂ per mantenerli netti, si rammenta pel primo il Fosso , ovvero fiume dâOsoli, il quale nasce al Bagno a Monte Pisano; 2°. il Fosso detto Martraverso che nasce in Osoli alla strada vecchia, et ritorna in detto Osoli al ponte della Tavola, ovvero alla strada del Pero; 3° il fosso di Scorno che comincia dal ponte alla Tavola ovvero alla destra di via del Pero e seguita sino al Fiume Morto; 4° i Fossi doppi che cominciano al condotto del Bagno e seguitando mettono in detto Osoli; 5°. Il fosso detto Marmigljajo, che comincia in detto Osoli al ponte Scornato dal canto di S.
Zeno, e seguitando ritorna in Osoli alla strada del Pero ; 6°. Il fosso detto Lavato, il quale è ramo dâOsoli et comincia al ponte Scornato dal canto di S. Zeno e ritorna in detto Osoli al canto al Lione ecc.
Inoltre ala rubrica 34 delli statuti medesimi dellâUffizio deâFossi di Pisa è registrata una provvisione della Signoria di Firenze, dalla quale si rivela che un ramo dellâOseri fino dâallora dirigevasi alla Porta alle Piagge dovâera un mulino fatto da un messer Lionello, che dice: item veduto come messer Lionello ha fatto uno mulino alla Porta alle Piagge di Pisa, al quale conduce lâacqua dellâOsoli pel fosso existente presso le mura di Pisa etc.
Quindi è che il Cocchi nel suo libro dei Bagni di Pisa avvisava i lettori, che coteste ed altre simili opere, benchÊ fossero state fatte con diligenza grande nÊ piÚ floridi tempi della repubblica pisana e mantenute in stato forse non dissimile dal presente, pure tale fu nei secoli XIV e XV la varietà della fortuna di Pisa che, avendo i lavori delle acque sofferta lunga e grande negligenza, giustamente si deve a Cosimo e a Ferdinando I la lode del miglioramento rispetto alla salubrità del suo territorio.
Per altro io aggiungerò che anche nei secoli anteriori al XIV Pisa cola sua campagna, era soggetta a frequenti alluvioni e ristagni perniciosi alla salute. NĂŠ mi limiterò al cronista pisano, il quale lasciò scritto che da mezzo settembre al 12 novembre del 1167 (stile comune) vi furono a Pisa nove inondazioni massime del fiume Arno, le cui acque allagarono con tale impeto la sua campagna meridionale, che ruppero il Ponte a Stagno; mi appoggerò piuttosto allo statuto del 1162 intitolato Breve usus e a quello del Comune di Pisa del 1286, il quale obbligava i potestĂ prima di entrare in carica di tenere a regola dâarte le cateratte delle chiaviche della cittĂ , e specialmente quelle del quartiere Oltrarno (Chinsica) per farle chiudere allâoccasione dellâescrescenze del fiume; come pure di rialzare la strada del borgo di porta S. Marco fino verso le ville di Fasiano e di Putignano nel modo comâera stata cominciata, e di costruire lungo lâArno un contrargine di difesa nel comunello di Fasiano.
Lo statuto poi del Breve usus voleva che i capitani del Val dâArno facessero aprire le vie carraje e tutte le fosse per dare sfogo nei tempi di piene alle acque dellâArno, acciocchĂŠ queste non traboccassero dalle spallette dentro la cittĂ .
Fra i doveri dei potestĂ di Pisa eravi anco quello di fare alzare gli argini dalla parte di settentrione dove fosse dâuopo nel fiume Oseri, di rivuotarne tutti gli anni il letto affinchĂŠ le sue acque non avessero a spandersi e a recar danno a quelle campagne. â (BREV. COMUN. PIS. Ann.
1286. Lib. IV. Rubr. 5. 15. 19. 48 e 67.) La stessa cura era prescritta per la Fossa Cuccia, per la Fossa di Martraverso e per la Fossa Vicinaja , o di Vicascio, e quella di Scorno ecc. fra il Monte Pisano e lâArno, tributarie tutte del Fiume Morto, mentre nel secolo XII la Fossa Cuccia dirigevasi in mare per il fiume Oseri. Negli statuti pisani del 1286, rispetto ai canali di scolo posti alla sinistra dellâArno, si ordina ai potestĂ ed ai capitani di Pisa di sorvegliare i lavori delle fosse di Fasiano, del Zannone, di Crespina , della Fossa nuova del Gonfo e di tutte le altre che influivano nella Fossa Vecchia di Carisio e nello Stagno. Inoltre dovevano obbligarsi di far vuotare il Fosso Rinonico con diversi altri fossi minori, dogaje e nugolaje di quella pianura meridionale. Finalmente alla rubrica 22 del Libro IV dello stesso Breve del Comune pisano, il potestĂ e il capitano del popolo provvedevano affinchĂŠ dallâarbitro pubblico (ingegnere) si restaurassero e si mantenessero in regola i pozzi comuni e gli abbeveratoi tanto di cittĂ come del contado.
Che poi sino dal mille si trovassero paduli intorno e perfino dentro alla cittĂ di Pisa, lo dichiarano vari documenti superstiti, fra i quali mi limiterò a tre scritti nel luglio dellâanno 730, nel maggio del 1085 e nel 24 luglio del 1099, tutti dellâArch. Arciv. Pis., come quelli che citano deâ paduli presso Pisa. Citerò inoltre un diploma del 1139 dellâImperatore Corrado II, col quale donò alla Primaziale il padule delle Prata (dâArsula) posto nel suburbio settentrionale della cittĂ ; finalmente rammenterò il nomignolo di una chiesa attualmente soppressa dentro Pisa, S. Pietro in Padule, senza dire dellâantica via di Padusoleri, situata presso a poco la via dellâOrto e del Padule presso il Duomo che rammentasi nel 28 settembre del 1249 in un istrumento spettante alla Primaziale.
Che se a tanti esempi di data piuttosto vecchia aggiungasi il continuo interrimento della pianura pisana colmata dalle torbe di grossi fiumi e da altri corsi dâacqua, ed accresciuta da una serie di tomboli spinti e poi abbandonati dalle procelle su di una spiaggia inclinatissima, non dovrĂ piĂš recar meraviglia il progressivo rialzamento del suolo di Pisa.
Infatti se uno immagina il livello di codesta cittĂ nella via di S. Felice fra il Borgo e la Pia zza deâCavalieri, come quando fu edificato il tempio pagano, di cui restano in posto due colonne di porfido orientale con i loro capitelli di marmo scolpiti a figure e a fogliami sul gusto introdotto dallâImperatore Adriano, i pavimento del cui vestibolo trovasi attualmente oltre 4 braccia sotto il lastrico della strada; se nello scavo del terreno che il Gonfaloniere della ComunitĂ di Pisa si degnò a mia istanza ordinare nei giorni 24 e 25 febbrajo del 1842, di fianco alle antiche terme e perfino dentro al superstite sudatorio, finchĂŠ in un punto oggidĂŹ superiore di braccia 8 e soldi 2 al livello del mare fuori del Sudario fu spinto lo scavo fino a braccia 4 e 1/2 sotto la superficie; se a quel livello fu trovata lâacqua dâinfiltrazione sotto uno strato di rozzo smalto (forse lâantico pavimento delle Terme); se i lastrici nelle vie di Pisa del medio evo fatti di mattoni per coltello e si scuoprono nel rifare i fondamenti delle case e palazzi nei lungarni e nellâinterna cittĂ si ritrovano dalle braccia 3 e 1/2 alle braccia 5 e mezzo sotto la superficie delle strade attuali; questi fatti soli possono servire di criterio per dover concludere, che anche le acque correnti dei fossi e deâfiumi, le quali attraversano la pianura pisana, per quanto il loro letto siasi rialzato, dovendo fare un piĂš lungo cammino prima di giungere al mare rallentarono necessariamente di moto a proporzione che si allontanò la spiaggia. ImperocchĂŠ se lo sbocco dellâArno in mare allâetĂ di Strabone, che vuol dire XVIII secoli e mezzo addietro distava solo 20 stadii olimpici dalla cittĂ di Pisa, corri pondenti a due miglia geografiche; se la foce medesima dellâArno nellâanno 1080 era vicina assai alla chiesa di S. Rossore quando essa fu fabbricata sulla ripa destra dellâArno in luogo ora appellato le Cascine Vecchie, mentre attualmente queste distano 3 buone miglia dal lido del mare; se finalmente per circa 4 miglia la campagna di Pisa verso la spiaggia è coperta di dune e tomboli di rena lasciata dalle traversie del mare, ne conseguita che il corso delle acque terrestri di secolo in secolo impigrĂŹ e la campagna di Pisa divenne ognor piĂš uliginosa. Infatti dalle recenti livellazioni risulta, che la soglia della cateratta maestra del Sostegno del fiume Arno fuori della Porta a Mare è un braccio fiorentino piĂš depressa da quelle del Mediterraneo; e dallo spoglio delle altezze delle acque del fiume suddetto, eseguito costantemente dallâUffizio delle Acque e Strade del Compartimento pisano, dallâanno 1825 a tutto il 1840, apparisce che il pelo dellâArno nelle massime piene salĂŹ a braccia 9 e soldi 10 sopra la soglia del Sostegno, e nelle massime depressioni dello stesso fiume, ad un braccio sopra la soglia, vale a dire al livello stesso del mare. Su qual proposito gioverĂ aggiungere alcune altezze del terreno stato in vari punti di Pisa livellato dallâIngegnere ispettore Signor Ridolfo Castinelli in tempo di acque basse del mare: Fondo del bacino del Campanile del Duomo, Braccia 0,60 Cantonata dello Spedale di S. Chiara allâingresso di via dellâOrto, Braccia 5,60 Prato del Duomo, alla Fonte, Braccia 4,96 Terreno di fianco alle Terme pisane, Braccia 8,10 Negli Orti di fianco a S. Caterina, Braccia 5,21 Fondo dellâOseretto fuori di Porta Nuova allâimbocco del fosso Marmigliajo, Braccia 0,32 Lungarno presso al Ponte di Mezzo, Braccia 8,94 Lascerò poi ai fisici e aglâidraulici la soluzione del quesito, se fu per le accennate, o piuttosto per altre cause che nella pianura pisana piĂš di una volta cambiarono di cammino il Serchio, lâOseri, ed anco lâArno sopra e sotto Pisa? Rispetto al fiume Serchio nella sezione pisana, oltre quanto si è detto poco sopra, giova aggiungere qualmente il suo letto è piĂš alto della pianura adiacente, in modo che il corso delle sue acque trovasi racchiuso fra due forti argini che lâ accompagnano fino al mare. Quindi avviene che non solo non possono confluire in esso i fossi e canali della pianura settentrionale e occidentale di Pisa, ma che le acque del Serchio quando traboccano entrano nei fossi di quella stessa pianura. Nella quale circostanza fu pure osservato che le acque debordando dal Serchio dirigonsi comunemente a sinistra piuttosto che verso la sua destra, quasi che cercassero (disse il Cocchi) lâantico loro alveo inondando i campi delle vicinanze di Pisa.
AllâArticolo FIUM E MORTO si disse, che anche questo corpo dâacque un di confluiva nel Serchio innanzi che dal matematico Cistelli gli fosse stato aperto uno sbocco suo proprio in mare tanto piĂš che nĂŠ il Fiume Morto, nĂŠ veruna foce di codesto nome trovasi, châ io sappia, indicata da alcun documento anteriore al secolo XIV.
Sono bensĂŹ rammentati diversi sbocchi del vecchio Serchio in Arno quando il fiume Oseri aveva una foce sua propria in mare e innanzi che cotesti due corsi dâacqua fluissero nella Fossa Cuccia. Sta a prova di tutto ciò un diploma del 1160 di Guelfo VI marchese di Toscana, confermato nel 1178 dallâImperatore Federigo I, e nel 1191 dallâImperatore Arrigo VI suo figliuolo, a favore del capitolo e chiesa di Pisa dove si parla della selva del Tombolo di S. Rossore compresa nei seguenti confini: A faucibus veteris Sercli usque ad flumen Arnum, et a Fossa Cuccii usque ad mare, sicut eadem fossa in directum respicit versus fluvium Auseris.
Dirò inoltre che mentre gli statuti del Comune pisano anteriori allâanno 1300 parlano della necessitĂ giornaliera di tener libero il letto dellâOseri fino al mare, usque ad fauces Ausers, in tutti gli altri statuti posteriori, incominciando da quelli del 1306, al Libro IV dove trattasi alla rubrica 67: De Ausere mundando et ampliando a Balneo Montis Pisani usque ad fauces fluminis Arni, si rammenta ai potestĂ ecc. lâobbligo di tener pulita la foce dellâOseri.
Un terzo di miglio innanzi che il fosso dellâAnguillara sbocchi nel Fiume Morto trovasi il cosĂŹ detto Porto delle Conche, dis tante tre buone miglia dalla riva del mare, dove nel secolo XVII fu scoperto un cippo di marmo lunense con caratteri deâmigliori tempi dellâimpero trasportato nel vestibolo del palazzo Roncioni in Pisa con lâiscrizione votiva ai Mani di Q. Largennio figlio di Q.
Severo edile di Pisa, stato illustrato dal Professor Chimentelli nella sua erudita opera De honore Bisellii.
Alla foce del Serchio esisteva fino dal secolo XII una torre rammentata allâanno 1171 negli annali lucchesi e negli statuti pisani del 1286, mentre la bocca dâArno era difesa da due torri. (ivi Libri IV. Rubriche 8 e 59.) â Vedere appresso .
In quanto al corso dellâArno nella sezione pisana, lungi dal riandare sulla irresoluta e forse irresolvibile questione messa in campo colle espressioni di Strabone, secondo i quali lo stesso fiume a quellâetĂ avrebbe dovuto correre diviso in tre alvei fra Arezzo e Pisa; lungi dal ridire come cotesto fiume dopo penetrato nel delta pisano fu rimosso nel 1558 dallâantico suo letto fra Bientina e Calcinaja; lungi dal rammentare le variazioni accadute lungo lâalveo medesimo nei contorni di Settimo, dove restarono i nomi di Arno vecchio e Arno morto fino al secolo XII ad alcune localitĂ del pievanato di S. Casciano, mi limiterò a dire una parola sulle variazioni del suo corso fra Pisa e il mare artatamente dopo il secolo XV eseguite fino alla nostra etĂ .
La pendenza di cotesto ultimo tragitto dellâArno essendo diminuita tanto da diventare, come dissi, nulla tra Pisa e il mare, ne portò la necessitĂ di dover dare al fiume un cammino il piĂš breve possibile, e conseguentemente di levarlo da quello assai tortuoso che faceva nei secoli della repubblica pisana.
La prima rettificazione fu eseguita anteripormente allâanno 1528 fra Barbaricina e la strada maestra di S.
Piero in Grado e Livorno. Dissi anteriormente al 1528, poichĂŠ con istrumento del 6 marzo di detto anno la famiglia pisana di Pone vendeva allâopera della Primaziale i pascoli dellâArno vecchio, in una localitĂ posta attualmente, parte nella campagna di Barbaricana alla destra dellâArno, e parte alla sinistra del corso attuale di questo fiume.
Nellâanno 1606 per motuproprio del Granduca Ferdinando I fu abbreviato il corso allâultimo tronco dellâArno avviandolo, al mare 2656 braccia piĂš a ponente dellâantica sua foce, quando era provveditore dellâUffizio dei Fossi Cosimo Pagliani.
Finalmente la rettificazione piĂš importante, quella che ha liberato Pisa da frequenti alluvioni, è stata eseguita nel secolo XVIII avanzato nel suburbio occidentale, circa mezzo miglio lungi dalla cittĂ . AvvegnachĂŠ lâArno formando gomito davanti a Barbaricina, nei tempi di piena tratteneva il corso libero alle acque, le quali straripavano non solo nelle vicine campagne ma ancora traboccavano dalle spallette dei Lungarni e dalle fogne della stessa cittĂ .
Lâingegnere Francesco del Nave nel 1653 fu il primo a proporne la rettificazione, applaudita da Vincenzio Viviani, piĂš tardi da Cornelio Meyer olandese, quindi raccomandata da Eustachio Manfredi e nel 1740 da Tommaso Perelli, fino a che nel 1771 venne eseguita per ordine del Granduca Pietro Leopoldo sulla relazione di Giuseppe Salvetti, assistendo al lavoro due ingegneri dellâUffizio deâfossi di Pisa, Francesco Bonbicci e Giovan Michele Piazzini, padre del vivente ingegnere Ferdinardo Piazzini, alla cui cortesia debbo le notizie testĂŠ pubblicate.
Per tali opere essendo stato scorcito fra Pisa e il mare il cammino dellâArno di un miglio allâincirca, ne è conseguito che le sue acque acquistarono in quel tragitto una velocitĂ maggiore, sicchĂŠ le campagne circostanti restarono meno inondate, e Pisa non fu piĂš sottoposta come prima alle frequenti alluvioni.
AllâArticolo ARNO (BOCCA Dâ) dissi, che quando la foce del fiume era circa quattro miglia (geografiche) discosta da Pisa, vi fu costruito un ospizio per soccorso dei passeggeri di mare. Del quale ospizio esistono alcune memorie sino al secolo XII, innanzi cioè che lo stesso locale fosse ridotto ad uso di monastero per vergini recluse con chiesa annessa avente il titolo di S. Croce, poi di S. Bernaro alla Foce dâArno.
Egli è certo che la Bocca dâArno sotto il dominio della repubblica pisana era difesa da due torri, rammentate piĂš volte nei citati statuti pisani del 1286 al Libro IV rubrica 59, e piĂš chiaramente ancora alla rubrica 8 dello stesso libro, dove si fa parola anco del borgo o villa della Foce dâArno con queste parole: Et idem faciemus (cioè il potestĂ e il capitano del popolo di Pisa) de Borgo, seu Villa de Fauce Arni, seu de occasantibus et habitantibus apud Faucem Arni inter duas turres, secundum formam Consilorum Pisani Comunis, etc. â La rubrica poi 59 tratta: De via qua itur ed monasterium S. Bernardi reactanda, a spese dei popolani di S. Giovanni deâGaetani, e di quelli di S. Pietro a Grado.
Ma collâ andare deâsecoli il viaggio da Pisa a Livorno per Arno essendo divenuto lungo e pericoloso, il Granduca Ferdinando I ordinò la costruzione del fosso, o canale deâNavicelli, a partire dalla riva sinistra del fiume fuori della Porta a mare di Pisa fino al suo termine davanti la fortezza vecchia di Livorno, mentre devasi al Granduca Pietro Leopoldo lâopera del Sostegno per facilitare lâingresso e lâegresso nel fosso dei Navicelli.
Fin qui le acque deâfiumi, deâ fossi e deâcanali che passavano, e che tuttora attraversano la pianura di Pisa, le quali acque, seppure servono ad irrigare i campi e al comodo di alcune arti e del commercio, non sono però servibili allâuomo per bevere.
E perchĂŠ lâinsalubritĂ deâpaesi piĂš che da altre cagioni nasce dallâimpuritĂ delle acque potabili, gli antichi abitanti di Pisa provvidersi di acque perenni di fontana conducendole in cittĂ dal Ponte Pisano per mezzo di acquedotti elevati sopra degli archi, otto dei quali si vedono tuttora in piedi. Di altri pure restano alcune vestigia fra Ripafratta e i Bagni di S. Giuliano in un sito appellato Caldaccoli, localitĂ probabilmente corrispondente allâAcqua longa, dove nellâanno 1003 accadde il primo fatto dâarmi fra i Lucchesi e i Pisani. â Vedere CALDACCOLI.
Stante poi allâuniversale rovina di tanti edifizj romani, ignorasi di quali acque i Pisani neâbassi tempi si servissero per bevere, comecchè di pozzi pubblici e di beveratoj per i cavalli si parli neâloro statuti dei secoli XII e XIII. â Non fia per altro da credere che nel medio evo ottima acqua potabile si adoprasse in Pisa, se fia vero che il maggior numero delle donne avesse nel notabile pollare, cui fece allusione Boccaccio nel suo Novelliere (Giorno II Novella 10 .), e tostochè dominavano costĂ i mali dipendenti da debolezza di visceri innanzi che a Pisa si bevesse unâacqua perenne, leggera e salubre condotta sopra archi dal poggio di Asciano con magnificenza regia per cura di Ferdinando I e Cosimo II Granduchi di Toscana. â Vedere ACQUEDOTTI DI PISA.
Vie antiche del territorio pisano . â Rispetto alle strade antiche che attraversavano la ComunitĂ di Pisa, dopo quella Emilia di Scauro , appellata nel medio evo Via Romea, dopo la Via Regia che diede il nome al paese littoraneo, ora cittĂ di Viareggio, dopo che lâantica strada da Pisa per Monte Pisano, e poi quella piĂš mo derna che da Ripafratta conduce a Lucca, dopo le strade antiche che da S. Piero in Grado guidavano a Bocca dâArno e al Porto Pisano, si contavano sino dal secolo XIII nel contado di Pisa molte altre vie, parecchie delle quali sono rammentate nel Breve detto del Conte Ugolino, e specialmente al libro IV. de operibus. Dal che apparisce che fino dal 1286 risedeva in Pisa un ingegnere in capo dei ponti, degli acquedotti e strade tanto per la cittĂ come pel suo contado. A questâultimo scopo appella fra le altre la rubrica 9. dello stesso libro relativa al mantenimento della Via Calcesana da Pisa alla pieve di Caprona passando per il ponte di Vicascio, mentre la rubrica 15 tratta della maniera di mantenere la strada maestra del val dâArno, oggi detta Fiorentina, quella Emilia da restaurarsi dallâoperajo generale, da S. Lorenzo in Piazza sino al Malmigliaro. Riguarda specialmente la strada di Porto Pisano la rubrica 17 dello stesso libro, mentre nella seguente si parla del tronco di strada che staccavasi dalla via Emilia per andare Scarlino, e dellâobbligo di ampliare un pezzo della via Emilia presso la torre di S. Vincenzio, facendo diboscare intorno il terreno. Altre rubriche dello stesso libro trattano del modo di mantenere la via delle Colline Pisane, come pure le vie di Val di Serchio, di Bocca dâArno ed altre strade suburbane.
Prodotti principali del territorio di Pisa . â Per ciò che riguarda i prodotti del suolo il territorio pisano fu sempre feracissimo; lo che è attestato da Strabone e da Plinio, il primo deâ quali asserĂŹ essere la cittĂ di Pisa rinomata per lâabbondanza delle grasce e alberi dâalto fusto buoni a fabbricar navi, sicchĂŠ, dopo avere i Pisani cassato di adoperare questi ultimi per uso della propria marina, spedivano quei legnami a Roma per i sontuosi edifizi e per le grandiose ville di quella gran capitale. â Il vecchio Plinio inoltre segnalò alcune uve pisane assai pregevoli, il suo grano gentile e il suo farro qualificato fra i migliori dâItalia.
Arroge a ciò qualmente il vicino Monte Pisano ricco di marmi, di acque minerali, e di quelle leggerissime da bevere, fino dai tempi antichi ha fornito a Pisa materiali opportuni alle sue fabbriche, e alla pubblica economia, siccome nei tempi piĂš vicini ai nostri ha dato lâolio il piĂš squisito ed i vini migliori.
Del resto Pisa non solo provvede dal Monte Pisano marmi per usi architettonici da costruzione, ma ancora pietre da lastricare e da far calcina forte, mentre il terreno della sua pianura, e il bel lettone lasciato per via dallâArno e dai numerosi fossi e canali della pianura pisana somministrano materia opportuna per ridurla in mattoni, tegoli e vasi di terraglie che danno lavoro a centinaia di famiglie. â Rispetto a ciò che il governo della repubblica pisana neâsuoi statuti del 1286 (Libro I. rubrica 165) ordinò che la terra da fornace non dovesse cavarsi in Pisa troppo vicino allâArno e alle strade.
Ma se questa terra di trasporto rende fertili le campagne di Pisa, il suo benefizio però non si estende fino ai tomboli aenosi, i quali si trovano, come fu detto, quasi quattro miglia innanzi di arrivare al lido attuale del mare. In generale la pianura pisana per la natura umida e pianeggiante del suolo è piĂš confacente alle grandi pasture, alle praterie artificiali. â Anche le sementi del mais, dei cereali e delle piante leguminose, quando le annate non siano troppo piovane, vi provano assai bene. â Pochi letami da quei villici si adoperano non tanto a cagione della buontĂ del terreno, quanto della troppa estensione dei poderi che una sola famiglia di contadini non può sempre nel giro di un anno coltivare per intiero, sicchĂŠ una parte ne lascia in riposo o a maggese.
Assai poco confacente sembra codesta pianura alle viti e agli alberi da frutto, perchĂŠ le prime per quanto rigogliose danno un vino debole e snervato, e gli altri della frutta insipide e acquose. Feracissima però riesce la stessa pianura alle piante di moro gelso, sicchĂŠ la propagazione di questi alberi fornisce sufficiente indizio alla crescente cultura e allevazione deâbachi da seta, prodotto non indifferente allâindustria agraria pisana.
Ma ciò che costituisce la maggior risorsa agricola di questa contrada sono i pascoli e i boschi; poichĂŠ i primi estesissimi somministrano deâ fieni sottili e teneri per allevare e ingrassare molto bestiame grosso e minuto; mentre i boschi occupano tuttora una gran parte della pianura littoranea fra la bocca di Calambrone e la foce del Serchio. Dissi tuttora, essendo che nei tempi antichi la macchi cuopriva quasi tutta la parte marittima pisana fra la Fossa di Carisio e Pietra S.. â Inoltre la foresta della Fagionaja presso le mura occidentali di Pisa stette in piedi fino al cadere del secolo XVIII al pari della macchia di Barbaricina, entrambe atterrate per migliorare lâaria dâordine del Granduca Pietro Leopoldo.
Il bosco poi di Stagno era cotanto folto ed esteso che il comune di Pisa fece unâapposita rubrica neâsuoi statuti del 1286 (Libro IV. rubrica 13) affinchĂŠ i potestĂ e i capitani del popolo ognâanno facessero tagliare e ripulire quella macchia, a partire dalla colonna (forse la miliaria illustrata dal Chimentelli) presso la chiesa di S. Piero in Grado sino allâospedale di S. Leonardo di Stagno in quella latitudine che avessero giudicato conveniente, come pure che fosse estirpata la macchia bassa nel lecceto spettante a detto spedale, affinchĂŠ non vi si nascondessero i malfattori.
Rispetto alla vasta pineta che fascia il littorale pisano, sembra che essa vi esistesse fino dai tempi di Rutilio Numaziano il quale, mentre aspettava la bonaccia di mare; si recò col suo ospite da Porto Pisano alla caccia deâcignali nelle vicine selve: Otia vicinis terimus novalia sylvis, Sectandisque juvat membra movere feris.
Instrumenta parat venandi villicus hospes, Atque olidum doctos nosse cubile canes.
Funditur insidiis, et rara fraude plagarum, Terribilisque cadit fulmine dentis aperi Quem Melaeagraeivereantur adire lacerti, Qui laxet nodis Amphitryoniadae .
(Itiner. Lib. I. vers. 621-28) Ancora oggidĂŹ chiunque capiti a Pisa può recarsi ad ammirare lâestesissima pineta delle RR. Cascine che occupa parecchie miglia quadrate fra lâArno, il Fiume Morto, le Cascine nuove e il lido del mare, lĂ dove vivono migliaia di quadrupedi, fra cignali, cammelli, daini, vacche, cavalli, ecc., sebbene la razza gentile deâcavalli della Corona attualmente sia stata portata nelle vaste praterie della real tenuta di Coltano al mezzo giorno di Pisa.
In quanto alle industrie manifatturiere della ComunitĂ di Pisa potrĂ darne unâidea quanto si è detto allâArticolo Industrie manifatturiere della cittĂ , cui sarebbero da aggiungere, per la campagna, oltre le moltissime fornaci di mattoni, e di embrici che si spediscono anco allâestero, molti fabbricatori di carri, varii fonditori di campane e ramai, la cui celebritĂ diede il nome al Borgo delle Campane fra Riglione e il Portone ecc. ecc..
CENSIMENTO della Popolazione della ComunitĂ di PISA a quattro epoche diverse.
TERZIERE di S. MARIA - titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Maria Maggiore, Primaziale; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: -; abitanti anno 1745 n° 687; abitanti anno 1833 n° 1345; abitanti anno 1840 n° 1518.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Frediano, Prioria; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Felice e di S. Margherita; abitanti anno 1745 n° 400 (S. Frediano), n° 793 (S.
Felice), n° 681 (S. Margherita); abitanti anno 1833 n° 2014; abitanti anno 1840 n° 2145.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Niccola, Prioria; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Lucia deâRicucchi e di S. Vito; abitanti anno 1745 n° 259 (S. Niccola), n° 212 (S. Lucia), n° 302 (S. Vito); abitanti anno 1833 n° 1715; abitanti anno 1840 n° 1828.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Sisto, Prioria; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con lâannesso di S. Sebastiano delle Fabbriche maggiori; abitanti anno 1745 n° 302 (S. Sisto), n° 259 (S.
Sebastiano); abitanti anno 1833 n° 1060; abitanti anno 1840 n° 1142.
- titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: Spedale di S. Chiara; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: già della Misericordia; abitanti anno 1745 n° -; abitanti anno 1833 n° 207; abitanti anno 1840 n° 222.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Stefano extra moenia; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1); abitanti anno 1745 n° 164; abitanti anno 1833 n° 552; abitanti anno 1840 n° 662.
- Totale popolazione anno 1551 del Terziere di S. Maria: abitanti n° 2321 TERZIERE di S. FRANCESCO - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S.
Andrea Forisportae; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: soppressa nel 1835 e riunita a S. Michele in Borgo; abitanti anno 1745 n° 485; abitanti anno 1833 n° 947; abitanti anno 1840 n° -.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Caterina (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: giĂ S.
Lorenzo alla Rivolta; abitanti anno 1745 n° 476; abitanti anno 1833 n° 989; abitanti anno 1840 n° 977.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Cecilia (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Marco in Calcesana e di S. Zenone; abitanti anno 1745 n° 587 (S. Cecilia), n° 166 (S. Marco), n° 39 (S. Zenone); abitanti anno 1833 n° 1431; abitanti anno 1840 n° 2031.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Marta (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Martino alla Pietra e di S. Silvestro; abitanti anno 1745 n° 234 (S. Marta), n° 180 (S. Martino), n° 253 (S. Silvestro); abitanti anno 1833 n° 1243; abitanti anno 1840 n° 1476.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Michele in Borgo (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con gli annessi di S. Andrea Forisportae e di S. Paolo allOrto; abitanti anno 1745 n° 195 (S. Michele), n° - (S. Andrea), n° 842 (S. Paolo); abitanti anno 1833 n° 942; abitanti anno 1840 n° 1023.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Matteo (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 454; abitanti anno 1833 n° 367; abitanti anno 1840 n° 963.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Pietro in Ischia (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 193; abitanti anno 1833 n° 353; abitanti anno 1840 n° 343.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Pietro in Vinculis (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 149; abitanti anno 1833 n° 1332; abitanti anno 1840 n° 1404.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Michel deâScalzi; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1); abitanti anno 1745 n° 295; abitanti anno 1833 n° 1337; abitanti anno 1840 n° 1676.
- Totale popolazione anno 1551 del Terziere di S.
Francesco: abitanti n° 3424 TERZIERE DI CHINSICA - titolo della chiesa parrocchiale della Città di Pisa: S.
Martino in Chinsica (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con lâannesso di S. Andrea in Chinsica; abitanti anno 1745 n° 1020 (S. Martino), n° 516 (S.
Andrea); abitanti anno 1833 n° 1879; abitanti anno 1840 n° 1807.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: SS.
Cosimo e Damiano (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° -; abitanti anno 1833 n° 896; abitanti anno 1840 n° 1034.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Cassiano in S. Paolo (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 652; abitanti anno 1833 n° 712; abitanti anno 1840 n° 735.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Sebastiano in Chinsica nel Carmine (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con lâannesso di S. Egidio; abitanti anno 1745 n° 374 (S. Sebastiano), n° 271 (S.
Egidio); abitanti anno 1833 n° 963; abitanti anno 1840 n° 764.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Maria Maddalena (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 492; abitanti anno 1833 n° 694; abitanti anno 1840 n° 812.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Sepolcro (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: con lâannesso di S. Cristofano in Chinsica; abitanti anno 1745 n° 99 (S. Sepolcro), n° 458 (S.
Cristofano); abitanti anno 1833 n° 729; abitanti anno 1840 n° 894.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Cristina (prioria); titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: esistente; abitanti anno 1745 n° 361; abitanti anno 1833 n° 480; abitanti anno 1840 n° 552.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Giovanni deâGatani; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1); abitanti anno 1745 n° 145; abitanti anno 1833 n° 1583; abitanti anno 1840 n° 2234.
- titolo della chiesa parrocchiale della CittĂ di Pisa: S.
Marco alle Cappelle; titolo delle cure soppresse in tempi meno antichi: suburbana (1); abitanti anno 1745 n° 1020; abitanti anno 1833 n° 2604; abitanti anno 1840 n° 2950.
- Totale popolazione anno 1551 del Terziere di Chinsica: abitanti n° 3689 -Totale popolazione dei Terzieri anno 1551: abitanti n° -Totale popolazione dei Terzieri anno 1745: abitanti n° -Totale popolazione dei Terzieri anno 1833: abitanti n° -Totale popolazione dei Terzieri anno 1840: abitanti n° CHIESE DI CAMPAGNA - titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Barbaricina; titolo delle cure succursali: S. Apollinare abitanti anno 1551 n° 1249; abitanti anno 1745 n° 247; abitanti anno 1833 n° 1216; abitanti anno 1840 n° 1364.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci; titolo delle cure succursali: S. Andrea a Lama abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Bartolommeo, S.
Giovanni Evangelista, S. Michele e S. Salvatore); abitanti anno 1745 n° 202; abitanti anno 1833 n° 269; abitanti anno 1840 n° 342.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci; titolo delle cure succursali: S. Bartolommeo a Trecolli abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S. Giovanni Evangelista, S. Michele e S. Salvatore); abitanti anno 1745 n° 142; abitanti anno 1833 n° 199; abitanti anno 1840 n° 224.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci; titolo delle cure succursali: S. Giovanni Evangelista (Pieve) abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S.
Bartolommeo, S. Michele e S. Salvatore); abitanti anno 1745 n° 1474; abitanti anno 1833 n° 1764; abitanti anno 1840 n° 1844.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci; titolo delle cure succursali: S. Michele abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S.
Bartolommeo, S. Giovanni Evangelista e S. Salvatore); abitanti anno 1745 n° -; abitanti anno 1833 n° 1000; abitanti anno 1840 n° 1266.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Calci; titolo delle cure succursali: S. Salvatore a Colle abitanti anno 1551 n° 1249 (con S. Andrea, S.
Bartolommeo, S. Giovanni Evangelista e S. Michele); abitanti anno 1745 n° 187; abitanti anno 1833 n° 334; abitanti anno 1840 n° 327.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Canniccio; titolo delle cure succursali: S. Giusto; abitanti anno 1551 n° 278; abitanti anno 1745 n° 251; abitanti anno 1833 n° 676; abitanti anno 1840 n° 377.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Cisanello; titolo delle cure succursali: SS. Biagio e Giusto; abitanti anno 1551 n° 223; abitanti anno 1745 n° 315; abitanti anno 1833 n° 386; abitanti anno 1840 n° 837.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: In Orticaja; titolo delle cure succursali: S. Ermete; abitanti anno 1551 n° 118; abitanti anno 1745 n° 213; abitanti anno 1833 n° 569; abitanti anno 1840 n° 607.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: In Grado; titolo delle cure succursali: S. Pietro; abitanti anno 1551 n° -; abitanti anno 1745 n° 129; abitanti anno 1833 n° 779; abitanti anno 1840 n° 801.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Oratojo; titolo delle cure succursali: S. Michele; abitanti anno 1551 n° 149; abitanti anno 1745 n° 375; abitanti anno 1833 n° 778; abitanti anno 1840 n° 852.
- titolo della parrocchia compresa nella Comunità di Pisa: Putignano; titolo delle cure succursali: S. Bartolommeo; abitanti anno 1551 n° 147; abitanti anno 1745 n° 485; abitanti anno 1833 n° 1410; abitanti anno 1840 n° 1578.
- titolo della parrocchia compresa nella ComunitĂ di Pisa: Riglione (*); titolo delle cure succursali: SS. Ippolito e Cassiano con lâannesso di S. Donato a Montione; abitanti anno 1551 n° 124; abitanti anno 1745 n° 592; abitanti anno 1833 n° 1332; abitanti anno 1840 n° 1367 - Totale popolazione anno 1551: abitanti n° 11692 - Totale popolazione anno 1745: abitanti n° 19228 Entrano nella ComunitĂ di PISA le seguenti frazioni di popolazioni provenienti da altre ComunitĂ limitrofe - nome del luogo: Pieve di Caprona, ComunitĂ donde proviene: Vico Pisano, abitanti anno 1833: n° 62, abitanti anno 1840: n° 72 - nome del luogo: Ghezzano, ComunitĂ donde proviene: Bagni di S. Giuliano, abitanti anno 1833: n° 87, abitanti anno 1840: n° 88 - nome del luogo: Madonna dellâAcqua, ComunitĂ donde proviene: Bagni di S. Giuliano, abitanti anno 1833: n° 124, abitanti anno 1840: n° 157 - nome del luogo: Nicosia, ComunitĂ donde proviene: Vico Pisano, abitanti anno 1833: n° 290, abitanti anno 1840: n° 353 - Totale popolazione anno 1833: abitanti n° 37649 - Totale popolazione anno 1840: abitanti n° 41648 N. B. La Parrocchia di Riglione contrassegnata con lâasterisco (*) negli anni 1833 e 1840 mandava fuori della ComunitĂ di Pisa: anno 1833 abitanti n° 422, anno 1840 abitanti n° 442 - RESTAVANO anno 1833: abitanti n° 37227 anno 1840: abitanti n° 41206 (1) N. B. Nel presente CENSIMENTO DELLA CITTAâ DI PISA sono comprese ancora le quattro parrocchie suburbane deâTerzieri di CittĂ : cioè S. Stefano extra moenia, S. Michele degli Scalzi, S. Marco alle Cappelle, e S. Giovanni al Gatano, giĂ detto dei Gaetani.
MOVIMENTO della Popolazione della ComunitĂ di PISA dallâAprile del 1818 a tutto Aprile del 1840.
- anno 1818 popolazione: 30,718 numero dei nati: maschi 594, femmine 528, totale 1112 numero dei morti: maschi 562, femmine 547, totale 1109 numero dei matrimoni: 198 numero dei nati da ignoti genitori: 149 centenari: 1 - anno 1819 popolazione: 30,606 numero dei nati: maschi 611, femmine 522, totale 1133 numero dei morti: maschi 605, femmine 506, totale 1111 numero dei matrimoni: 283 numero dei nati da ignoti genitori: 146 centenari: - - anno 1820 popolazione: 31,111 numero dei nati: maschi 608, femmine 623, totale 1231 numero dei morti: maschi 551, femmine 495, totale 1046 numero dei matrimoni: 316 numero dei nati da ignoti genitori: 162 centenari: - - anno 1821 popolazione: 31,593 numero dei nati: maschi 657, femmine 632, totale 1289 numero dei morti: maschi 611, femmine 527, totale 1138 numero dei matrimoni: 240 numero dei nati da ignoti genitori: 134 centenari: 1 - anno 1822 popolazione: 32,187 numero dei nati: maschi 656, femmine 650, totale 1306 numero dei morti: maschi 454, femmine 467, totale 921 numero dei matrimoni: 258 numero dei nati da ignoti genitori: 144 centenari: - - anno 1823 popolazione: 32,738 numero dei nati: maschi 616, femmine 632, totale 1248 numero dei morti: maschi 515, femmine 477, totale 992 numero dei matrimoni: 226 numero dei nati da ignoti genitori: 138 centenari: - - anno 1824 popolazione: 33,056 numero dei nati: maschi 617, femmine 636, totale 1253 numero dei morti: maschi 484, femmine 474, totale 958 numero dei matrimoni: 294 numero dei nati da ignoti genitori: 132 centenari: - - anno 1825 popolazione: 33,648 numero dei nati: maschi 674, femmine 648, totale 1322 numero dei morti: maschi 533, femmine 554, totale 1087 numero dei matrimoni: 275 numero dei nati da ignoti genitori: 143 centenari: - - anno 1826 popolazione: 34,241 numero dei nati: maschi 663, femmine 609, totale 1272 numero dei morti: maschi 531, femmine 536, totale 1067 numero dei matrimoni: 258 numero dei nati da ignoti genitori: 112 centenari: 1 - anno 1827 popolazione: 34,663 numero dei nati: maschi 673, femmine 605, totale 1278 numero dei morti: maschi 551, femmine 555, totale 1106 numero dei matrimoni: 237 numero dei nati da ignoti genitori: 97 centenari: - - anno 1828 popolazione: 35,145 numero dei nati: maschi 684, femmine 665, totale 1349 numero dei morti: maschi 500, femmine 409, totale 909 numero dei matrimoni: 279 numero dei nati da ignoti genitori: 113 centenari: - - anno 1829 popolazione: 35,641 numero dei nati: maschi 653, femmine 599, totale 1252 numero dei morti: maschi 572, femmine 519, totale 1091 numero dei matrimoni: 222 numero dei nati da ignoti genitori: 91 centenari: - - anno 1830 popolazione: 36,258 numero dei nati: maschi 709, femmine 655, totale 1364 numero dei morti: maschi 646, femmine 564, totale 1210 numero dei matrimoni: 245 numero dei nati da ignoti genitori: 110 centenari: - - anno 1831 popolazione: 36,512 numero dei nati: maschi 693, femmine 656, totale 1349 numero dei morti: maschi 597, femmine 545, totale 1142 numero dei matrimoni: 257 numero dei nati da ignoti genitori: 97 centenari: - - anno 1832 popolazione: 37,029 numero dei nati: maschi 711, femmine 616, totale 1327 numero dei morti: maschi 517, femmine 489, totale 1006 numero dei matrimoni: 267 numero dei nati da ignoti genitori: 111 centenari: - - anno 1833 popolazione: 37,227 numero dei nati: maschi 658, femmine 650, totale 1308 numero dei morti: maschi 610, femmine 561, totale 1171 numero dei matrimoni: 287 numero dei nati da ignoti genitori: 80 centenari: - - anno 1834 popolazione: 37,794 numero dei nati: maschi 745, femmine 711, totale 1456 numero dei morti: maschi 650, femmine 585, totale 1235 numero dei matrimoni: 322 numero dei nati da ignoti genitori: 105 centenari: 1 - anno 1835 popolazione: 38,270 numero dei nati: maschi 758, femmine 663, totale 1421 numero dei morti: maschi 865, femmine 813, totale 1678 numero dei matrimoni: 262 numero dei nati da ignoti genitori: 112 centenari: - - anno 1836 popolazione: 38,322 numero dei nati: maschi 728, femmine 704, totale 1432 numero dei morti: maschi 532, femmine 541, totale 1073 numero dei matrimoni: 289 numero dei nati da ignoti genitori: 71 centenari: - - anno 1837 popolazione: 39,105 numero dei nati: maschi 757, femmine 701, totale 1458 numero dei morti: maschi 601, femmine 564, totale 1165 numero dei matrimoni: 266 numero dei nati da ignoti genitori: 109 centenari: - - anno 1838 popolazione: 39,959 numero dei nati: maschi 706, femmine 672, totale 1378 numero dei morti: maschi 488, femmine 513, totale 1001 numero dei matrimoni: 265 numero dei nati da ignoti genitori: 91 centenari: - - anno 1839 popolazione: 40,715 numero dei nati: maschi 751, femmine 699, totale 1450 numero dei morti: maschi 539, femmine 509, totale 1048 numero dei matrimoni: 281 numero dei nati da ignoti genitori: 81 centenari: 1 - anno 1840 popolazione: 41,206 numero dei nati: maschi 738, femmine 731, totale 1469 numero dei morti: maschi 548, femmine 623, totale 1171 numero dei matrimoni: 284 numero dei nati da ignoti genitori: 103 centenari: - DIOCESI DI PISA Senza entrare in discussione, se S. Pietro approdasse dove è ora la chiesa di S. Piero a Grado, e se quel principe degli Apostoli instituisse costĂ molti cittadini pisani nella fede di Cristo rigenerandoli col S. Battesimo; senza assentire che fino dâallora si costituisse per Pisa un diocesano, niuno certamente vorrĂ negare il fatto che in questa cittĂ fu eretta una delle prime sedi vescovili della Toscana.
Avvegnachè fra i monumenti superstiti abbiamo quello che ne avvisa, qualmente nel principio del secolo IV i Pisani avevano un vescovo proprio, Gaudenzio, il quale nellâanno 313 insieme con Felice vescovo di Firenze e con molti altri prelati assistĂŠ in Roma ad un Concilio sotto il pontefice Melchiade.
GiĂ il professore pisano Padre Mattei ad istanza dellâarcivescovo Francesco deâconti Guidi di Volterra nel secolo passato diede alla luce una storia della chiesa pisana e deâ suoi prelati, nella quale egli con molto senno raccolse e discusse non solo tutto ciò che era da sapersi rispetto allâorigine della religione cristiana in Pisa e allâistituzione meno dubbia del suo vescovato, ma ancora intorno allâepoca in cui la sua chiesa fu decorata delle attribuzioni di metropolitana, ed i suoi arcivescovi di quelle di Primati e legati apostolici nelle isole della Corsica e della Sardegna; per modo che sarebbe un voler portare nottole ad Atene lâintrattenere su di ciò il lettore di questo Dizionario.
Lo stesso Padre Mattei non omise tampoco di avvertire che fu lo stesso arcivescovo dei conti Guidi quello che mostrò al Muratori la copiosa seri di pergamene del dovizioso archivio arcivescovile di Pisa, mentre devasi allo zelo del di lui antecessore, lâarcivescovo Frosini, la copia esatta di 2585 membrane trascritte in 12 volumi, a partire dallâanno 720 fino al 1447.
Nemmeno starò a ritornare sul quesito, se la diocesi antica pisana corrispondesse mai al distretto della provincia civile della stessa cittĂ , nel modo che questa lo doveva essere sotto lâimpero romano, e se la provincia medesima dalla parte del Val dâArno Inferiore si estendesse fino alla XXXII pietra milliare, siccome lo darebbe a credere lâiscrizione trovata presso Empoli al luogo di Pietrafitta, tanto piĂš che i luoghi dâEmpoli, e meglio ancora di Pietrafitta sono molto piĂš di 32 miglia romane da Pisa lontani. â Vedere EMPOLI.
Che però la provincia ecclesiastica, ossia la diocesi di Pisa, nĂŠ anche ai tempi antichi, arrivasse fino a Empoli, molti fatti dei secoli anteriori al mille furono rammentati aglâArticolo EMPOLI, LUCCA e BORGO S. GENESIO, e tali che mi sembrano sufficienti a dimostrarlo.
Allâopposto è noto che la provincia civile pisana dal lato occidentale si estendeva fino al fiume Versilia, quando la sua diocesi non oltrepassava, che si sappia, il lago di Massaciuccoli. Vero è che in un ricordo del secolo XI, attribuito ad Uberto Lanfranchi, arcivescovo e console del Comune di Pisa, furono segnate alcuni pievi che innanzi al 1015 si dissero della diocesi pisana, alcune delle quali, o non sono mai esistite, ossivero furono sempre nella diocesi fiorentina o do quelle di Lucca e di Volterra. â (Vedere MATTHEI, Oper. cit. Tomo I. capitolo 5. e MEMOR. LUCCH. Tomo IV.) Che nei tumulti dâinvasioni estere accaduti nei secoli V, VI e VII le diocesi ecclesiastiche al pari delle civili fossero state soggette a diverse mutazioni non lasciano luogo a dubitarne molti fatti conservati dalla storia, fra i quali è notissimo in Toscana quello relativo alla questione nel principio del secolo VIII insorta fra il vescovo di Siena e quello di Arezzo. â Comunque sia la bisogna, è cosa certa però che lâorigine della diocesi di Pisa trovasi involta in una impenetrabile oscuritĂ , ad attraversare la quale senza pericolo di sbagliar cammino parve allo stesso Padre Mattei impresa troppo difficile, per non dire impossibile.
Limitandomi pertanto ad epoche istoriche accessibili dai documenti superstiti, dirò, come tutto concorre a far credere che sino al secolo VII dellâEra Cristiana, il perimetro della diocesi ecclesiastica di Pisa fosse lo stesso di quello che troviamo nel secolo XIII descritto per pivieri con le respettive chiese filiali, eremi, monasteri e spedali, sia in cittĂ come in campagna; voglio dire del catalogo di quelle chiese fatto e rogato nel 1277 alla presenza di Ruggero II arcivescovo di Pisa per raccogliere le decime state imposte il terzâanno in sussidio di Terra Santa proporzionatamente alle rendite ed al fiorino estimale di ciascuna chiesa e luogo pio.
Anche piĂš esteso è lâaltro catalogo compilato nel 1372, il di cui originale ho potuto riscontrare nella curia arcivescovile pisana. â Ă un codice dove furono registrate quattro imposizioni sugli ecclesiastici nellâanno medesimo; la prima del mese di luglio per 300 fiorini dâimprestito richiesto dal Comune di Pisa; la seconda del mese dâagosto per un aumento di fiorini 50 imposti al clero di tutta la diocesi da pagarsi al nunzio apostolico; la terza di fiorini 165 da pagarsi al cardinale gerosolimitano; e la quarta per ordine del legato pontificio, nel marzo dellâanno stesso 1372, (o 1373 stile comune) per la somma di fiorini 350. â Dai quali registri risulta che i beni del clero della diocesi pisana erano accatastati in guisa che avevano un estimo di fiorini 346, soldi sei, e denari tre, che gli estimi piĂš alti erano quelli della mensa arcivescovile, i cui beni trovavansi al catasto per 42 fiorini, lâestimo del capitolo pisano per 50 fiorini, quelli del priorato di Nicosia per 44 fiorini, del priorato in S.
Martino in Chinsica per 20 fiorini, del Monastero di Quiesa per fiorini 18, e del Monastero di S. Stefano oltrâOseri, o extra moenia, per 15 fiorini. Inoltre dalle quattro apposizioni di sopra menzionate apparisce, che allâanno 1372 ogni fiorino dâoro in Pisa correva per lire 3 soldi 9 e denari 6 di quella moneta.
Da cotesto ultimo registro pertanto risulta che allâanno 1372 esistevano nella diocesi 351 chiese oltre la Primaziale, fra le quali 60 in cittĂ con 18 spedali, 26 pievi, 14 priorati, 12 monasteri e 4 eremi.
Molte però di quelle chiese, spedali e monasteri attualmente piĂš non esistono nĂŠ in campagna nĂŠ in cittĂ , essendo stati distrutti dal tempo o ridotti ad altro uso.Che se lâestimo del 1372 può dare unâidea sulla proporzione delle entrate di ciascuna chiesa ivi rammentata, non basta però la cognizione della loro imposta a deciderlo. Solo rispetto alla mensa arcivescovile potrebbero dirlo glâistrumenti scritti fra il secolo VIII e XIII che conservavansi in quellâarchivio, molti deâ quali furono pubblicati nelle antichitĂ del Medioevo, onde rilevare quali e quante furono le possessioni quante le castella, le corti ed i fedeli spettanti al patrimonio della mensa pisana.
Giovano inoltre quei documenti a conoscere in qual maniera quasi tutto il suolo davanti alla spiaggia di Pisa, stato progressivamente da quinduci e piĂš secoli abbandonato dal mare per le cause di sopra indicate, pervenisse per ragioni di sovranitĂ nella lista civile dei re dâItalia, e come poi in seguito da questi o dai loro ministri fosse donato alla mensa arcivescovile, o alla Primaziale, oppure al di lei capitolo, quando molti marchesi della Toscana, conti, visconti, o altri ricchi e devoti longobardi pisani, pro remedio animae, offerivano alle chiese il dominio diretto di tutta o di una parte delle corti o castella loro, su molte delle quali gli arcivescovi di Pisa esercitarono per qualche secolo giurisdizione temporale e spirituale.
Peraltro a cotesti piccoli dinastie gerarchi il Comune pisano aveva giĂ scorciato il potere, quando lâarcivescovo Ruggero nel 15 giugno del 1286 (stile comune) presentava al pievano di Cascina lettere del pontefice Martino IV, spedite nel 7 maggio da Orvieto, perchĂŠ quel sacerdote cercasse di ultimare la lite che allora verteva fra la mensa arcivescovile e gli Anziani di Pisa per la giurisdizione temporale deâcastelli deâMeli, di Riparbella, Beliora, Pomaja, Santa Luce, Lorenzana, Colle Alberti, Nugola, Filettole e Avane, Bientina, Usigliano e Colle Montanino.
Non ra mmenterò il diritto di pedaggio che il governo della repubblica aveva ceduto agli arcivescovi di Pisa rispetto alla dogana del sale e al ferro dellâisola dâElba, nĂŠ come gli Anziani, nel 1208, volendo aderire alle stanze dellâarcivescovo Ruggiero, ordinassero che il pedaggio solito riscuotersi a pro della mensa del Castel del Bosco fosse trasportato a Calcinaja.
Dirò piuttosto che nel 1464 gli ufiziali del Monte Comune di Firenze per una provvisione della Signoria consegnarono a Filippo di Vieri deâ Medici, allora arcivescovo di Pisa, tanta quantitĂ di terreno boschivo, prativo e padulesco dellâestensione di stiora 3661 quadrate, da prendersi nelle contrade di Barbaricina (presso le RR. Cascine di Pisa), a Cafoggio Reggio, al Marmigliajo , a Cisanello, ecc. luoghi esistenti nel suburbio occidentale di Pisa.
Lâepoca dellâerezione della chiesa di S. Maria Maggiore di Pisa in arcivescovile risale al 1092 mediante una bolla del 21 aprile diretta dal Pontefice Urbano II al vescovo Daimberto, cui giĂ dallâanno innanzi per bolla del 23 maggio 1091 aveva conferito la supremazia metropolitana sullâisola di Corsica. I suddetti privilegii furono confermati dai pontefici Gelasio II e Onorio II. Ma il Pontefice Innocenzo II allâoccasione di innalzare in metropolitana la cattedrale di Genova, assegnò a questa tre vescovi suffraganei della Corsica, mentre con la bolla del I maggio 1138 confermava ai metropolitani della chiesa pisana la supremazia sopra tre altri vescovi della stessa isola, aggiungendogli due chiese vescovili nellâisola di Sardegna con quella di Populonia in Terraferma, e dichiarando nel tempo stesso gli arcivescovi di Pisa Primati nel giudicato di Torres. Quindi con bolla del Pontefice Alessandro III (11 aprile 1176) fu concesso loro lâonore di Primati sulle provincie di Cagliari e Alborea. â Ma dopo espulsi i Pisani dal dominio della Sardegna, anche i loro arcivescovi perderono di fatto, se non di diritto, ogni giurisdizione spirituale, restandogli il titolo di Legati apostolici e di Primati nelle prenominate isole.Inoltre nel 1446 il Ponteficie Pio II staccò la diocesi di Massa e Populonia dalla metropolitana di Pisa per darla alla nuova arcivescovile di Siena.
Ma nel 1778, allâoccasione dellâerezione della diocesi di Pontremoli nella Lunigiana granducale, quel vescovo fu dato suffraganeo al metropolitano di Pisa, cui sono stati sottoposti, nel 1806 il nuovo vescovo di Livorno, e nel 1823 quello di Massa Ducale.
Cangiamenti recenti accaduti nel perimetro della diocesi di Pisa . â Nel 1789, per bolla del Ponteficie Pio VI del 18 luglio, furono staccati dalla diocesi di Pisa e dati a quelli di Lucca sette popoli costituenti il pievanato di Massaciuccoli, compresi tutti nel territorio lucchese, invece dei quali la diocesi di Lucca cedĂŠ alla pisana la pieve di Ripafratta coi popoli del vicariato di Barga; dipoi nel 1798 la diocesi di Pisa acquistò dalla lucchese i popoli del vicariato di Pietrasanta, spettanti al Granducato, comprevisi anco i due pievanati di Vallecchia e di Seravezza appartenuti alla diocesi di Pontre moli, giĂ di Luni Sarzana. â SennonchĂŠ nel 1806 furono smembrati dalla chiesa pisana tutti i popoli della diocesi di Livorno.
â Vedere LUCCA e LIVORNO, Diocesi.
Nello stato attuale la madre chiesa pisana conta 133 parrocchie, 18 delle quali dentro le mura della cittĂ , con 33 pivieri.
Dal Quadro sinottico qui appresso risulta che le 133 parrocchie ivi designate, nellâanno 1551 contavano 37632 abitanti dei quali 9434 abitanti spettavano ai Terzieri e 501 alle otto chiese suburbane. Nel 1745 le 133 parrocchie avevano 62798 abitanti dei quali 14015 erano nei Terzieri, e 4115 nelle 8 chiese suburbane di Pisa. Nel 1833 le 133 cure medesime avevano accresciuto la loro popolazione fino a 122863 abitanti dei quali 26374 alla cittĂ (comprese peraltro le quattro chiese suburbane deâ suoi Terzieri), mentre le altre otto chiese del suburbio di Pisa contavano 7460 abitanti. Finalmente nel 1840 tutta la diocesi si componeva di 135123 abitanti, dei quali 19192 nei Terzieri di Pisa, e 7968 abitanti nelle otto chiese suburbane.
La formazione però deâ pievanati collâandare del tempo ha sofferto varie vicende, talchè non è possibile determinare lâepoca dellâaggregazione delle chiese parrocchiali da lunga data soppresse o di rute.
La diocesi pisana, oltre al capitolo maggiore, composto di 27 canonici con 3 dignitĂ e 56 cappellani, ha tre chiese collegiate, una delle quali in cittĂ (la Conventuale deâCavalieri) e due nel distretto cioè, a Pietrasanta, e a Barga. Essa ha un grandioso seminario nel soppresso convento di S. Caterina deâFrati Domenicani, provvisto di maestri e di biblioteca con un collegio annesso.
Fra gli arcivescovi piÚ celebri non tacerò quel Daiberto che condusse i Pisani alla crociata del gran Goffredo.
Quel Pietro Mariconi che fu duce dellâarmata navale alla conquista delle isole Baleari, e quellâUbaldo Lanfranchi, campione di unâaltra crociata per riconquistare la santa cittĂ di Gerusalemme. Meritano pure di essere rammentati un Federigo Visconti, un Carlo Antonio del Pozzo, ed un Angelo Franceschi, i quali tutti lasciarono di se onorevoli memorie, per tralasciare molti altri arcivescovi insigni per dottrina e per cristiane virtĂš, senza dire di due altri troppo famigerati nellâistoria pisana e fiorentina a cagione della morte del conte Ugolino e della congiura deâPazzi.
QUADRO SINOTTICO dei 33 Pievanati della DIOCESI di PISA con la loro popolazione a quattro epoche diverse.
PIVIERE MAGGIORE di CITTAâ - nome del luogo: 1. Pievanato della Primaziale con 4 chiese suburbane titolo della chiesa: Terziere di S. Maria popolazione anno 1551: abitanti n° 2321, popolazione anno 1745: abitanti n° 4059, popolazione anno 1833: abitanti n° 6893, popolazione anno 1840: abitanti n° 7515; titolo della chiesa: Terziere di S. Francesco popolazione anno 1551: abitanti n° 3424, popolazione anno 1745: abitanti n° 4539, popolazione anno 1833: abitanti n° 8941, popolazione anno 1840: abitanti n° 9893; titolo della chiesa: Terziere di S. Chinsica popolazione anno 1551: abitanti n° 3689, popolazione anno 1745: abitanti n° 5408, popolazione anno 1833: abitanti n° 10540, popolazione anno 1840: abitanti n° 11782; N° 8 chiese suburbane fuori deâTerzieri, popolazione anno 1551: abitanti n° 501, popolazione anno 1745: abitanti n° 4115, popolazione anno 1833: abitanti n° 7460, popolazione anno 1840: abitanti n° 7968; TOTALE deli Abitanti del Pievanato maggiore: anno 1551 n° 9935, anno 1745 n° 18121, anno 1833 n° 33834, anno 1840 n° 37160.
PIVIERI DI CAMPAGNA - nome del luogo: 2. Pievanato di Arena titolo della chiesa: Pieve di Arena popolazione anno 1551: abitanti n° 131, popolazione anno 1745: abitanti n° 470, popolazione anno 1833: abitanti n° 565, popolazione anno 1840: abitanti n° 631; titolo della chiesa: S. Jacopo di Cafaggio reggio con lâannesso di Metato popolazione anno 1551: abitanti n° 94, popolazione anno 1745: abitanti n° 172, popolazione anno 1833: abitanti n° 471, popolazione anno 1840: abitanti n° 532; - nome del luogo: 3. Pievanato dâAsciano titolo della chiesa: Pieve dâAsciano popolazione anno 1551: abitanti n° 148, popolazione anno 1745: abitanti n° 509, popolazione anno 1833: abitanti n° 1396, popolazione anno 1840: abitanti n° 1590; titolo della chiesa: S. Jacopo dâAgnano popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° 232, popolazione anno 1833: abitanti n° 469, popolazione anno 1840: abitanti n° 479; - nome del luogo: 4. Pievanato dâAvane titolo della chiesa: Pieve dâAvane senza succursali popolazione anno 1551: abitanti n° 223, popolazione anno 1745: abitanti n° 297, popolazione anno 1833: abitanti n° 700, popolazione anno 1840: abitanti n° 738; - nome del luogo: 5. Pievanato di Barga titolo della chiesa: Collegiata di Barga popolazione anno 1745: abitanti n° 1830, popolazione anno 1833: abitanti n° 2510, popolazione anno 1840: abitanti n° 2675; titolo della chiesa: S. Maria a Loppia popolazione anno 1745: abitanti n° 834, popolazione anno 1833: abitanti n° 1473, popolazione anno 1840: abitanti n° 1633; titolo della chiesa: S. Niccola a Castelvecchio popolazione anno 1745: abitanti n° 278, popolazione anno 1833: abitanti n° 353, popolazione anno 1840: abitanti n° 410; titolo della chiesa: S. Frediano a Sommocologna popolazione anno 1745: abitanti n° 582, popolazione anno 1833: abitanti n° 536, popolazione anno 1840: abitanti n° 557; titolo della chiesa: S. Pietro a Campo popolazione anno 1745: abitanti n° 575, popolazione anno 1833: abitanti n° 792, popolazione anno 1840: abitanti n° 803; titolo della chiesa: S. Giusto a Tiglio popolazione anno 1745: abitanti n° 635, popolazione anno 1833: abitanti n° 883, popolazione anno 1840: abitanti n° 958; titolo della chiesa: S. Michele a Albiano popolazione anno 1745: abitanti n° 196, popolazione anno 1833: abitanti n° 243, popolazione anno 1840: abitanti n° 260; totale popolazione anno 1551 del Pievanato di Barga: abitanti n° 3895 - nome del luogo: 6. Pievanato di Bientina titolo della chiesa: Pieve di Bientina senza suffraganee popolazione anno 1551: abitanti n° 700, popolazione anno 1745: abitanti n° 1548, popolazione anno 1833: abitanti n° 2209, popolazione anno 1840: abitanti n° 2337; - nome del luogo: 7. Pievanato di Buti titolo della chiesa: Pieve di Bientina senza suffraganee popolazione anno 1551: abitanti n° 962, popolazione anno 1745: abitanti n° 1598, popolazione anno 1833: abitanti n° 3498, popolazione anno 1840: abitanti n° 3775; - nome del luogo: 8. Pievanato di Calci titolo della chiesa: Pieve di Calci popolazione anno 1745: abitanti n° 1474, popolazione anno 1833: abitanti n° 1764, popolazione anno 1840: abitanti n° 1844; titolo della chiesa: S. Bartolommeo a Tracolle popolazione anno 1745: abitanti n° 142, popolazione anno 1833: abitanti n° 199, popolazione anno 1840: abitanti n° 224; titolo della chiesa: S. Michele a Castel maggiore popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 1000, popolazione anno 1840: abitanti n° 1266; titolo della chiesa: S. Salvadore a Colle popolazione anno 1745: abitanti n° 187, popolazione anno 1833: abitanti n° 334, popolazione anno 1840: abitanti n° 327; titolo della chiesa: S. Andrea a Lama o a Zambra popolazione anno 1745: abitanti n° 202, popolazione anno 1833: abitanti n° 269, popolazione anno 1840: abitanti n° 343; titolo della chiesa: S. Agostino di Nicosia popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 463, popolazione anno 1840: abitanti n° 526; totale popolazione anno 1551 del Pievanato di Calci: abitanti n° 1249 - nome del luogo: 9. Pievanato di Calcinaja titolo della chiesa: Pieve di Calcinaja con lâannesso di Montecchio popolazione anno 1551: abitanti n° 515, popolazione anno 1745: abitanti n° 1142, popolazione anno 1833: abitanti n° 2437, popolazione anno 1840: abitanti n° 2586; - nome del luogo: 10. Pievanato di Campo titolo della chiesa: Pieve di Campo e annessi popolazione anno 1551: abitanti n° 199, popolazione anno 1745: abitanti n° 470, popolazione anno 1833: abitanti n° 877, popolazione anno 1840: abitanti n° 631; titolo della chiesa: S. Jacopo a Colignola popolazione anno 1551: abitanti n° 123, popolazione anno 1745: abitanti n° 302, popolazione anno 1833: abitanti n° 674, popolazione anno 1840: abitanti n° 876; titolo della chiesa: S. Giovanni Battista a Ghezzano popolazione anno 1551: abitanti n° 96, popolazione anno 1745: abitanti n° 233, popolazione anno 1833: abitanti n° 485, popolazione anno 1840: abitanti n° 502; - nome del luogo: 11. Pievanato di Caprona titolo della chiesa: Pieve di Caprona popolazione anno 1551: abitanti n° 169, popolazione anno 1745: abitanti n° 195, popolazione anno 1833: abitanti n° 420, popolazione anno 1840: abitanti n° 420; titolo della chiesa: S. Salvatore a Uliveto e annessi popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° 421, popolazione anno 1833: abitanti n° 801, popolazione anno 1840: abitanti n° 826; titolo della chiesa: S. Maria a Mezzana popolazione anno 1551: abitanti n° 94, popolazione anno 1745: abitanti n° 298, popolazione anno 1833: abitanti n° 426, popolazione anno 1840: abitanti n° 460; - nome del luogo: 12. Pievanato di S. Casciano a Settimo titolo della chiesa: Pieve di S. Casciano popolazione anno 1551: abitanti n° 166, popolazione anno 1745: abitanti n° 571, popolazione anno 1833: abitanti n° 841, popolazione anno 1840: abitanti n° 990; titolo della chiesa: S. Frediano a Settimo popolazione anno 1551: abitanti n° 215, popolazione anno 1745: abitanti n° 252, popolazione anno 1833: abitanti n° 1087, popolazione anno 1840: abitanti n° 1069; titolo della chiesa: S. Benedetto a Settimo popolazione anno 1551: abitanti n° 193, popolazione anno 1745: abitanti n° 520, popolazione anno 1833: abitanti n° 658, popolazione anno 1840: abitanti n° 767; titolo della chiesa: S. Benedetto a Settimo popolazione anno 1551: abitanti n° 193, popolazione anno 1745: abitanti n° 520, popolazione anno 1833: abitanti n° 658, popolazione anno 1840: abitanti n° 767; titolo della chiesa: S. Michele a Marciana e a Marcianella popolazione anno 1551: abitanti n° 205, popolazione anno 1745: abitanti n° 571, popolazione anno 1833: abitanti n° 629, popolazione anno 1840: abitanti n° 636; titolo della chiesa: S. Michele a Casciavola popolazione anno 1551: abitanti n° 128, popolazione anno 1745: abitanti n° 343, popolazione anno 1833: abitanti n° 942, popolazione anno 1840: abitanti n° 1033; titolo della chiesa: S. Maria e Jacopo a Zambra popolazione anno 1551: abitanti n° 155, popolazione anno 1745: abitanti n° 488, popolazione anno 1833: abitanti n° 619, popolazione anno 1840: abitanti n° 631; titolo della chiesa: S. Giorgio a Bibbiano popolazione anno 1551: abitanti n° 103, popolazione anno 1745: abitanti n° 385, popolazione anno 1833: abitanti n° 650, popolazione anno 1840: abitanti n° 773; titolo della chiesa: S. Lorenzo a Pagnatico popolazione anno 1551: abitanti n° 259, popolazione anno 1745: abitanti n° 331, popolazione anno 1833: abitanti n° 635, popolazione anno 1840: abitanti n° 637; titolo della chiesa: S. Prospero a Via Cava popolazione anno 1551: abitanti n° 559, popolazione anno 1745: abitanti n° 629, popolazione anno 1833: abitanti n° 995, popolazione anno 1840: abitanti n° 1087; titolo della chiesa: S. Jacopo a Navacchio popolazione anno 1551: abitanti n° 114, popolazione anno 1745: abitanti n° 100, popolazione anno 1833: abitanti n° 218, popolazione anno 1840: abitanti n° 247; titolo della chiesa: S. Stefano a Macerata popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 404, popolazione anno 1840: abitanti n° 453; - nome del luogo: 13. Pievanato di Cascina titolo della chiesa: Pieve di Cascina popolazione anno 1551: abitanti n° 893, popolazione anno 1745: abitanti n° 1757, popolazione anno 1833: abitanti n° 2244, popolazione anno 1840: abitanti n° 2482; titolo della chiesa: S. Andrea a Pozzale popolazione anno 1551: abitanti n° 44, popolazione anno 1745: abitanti n° 550, popolazione anno 1833: abitanti n° 985, popolazione anno 1840: abitanti n° 1125; titolo della chiesa: S. Pietro a Latignano popolazione anno 1551: abitanti n° 26, popolazione anno 1745: abitanti n° 542, popolazione anno 1833: abitanti n° 982, popolazione anno 1840: abitanti n° 1049; - nome del luogo: 14. Pievanato di Colle Salvetti, giĂ di Vicarello titolo della chiesa: Pieve di Colle Salvetti popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 509, popolazione anno 1840: abitanti n° 900; titolo della chiesa: S. Jacopo a Vicarello popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 760, popolazione anno 1840: abitanti n° 973; - nome del luogo: 15. Pievanato di Filettole titolo della chiesa: Pieve di Filettole senza succursali popolazione anno 1551: abitanti n° 208, popolazione anno 1745: abitanti n° 456, popolazione anno 1833: abitanti n° 904, popolazione anno 1840: abitanti n° 967; - nome del luogo: 16. Pievanato di S. Giovanni alla Vena titolo della chiesa: Pieve di S. Giovanni alla Vena popolazione anno 1551: abitanti n° 493, popolazione anno 1745: abitanti n° 772, popolazione anno 1833: abitanti n° 1485, popolazione anno 1840: abitanti n° 1564; titolo della chiesa: S. Andrea a Cucigliana popolazione anno 1551: abitanti n° 117, popolazione anno 1745: abitanti n° 305, popolazione anno 1833: abitanti n° 475, popolazione anno 1840: abitanti n° 498; titolo della chiesa: S. Quirico a Lugnano e annessi popolazione anno 1551: abitanti n° 217, popolazione anno 1745: abitanti n° 258, popolazione anno 1833: abitanti n° 440, popolazione anno 1840: abitanti n° 430; - nome del luogo: 17. Pievanato di S. Lorenzo alle Corti titolo della chiesa: Pieve di S. Lorenzo alle Corti popolazione anno 1551: abitanti n° 148, popolazione anno 1745: abitanti n° 377, popolazione anno 1833: abitanti n° 644, popolazione anno 1840: abitanti n° 775; titolo della chiesa: SS. Pietro e Giusto a Visignano popolazione anno 1551: abitanti n° 99, popolazione anno 1745: abitanti n° 185, popolazione anno 1833: abitanti n° 405, popolazione anno 1840: abitanti n° 420; titolo della chiesa: SS. Andrea e Lucia a Ripoli e Celajano popolazione anno 1551: abitanti n° 204, popolazione anno 1745: abitanti n° 130, popolazione anno 1833: abitanti n° 275, popolazione anno 1840: abitanti n° 281; titolo della chiesa: S. Sisto al Pino popolazione anno 1551: abitanti n° 134, popolazione anno 1745: abitanti n° 195, popolazione anno 1833: abitanti n° 345, popolazione anno 1840: abitanti n° 370; titolo della chiesa: S. Michele a Oratojo popolazione anno 1551: abitanti n° 149, popolazione anno 1745: abitanti n° 385, popolazione anno 1833: abitanti n° 778, popolazione anno 1840: abitanti n° 852; titolo della chiesa: S. Stefano a Pettori popolazione anno 1551: abitanti n° 142, popolazione anno 1745: abitanti n° 358, popolazione anno 1833: abitanti n° 625, popolazione anno 1840: abitanti n° 6 0; titolo della chiesa: SS. Ippolito e Casciano a Riglione con lâannesso di S. Donato a Montione popolazione anno 1551: abitanti n° 178, popolazione anno 1745: abitanti n° 592, popolazione anno 1833: abitanti n° 1332, popolazione anno 1840: abitanti n° 1667; titolo della chiesa: S. Ilario a Titignano popolazione anno 1551: abitanti n° 126, popolazione anno 1745: abitanti n° 312, popolazione anno 1833: abitanti n° 604, popolazione anno 1840: abitanti n° 617; - nome del luogo: 18. Pievanato di Lorenzana titolo della chiesa: Pieve di Lorenzana con piĂš lâannesso di Postignano popolazione anno 1551: abitanti n° 249, popolazione anno 1745: abitanti n° 575, popolazione anno 1833: abitanti n° 931, popolazione anno 1840: abitanti n° 955; titolo della chiesa: S. Michele a Orciano popolazione anno 1551: abitanti n° 98, popolazione anno 1745: abitanti n° 207, popolazione anno 1833: abitanti n° 717, popolazione anno 1840: abitanti n° 787; - nome del luogo: 19. Pievanato di S. Luce titolo della chiesa: Pieve di S. Luce popolazione anno 1551: abitanti n° 616 (con S. Lucia e S.
Bartolommeo), popolazione anno 1745: abitanti n° 176, popolazione anno 1833: abitanti n° 397, popolazione anno 1840: abitanti n° 452; titolo della chiesa: S. Lucia a S. Luce popolazione anno 1551: abitanti n° 616 (con Pieve di S.
Luce e S. Bartolommeo), popolazione anno 1745: abitanti n° 257, popolazione anno 1833: abitanti n° 696, popolazione anno 1840: abitanti n° 790; titolo della chiesa: S. Bartolommeo a Pastina popolazione anno 1551: abitanti n° 616 (con Pieve di S.
Luce e S. Lucia), popolazione anno 1745: abitanti n° 155, popolazione anno 1833: abitanti n° 450, popolazione anno 1840: abitanti n° 590; - nome del luogo: 20. Pievanato di Pietrasanta titolo della chiesa: Collegiata insigne di Pietrasanta popolazione anno 1551: abitanti n° 1644, popolazione anno 1745: abitanti n° 761, popolazione anno 1833: abitanti n° 2914, popolazione anno 1840: abitanti n° 3177; titolo della chiesa: S. Maria Maddalena e S. Felicita in Val di Castello popolazione anno 1551: abitanti n° 474, popolazione anno 1745: abitanti n° 386 (con S. Rocco a Capezzano), popolazione anno 1833: abitanti n° 511, popolazione anno 1840: abitanti n° 583; titolo della chiesa: S. Rocco a Capezzano popolazione anno 1551: abitanti n° 118, popolazione anno 1745: abitanti n° 386 (con S. Maria Maddalena e S.
Felicita in Val di Castello), popolazione anno 1833: abitanti n° 818, popolazione anno 1840: abitanti n° 877; titolo della chiesa: S. Salvadore a Cavriglia, fuori di Pietrasanta popolazione anno 1551: abitanti n° 154, popolazione anno 1745: abitanti n° 380, popolazione anno 1833: abitanti n° 1067, popolazione anno 1840: abitanti n° 1215; - nome del luogo: 21. Pievanato di Montemagno titolo della chiesa: Pieve di Montemagno per grado onorifico popolazione anno 1551: abitanti n° 522, popolazione anno 1745: abitanti n° 644, popolazione anno 1833: abitanti n° 755, popolazione anno 1840: abitanti n° 777; - nome del luogo: 22. Pievanato di Pomaja titolo della chiesa: Pieve di Pomaja senza succursali popolazione anno 1551: abitanti n° 118, popolazione anno 1745: abitanti n° 91, popolazione anno 1833: abitanti n° 392, popolazione anno 1840: abitanti n° 369; - nome del luogo: 23. Pievanato di Pontedera titolo della chiesa: Pieve di Pontedera senza succursali popolazione anno 1551: abitanti n° 905, popolazione anno 1745: abitanti n° 2656, popolazione anno 1833: abitanti n° 5302, popolazione anno 1840: abitanti n° 5447; - nome del luogo: 24. Pievanato del Ponte a Serchio giĂ di Vecchializia titolo della chiesa: Pieve del Ponte a Serchio giĂ di Vecchializia popolazione anno 1551: abitanti n° 272, popolazione anno 1745: abitanti n° 378, popolazione anno 1833: abitanti n° 979, popolazione anno 1840: abitanti n° 1115; titolo della chiesa: S. Andrea a Pescajola popolazione anno 1551: abitanti n° 105, popolazione anno 1745: abitanti n° 126, popolazione anno 1833: abitanti n° 206, popolazione anno 1840: abitanti n° 220; - nome del luogo: 25. Pievanato di Pugnano titolo della chiesa: Pieve di Pugnano popolazione anno 1551: abitanti n° 112, popolazione anno 1745: abitanti n° 264, popolazione anno 1833: abitanti n° 376, popolazione anno 1840: abitanti n° 441; titolo della chiesa: S. Lucia alle Mulina di Quosa popolazione anno 1551: abitanti n° 207, popolazione anno 1745: abitanti n° 490, popolazione anno 1833: abitanti n° 818, popolazione anno 1840: abitanti n° 877; titolo della chiesa: S. Ippolito a Colognole e Patrignone popolazione anno 1551: abitanti n° 233, popolazione anno 1745: abitanti n° 137, popolazione anno 1833: abitanti n° 367, popolazione anno 1840: abitanti n° 414; - nome del luogo: 26. Pievanato di Rigoli titolo della chiesa: Pieve di Rigoli con lâannesso di Corliano popolazione anno 1551: abitanti n° 242, popolazione anno 1745: abitanti n° 421, popolazione anno 1833: abitanti n° 630, popolazione anno 1840: abitanti n° 676; titolo della chiesa: S. Bartolommeo a Orzignano popolazione anno 1551: abitanti n° 72, popolazione anno 1745: abitanti n° 175, popolazione anno 1833: abitanti n° 380, popolazione anno 1840: abitanti n° 448; titolo della chiesa: S. Maria a Pappiana popolazione anno 1551: abitanti n° 117, popolazione anno 1745: abitanti n° 195, popolazione anno 1833: abitanti n° 488, popolazione anno 1840: abitanti n° 503; titolo della chiesa: S. Giovanni a Limite e Corvinaja popolazione anno 1551: abitanti n° 172, popolazione anno 1745: abitanti n° 230, popolazione anno 1833: abitanti n° 498, popolazione anno 1840: abitanti n° 543; titolo della chiesa: S. Martino a Ulmiano popolazione anno 1551: abitanti n° 79, popolazione anno 1745: abitanti n° 240, popolazione anno 1833: abitanti n° 543, popolazione anno 1840: abitanti n° 639; - nome del luogo: 27. Pievanato di Ripafratta titolo della chiesa: Pieve di Ripafratta senza succursali popolazione anno 1551: abitanti n° 222, popolazione anno 1745: abitanti n° 484, popolazione anno 1833: abitanti n° 692, popolazione anno 1840: abitanti n° 763; - nome del luogo: 28. Pievanato di Riparbella titolo della chiesa: Pieve di Riparbella popolazione anno 1551: abitanti n° 330, popolazione anno 1745: abitanti n° 292, popolazione anno 1833: abitanti n° 1112, popolazione anno 1840: abitanti n° 1253; titolo della chiesa: S. Giovanni alla Castellina popolazione anno 1551: abitanti n° 490, popolazione anno 1745: abitanti n° 380, popolazione anno 1833: abitanti n° 1284, popolazione anno 1840: abitanti n° 1407; - nome del luogo: 29. Pievanato di Seravezza titolo della chiesa: Pieve di Seravezza popolazione anno 1551: abitanti n° 1581 (con S. Martino alla Cappella), popolazione anno 1745: abitanti n° 1258, popolazione anno 1833: abitanti n° 1871, popolazione anno 1840: abitanti n° 1960; titolo della chiesa: S. Martino alla Cappella popolazione anno 1551: abitanti n° 1581 (con Pieve di Seravezza), popolazione anno 1745: abitanti n° 653, popolazione anno 1833: abitanti n° 1062, popolazione anno 1840: abitanti n° 1074; titolo della chiesa: S. Paolo a Ruosina popolazione anno 1551: abitanti n° 235, popolazione anno 1745: abitanti n° 325, popolazione anno 1833: abitanti n° 361, popolazione anno 1840: abitanti n° 428; titolo della chiesa: S. Ansano a Basati popolazione anno 1551: abitanti n° 173, popolazione anno 1745: abitanti n° 241, popolazione anno 1833: abitanti n° 327, popolazione anno 1840: abitanti n° 376; titolo della chiesa: S. Maria Lauretana a Querceta popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 2455, popolazione anno 1840: abitanti n° 2817; titolo della chiesa: S. Maria a Livigliani popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° 363, popolazione anno 1833: abitanti n° 580, popolazione anno 1840: abitanti n° 605; titolo della chiesa: S. Clemente a Terrinca popolazione anno 1551: abitanti n° 369, popolazione anno 1745: abitanti n° 592, popolazione anno 1833: abitanti n° 818, popolazione anno 1840: abitanti n° 802; - nome del luogo: 30. Pievanato di Stazzema titolo della chiesa: Pieve di Stazzema popolazione anno 1551: abitanti n° 630, popolazione anno 1745: abitanti n° 940, popolazione anno 1833: abitanti n° 898, popolazione anno 1840: abitanti n° 977; titolo della chiesa: S. Michele a Farnocchia popolazione anno 1551: abitanti n° 330, popolazione anno 1745: abitanti n° 647, popolazione anno 1833: abitanti n° 718, popolazione anno 1840: abitanti n° 746; titolo della chiesa: S. Pietro a Retignano popolazione anno 1551: abitanti n° 213, popolazione anno 1745: abitanti n° 385, popolazione anno 1833: abitanti n° 455, popolazione anno 1840: abitanti n° 519; titolo della chiesa: S. Sisto a Pomezzana popolazione anno 1551: abitanti n° 234, popolazione anno 1745: abitanti n° 322, popolazione anno 1833: abitanti n° 367, popolazione anno 1840: abitanti n° 381; titolo della chiesa: S. Maria al Cardoso popolazione anno 1551: abitanti n° 92, popolazione anno 1745: abitanti n° 196, popolazione anno 1833: abitanti n° 344, popolazione anno 1840: abitanti n° 375; titolo della chiesa: S. Niccolò al Pruno e Volegno popolazione anno 1551: abitanti n° 349, popolazione anno 1745: abitanti n° 495, popolazione anno 1833: abitanti n° 659, popolazione anno 1840: abitanti n° 706; titolo della chiesa: S. Antonio allâAlpe di Stazzema popolazione anno 1551: abitanti n° -, popolazione anno 1745: abitanti n° -, popolazione anno 1833: abitanti n° 397, popolazione anno 1840: abitanti n° 419; - nome del luogo: 31. Pievanato di Vallecchia titolo della chiesa: Pieve di Vallecchia popolazione anno 1551: abitanti n° 493, popolazione anno 1745: abitanti n° 1735, popolazione anno 1833: abitanti n° 2914, popolazione anno 1840: abitanti n° 3177; titolo della chiesa: S. Antonio a Cerretta popolazione anno 1551: abitanti n° 38, popolazione anno 1745: abitanti n° 96, popolazione anno 1833: abitanti n° 115, popolazione anno 1840: abitanti n° 132; - nome del luogo: 32. Pievanato di Vecchiano titolo della chiesa: Pieve di Vecchiano popolazione anno 1745: abitanti n° 409, popolazione anno 1833: abitanti n° 1160, popolazione anno 1840: abitanti n° 1231; titolo della chiesa: S. Frediano a Vecchiano popolazione anno 1745: abitanti n° 302, popolazione anno 1833: abitanti n° 710, popolazione anno 1840: abitanti n° 859; titolo della chiesa: S. Pietro a Malaventre popolazione anno 1745: abitanti n° 122, popolazione anno 1833: abitanti n° 798, popolazione anno 1840: abitanti n° 899; titolo della chiesa: SS. Simone e Giuda a Nodica popolazione anno 1745: abitanti n° 236, popolazione anno 1833: abitanti n° 717, popolazione anno 1840: abitanti n° 744; totale popolazione anno 1551 del Pievanato di Vecchiano: abitanti n° 763 - nome del luogo: 33. Pievanato di Vicopisano titolo della chiesa: Pieve di Vico Pisano senza suffraganee popolazione anno 1551: abitanti n° 649, popolazione anno 1745: abitanti n° 1076, popolazione anno 1833: abitanti n° 1263, popolazione anno 1840: abitanti n° 1526; - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1551: abitanti n° 27697 - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1745: abitanti n° 44668 - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1833: abitanti n° 89029 - TOTALE popolazione dei Pievanati di Campagna anno 1840: abitanti n° 97963 RICAPITOLAZIONE - POPOLAZIONE dei tre Terzieri della CittĂ di PISA comprese 4 chiese suburbane: anno 1551 abitanti n° 9434 anno 1745 abitanti n° 14015 anno 1833 abitanti n° 26374 anno 1840 abitanti n° 29192 - POPOLAZIONE delle 8 parrocchie suburbane fuori dei Terzieri: anno 1551 abitanti n° 501 anno 1745 abitanti n° 4115 anno 1833 abitanti n° 7460 anno 1840 abitanti n° 7968 - POPOLAZIONE dei Pivieri di Campagna: anno 1551 abitanti n° 27697 anno 1745 abitanti n° 44668 anno 1833 abitanti n° 89029 anno 1840 abitanti n° 97963 - TOTALE DEGLI ABITANTI DELLA DIOCESI DI PISA: anno 1551 abitanti n° 37632 anno 1745 abitanti n° 62798 anno 1833 abitanti n° 122863 anno 1840 abitanti n° 135123 COMPARTIMENTO DI PISA Il Compartimento pisano in origine abbracciava il perimetro territoriale della sua repubblica, cangiato poi in distretto della fiorentina, compresovi il territorio disunito del Granducato di Toscana che gli fu e che attualmente gli resta aggregato, insieme alle isole del Giglio e di Gorgona ed ai paesi di terraferma con le isole che costituirono il principato di Piombino.
Da quel perimetro della repubblica conviene però distinguere lâantico suo contado dal distretto, mentre gli abitanti del primo come cittadini pisani godevano di maggiori diritti degli abitanti del secondo, siccome fu avvertito allâArticolo FIRENZE COMPARTIMENTO.
Il contado di Pisa dal lato orientale, alla sinistra dellâArno, terminava come adesso col torrente Ciecinella e rimontando il corso di questo abbracciava la ComunitĂ di Piccioli in Val dâEra. Di lĂ attraversava il fiume Era per abbracciare le Colline superiori e inferiori pisane fino in Val di Tora. Dal lato destro dellâArno il suo contado terminava col territorio di Vico Pisano sopra a Cintola, mentre le terre del Val dâArno spettarono un tempo al suo distretto. Dal lato poi settentrionale il contado pisano stendevasi in Val di Serchio, a partire da Filettole sino al mare, e di lĂ lungo il lido verso ostro fino alla Torre S.
Vincenzo, comprendendo il territorio di Campiglia.
Allâincontro spettava alla giurisdizione distrettuale della repubblica pisana tutto il littorale dalla Torre S. Vincenzo alla fiumara di Castiglione della Pescaja, siccome vi appartennero le isole dellâElba, della Pianosa, di Monte Cristo e del Giglio, mentre dalla parte di terraferma fu del distretto pisano fino al 1370 il territorio Sanminiatese, a partire dalla bocca dâElsa sino alla Chiecinella o Ciecinella, oltre i paesi di Val di Cecina e di Val di Cornia, che furono rammentati nei privilegii concessi agli Anziani di Pisa daglâImperatori Federigo I, Arrigo VI, Ottone IV, Federigo II e Carlo IV.
Se poi si volesse contemplare il Compartimento pisano, ossia il contado e distretto della Repubblica di Pisa, come lo era nel principio del secolo XIV, ne abbiamo una prova in un codice scritto da un tal Vanni di Zeno, e rivisto dal notaro Bernardo. Nel quale fu registrato un breve catalogo, mancante però di data cronica, dellâEntrate e alcune partite delle Spese spettanti alla Repubblica di Pisa; catalogo che è stato pubblicato nel 1839 in Berlino dal Dott. G. Doenninges nella Parte I dellâopera intitolata: Acta Henrici VII imperatoris, etc. (pag. 95 e 96).
Dal qual sommario pertanto apparirebbe che la repubblica di Pisa intorno al tempo dellâImperatore Arrigo VII avesse le entrate seguenti.
RENDITE ANNUE DEL DISTRETTO PISANO Dal regno Calaritano in Sardegna (ritraeva), Fiorini dâoro Da regno di Gallura ivi, Fiorini dâoro 20000 Dalle Condannagioni, nei detti due regni, Fiorini dâoro DallâIsola dâElba, al netto di spese, Fiorini dâoro 50000 Dai castelli di Castiglione della Pescaja e dellâAbbadia del Fango, al netto, Fiorini dâoro 12000 Dal castello di Piombino, fra sale e diritti al netto , Fiorini dâoro 6000 Sommano lâEntrate annue del Distretto Pisano, Fiorini dâoro 168000 RENDITE ANNUE DELLA CITTAâ E CONTADO DI PISA Dalle gabelle della cittĂ e dalla dogana della porta Degazia di Pisa, comprese le gabelle del Contado, circa lire 150,000 di moneta pisana detratte le spese, corrispondenti allora a Fiorini 48400 Dalle condannagioni deâgiudici nella cittĂ e contado di Pisa, unâanno per lâaltro Fiorini 30000 Sommano lâEntrate annue della cittĂ e contado di Pisa, Fiorini 78400 Totale dellâEntrate, Fiorini dâoro 246400 SPESE ANNUE DEL DISTRETTO PISANO Nel regno Calaritano per lo stipendio di 25 uomini a cavallo fissi, a ragione di otto fiorini al mese per uno, Fiorini 2400 Nel regno medesimo per 120 soldati a piedi per custodia deâcastelli che ivi teneva fissi il Comune di Pisa collo stipendio mensuale di lire 6 monete pisane per cadauno, importavano in un anno lire 8649 pari a fiorini dâoro 2804 Nel regno di Gallura per lo stipendio di 25 uomini a cavallo fissi, a otto fiorini il mese per cadauno, Fiorini dâoro 2400 Nel regno medesimo per 50 soldati a piedi fissi per la custodia deâcastelli, importavano lire 3600, pari a Fiorini dâoro 1161 Sommano le Spese annue dellâIsola di Sardegna, Fiorini dâoro 8765 SPESE ANNUE DELLA CITTAâ E CONTADO DI PISA Per lâannuo stipendio del PotestĂ e del Capitano del popolo lire 10000, pari a Fiorini dâoro 3225 Per lo stipendio di 370 pedoni che il Comune teneva fissi a custodia deâcastelli del suo contado, a lire tre soldi 10 il mese per ciascuno, sommano in un anno, Fiorini dâoro Somma delle Spese annue della cittĂ e contado di Pisa, Fiorini 20369 Totale delle Spese di un anno 29134 Frattanto lâautore del codice avvisò che il Comune di Pisa manteneva a seconda del bisogno, ora poche, e ora molte truppe a stipendio, ma di queste partite dichiarò a chi diresse cotesto conteggio di non ne voler dare ragione alcuna.
Similmente non volle rendere ragione perchĂŠ gli Anziani di Pisa, potendo essere serviti con assai minori impiegati di quelli che tenevano, nĂŠ salariassero assai piĂš del bisogno, sed fiunt (soggiunge egli)causa dandi eis lucrum et eos ditandi.
Ognuno peraltro a prima vista si accorge che se lâEntrate annue della Repubblica pisana, scritte da messer Vanni di Zeno, sembrano mancanti di molte partite, assai piĂš mozza apparisce lâEscita, quante volte uno riflette alle spese vistosissime chĂŠ quel Comune doveva fare nellâarmamento di 20 galere lâanno, nelle fortificazione deâporti e dei castelli, nelle spedizione e nel mantenimento di ministri allâestero, negli abbellimenti della cittĂ , nelle strade, ponti, canali, fosse, ecc. ecc.
Forse non tutti si accorgeranno che quel conteggio non può appartenere ai tempi dellâImperatore Arrigo VII, nĂŠ allâepoca in cui la Sardegna era occupata (almeno in parte) dalle armi del Comune di Pisa. Avvegnachè i pisani nel 1325 perderono quellâisola per intiero, senza piĂš riaverla, quando cioè la moneta del fiorino dâoro non si conteggiava in alcun paese della Toscana per lire 3 e soldi 2, come fu calcolata dallâautore del conteggio qui riportato.
Dal prospetto seguente fia facile rilevare che lâEntrata e lâUscita del Comune di Pisa pubblicata dal Dott. G.
Doenninges sembra stata scritta anzichĂŠ allâepoca dellâimperatore Arrigo VII, verso la metĂ del secolo XIV, e poco innanzi la famosa peste del 1348, quando appunto si spendeva il fiorino dâoro per lire 1 e soldi 2.
Dondechè, fatto il confronto con le rendite fisse del Comune di Firenze verso lâanno 1338, con quelle che furono descritte da Giovanni villani al cap. 92 del Lib. XI della sua Cronaca, risulterebbe che, mentre la repubblica fiorentina aveva unâentrata totale di fiorini dâoro 306400 lâanno, il Comune di Pisa incassava annualmente circa fiorini 246400 senza contare molte piccole rendite nel sommario predetto da messer Vanni di Zeno tralasciate.
COMPUTI DEL FIORINO DâORO, OSSIA GIGLIATO, IN LIRE, SOLDI E DENARI, DALLâANNO 1295 AL 1380.
- anno 1295 prezzi correnti del Fiorino dâoro: il fiorino dâoro si spendeva per soldi 39 di piccioli, o lire 1.19.- documenti che lo confermano: ARCH. DIPL. FIOR.
Carte della Badia a Ripoli del 18 aprile 1295.
- anno 1297 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fiorino dâoro valeva soldi 40, o lire 2.-.- documenti che lo confermano: RIFORMAG. DI FIRENZE del 13 Marzo 1296 (stile fiorentino) - anno 1302 prezzi correnti del Fiorino dâoro: il fiorino dâoro si spendeva per soldi 51, o lire 2.11.- documenti che lo confermano: GIO. VILLANI Cronica Lib. VIII. C. 59 - anno 1304 prezzi correnti del Fiorino dâoro: il fiorino stesso valeva lire 2.12.- documenti che lo confermano: GIO. VI LLANI Cronica Lib. VIII. C. 68 - anno 1331 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fiorino valeva lire 3.-.- documenti che lo confermano: GIO. VILLANI Cronica Lib. X. C. 196 - anno 1345 prezzi correnti del Fiorino dâoro: il fiorino valeva lire 3.2.- (CosĂŹ lo conteggiò lâA. del MS. sullâEntrata e Uscita del Comune di Pisa qui sopra riportata).
documenti che lo confermano: GIO. VILLANI Cronica Lib. XII. C. 26 - anno 1352 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fiorino valeva lire 3.8.- documenti che lo confermano: MATTEO VILLANI Cronica Lib. III. C. 52 - anno 1355 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fiorino valeva lire 3.9.- documenti che lo confermano: MATTEO VILLANI Cronica Lib. V. C. 2 - anno 1372 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fiorino valeva lire 3.9.6 documenti che lo confermano: Codice dellâArch. Arciv.
Pis.
- anno 1378 prezzi correnti del Fiorino dâoro: il fiorino per decreto del governo, fu valutato Lire 3.8.- documenti che lo confermano: RIFORMAG. DI FIRENZE del luglio 1378.
- anno 1379 prezzi correnti del Fiorino dâoro: nel febbrajo del 1379 nella Terra di Colle il fiorino dâoro valeva lire 3.14.- documenti che lo confermano: ARCH. DIPL. FIOR.
Carta della Com. di Colle 15 febbrajo 1378.
- anno 1380 prezzi correnti del Fiorino dâoro: lo stesso fu valutato lire 3.10.- documenti che lo confermano: AMMIR. Stor. Fior. Lib.
XII.
Senza dire degli smembramenti cui fu soggetto il territorio pisano posteriormente alla sua riunione al distretto della Repubblica fiorentina, mi ristringerò ai cangiamenti piĂš recenti ivi accaduti; il primo deâ quali nellâanno 1765 quando fu unito alla provincia inferiore sanese il territorio dalla ComunitĂ di Castiglion della Pescaja; il secondo smembramento ed il terzo nel 1834, quando vennero riuniti al Compartimento di Grosseto i paesi e ComunitĂ di Piombino, di Campiglia e di Suvereto; il piĂš moderno finalmente nel 1837, quando il Compartimento di Pisa cedĂŠ a quello di Grosseto i territorj comunitativi di Monteverdi e della Sassetta.
Potendo attualmente rettificare la superficie del Compartimento di Pisa con lâaggiunta di 4 comunitĂ dellâIsola dellâElba, ne comparisce un totale di quadrati 974.345, dai quali sono da detrarre quadrati 35.234 per corsi dâacque e strade; restando di territorio imponibile in tutto il Compartimento di Pisa quadrati 939.111. â Nellâanno 1833 vivevano costĂ 321.273 abitanti, pari a circa abitanti 274 e ½ per ogni miglio quadrato di suolo imponibile. Ma nel 1840 essendovi nella superficie medesima una popolazione di 345.246 abitanti ne risulta, che toccavano in cotesto anno repartitamente circa 295 e ½ abitanti per ogni miglio quadrato di terreno imponibile.
PROSPETTO della ComunitĂ del COMPARTIMENTO di PISA distribuito per Cancellerie.
- Capoluogo di CANCELLERIA: 1. PISA (Cancelleria di I classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâArno Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 66,858 Popolazione anno 1833, abitanti n° 32,211 Popolazione anno 1840, abitanti n° 41,206 - Capoluogo di ComunitĂ : Bagni di S. Giuliano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Serchio Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 25,589 Popolazione anno 1833, abitanti n° 13,631 Popolazione anno 1840, abitanti n° 14,860 - Capoluogo di ComunitĂ : Cascina Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâArno Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 21,633 Popolazione anno 1833, abitanti n° 13,969 Popolazione anno 1840, abitanti n° 15,800 - Capoluogo di ComunitĂ : Vecchiano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Serchio Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 18,472 Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,989 Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,438 - Capoluogo di CANCELLERIA: 2. BAGNONE (Cancelleria di III classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 17,620 Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,667 Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,705 - Capoluogo di ComunitĂ : Albiano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 2,986 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,051 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,123 - Capoluogo di ComunitĂ : Groppoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 2,695 Popolazione anno 1833, abitanti n° 712 Popolazione anno 1840, abitanti n° 774 - Capoluogo di ComunitĂ : Terra Rossa Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 5,243 Popolazione anno 1833, abitanti n° 407 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,849 - Capoluogo di CANCELLERIA: 3. BARGA (Cancelleria di III classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Serchio Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 21,378 Popolazione anno 1833, abitanti n° 6,869 Popolazione anno 1840, abitanti n° 7,296 - Capoluogo di CANCELLERIA: 4. FIVIZZANO (Cancelleria di III classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 64,043 Popolazione anno 1833, abitanti n° 12,682 Popolazione anno 1840, abitanti n° 13,380 - Capoluogo di ComunitĂ : Casola Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 12,165 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,568 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,534 - Capoluogo di CANCELLERIA: 5. GUARDISTALLO (Cancelleria di III classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 6,650 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,140 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,372 - Capoluogo di ComunitĂ : Bibbona Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 24,987 Popolazione anno 1833, abitanti n° 814 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,196 - Capoluogo di ComunitĂ : Casale Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 4,131 Popolazione anno 1833, abitanti n° 817 Popolazione anno 1840, abitanti n° 884 - Capoluogo di ComunitĂ : Gherardesca Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 40,615 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,476 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,887 - Capoluogo di ComunitĂ : Montescudajo Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 5,349 Popolazione anno 1833, abitanti n° 930 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,052 - Capoluogo di CANCELLERIA: 6. LARI (Cancelleria di I classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Valli dâEra e Tora Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 23,155 Popolazione anno 1833, abitanti n° 7,484 Popolazione anno 1840, abitanti n° 8,529 - Capoluogo di ComunitĂ : Chianni Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 17,695 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,996 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,376 - Capoluogo di ComunitĂ : Colle Salvetti Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 35,303 Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,510 Popolazione anno 1840, abitanti n° 6,072 - Capoluogo di ComunitĂ : Fauglia Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 19,373 Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,029 Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,461 - Capoluogo di ComunitĂ : Lorenzana Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 5,433 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,284 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,414 - Capoluogo di CANCELLERIA: 7. LIVORNO (Cancelleria di I classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Tora Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 27,008 Popolazione anno 1833, abitanti n° 75,273 Popolazione anno 1840, abitanti n° 79,752 - Capoluogo di CANCELLERIA: 8. PECCIOLI (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 26,240 Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,973 Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,496 - Capoluogo di ComunitĂ : Lajatico Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 16,252 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,526 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,619 - Capoluogo di ComunitĂ : Terricciola Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 12,208 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,815 Popolazione anno 1840, abitanti n° 3,315 - Capoluogo di CANCELLERIA: 9. POMARANCE (Cancelleria di III classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 70,973 Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,803 Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,551 - Capoluogo di ComunitĂ : Castelnuovo di Val d i Cecina Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 18,085 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,304 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,471 - Capoluogo di CANCELLERIA: 10. PIETRASANTA (Cancelleria di I classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Versilia Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 13,957 Popolazione anno 1833, abitanti n° 7,772 Popolazione anno 1840, abitanti n° 8,539 - Capoluogo di ComunitĂ : Seravezza Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Versilia Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 11,310 Popolazione anno 1833, abitanti n° 6,076 Popolazione anno 1840, abitanti n° 6,578 - Capoluogo di ComunitĂ : Stazzema Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Versilia Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 21,853 Popolazione anno 1833, abitanti n° 6,240 Popolazione anno 1840, abitanti n° 5,885 - Capoluogo di CANCELLERIA: 11. PONTEDERA (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 10,291 Popolazione anno 1833, abitanti n° 7,843 Popolazione anno 1840, abitanti n° 8,032 - Capoluogo di ComunitĂ : Capannoli Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 6,256 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,110 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,498 - Capoluogo di ComunitĂ : Palaja Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 25,810 Popolazione anno 1833, abitanti n° 8,782 Popolazione anno 1840, abitanti n° 9,278 - Capoluogo di ComunitĂ : Ponsacco Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâEra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 5,614 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,640 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,899 - Capoluogo di CANCELLERIA: 12. PONTREMOLI (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 39,649 Popolazione anno 1833, abitanti n° 9,230 Popolazione anno 1840, abitanti n° 10,182 - Capoluogo di ComunitĂ : Calice Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 12,209 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,732 Popolazione anno 1840, abitanti n° 3,018 - Capoluogo di ComunitĂ : Caprio Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 5,235 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,163 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,307 - Capoluogo di Comu nitĂ : Filattiera Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 3,949 Popolazione anno 1833, abitanti n° 744 Popolazione anno 1840, abitanti n° 853 - Capoluogo di ComunitĂ : Zeri Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Magra Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 32,682 Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,068 Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,648 - Capoluogo di CANCELLERIA: 13. PORTOFERRAJO (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Isola dellâElba Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 9,800 Popolazione anno 1833, abitanti n° 4,008 Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,235 - Capoluogo di ComunitĂ : Porto Longone Valle in cui si trova il Capoluogo: Isola dellâElba Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 12,200 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,957 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,858 - Capoluogo di ComunitĂ : Marciana senza lâIsola di Pianosa Valle in cui si trova il Capoluogo: per la sola Isola dellâElba Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 29,800 Popolazione anno 1833, abitanti n° 5,900 Popolazione anno 1840, abitanti n° 6,553 - Capoluogo di ComunitĂ : Rio Valle in cui si trova il Capoluogo: Isola dellâElba Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 10,400 Popolazione anno 1833, abitanti n° 3,557 Popolazione anno 1840, abitanti n° 3,802 - Capoluogo di CANCELLERIA: 14. ROSIGNANO (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 30,871 Popolazione anno 1833, abitanti n° 3,928 Popolazione anno 1840, abitanti n° 4,401 - Capoluogo di ComunitĂ : Castellina Marittima Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine Superficie territoriale della Comu nitĂ in Quadrati: 13,102 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,284 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,324 - Capoluogo di ComunitĂ : S. Luce Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 19,344 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,936 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,016 - Capoluogo di ComunitĂ : Orciano Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Fine Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 3,454 Popolazione anno 1833, abitanti n° 717 Popolazione anno 1840, abitanti n° 787 - Capoluogo di ComunitĂ : Ripalbella Valle in cui si trova il Capoluogo: Val di Cecina Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 23,160 Popolazione anno 1833, abitanti n° 1,112 Popolazione anno 1840, abitanti n° 1,630 - Capoluogo di CANCELLERIA: 15. VICO PISANO (Cancelleria di II classe) Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâArno Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 15,595 Popolazione anno 1833, abitanti n° 9,600 Popolazione anno 1840, abitanti n° 10,177 - Capoluogo di ComunitĂ : Bientina Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâArno Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 8,527 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,209 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,337 - Capoluogo di ComunitĂ : Calcinaja Valle in cui si trova il Capoluogo: Val dâArno Superficie territoriale della ComunitĂ in Quadrati: 4,139 Popolazione anno 1833, abitanti n° 2,735 Popolazione anno 1840, abitanti n° 2,997 - TOTALE superficie territoriale delle ComunitĂ : Quadrati 974,345 Per Corsi dâacque e Strade non imponibili: Quadrati 35,234 Restano al netto: Quadrati 939,111 In conseguenza per ogni miglio quadrato di suolo imponibile, ripartitamente diviso, toccavano nel 1833 circa 274 e 3/4 abitanti, e nel 1841 abitanti 295 - TOTALE popolazione anno 1833: abitanti n° 321,273 - TOTALE popolazione anno 1840, abitanti n° 345,246 STRADE REGIE TRACCIATE NEL COMPARTIEMNTO DI PISA 1. Strada Livornese per Pisa , che da Firenze guida a Livorno.
â Entra nel Compartimento di Pisa al ponte della Cecinella o Chiecinella (Comune di Palaja) e di lĂ per Pontedera, Cascina, Pisa fino a Livorno.
2. Strada traversa Livornese. â Staccasi dalla regia suddetta alla casa Carmignana (Comune di Cecina) e per Macerata passa sullâargine del fosso Reale per ponte di collina e Vicarello, Colle Salvetti, la Torretta, Marmigliajo il ponte del Malandrone e quello del fitto di Cecina e di lĂ sino alla torre di S. Vincenzo, dove entra e prosegue per il Compartimento di Grosseto lasciando in questa cittĂ il nome di Strada Emilia per quello di Strada Aurelia, sotto il qual vocabolo attraversa tutto il restante del littorale toscano.
3. Strada da Pisa a Lucca. Guida da Pisa a Lucca passando per i Bagni di S. Giuliano a Ripafratta, donde poi entra nel Ducato di Lucca.
4. Strada Sarzanese. â Ă quel tronco di Strada postale che entra nel territorio Pietrasantino al ponte di Capezzano, passa per pietrasanta sino alla Torre di porta, dove prosegue per altri Stati e Sarzana e di lĂ a Genova.
5. Strada traversa di Val di Nievole. â Staccasi dalla Strada regia Livornese fuori di Pontedera per il ponte nuovo del Gusciano, passa lâArno e di lĂ per la Collina di S. Colomba rasenta la gronda australe del Lago di Bientina, di lĂ dal quale prosegue nel Compartimento fiorentino per il Galleno e il ponte della Sibolla fino al Borgo a Buggiano dove si unisce alla strada regia Lucchese.
6. Strada suburbana di Pisa. â Dalla porta fiorentina lungo le mura suburbane di oltrâArno fino alla Strada regia Livornese che trova fuori di porta a Mare al ponte delle Bugie.
7. Strada suburbana di Livorno. â Dalla Barriera fiorentina a levante, e lungo la nuova cinta di Livorno alla Barriera Maremmana.
8. Strada militare di Fivizzano. â Dal confine dellâex feudo di Fosdinovo a quello del ducato di Reggio sullâAppennino di Camporaghena passando per Ceserano e Fivizzano.
STRADE PROVINCIALI TRACCIATE NEL COMPARTIMENTO DI PISA 1. Strada Massetana, detta del Cerro Bacato. â Parte da Volterra per Massa, ma non entra nel Compartimento di Pisa che al ponte sospeso sulla Cecina nella ComunitĂ delle Pomarance, lungo i Lagoni di Monte Cerboli e per Castelnuovo di val di Cecina sino al confine della ComunitĂ di Massa.
2. Strada di val di Cecina, da Volterra a Vada. â Entra nel Compartimento di Pisa al confine territoriale di Montecatini con Riparbella e di lĂ a Vada.
3. Strada traversa della Camminata. Staccasi dalla Via suddetta al ponte Ginori nella Cecina e per Val di Sterza sale il poggio per arrivare a Bibbona donde scende nella Strada Emilia.
4. Strada di Val dâEra. â Entra nel Compartimento di Pisa nel confine della ComunitĂ di Montecatini della Val di Cecina con quella di Lojatico passando sul nuovo ponte della Sterza e di lĂ sotto Terricciola e Capannoli attraversa Ponsacco sino a Pontedera.
5. Strada del Littorale. â Staccasi a Livorno dalla Barriera Maremmana passando rasente il lido del Mare sotto Montenero e di lĂ per Calafuria, il Romito e Castiglioncello arriva a Vada.
6. Strada traversa Livornese. â Da Ponsacco alla strada Regia Emilia presso Vicarello passando per Cenaja.
7. Strada Francesca del Val dâArno di sotto. â Spetta al Compartimento di Pisa lâultimo tronco che comincia in luogo detto la Fratta passando dalla scogliera del Bufalo recentemente tagliata infino al ponte nuovo a Bocca dâUsciano.
8. Strada Vicarese, o di Piemonte. â Staccasi dalla Regia traversa di Val di Nievole a S. Colomba e di lĂ dirigesi per Calcinaja, S. Giovanni alla Vena, Cucifino alla Porta alle Piagge di Pisa.
9. Strada del Tiglio. â staccasi dalla Via Regia traversa di Val di Nievole presso il nuovo ponte sullâArno a Bocca dâUsciana fino al confine lucchese presso la dogana del tiglio passando per Bientina.
10. Strada di Val di Magra. â Staccasi dalla Via militare a Ceserano e di lĂ per lâAulla, Terra rossa, Filattiera e Pontremoli sale lâappennino della Cisa per unirsi alla provinciale del ducato di Parma.
Riferimento bibliografico:
E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, 1841, Volume IV, p. 297.
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